2013

Spettacoli 2013

UN BALLO IN MASCHERA [Lukas Franceschini] Parma, 18 gennaio 2013.
La crisi attanaglia tutte le sfere del paese, ovviamente anche la cultura. Ne fa le spese per primo il Teatro Regio di Parma, il quale oltre a vicende giudiziarie non del tutto chiarite, si trova ora gestito, dal sovrintendente Carlo Fontana e dal direttore artistico Paolo Arcà, arrivati da poco per risanare un considerevole disavanzo nel bilancio.
Sarebbe da verificare con dati alla mano certi quale sia l’entità del deficit e quali siano le forme o i modi con cui si vuole sanarlo, ma sia gli interessati sia altri organi del teatro non fanno dichiarazioni. Questa situazione è indubbiamente grave, ma non paralizzante, e cade proprio nell’anno del bicentenario verdiano che avrebbe dovuto essere per il Regio e per la città di Parma emblema d’internazionalità culturale nelle celebrazioni. Tuttavia, i nuovi dirigenti nei limiti delle disponibilità hanno voluto egualmente programmare una mini stagione teatrale invernale, due titoli, noi restiamo in attesa della conferenza stampa di presentazione del Festival Verdi 2013.
In programma Un ballo in maschera (seguirà a marzo Nabucco) riprendendo uno spettacolo del 2011 di Massimo Gasparon che a sua volta si ispirava a quello di Pier Luigi Samaritani del 1989. Ne scrissi a suo tempo su queste pagine e riconfermo i giudizi espressi sullo spettacolo che nell’originale era sicuramente accattivante e di spettacolare teatralità. Oggi rimaneggiato o meglio, riallestito traendo ispirazione, da altro regista non trova la giusta sintesi di realizzazione. Gasparon sarebbe anche regista apprezzabile e con una certa classe che però in quest’occasione non trova al meglio la sua vena artistica, relegandosi in una regia stucchevole e trasbordante, volendo aggiungere situazioni superflue, vedasi il figurante figlio di Amelia o lo sbandieramento del I atto all’entrata di Riccardo, lasciando peraltro i cantanti all’individuale e spontanea realizzazione drammaturgica che in quasi tutte le occasioni non è del tutto pertinente. Alcune intenzioni erano anche ben realizzate come la fantastica festa barocca del III atto, tolto le improbabili e soporifere coreografie, o la grande sena del II atto emozionante ed emotivamente forte. Bellissimi i cromatici costumi, nuovi di sartoria sui bozzetti originali, e anche le scene di stampo tradizionale che ancora producono consensi ed emozioni. Non è pertinente il progetto di affidare uno spettacolo mantenendo originali scene e costumi ma realizzando una nuova regia ispirandosi all’autore originale.
Sul podio dell’Orchestra Filarmonica del Teatro Regio abbiamo ritrovato il M° Massimo Zanetti, il quale si è distinto per buona professionalità, musicalità e giusta concertazione. Talvolta ha perso il controllo delle sonorità, eccedendo, ma bisogna riconoscergli che non ha mai perso il senso teatrale del melodramma e il difficile rapporto tra palcoscenico e orchestra.
Ho ascoltato per la prima volta Francesco Meli nel ruolo di Riccardo e a fine recita ne sono rimasto soddisfatto. La maturazione vocale e la virata di repertorio del tenore sono evidenti, e rilevo un certo miglioramento rispetto al Trovatore veneziano. Il timbro forse non è del tutto ideale al ruolo, ma in quest’occasione ha fraseggiato con dovizia, è interprete musicale con accenti ragguardevoli e sviluppa il personaggio con variegati colori. Una prova positiva, cui è auspicabile un’oculata frequentazione per non appesantire troppo il pregiatissimo materiale vocale. Anna Pirozzi è un soprano con voce di spessore, bel colore incisivo e scuro. Purtroppo la tecnica è precaria e la voce nel passaggio perde smalto e spessore, talvolta risultando stridula e non controllata nel settore acuto. Le doti tuttavia non mancano e speriamo che studio e tenacia producano in futuro risultati migliori che la cantante meriterebbe per le doti naturali.
Luca Grassi è un Renato generico il quale non possiede doti e perizie appropriate per il ruolo, carente nel fraseggio, nelle mezzevoci, nel colore, anche se le intenzioni non sono mancate, ma spesso vanificate. Julia Gertseva era totalmente fuori parte per un ruolo da contralto quando lei è mezzosoprano acuto, oltre a dimostrare una disomogeneità di timbro e note gravi artefatte ed intubate. Bravissima Serena Gamberoni che disegna un Oscar validissimo per perizia vocale, spontaneità, precisione e brillantezza.
Tra i congiurati figurava migliore Enrico Turco rispetto al collega Francesco Palmieri, dignitosi gli altri: Sergio Vitale, Gian Marco Avellino ed Enrico Paolillo. Puntuale e preciso il Coro istruito da Martino Faggiani. Al termine il pubblico ha decretato un vivo successo a tutta la compagnia ma con particolari ovazioni per Meli e la Gamberoni.

ANDREA CHÉNIER [William Fratti] Torino, 20 gennaio 2013.
Dopo alcuni anni di assenza, il Teatro Regio di Torino ripropone il capolavoro assoluto di Umberto Giordano, questa volta nell’allestimento di Lamberto Puggelli, che indubbiamente deve essere annoverato tra i migliori registi del teatro d’opera italiano. Lo spettacolo, che ha più di un decennio, è ancora piacevolissimo e funzionalissimo, col solo neo di prevedere tutte le pause tra un anno e l’altro.
Ascoltando l’esecuzione, è immediato un triplice confronto, il primo con la precedente produzione di Andrea Chénier sul palcoscenico torinese, gli altri con quelle avvenute al Carlo Felice di Genova nel medesimo lavoro di Puggelli. E purtroppo la resa complessiva di questa occasione non è la migliore di quelle appena citate.
Molto probabilmente la gran parte della colpa è dovuta alla direzione di Renato Palumbo, che sembra guidare la sola orchestra, come se esistesse soltanto la buca. Non c’è alcunché di eccepibile nel gusto musicale, se non nella poca considerazione dei momenti più lirici, come i duetti dei due protagonisti, che avrebbero potuto essere resi con un miglior uso dei chiaroscuri, lasciando trasparire più pathos. Invece sembra essere totalmente assente il dialogo con gli interpreti e il suono è sempre forte, causando la copertura delle voci in molti punti ed obbligando i protagonisti a spingere per potersi far udire nelle pagine più importanti a loro dedicate.
Marcelo Alvarez, nel vestire i panni del giovane poeta, resta uno dei migliori tenori di tutto il panorama lirico internazionale, nonché uno dei più generosi, ma deve chiaramente fare i conti con se stesso, con i periodi in cui la sua forma era sfolgorante e con la direzione che lo obbliga a dare sfogo a spinte ben poco naturali. La bellezza del suo fraseggio, la limpidezza del suo squillo, le toccanti mezze voci si odono bene in secondo atto, mentre il resto dell’opera è talvolta inficiato di opacità e mancanza di legato. Restano ottime l’espressività e l’intonazione, soprattutto considerando la difficoltà della parte e l’eccessivo peso orchestrale. Il pubblico lo accoglie con meritato calore.
Maria José Siri, come già considerato in altre occasioni, è una cantante di buon livello. Punto e a capo. Manca dello spessore, dell’intensità, di quel vigore in più nell’uso del fraseggio, degli accenti e dei colori che hanno le grandi interpreti. Potrebbe tranquillamente restare ancorata ad un repertorio più lirico ottenendo risultati decisamente migliori e invece, nell’affrontare ruoli più drammatici, resta nella media. Nulla di più.
Alberto Mastromarino è anch’egli cantante di buon livello, ma non all’altezza della situazione. In un teatro più provinciale e con una differente direzione sortirebbe certamente un buon effetto. Ma in questo caso si notano eccessivamente i limiti nello squillo, nella brillantezza del suono e nello spessore vocale ed interpretativo. Abbastanza buona è la resa della prima aria, soprattutto nella morbidezza della linea di canto; il resto è soddisfacente.
Efficaci, nella media della resa dello spettacolo, la Bersi di Giovanna Lanza e la Madelon di Chiara Fracasso, anche se nel caso del mezzosoprano vicentino ci si sarebbe aspettati una maggiore espressività ed incisività nel fraseggio dell’arioso di terzo atto.
Da risentire in un ruolo più corposo il basso Gabriele Sagona, che qui veste i panni di Roucher. Adeguati gli altri ruoli interpretati da Gianluca Floris, Matteo Peirone, Scott Johnson, Luca Casalin, Fabrizio Beggi, Franco Rizzo e Gheorghe Valentin Nistor, con qualche pecca per Federico Longhi.
Buona la prova del Coro del Teatro Regio guidato da Claudio Fenoglio.

DIE WALKÜRE [William Fratti] Firenze, 22 gennaio 2013.
Il Maggio Musicale Fiorentino, come molti altri teatri italiani, inaugura la Stagione del Bicentenario con Wagner, in segno di ospitalità nei confronti del compositore tedesco, lasciando invece a Verdi il palcoscenico della prima del Maggio. Per l’occasione la scelta cade su Die Walküre, nel fortunatissimo allestimento de La Fura dels Baus del 2007.
Lo spettacolo futuristico e altamente tecnologico è sempre efficacissimo e di forte impatto e il ringraziamento va a tutta la squadra, da Carlus Padrissa ad Alejandro Stadler, che riprende la regia originale, alle immagini video di Franc Aleu, alle scene di Roland Olbeter, alle luci di Peter van Praet riprese da Gianni Paolo Mirenda, ai costumi di Chou Uroz, all’impianto drammaturgico di Cesare Mazzonis, a tutti gli attori de La Fura dels Baus e a tutti i figuranti speciali.
Protagonista indiscusso della serata è Zubin Mehta, che dirige l’Orchestra del maggio Musicale Fiorentino con la consueta precisione svizzera, attentissimo alla purezza del suono, all’intensità degli accenti, alle sfumature dei colori, al sapiente uso dei chiaroscuri, dai pianissimi ai fortissimi, guidando ogni musicista ed ogni cantante in una resa eccellente della prima giornata dell’Anello del Nibelungo.
Brünhilde è un’insoddisfacente Jennifer Wilson, che rende un’interpretazione ridotta ai minimi termini, lasciando trasparire ben poco l’amore, l’ardore e l’intensità di cui questo personaggio dovrebbe essere pervaso. Anche la vocalità, abbastanza dura e ruvida, soprattutto nel registro acuto, si accompagna più facilmente con la vecchia tradizione – che erroneamente crede che il canto wagneriano sia fatto per urlatori – piuttosto che con la lettura accuratissima di Mehta.
Al contrario Juha Uusitalo, nei panni di Wotan, va premiato per lo spessore emotivo che dona al ruolo, intimissimo quanto toccante nei piani, nell’uso delle mezze voci e negli accenti patetici, soprattutto nei due duetti con la figlia. Volendo cercare il pelo nell’uovo, va notato che la voce è talvolta malferma negli acuti in forte.
Morbida nell’emissione vocale ed omogenea nella linea di canto è l’elegante Sieglinde di Elena Pankratova, che dipinge un personaggio sinceramente intenso. Eccellente è l’esecuzione di primo e secondo atto, mentre sono forse leggermente dure le poche frasi precedenti alla sua uscita di scena nel terzo.
Lo stesso vale per il Sigmund di Torsten Kerl, abile nei piani e nelle mezze voci, buon fraseggiatore, ricco di chiaroscuri e appassionato nella resa del ruolo. Il solo neo di tutta l’esecuzione e una pecca proprio nella frase conclusiva della parte.
Molto positiva è anche la prova di Daniela Denschlag nei panni di Fricka, brunita e morbida nella vocalità, autorevole ed imperativa nell’interpretazione.
Efficaci Stephen Milling nel ruolo di Hunding e Bernadette Flaitz, Jacquelyn Wagner, Pilar Vazquez, Maria Radner, Eugenia Bethencourt, Julia Rutigliano, Patrizia Scivoletto, Stefanie Iranyi nelle vesta delle valchirie, pur con qualche alto e basso.

I MASNADIERI [Lukas Franceschini] Venezia, 24 gennaio 2013.
Alla Fenice l’opera giovanile di Verdi I Masnadieri fu rappresenta solo una volta nel 1849. Vi ritorna oggi anno del bicentenario della nascita dell’autore, in un nuovo spettacolo coprodotto con Teatro di San Carlo.
Il melodramma in oggetto riveste alcune particolarità non secondarie nella carriera di Verdi, iniziata da pochi anni ma già costellata da successi. Il soggetto è tratto dal dramma di Schiller Die Räuber, una truce vicenda famigliare ambientata nel XVIII secolo. Verdi avrà modo durante la sua lunga carriera di attingere ad altri lavori del drammaturgo tedesco, ma in quest’occasione sarà trait d’union il conte Maffei, il quale oltre ad essere intimo amico del musicista fu il traduttore italiano di tutti drammi di Schiller. Traduttore non significa essere anche poeta, e non è possibile non considerare che il libretto dei Masnadieri sia tra i meno convincenti, per non dire più brutto, dell’intera produzione verdiana. Il contratto dell’opera è il primo impegno di Verdi all’estero, e il debutto a Londra riveste un carattere molto rilevante non solo per il teatro ma soprattutto per la fama dell’ancor giovane compositore. Alla prima, cui è obbligato dal teatro a dirigerla, vi assiste la regina Vittoria e tutta la nobiltà locale, creando in quel 22 luglio un momento di autentica mondanità culturale per Londra, inoltre erano scritturate due star come Jenny Lind e Luigi Lablache, già beniamini del pubblico, che contribuirono al successo della serata. Mi è ignota l’avversione della critica, in generale, per quest’opera considerata anche dal pubblico tra le meno riuscite di Verdi degli anni di galera, personalmente credo che Alzira e Corsaro siano inferiori. Non nego neppure che I Masnadieri denoti una buona dose di squilibri, ma è molto ispirata nel linguaggio musicale e mette in luce melodie e arie di prim’ordine. Tutti i quattro solisti hanno momenti di grande effetto teatrale e arie di pregevole fattura, seppur l’intero spartito sia contraddistinto dallo stile verdiano “risorgimentale” di quegli anni, incalzante e battagliero. Le raffinatezze sarebbero arrivate dopo.
Artefice del clamoroso successo veneziano è stato il direttore Daniele Rustioni, il quale concerta con squisito piglio drammatico e tempi appropriati, centrando un risultato d’altissimo livello scavando sia i momenti incandescenti sia quelli più intimamente lirici con grande fattura e personalità. In questo era ben coadiuvato da un’orchestra e un coro in gran serata. Ci troviamo alla presenza di un direttore che ha nelle sue corde il primo Verdi, sanguigno ed esuberante, e con questa produzione Rustioni tocca un vertice personale d’indiscusso talento.
Il cast presentava un protagonista Andekan Gorrotxategui, non propriamente cantante verdiano. Dotato di voce interessante, è limitato da una tecnica precaria e del tutto personale non riuscendo a mantenere uno stile ed un’emissione ferma. Meglio l’Amalia di Maria Agresta cantante in continua ascesa che unisce gusto e musicalità con ottimi risultati, ma sarebbe dovuto essere più variegata e precisa nel canto d’agilità che in questo ruolo resta un tallone d’Achille. Artur Rucinski, il cattivo di turno, è baritono chiaro ma molto espressivo, il quale dopo un avvio incerto trova piena affermazione nella grande aria del III atto. Esemplare per nobiltà d’accento e resa interpretativa la prova di Giacomo Prestia. di pregio i tre cantanti nelle parti minori Cristiano Olivieri e Antonio Feltracco, con particolare menzione per Cristian Saitta.
Lo spettacolo di Gabriele Lavia non lasciava traccia di particolare emozione. Ripete in parte la concezione dello spettacolo nello spettacolo, già usato nell’Attila scaligero dello scorso anno, ambientando l’opera in un diroccato teatro moderno con opere di Writers alle pareti, scena piuttosto brutta di Alessandro Camera. Avvicinandosi più al dramma schilleriano che all’opera verdiana analizza una drammaturgia statica e per nulla suggestiva trovando nel teatro minimalista e per nulla coreografico una lettura anonima e a tratti incomprensibile. Unica eccezione, l’aver caratterizzato il personaggio di Carlo in uno storpio infelice ed ovviamente invidioso del fratello. Anche i costumi sempre bicromatici, bianco e nero, non destano particolare interesse.

IL BARBIERE DI SIVIGLIA [Simone Ricci] Roma, 26 gennaio 2013.
Ha quasi duecento anni questo capolavoro rossiniano, eppure non ha perso e si può affermare che non perderà mai la sua freschezza e vivacità. Un’opera che non annoia mai e che mette di buonumore.
Quindici giorni: è questo il tempo impiegato da Gioachino Rossini per comporre uno dei suoi capolavori più apprezzati, Il barbiere di Siviglia. Una rapidità sintomatica dell’abilità musicale del compositore pesarese, ma anche per esigenze di contratto con il Teatro Argentina di Roma. Le note di quest’opera buffa hanno risuonato al Teatro Don Bosco di Roma fino alla serata di ieri e la recensione si riferisce proprio a quest’ultima. Anzitutto, non si può che cominciare con una nota di merito dal punto di vista registico e cinematografico: nel teatro d’opera, infatti, sono sempre più numerosi i registi e gli scenografi considerati trasgressivi e all’avanguardia, chi in un modo, chi con scelte chiassose e spesso confusionarie. Il Barbiere non è immune da questa tendenza, nonostante spesso la musica faccia dimenticare qualche eccesso di troppo.
È proprio per questo motivo che ho apprezzato le scelte del Don Bosco, con scene semplici e vivaci, capaci di farci tuffare nella Siviglia settecentesca, ma soprattutto i costumi e la regia efficace di Riccardo Canessa sono stati all’insegna della tradizione, una vera rarità di questi tempi. I due atti dell’opera rossiniana sono filati via lisci come l’olio, con una buona dose di divertimento riservata al pubblico romano. Visto che l’obiettivo di questo Barbiere è stato sin dalla sua première del 1816 quello di accentrare l’interesse sulla figura di Figaro, si può cominciare a parlare del cast proprio da tale ruolo. Deuk Kyu Choi ha sfoggiato un timbro gradevole, un fraseggio vivace e un adeguato dinamismo. La fonazione, poi, è stata corretta. Se proprio si deve trovare una pecca, il suo Largo al factotum poteva essere impreziosito da un pizzico in più di brio.
L’Almaviva di Emil Alekperov, tenore originario dell’Azerbaigian e allievo di Anatoli Goussev, ha impressionato per l’agilità e l’intonazione, dimostrandosi adatto al carattere del ruolo: non è semplice trasformarsi prima nell’irriverente soldato ubriaco e poi nel fantomatico Don Alonso, ma Alekperov è riuscito a sostenere in maniera adeguata la tessitura complessa del suo ruolo. La Rosina di Fausta Ciceroni, poi, è apparsa piena di verve e sicura nell’affrontare anche i passaggi più ardui, in primis la cavatina Una voce poco fa. L’emissione è stata omogenea, come anche le colorature. Nel ruolo di Don Bartolo, Silvio Riccardi ha confermato la buona impressione destata con la Bohème di dicembre, un “vecchio rimbambito” ben eseguito, grazie soprattutto alla ricchezza e alla varietà dei momenti scenici, un personaggio per cui non si può non nutrire una certa simpatia.
Lo stesso discorso vale per Alessio Magnaguagno, valido Colline sempre nella Bohème di un mese fa e stavolta nei panni di Don Basilio: la padronanza scenica è stata minuziosa, con un abile amalgama tra qualità vocali e comiche, le quali non possono mancare in un ruolo di questo tipo. A completare il cast ci hanno pensato la Berta di Donatella De Caro, ben inserita nel contesto, da Carmelo Maria Canto, disinvolto nel reiterato impegno scenico con Fiorello e l’ufficiale, oltre al preciso notaio di Stefano Ciapetti. Il coro Mirabiles Cantores è stato istruito in maniera adeguata da Marco Boido, in questa come in molte altre opere rossiniane, la prestazione non deve essere solamente vocale, ma anche scenica.
Sul podio, Mihee Kim è stata attenta e si è dimostrata competente, con una scelta ben precisa, vale a dire quella di esaltare maggiormente la melodiosità della musica di Rossini piuttosto che la vivacità: nel complesso, la sua conduzione è risultata equilibrata per quel che riguarda lo stacco dei tempi e il fraseggio, magari si poteva aggiungere qualche nota arguta e briosa in alcune situazioni, prima fra tutte la celebre sinfonia di questa composizione. L’orchestra Eptafon è maturata parecchio rispetto alla recita da me ascoltata un mese fa, dimostrando di saper coinvolgere e divertire. Gli applausi hanno incorniciato tutti i momenti salienti dell’opera, con un volume decisamente più alto per la cavatina di Figaro, sicuramente agevolata dal fatto di essere un pezzo conosciutissimo. L’Alfa Musicorum Convivium si appresta ora a mettere da parte le stravaganze e i divertimenti rossiniani per lasciare spazio alle degne celebrazioni di Giuseppe Verdi e del bicentenario della sua nascita: nel giro di tre mesi, da marzo a maggio vi sarà la possibilità di apprezzare tre opere del “cigno di Busseto”, la Messa da Requiem, l’Attila e la Traviata.

MACBETH [William Fratti] Genova, 27 gennaio 2013.
Dopo avere inaugurato la Stagione 2012-2013 con Don Giovanni, il Teatro Carlo Felice di Genova apre il Bicentenario Verdiano con una delle opere più amate dallo stesso compositore, che dedicò lo spartito all’adorato suocero, Antonio Barezzi. Macbeth è da sempre stata considerata un’opera sperimentale e ciò lo si nota se si analizzano musicalmente e scenicamente alcune pagine, come “Mi si affaccia un pugnal” o l’intero terzo atto. Il melodramma composto nel 1847 fu rivisitato per l’edizione francese del 1865 ed oggi si tende ad eseguire la musica della seconda versione con testo in italiano. In questa specifica occasione sono tagliati sia il coro e ballabile “Ondine e Silfidi” del ’47, sia il balletto del ’65.
Lo spettacolo di Henning Brockhaus è ormai datato e se poteva avere un certo ché di innovativo negli anni ’90, ora pare solamente polveroso. È importante per i teatri, a causa della crisi economica, riprendere e rimettere in scena i vecchi allestimenti, ma occorre focalizzare l’attenzione sulle scelte di regia, che necessitano sempre di essere rimesse a nuovo. Il gioco delle apparizioni, soprattutto in secondo e terzo atto, ha ancora un suo valore intrinseco, ma trattandosi di qualcosa di già visto e rivisto, non riesce a reggere lo spettacolo, non essendo supportato da una sufficiente drammaturgia su protagonisti e coro, poiché solo la Lady e le streghe compiono delle azioni specifiche. Tutto il resto è pressoché fermo in scena. Inoltre è sempre molto fastidioso assistere agli incantesimi senza la pentola.
La direzione musicale di Andrea Battistoni è abbastanza buona, non eccellente nella ricerca dei colori, ma intensa nella lettura drammatica ed il primo concertato risulta essere davvero emozionante. Un’altra nota positiva sta nel giusto impiego dell’impeto del giovane Verdi che, soprattutto in questo lavoro, è più improntato all’effetto teatrale piuttosto che alla melodia; ma vanno rilevate un paio di pericolose imprecisioni nei cori “S’allontanarono!” e “Salve, o re!”, che quasi sembrano uscire di tempo, ma non si capisce se l’errore arriva dalla direzione o dal coro stesso.
George Gagnidze è un bravo cantante, ma non nel ruolo di Macbeth, che lo schiaccia con tutta la sua imponenza. Il baritono non possiede lo spessore, l’autorevolezza e l’esperienza tali da permettergli di risolvere egregiamente il difficile personaggio. Forse avrebbe sortito un miglior effetto su un palcoscenico più provinciale, o sotto la guida di un altro regista, tant’è che si nota molto chiaramente la differenza con la sua collega.
Maria Guleghina non ha più la morbidezza e la brillantezza vocale degli anni ’90, ma nelle sue vene scorre indubbiamente il sangue verdiano. La resa del personaggio ed il fraseggio sono ineguagliabili e l’emozione che trasmette fa venire la pelle d’oca non appena apre bocca con “Ambizioso spirto”. È un vero peccato che “Nel dì della vittoria” sia registrato.
A tale proposito è doveroso citare una lettera scritta da Verdi a Cammarano quando stava allestendo Macbeth a Napoli, un anno dopo la prima fiorentina: “So che state concertando il Macbeth, e siccome è un’Opera a cui m’interesso più che alle altre, così permettete che ve ne dica alcune parole. Si è data alla Tadolini la parte di Lady Macbeth, ed io resto sorpreso come Ella abbia accondisceso fare questa parte. Voi sapete quanta stima ho della Tadolini, ed Ella stessa lo sa; ma nell’interesse comune io credo necessario farvi alcune riflessioni. La Tedolini ha troppe grandi qualità per fare quella parte! Vi parrà questo un assurdo forse!!… La Tedolini ha una figura bella e buona, ed io vorrei Lady Macbeth brutta e cattiva. La Tedolini canta alla perfezione; ed io vorrei che Lady non cantasse. La Tedolini ha una voce stupenda, chiara, limpida, potente; ed io vorrei in Lady una voce aspra, soffocata, cupa. La voce della Tedolini ha dell’angelico; la voce di Lady vorrei che avesse del diabolico. […] Avvertite che i pezzi principali dell’Opera sono due: il Duetto fra Lady ed il marito ed il Sonnambulismo: Se questi pezzi si perdono, l’Opera è a terra: e questi pezzi non si devono assolutamente cantare: bisogna agirli e declamarli / con voce ben cupa / e velata: senza di ciò non / vi può essere effetto. / L’orchestra colle sordine […]”.
Roberto Scandiuzzi è sempre un grande artista, dotato di ottimo spessore, presenza scenica ed egregia resa vocale, ma in questa occasione sembra un poco svogliato.
Rubens Pelizzari, come già notato di recente, tende ad arretrare gli acuti e ciò non rende giustizia alla sua bella voce naturale. È un errore tecnico molto assiduo per i tenori che frequentano il repertorio lirico più spinto, ma deve essere assolutamente risolto.
Efficaci i ruoli comprimari di Sara Cappellini Maggiore, Vincenzo Costanzo, Francesco Verna, Alessandro Pastorino, Roberto Conti, Giampiero Barattero.
Buona la prova del Coro del Teatro Carlo Felice diretto da Patrizia Priarone.

FALSTAFF [Lukas Franceschini] Milano, 29 gennaio 2013.
La prima opera del 2013 alla Scala è stato Falstaff, primo titolo verdiano della lunga carrellata in programma per l’anno del doppio Bicentenario e contrassegnata in locandina con il simbolo VW. Non ritornerò sulle sterili e campanilistiche polemiche se prima l’uno o l’altro, le quali purtroppo continuano quando invece ciò che importa è solo una programmazione binaria per onorare i due esimi compositori.
Falstaff è lo spartito che segna il congedo di Giuseppe Verdi dal mondo teatrale, dopo ben cinquantaquattro anni d’attività. Come giustamente cita Emilio Sala nel programma del teatro è riduttivo e probabilmente non veritiero che il compositore abbia voluto comporre un’opera comica per rivincita contro il fiasco de Il giorno di regno, seconda opera del suo ricco catalogo. E’ invece palese l’ammirazione che Verdi nutriva per il Bardo inglese e dal quale trasse soggetti per molte sue opere. Falstaff non è un’opera comica intesa come opera buffa, di stile settecentesco, bensì una commedia brillante ma anche malinconica. Si deve inoltre aggiungere che il libretto di Arrigo Boito è forgiato con espressioni felicissime, auliche citazioni, sottintesi, allusioni di rara fattura e spiccato umorismo. Falstaff inoltre è un’opera d’insieme ove, tolto il protagonista, nessun interprete ha modo di mettersi in luce sé stante, se non in rare eccezioni, ma ciò che colpisce è il linguaggio musicale sia dell’orchestra sia dei grandi pezzi d’insieme che cerano un tessuto che si estranea dall’intero panorama musicale sia del tempo sia di Verdi stesso, il quale sorprende ancora per la sua vitalità ed innovazione alla soglia degli ottant’anni. La morale della commedia è un monito alla vecchiaia che non può reggere il confronto con la giovinezza anche se argutamente compositore e librettista ci fanno capire che intenzioni, desideri, fremiti, che non vacillano con il passare degli anni, possono indurre Falstaff, egocentrico e simpatico pancione, nel credere di poter ancora soddisfare.
Il nuovo spettacolo scaligero è una coproduzione internazionale con altre quattro istituzioni musicali e porta la firma del regista Robert Carsen, che realizza uno dei suoi migliori lavori. Carsen scava nel Falstaff cercando spunti di malinconia e di mondi andati. Ambienta l’opera negli anni ’50 del secolo scorso e analizza la società inglese che nel dopoguerra avverte un mutamento con l’avvento della middle class. La sfera aristocratica di Falstaff ,che ricordiamocelo è Sir, si scontra con i nuovi ricchi in ascesa ovvero la famiglia Ford. L’ambientazione è raffinatissima, splendide le scene di Paul Steinberg del quale non si sa se ammirare maggiormente gli ambienti della Giarrettiera, qui circolo esclusivo londinese, o la fiammeggiante e coloratissima cucina economica di Alice, che fa il verso a tanti telefilm americani di recente memoria. L’abile mano di Brigitte Reiffenstuel crea abiti memorabili, i quali vanno dalla classica giacca rossa da caccia alla volpe alle bizzarre e creative mise delle comari con tanto di cappellino tipicamente british. La regia pone con gusto ed indubbia efficacia il contrasto tra due mondi tanto diversi ma altrettanto paralleli, Falstaff, Sir d’epoca edoardiana, Ford e gli altri nuovi membri di rilievo di una società mutata, non perdendo il senso umoristico e malinconico della commedia che fa sorridere, e anche ridere, ma prevale l’aspetto patetico della personalità gigiona e arguta del protagonista.
Altro elemento di successo di questa produzione era la presenza del direttore Daniel Harding, che salvo errori dirigeva per la prima volta lo spartito. La sua direzione è stata nitida e precisa, mai una sbavatura e impostata con ritmo calzante senza trasbordi. Le sonorità erano raccolte e pulite e il senso teatrale realizzato con gusto e perizia. Forse mancava nel brio e in parte nella verve, avrà modo in futuro di focalizzare tali aspetti, tuttavia di fronte ad una tale nitidezza è da lodare una simile concertazione.
Ambrogio Maestri impersonava ancora una volta il panciuto protagonista, purtroppo già nella prima scena si poteva intuire che la voce aveva dei problemi causa forse un’indisposizione. Infatti, oltre a farsi annunciare dopo il quadro I del secondo atto, è stato obbligato a rinunciare alla recita, pertanto non è possibile né corretto esprimere giudizi. E’ risaputo che in questo ruolo ha fornito prove di grande artista, e mi auguro di risentirlo presto. Il sostituto Elia Fabbian dopo un inizio leggermente incerto, forse dovuto al trambusto di una repentina chiamata, si è distinto con onesta professionalità, cercando nei limiti anche accenti e intenzioni convincenti. Il marito geloso era interpretato dal ruvido ma preciso Fabio Capitanucci, molto convincente scenicamente e in linea con la lettura registica. Francesco Demuro non lasciava traccia particolare in un canto sempre forte e tendenzialmente aperto. Bravissimi Carlo Bosi, Dr. Cajus, e Riccardo Botta, Bardolfo, meno efficace il Pistola di Alessandro Guerzoni.
Molto più azzeccato ed omogeneo il quartetto femminile ove primeggia Marie-Nicole Lemieux in un canto forbito e con accento stilizzato cui va ad aggiungersi un brio teatrale di straripante simpatia e divertimento. Carmen Giannattasio era una simpatica ed intrigante Alice spassosa, civettuola e ben resa vocalmente, cui si aggiungeva la professionalità di Laura Poverelli e la fresca precisa Nannetta di Irina Lungu.
L’opera era rappresentata in due parti con un solo intervallo, evitando giustamente al pubblico un’attesa eccessiva. Successo pieno per tutta la compagnia con prolungati applausi al termine, ovazioni per la Lemieux e Harding.

ATTILA [William Fratti] Verona, 3 febbraio 2013.
Finalmente un Verdi fatto bene! Non si pretende sempre l’eccellenza assoluta, né l’esecuzione memorabile, ma almeno una rappresentazione che sia all’altezza del compositore, che porti in scena un minimo di qualità e di quella teatralità verdiana che ha cambiato il corso della storia.
Il Teatro Filarmonico di Verona riprende lo spettacolo di Georges Lavaudant con scene e costumi di Jean-Pierre Vergier e la scelta è scusata solo per necessità economiche e la situazione di crisi in cui versa il Paese. Per il resto è un allestimento abbastanza inutile, che dice pressoché nulla ed è ulteriormente abbruttito da presenze mimiche incomprensibili ai più. Il suo unico pregio è quello di non disturbare la vicenda ed il pubblico che, seppur visibilmente inorridito da una specie di danza in secondo atto, non protesta e si gode musica e canto. Anche la suddivisione in due tempi è fortunatamente efficace, mentre un’altra nota dolente è il trucco. Si sta attenti che Attila abbia dipinta una bella muscolatura pettorale e addominale, ma indossa una parrucca riccia e castana, sembrando più un barbaro europeo piuttosto che il Re di un popolo di stirpe uralica. Al contrario, la mancanza di un trucco adeguato per Leone ottiene l’effetto diametralmente opposto e ricorda più verosimilmente un monaco orientale piuttosto che un papa del V secolo.
Sul fronte musicale l’Orchestra dell’Arena di Verona è in ottimo stato e qualche piccola pecca nella prima parte sui fiati è pienamente perdonata. Sul podio è il concittadino Andrea Battistoni, che torna all’opera che gli ha aperto le porte dell’attenzione internazionale, seppur non compiendo lo stesso prodigio di Busseto. La predilezione per il suono, l’accento e l’uso dei colori sono ottimi, ma sembra che nelle ultime direzioni verdiane Battistoni sia troppo concentrato sul vero effetto voluto dal compositore, tralasciando il fatto che forse le masse artistiche non riescano a seguirlo. Difficoltà di dialogo? Eccessiva sicurezza di sé? Poche prove? La lettura del direttore, come in altre opere del giovane Verdi, è molto rispettosa delle indicazioni presenti sullo spartito, ma il risultato finale non riesce più a raggiungere l’eccellenza e non se ne comprende il reale motivo. A tale proposito è però doveroso segnalare che, all’epoca dell’Attila bussetano, Battistoni era presente anche alle prove di regia, sempre attento a dare i tempi al pianista. È così ancora oggi?
Roberto Tagliavini, basso parmigiano davvero promettente, segue le orme dei suoi celebri colleghi concittadini e debutta con successo il ruolo del protagonista, attentissimo all’uso della parola ed eccellendo nella brillantezza del suono. Il passaggio all’acuto è ottimo, meno efficace è la robustezza dei gravi, pertanto la parte, che in alcuni tratti è quasi baritonale, pare perfetta per la sua vocalità. Tagliavini è certamente più concentrato sull’impeccabilità del canto piuttosto che sull’espressività del fraseggio e sull’interpretazione, ma questo è un bene, poiché se la resa vocale è solida, quella del personaggio non può che avere ampio spazio di miglioramento in futuro.
Odabella è Amarilli Nizza che, arrivata al suo quindicesimo debutto verdiano, si riconferma eccellente interprete dell’opera del Maestro di Busseto. Per tanti anni, nella seconda metà del Novecento, si è parlato di voce verdiana pensando al timbro e al colore , ma fortunatamente la critica e il pubblico più attendo si sono discostati da questo credo per avvalorare il vero volere del Cigno, ovvero che la vocalità da egli immaginata fosse un insieme di accenti e di espressività tali da far vivere i suoi personaggi. Amarilli Nizza, ogni volta che indossa un costume, diventa quella specifica eroina. Odabella è interpretata con un’ottima attenzione alla parola e al fraseggio, con un gusto raffinato del canto e del gesto, eseguita in perfetto equilibrio tra la recitazione e l’uso dei colori. Le parti drammatiche sono giustamente intense, soprattutto la prima cavatina, intrisa di note basse che il soprano sceglie di calcare con alcune emissioni di petto, che potrebbe non avere il favore dei puristi del suono, ma è altamente efficace nella resa dell’impeto della protagonista verdiana. Sublimi i pianissimi e il canto spianato della seconda aria, ricchissima di chiaroscuri emozionantissimi, dove la tecnica, il controllo dei fiati e l’appoggio si fanno notare in tutta la loro importanza. Questo è il vero Verdi.
Giuseppe Gipali si fa annunciare indisposto, ma la sua esecuzione di Foresto non è inficiata da particolari problemi, se non da un accenno di opacità e nasalità probabilmente dettate dal raffreddore. La voce del tenore non è particolarmente voluminosa, ma i suoi personaggi verdiani più lirici sono sempre resi con perizia e anche in questa occasione ottiene un meritato successo.
Un solo appunto va sottolineato, riguardante l’esecuzione di Nizza e Gipali, in merito ad un paio di variazioni in acuto al termine delle loro cabalette. È chiaro che si tratta di un effetto molto amato dal pubblico e pertanto accettato anche dalla critica, ma non è particolarmente interessante. Solo alcune delle variazioni inserite in Verdi possono dirsi piacevoli e infatti, già in uso ai tempi del compositore, sono sempre state tollerate e poi sono entrate stabilmente in repertorio. Altre, purtroppo, esulano così tanto dal contesto che, seppur correttamente eseguite dai cantanti, a un orecchio attento possono apparire più fastidiose che utili allo scopo.
Roberto Frontali si presenta, come sua consuetudine, con autorità e spessore, qualità necessarie al ruolo di Ezio ed in generale ai personaggi verdiani interpretati dal baritono. Il fraseggio e l’espressione sono sempre eccellenti, mentre il canto è meno preciso e pulito del solito. Ma corre voce tra le fila di platea che abbia l’influenza e la febbre molto alta.
Seung Pil Choi è un Leone dalla voce imponente e voluminosa, così come dovrebbe essere; mentre Antonello Ceron possiede una vocalità particolarmente importante, più adatta a ruoli drammatici o spinti, e diventa troppo dura nello svolgimento delle poche righe dedicate qua e là ad Uldino, non lasciandogli neppure il tempo di scaldarsi.
Buona la prova del Coro dell’Arena di Verona guidato da Armando Tasso, soprattutto all’apertura con “Urli, rapine… Viva il re delle mille foreste”.

MACBETH [Lukas Franceschini] Bologna, 5 febbraio 2013.
Il Teatro Comunale di Bologna apre la stagione 2013 con Macbeth di Giuseppe Verdi, anche in questo caso doverosa ricorrenza celebrativa. Non mancherà in stagione Wagner, che con Bologna ha un rapporto storico privilegiato, tuttavia il corrente anno è anche il 250° anniversario dall’inaugurazione del teatro avvenuta il 14 maggio 1763 con l’opera di Christoph Willibald Gluck Il Trionfo di Clelia. In cartellone il prossimo maggio nella data esatta sarà ripresentata l’opera, mai riallestita dopo il debutto, in una nuova versione critica a coronamento delle celebrazioni.
Macbeth è uno dei vari titoli verdiani della prima decade di carriera d’indubbio fascino, e rileva un passaggio di maturazione sostanziale nella composizione. Il libretto è tratto dall’omonimo dramma di Shakespeare, dal quale molte scene furono soppresse per esigenze teatrali, ma l’ossatura è rispettata. Dello spartito esistono due versioni: quella della prima fiorentina dl 1847, quella parigina del 1865 revisionata con altre arie, finale differente e balletto. È prassi eseguire la seconda, come ha fatto Bologna sopprimendo però i balletti.
Uno dei maggiori interessi di questa nuova produzione era la presenza di Robert Wilson, il poliedrico artista statunitense. Egli opera nel mondo dello spettacolo con un linguaggio del tutto personale integrando suono, luce, spazio, azione e danza. La scena minimalista è caratterizzata da un gioco di luci di straordinaria efficacia su una base d’oscurità continua che potrebbe significare la losca e truce vicenda. Tuttavia è il rapporto tra il bene e il male a fruire di una recitazione non convenzionale ma astratta e simbolica dei personaggi i quali si muovono uniformemente con gesta ripetitive e pose manierate, adottando come di sua norma un linguaggio che non si limita alla sola drammaturgia, ma coniuga tra loro elementi che denotano più uno spazio mentale rispetto alla fisicità. In primo piano troviamo i protagonisti mentre il coro, il popolo, le streghe, ecc., sono sempre nella penombra come agissero una sorta di evoluzione naturale i cui soggetti primari si uniformano a tale inesorabilità. Quello di Wilson non è un Macbeth classico, lo sapevamo, ma trova in questa forma di linguaggio una simmetria e un’originalità d’indiscussa forma elevata di teatro, e aggiungo di chiara ed immediata percettibilità, senza sconfinare nell’astrusa incoerenza oggi molto in uso nelle regie d’opera. E’ impressionante lo scorrere d’immagini e sculture simboleggianti l’azione momentanea cui i cantanti si “avvolgono” in una gestualità coreografica d’indiscussa presa. Non meno riusciti i costumi spettrali di Jacques Reynaud. Il teatro di Wilson ha sempre macbeth 4incontrato estimatori e detrattori, in ogni caso questo primo accostamento all’opera verdiana (da Shakespeare) trova una felice ma personalissima realizzazione dalla quale chi scrive si sarebbe aspettato meno astrattezza ma non può negare che tutto è perfettamente coerente rispetto al melodramma.
Roberto Abbado, direttore e concertatore, firma in questa produzione bolognese uno dei vertici artistici della sua carriera. Assecondato da un’orchestra in forma splendida, cesella tutta la partitura con manierato piglio illustrativo, tempi perfettamente sincronizzati, scansione sonora di forte impatto e drammaturgicamente scolpita. Il coro istruito da Andrea Faidutti si pone su piani di altra professionalità.
Quello che mancava, in parte, nella produzione era un cast all’altezza della situazione musicale e dell’innovativa registica. Dario Solari è un protagonista dalla voce salda, ma povero nel fraseggio e nei colori, raramente esce da una monotona sterile interpretazione. Jennifer Larmore ritorna sui palcoscenici italiani in un repertorio molto diverso da quello abituale. I risultati sono purtroppo inferiori alle attese. La voce ha perso volume, il registro acuto molto ridimensionato, quello grave forzato, il canto drammatico d’agilità estraneo alle sue corde, resta un’innata musicalità ma non sufficiente per tale ruolo. Di buona fattura ma non singolarmente ispirato il Banco di Riccardo Zanellato. Roberto De Biasio sarebbe tenore dotato ma canta senza accentare e sempre forte. Buone le parti secondarie, tra le quali si sono distinti: Gabriele Mangione, Marianna Vinci, Alessandro Svab, Michele Castagnaro, Sandro Pucci e Luca Visani. Al termine ottimo successo per tutto l’intero staff con qualche isolata contestazione, prevedibile, a Wilson e i suoi collaboratori.

ATTILA [Lukas Franceschini] Verona, 7 febbraio 2013.
Ancora Verdi al Teatro Filarmonico di Verona che programmando Attila vuole rilevare lo sviluppo compositivo del primo decennio d’attività del Cigno di Busseto. Il soggetto fu tratto dal dramma Attila, König der Hunnen di Zacharias Werner, il quale fu drammaturgo di secondaria importanza rispetto a Goethe e Schiller. Questa lunga tragedia, in cinque atti, è nettamente romantica e forse più adatta allo stile operistico di Wagner, che celebrò gli antichi dei germanici teutonici, rispetto alla più sanguinea produzione verdiana. Tuttavia Verdi fu molto attratto dal personaggio, anche se si dovette procedere ad una sostanziale riduzione di personaggi dai ventiquattro del dramma ai sei dell’opera. Come ebbe a scrivere Gustavo Marchesi: Werner voleva sostenere nel suo dramma il concetto del destino, mentre Verdi voleva semplicemente scrivere un’opera sul patriottismo, il quale musicalmente riesce molto bene, anche se non libretto, di Solera, gli italiani appaiono piuttosto sleali e il protagonista clemente e non “flagello di Dio”. Il libretto è alquanto maldestro e non rende una vera personalità ai personaggi cui sopperisce il compositore. Tuttavia lo spartito non è dei più riusciti di verdi, anche se si devono riconoscere ottime pagine e alcune arie di grande effetto. Se nel percorso compositivo si rileva un avanzamento considerevole, la caratterizzazione dei personaggi è scialba e monotona.
Lo spettacolo, una ripresa della produzione del 2008, non lasciò segni di memoria al tempo per banalità di scene e costumi atemporali di Jean-Pierre Vergier. La regia di Georges Lavaudant, ripresa oggi da Stefano Trespidi, non sopperisce a queste lacune evitando accuratamente di scavare almeno negli aspetti psicologici del protagonista, e le coreografie erano al limite del ridicolo, altro non merita di essere citato.
Il veronese Andrea Battistoni, maestro concertatore, avrebbe gusto e temperamento per questo spartito ruvido ove tiene il passo al senso battagliero ma spesso si fa prendere la mano dall’euforia e allora le sonorità sono spesso eccessive a scapito della raffinatezza nei momenti più introspettivi.
Il cast dimostrava quanto oggi sia difficile raggruppare specialisti soprattutto nel primo Verdi dove temperamento e tecnica sono imprescindibili. Roberto Tagliavini, peraltro basso apprezzabile, pareva intimorito dalla partitura. Il suo canto era corretto ma poco incisivo nel fraseggio e forse è stato prematuro affrontare il ruolo. Amarilli Nizza temperamento ne avrebbe eccome, ma il settore acuto è sempre leggermente forzato e la zona centrale non particolarmente rifinita, inoltre l’acuto non scritto nel finale dell’opera e stilisticamente poco opportuno. Roberto Frontali è un onesto Ezio ma con emissione incerta e spesso nasale. Note meno positive per Giuseppe Gipali sovente ingolato e monocorde. Corretti Antonello Ceron e Seung Pil Choi nelle parti minori e ottima la prova del coro istruito da Armando Tasso.

DON GIOVANNI [William Fratti] Firenze, 7 febbraio 2013.
Chi ben comincia è già a metà dell’opera! Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, dopo il successo inaugurale di Die Walküre, compie un altro prodigio musicale con Don Giovanni.
Zubin Mehta si ritrova per la terza volta sul palcoscenico fiorentino col celebre titolo mozartiano e la sua lettura è chiaramente quella di un esperto. La precisione esecutiva, la purezza del suono, la lettura perfettamente equilibrata tra l’eccellenza dello spartito e del libretto, la classe raffinata con cui conduce lo spettacolo, la delicatezza con cui guida ogni singola nota, sono i tratti distintivi della sua direzione.
Anche l’allestimento firmato da Lorenzo Mariani contribuisce all’omogeneità di questo amalgama, soprattutto con le scene di Maurizio Balò – che in perfetta sintonia con l’arte iberica fanno di buca e palcoscenico un unicum molto accattivante – e le luci di Linus Fellbon, molto ben posizionate, con dei tagli davvero interessanti. Ciò che più aggrada nel lavoro di Mariani è l’eleganza della gestualità, ma polverosa, mai eccessivamente classica, sempre lontana dalla volgarità. Efficaci i costumi di Silvia Aymonino e le coreografie di Ilaria Landi.
Alessandro Luongo, grazie alla morbidezza e alla duttilità della sua voce, sa districarsi tra le note affidate al ruolo del protagonista, più efficace nei cantabili – “Là ci darem la mano” e “Deh, vieni alla finestra” in particolare – che nei recitativi. Il personaggio è convincente anche se non entusiasmante, ma si intravede ciò che riuscirà a fare in futuro continuando a concentrarsi sulla parte. Il Leporello di Roberto De Candia si fa notare per l’omogeneità della linea di canto, il timbro piacevole e l’ottima dizione, che certamente aiuta anche l’espressività del fraseggio. Caitlin Hulcup sa rendere giustamente il personaggio di Elvira, restando a metà strada tra i caratteri comici e drammatici, senza cadere nel patetico. Il suo canto è morbido e piacevole, ma perde tali qualità negli acuti più estremi. In effetti la parte sarebbe più adatta ad un soprano. Yolanda Auyanet, annunciata indisposta, sa farsi valere nel temibile ruolo di Donna Anna, in particolare nell’uso degli accenti e nella resa dei tratti drammatici. Anche le note più alte, che inizialmente sembravano eccessivamente appuntite, hanno poi subito un graduale arrotondamento. Paolo Fanale, reduce dal successo genovese sempre nei panni di Don Ottavio, mostra anche al pubblico fiorentino il suo gusto musicale raffinato e aggraziato, prodigandosi in toccanti mezze voci e pianissimi incantevoli, mostrando un eccellente controllo dei fiati e un’ottima purezza del suono. Marina Comparato, che a Firenze ha vestito i panni di Despina e Cherubino oltre ad altri numerosi ruoli, torna nelle vesta di Zerlina, esemplare nella resa del personaggio, davvero moderato ed equilibrato. La sua vocalità, perfetta per questo ruolo, si fa sentire in tutta la sua morbidezza e nell’omogeneità della linea di canto, tranne in alcune note acute poco aggraziate durante la prima aria. Elegantissima nel celebre duetto con Don Giovanni. Molto buona è anche la prova di Nicolò Ayroldi, che sa eseguire un canto giustamente intenso e ben pulito nel suono. La sua musicalità è premiante anche nella riuscita della recitazione e arriva a rendere Masetto meno anonimo di quanto non sia. Stephen Milling è un Commendatore dalla prestanza davvero imponente, ma vocalmente ha più convinto nel recente ruolo di Hunding. Del resto manca lo spessore titanico delle note profonde, che non può essere sopperito dalla presenza scenica.
Buona la prova del Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Lorenzo Fratini e di Andrea Severi al cembalo.
Teatro gremito dai giovani in ogni ordine. Una vera gioia!

CARMINA BURANA [William Fratti] Firenze, 8 febbraio 2013.
L’opera per i giovani. È così che si può definire l’esperimento di eseguire Carmina Burana di Carl Orff al Mandela Forum. I complessi artistici del Maggio Musicale Fiorentino, guidati da Zubin Mehta nell’allestimento de La Fura dels Baus, con un pubblico di oltre seimila persone di cui oltre la metà sotto i trenta anni, contribuiscono certamente alla magia del momento.
Già di per sé la cantata di Orff è musicalmente geniale, ma la direzione di Mehta, nella sua precisione assoluta, la rende ancor più efficace. È un peccato che il luogo non sia propriamente adatto a questo tipo di musica dal vivo, pertanto, nonostante l’amplificazione, solo in alcuni punti il suono arriva bene, mentre in altri è decisamente limitato.
Ma ciò che più ha entusiasmato il pubblico intervenuto è lo spettacolo di Carlus Padrissa – ripreso da Zamira Pasceri, con i costumi di Chu Uroz, le luci di Sombra y Luz e il video di David Cid – che ha tenuto tutti incollati alla sedia.
Ottima è la prova dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e un plauso a parte deve essere riconosciuto ad Andrea Severi e Andrea Secchi ai pianoforti. Altrettanto buona è l’esecuzione del Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Lorenzo Fratini e il Coro di Voci Bianche della Scuola di Musica di Fiesole guidato da Joan Yakkey.
Eccellente l’interpretazione della bravissima Luca Espinosa, affiancata dalle esperte danzatrici del MaggioDanza diretto da Francesco Ventriglia.
Sorprendente la prova del baritono Audun Iversen, che ha saputo districarsi in maniera esemplare tra le difficili pagine a lui dedicate, oltre che ad interpretare intensamente la visione affidata al suo ruolo da Carlus Padrissa.
Il canto del cigno arrostito del controtenore Nicola Marchesini è efficace anche se, ovviamente, il volume e lo spessore vocale non possono essere certamente corposi.
È invece discontinua la prova di Angel Blue. Bella presenza scenica e brava attrice; piacevolissimo timbro di voce e zona centrale robusta, ma note acute mal appoggiate, con conseguenti stonacchiature.

NABUCCO [Lukas Franceschini] Milano, 15 febbraio 2013.
Dopo ben diciassette anni Nabucco torna al Teatro alla Scala. E’ la seconda opera del catalogo verdiano e primo grande successo del compositore rappresentato in prima assoluta il 9 marzo 1942 nel teatro milanese.
Sfogliando il programma di sala nella sezione cronologica delle rappresentazioni è curioso costatare che nel XX secolo le edizioni dell’opera alla Scala sono pochissime: nel 1913 (celebrazioni del centenario), 1933, 1946 (opera inaugurale della prima stagione dopo la ricostruzione), 1958, 1966, 1986 (inaugurazione della stagione e prima opera diretta da Riccardo Muti al suo esordio scaligero) poi ripresa altre due volte. Per un melodramma verdiano che da sempre riscuote i favori del pubblico, se non il fanatismo, sono veramente poche le occasioni d’ascolto, anche considerando che non è facile riunire un cast di alto livello come necessita la scrittura musicale. Altrettanto vero è che l’opera non è la migliore del primo decennio di produttività verdiana, denominato dallo stesso autore “anni di galera”, Ernani e Macbeth, la superano notevolmente. Tuttavia è proprio con il giovanile Nabucco che si possono identificare i caratteri della sua arte, in particolar modo l’intensità delle emozioni e la splendida parte corale. Quest’ultima ricopre un grande ruolo espressivo costituendo in brani basilari dell’intera ossatura dello spartito. Doveroso aggiungere che è con Nabucco che s’incomincia a scorgere il carattere verdiano per l’uso espressivo del colore orchestrale. L’amore, aspetto spesso imprescindibile del melodramma, è confinato a ruolo secondario, predomina nel dramma, dietro solenni fanfare, marce e scene corali, l’atmosfera dell’esilio e delle cose perdute, caratterizzando il protagonista, tormentato e dispotico, e la primadonna, suggestionatrice dell’uomo, i quali troveranno una più perfetta identificazione drammaturgica nel successivo Macbeth.
Il nuovo spettacolo rappresentato nella Sala del Piermarini, nuova coproduzione con Londra, Chicago e Barcellona, è affidato al regista Daniele Abbado. Egli rilegge l’opera in maniera astratta, non vi è ambientazione storica, cui la violenza e l’errare in cerca di nuova terra, aspetto rappresentato dalla sabbia, sono i comuni denominatori della drammaturgia. Al regista non interessa proporre una lettura “storica” bensì una narrazione di violenza e di oppressione dove i costumi anonimi anni ’40 di Alison Chitty non identificano una netta visuale tra oppressi ed oppressori, la stessa cura anche le scene ed è facile riconoscere il berlinese monumento dell’olocausto. Aiutandosi con videoproiezioni Abbado vuole considerare Nabucco esempio ottocentesco di musica anche risorgimentale non circoscritto al suo tempo ma emblema di continue e purtroppo anche future violenze tra uomini di culture e storie differenti. Non è un allestimento che affascina, ma sicuramente fa riflettere quanto sia ancora possibile nel terzo millennio la violenza sociale e politica con chiari ma non banali riferimenti all’Olocausto. Molto generica nel gesto la drammaturgia e curiosamente non aiutata dalle luci Alessandro Carletti, il designer tuttavia centra il momento topico dell’opera, assieme ad Abbado, realizzando un’insolita visione del coro durante “Va pensiero” con uno struggente occhio di bue allargato a cono sugli artisti insolitamente raggruppati a cerchio che rendono ancor meglio il senso di smarrimento e paura.
Sul podio ritroviamo Nicola Luisotti, il quale con il primo Verdi ha sia predilezione sia misura di esecuzione. La sua concertazione è pulita e ben analizzata, mantiene l’essenza rustica della partitura ed incalza sia orchestra sia coro in “battagliere” esaltazioni, ovviamente non tralasciando timbri seducenti e pathos d’intima passionalità. Non trascura la sicura ed efficace emotività ove necessita, seguendo in maniera precisa i segni dello spartito. L’orchestra era in forma smagliante e anche il coro che ha realizzato il famoso assolo in maniera encomiabile, ma anche tutti gli altri interventi, in particolare “Immenso Jehovah” a cappella.
Leo Nucci è ancora una volta il re babilonese e per la prima volta alla Scala, anche se questo debutto è arrivato tardivo. Il grande artista oggigiorno non può far più conto sugli efficaci mezzi vocali di un tempo e come tutti (dopo oltre quattro decenni di carriera) scende a patti con l’attualità. La voce è spesso nasale, il registro acuto ancora fermo ma ruvido, il fraseggio eloquente ma senso unico. Gli resta la capacità attoriale e un senso pragmatico della parola, intima ed efficacemente persuasiva. Nel ruolo di Abigaille per una sola recita abbiamo trovato Maria Guleghina (sostituiva l’indisposta Lucrecia Garcia), e la sorpresa è stata grande nell’aver ritrovato la cantante russa in ottima forma rispetto a recenti esibizioni. Il temperamento e l’identificazione con il personaggio erano esemplari come oggi raramente capita di assistere, vocalmente ben s’impegnava nell’impervia parte con un settore acuto saldissimo ed impressionante, carente in parte la zona centrale ella riscattava tale lacuna con un fraseggio più che eloquente. Di buona fattura il basso Dmitry Beloselsky voce molto bella ed importante ma piuttosto monocorde e poco espressivo. Esibizione sopra le righe con un canto a squarciagola e per nulla significante per il tenore Aleksandrs Antonenko. Nino Surguladze non sarebbe cantante ideale per Fenena, cui manca sia l’accento sia le intenzioni. Bene le parti minori come il veterano Ernesto Pannariello affiancato da Giuseppe Veneziano e Silvia Dalla Benetta. Al termine successo per tutta la compagnia con accese ovazioni per la Guleghina.

DON GIOVANNI [William Fratti] Torino, 17 febbraio 2013.
È davvero curioso notare come i teatri italiani si rincorrano nella produzione dei titoli lirici. È ovvio che il medesimo lavoro debba essere proposto su diversi palcoscenici in caso di coproduzione. Ma è patologico che nel nostro Paese accada spesso che si producano diversi allestimenti, in diversi teatri, della stessa opera, nella stessa stagione o in stagioni contigue. Soprattutto considerando che i melodrammi tra cui scegliere sono ben oltre mille, di cui almeno un centinaio tra i più popolari.
Negli ultimi mesi Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart è stato rappresentato numerose volte in molte città, quasi come se si stesse facendo a gara. Al Teatro Regio di Torino è stato riproposto nello spettacolo di Michele Placido ripreso da Vittorio Borrelli, con scene e costumi di Maurizio Balò, luci di Andrea Anfossi e coreografie di Tiziana Tosco. L’aria di decadenza continua a non mancare, come pure le numerose incongruità in merito all’epoca in cui si vuole ambientare la vicenda ed in generale la poca eleganza. È tutto ancora funzionale, ma persiste nel non entusiasmare.
Sul fronte musicale Christopher Hogwood piace soprattutto per la capacità di rendere le tinte drammatiche. Le scene in cui compare il Commendatore sono particolarmente intense, pur riuscendo a mantenere inalterata la raffinatezza della musica del salisburghese. Eccellente il terzetto iniziale.
Carlos Alvarez è purtroppo poco presente sui palcoscenici italiani e il suo ritorno a Torino, con uno dei suoi cavalli di battaglia, è molto atteso. Il baritono spagnolo non tradisce le aspettative e si mostra immediatamente musicalissimo, non solo nelle arie e nei momenti più cantabili, ma anche nei recitativi. Lo squillo della sua voce, la sua capacità di legare e la bellezza del suo fraseggio fanno il resto. Esemplare nella temibile “Fin ch’han dal vino”.
Carlo Lepore è un ottimo Leporello, ricco di sfumature, soprattutto nella celebre aria del catalogo. La sua interpretazione emerge sotto ogni punto di vista, dalla qualità del suono alle conoscenze della tecnica vocale, fino alle caratteristiche più intrinseche nella resa del personaggio.
Carmela Remigio è una delle artiste italiane più esperte nel repertorio mozartiano, ma in questa occasione si butta nel ruolo di Donna Elvira in maniera troppo dura e compromette tutte le finezze di cui è intrisa la sua parte. In secondo atto sembra accorgersi dell’eccessivo impeto con cui esegue gli attacchi e con cui marca smisuratamente gli accenti e si ammorbidisce leggermente, ma non a sufficienza. “Mi tradì quell’alma ingrata” è eseguita più elegantemente, ma in generale, in questa serata, non riesce mantenere il suo solito livello qualitativo.
Eva Mei è perfettamente a suo agio in questo tipo di repertorio e il ruolo di Donna Anna le calza a pennello, sia vocalmente che scenicamente. Dopo un’introduzione davvero efficace, “Or sai che l’onore” è ricca di colori e sfumature e ancor meglio è “Non mi dir bell’idol mio”, dove la Mei eccelle negli eleganti pianissimi e nell’uso degli accenti.
Tomislav Muzek nei panni di Don Ottavio non è propriamente in serata. In tutto il primo atto appare poco intonato, stirato negli acuti e mal poggiato sul gravi. Migliora in secondo atto, ma solo nel canto più spianato e nelle note più centrali; per il resto continua nella mediocrità.
Rocio Ignacio è una Zerlina particolarmente morbida ed omogenea nella linea di canto – ottima è la resa di “Batti, batti, o bel Masetto” – in possesso di una vocalità tipica da soprano lirico leggero, ma piena e ben timbrata.
Il Masetto di Federico Longhi non è molto efficace, mentre il Commendatore di José Antonio Garcia andrebbe riascoltato sul palcoscenico, mentre in questa occasione canta dalla buca, rivolto verso la scena.
Buona la prova del Coro del Teatro Regio diretto da Claudio Fenoglio e di Carlo Caputo al fortepiano.

DIDO AND AENEAS [Lukas Franceschini] Verona, 19 febbraio 2013.
La Stagione Lirica invernale della Fondazione Arena di Verona prosegue con il capolavoro inglese di Henry Purcell Dido and Aeneas allestito nel recente riaperto Teatro Ristori.
L’opera è il titolo più conosciuto del compositore inglese cui vanno aggiunti i titoli di King Arthur e The Fairly Queen, anche se non è del tutto corretto storicamente il termine opera, poiché parte intermedia del genere masqué. Dido and Aeneas fu composta in occasione di un saggio scolastico all’Educandato Femminile di Chelsea diretto da Josias Piest e ivi rappresentato la prima e unica volta vivente l’autore. Ripreso in alcune occasioni come “intermezzo” in vari adattamenti, scomparve dalle scene negli anni successivi. La prima edizione (di quanto pervenutoci) fu pubblicata tra il 1887 e il 1889 da William H. Cumming, seguì nel 1961 quella per conto della Purcell Society Edition di Londra, intanto l’opera era rappresentata in molti teatri e iniziò la rivalutazione dell’intera produzione dell’autore. La breve partitura è suddivisa in tre atti e il libretto, di Nahum Tate, trae spunto all’episodio dell’Eneide di Virgilio ove si narra di Enea fuggito da Troia, approdato a Cartagine incontra la regina Didone ma il loro amore infelice sfocia nel suicidio finale della regina quando Enea, seguendo le istruzioni degli dei, partirà per fondare una nuova città in Italia.
Dido and Aeneas risente l’influenza delle tragedie musicali francesi (Lully) con la presenza di danze e l’aspetto drammatico, stringato, nel quale s’innestano personaggi umani e allegorici. Nel prologo, la cui musica è andata perduta, si narra dell’arrivo dal mare di Febo Apollo. E’ sorprendente l’unità drammatica raggiunta da Purcell e il librettista in uno spartito così ristretto, per una mirabile capacità espressiva dei sentimenti in una cornice che concentra la potenza del destino e la maliziosa presenza della maga e delle streghe simbolo della malvagità. I due protagonisti escono emblematicamente dall’inesorabile fato con la protesta e la disperazione di lei contrapposta dalle sterili argomentazioni egoistiche di lui. Nello struggente finale, inebriante quanto funerea scena, la protagonista decide di darsi volontaria morte uscendone quindi come personaggio musicalmente e narrativamente nobile e fiero, laddove Enea, in confronto, è un vile ed insicuro.
Il nuovo allestimento presentato a Verona porta la firma di Marina Bianchi che ambienta l’azione in un palazzo, il quale segna la posizione di potere della regina (donna contemporanea), una struttura “moderna” costruita su delle rovine antiche, due epoche distanti ma ovviamente consecutive. I personaggi non hanno uno stile definito, tuttavia sono persone di classe e grande gusto estetico contraddistinto dagli eleganti costumi di Leila Fteita ad eccezione della banale mise di Enea, la quale costumista è anche scenografa di gusto che parte dal raffinato palazzo con colonne corinzie per lasciare spazio nel corso della rappresentazione a dipinti in stile settecentesco. Il mare sul fondo si scorge nel finale lascando uno spazio aperto a quell’addio cui segue il tragico epilogo di Didone. Il classicismo è rispettato, il gioco fra tragedia ed allegoria è ben giocato con danze ritmate dal bravo corpo di Ballo Areniano, peccato che le coreografie non siano né in stile barocco né accattivanti giacché moderne. Si poteva evitare perché superfluo e drammaturgicamente irrilevante l’inserimento di una parte recitata, peraltro benissimo da Ermelinda Pansini, dell’Epistulae Heroidum di Publio Ovidio Nasone, nella quale Didone scrive all’amato Enea.
L’Orchestra e il Coro dell’Arena di Verona non sono abituati a questo repertorio, anzi questi è agli antipodi della consueta programmazione. Tuttavia, la resa musicale è stata molto buona, e non si può che apprezzare l’impegno profuso. E’ indiscusso che la presenza del direttore Stefano Montanari, in più occasioni anche violino solista e percussionista, abbia indotto a risultati che diversamente non si sarebbero ottenuti. Il rigore stilistico è chiaro e preciso, di filologia è azzardato parlare con complessi tradizionali, da encomio i tempi e l’ampiezza delle sonorità vivaci ben calibrate, rarefatto l’aspetto intimistico. Il Montanari ha avuto l’azzeccata soluzione pertinente di inserire anche altre musiche, come era di prassi nell’epoca barocca, abbiamo ascoltato all’inizio la prima parte di The Gordian knot United di Purcell, una Ciaccona per liuto improvvisata dall’esecutore nel finale quadro I dell’atto I, e alla fine dell’atto II una Sarabanda di Nicola Matteis, autore ammirato da Purcell, la cui produzione in stile italiano era molto ammirata nella Londra del tempo. Il cast spiccava per omogeneità, Roberta Invernizzi si faceva apprezzare per stile ed impeccabile immedesimazione del personaggio senza poter contare su una completa gamma del registro vocale. Più interessante Maria Hinojosa Montenegro che tracciava una trepidante e precisa Belinda. Misurato e musicale Leonardo Cortellazzi, qui tenore al posto del consueto baritono, Marina De Liso era una lodevole e marcata Maga e ben assortite le parti secondarie che riporto: Irene Favro, Alessia Nadin, Elisa Fortunati, Teona Dvali e Paolo Antognetti. Il pubblico ha salutato l’evento con partecipi e sostenute chiamate.

DER FLIEGENDE HOLLÄNDER [Marco Benetti] Milano, 28 febbraio 2013.
1841: Wagner si trova a Parigi, vessato da problemi finanziari (che novità). Sta terminando la  stesura della sua ultima opera, Der fliegende Hollender (L’Olandese Volante).
La fame lo spinge a vendere il soggetto del lavoro all’allora impresario dell’Opéra, Léon Pillet che ne fa riscrivere il libretto e affida la composizione della musica a Pierre- Louis Dietsch: il risultato di questa impresa risulta un fiasco totale. Giace intanto la partitura di Wagner in cassetto in attesa della prima esecuzione, che avverrà a Dresda due anni dopo, con importanti modifiche all’impianto del libretto e all’orchestrazione: ma questa versione definitiva a noi non interessa questa volta.
La nota introduttiva esposta, che forse sembra di per se inutile, serve invece per palesare la scelta singolare presa dal Teatro alla Scala (in coproduzione con Operhaus di Zurigo e Den Norske Opera & Ballett di Oslo) di portare in scena la prima versione dell’Olandese: nell’idea wagneriana un atto unico diviso in “numeri” (da intendersi come insieme di scene) e senza redenzione (o meglio la redenzione dei due protagonisti c’è ma è lasciata all’immaginazione dello spettatore, nessuno “scoglio che ascende al cielo in forma di nuvola”).
Dopo questa premessa credo sia doveroso parlare dell’operazione realizzata da Andreas Homoki, regista di questa messa in scena. Una costante delle regie nuove è quella di non essere comprese. Chi ha visto per la prima volta l’Olandese Volante in questa versione non ha trovato solo un finale variato, ma anche un’ambientazione totalmente inusuale. Epoca coloniale: la scena prevede un interno a boiserie, coperte cartine dell’Africa colonizzata, per la quale si aggirano uomini d’affari (sarebbero i marinai norvegesi; molto bravo il timoniere Dominik Wortig) con bombetta, soprabito e bastone da passeggio (i costumi erano di Wolfgang Gussmann) supervisionati dal capitalista di turno (Daland, Ain Anger) che spadroneggia nella sua azienda (la nave) e che stringe affari con un ignoto aristocratico venuto dalla terra dei leoni (l’Olandese, Bryn Terfel, in un bizzarro abito che ricordava Zucchero nell’album Shake).
Anche il salotto di Daland è parte integrante dell’azienda: compaiono macchine da cucine (Singer?) su bancali allineati a cui allegre filatrici lavorano assiduamente, tra cui Senta (Anja Kampe), giovane (più o meno) ribelle, che contro ogni costume si spoglia per declamare la celebre Ballade (nella seconda parte, corrispondente a secondo e terzo atto nella versione di Dresda). Il povero Erik (Klaus Florian Vogt), fidanzato rinnegato da Senta, rimane paradossalmente l’unico a mantenere la sua mansione di cacciatore, quasi ad accentuare la diversità già presente nell’idea di Wagner.  Affiorano qua e la ombre psicanalitiche: Senta fa la sua comparsa mentre l’Olandese ricorda la sua triste storia (prima parte, primo atto della versione definitiva) e un indigeno africano (allegoria della ciurma dell’Olandese) spaventa i marinai norvegesi che tentano di socializzare con i colleghi (seconda parte).
Ora credo che se dovutamente spiegata una regia simile possa essere tranquillamente fruita da chiunque, sia dagli affezionati della tradizione che dai neofiti dell’opera wagneriana.
Non si vuole rimproverare la regia in sé: penso sia assolutamente legittimo per un registra dare una sua interpretazione dell’opera su cui si trova a lavorare anche discostandosi dalla tradizione e, perché no, reinventandola (pensiamo alle operazioni storiche fatte a Bayretuh da Chéreau o i Pagliacci di Martone qualche anno fa sempre in Scala); quello che è necessario è motivare e spiegare una scelta registica quando essa non risulti palese all’occhio dello spettatore o si discosti in maniera così clamorosa dalle indicazioni drammaturgiche originali. Questo non è solo colpa del regista ma forse anche dei libretti di sala pieni di saggi sugli argomenti più disparati meno che sulla messa in scena di cui dovrebbero trattare.
Alla fine della recita (Senta si è sparata un colpo di fucile, sottratto a Erik), qualche dissidente fa sentire il suo malcontento per la regia (sic), ma tutto sommato il resto del pubblico applaude tutti, anche il direttore, ovviamente, Hartmut Haenchen.

UN GIORNO DI REGNO [Lukas Franceschini] Verona, 7 marzo 2013.
Dal 1976, anno della riapertura dopo la ricostruzione dal bombardamento del 1945, il Teatro Filarmonico di Verona ospita per la seconda volta una produzione di Un giorno di regno, seconda opera di Verdi isolato approccio al genere buffo e unico clamoroso insuccesso, tanto che l’autore ritira la partitura dopo la prima rappresentazione.
L’opera è probabilmente il titolo più discusso del genio di Busseto, considerata da molti musicologi una brutta partitura se non il segno più basso dell’intera produzione. Che non sia un capolavoro è fuori dubbio, ma lo sono al pari anche altri titoli come Alzira e in parte Giovanna d’Arco. È da rilevare tuttavia che Verdi aveva l’obbligo contrattuale di comporre un’opera buffa per il Teatro alla Scala e tra i soggetti che gli furono proposti scelse quello che gli pareva meno peggio, poiché nessuno lo ispirava interamente. Era ancora giovane non poteva imporre sue volontà e scegliere di persona trame e librettisti, come farà in seguito. Non dimentichiamo le vicissitudini private del momento, tragiche e demotivanti. Il libretto era di Felice Romani genio tra i poeti per musica che aveva reso servizi encomiabili a Rossini, Donizetti e Bellini, e questo era un suo scritto del 1818 per altro musicista e fu un insuccesso anche in tale occasione. Considerando che Verdi non compose altre opere buffe in tutta la sua carriera, Falstaff è una commedia, probabilmente non trovò il genere adatto alle sue corde, oppure demotivato da un clamoroso fiasco non volle tornare sull’argomento, anche se in vari capolavori successivi qualche aspetto buffo compare ed è ottimamente realizzato. Presumo che se Verdi avesse continuato su questa strada non sarebbe da escludere che avrebbe prodotto risultati notevolmente superiori, al pari di un Donizetti, ma così non fu, e il dubbio rimane. Il libretto, come predetto, è di Romani ma non è erto all’altezza del suo nome, trattasi di una storia strampalata con versi alquanto banali, sui quali il povero Verdi si applicò anche con tenacia, ma per tutti i fattori citati non arrivò a quanto sperato. Ne’ Il giorno di regno non mancano pagine rilevanti, anzi, vi sono duetti brillanti (ispirati al gusto o stile rossini-Donizetti), concertati efficaci e anche geniali, tuttavia nell’insieme sono il collante e la vis comica che manca, o scarso o non ben realizzati. Il giovane Verdi gode di tutte le attenuanti sia perché i capolavori sarebbero arrivati i lì a poco sia perché l’opera è la seconda del ricco catalogo, e se andassimo ad analizzare le “seconde” di altri autori non troveremo sempre spartiti di altissimo livello.
Lo spettacolo proposto a Verona è una produzione del Teatro Regio di Parma del 1997 (in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna) realizzato per intero, regia, scene e costumi da Pier Luigi Pizzi, ed è la carta vincente della serata. Pizzi sposta lo svolgimento dell’opera dalla Polonia alla città di Parma, realizzando uno spettacolo raffinato e contraddistinto dai vivaci colori dei costumi. E’ una sorta di omaggio alla città emiliana, al carattere gioviale dei suoi abitanti, ai suoi monumenti (facile riconoscere la celebre Pilotta) e ai prodotti tipici del luogo: il parmigiano, il prosciutto e il buon vino. Si mangia e si beve sempre, come del resto si dovrebbe fare quando la tavola offre tali prelibatezze. A parte l’aspetto d’ambientazione, la regia gioca con gusto sui personaggi trovando la giusta chiave di lettura dell’opera buffa, sempre in maniera ricercata, nel gioco dello scambio di persona e delle coppie amorose da combinare rispettando i sentimenti, cui contribuiscono gli strepitosi e leggiadri costumi. La scena, con cambi veloci, è contraddistinta da due enormi scalinate laterali movibili che si adoperano a tutte le esigenze, la scala nobile, il palazzo del barone, o l’incantevole biblioteca. Dall’alto piovono imponenti scenografie che rendono ancor più intrigante la creazione a vista dello spettacolo. In occasione della ripresa veronese l’artefice di tanta meraviglia è stato Paolo Panizza, pluriennale assistente di Pizzi, il quale pur modificando per esigenze di palcoscenico alcune situazioni si mantiene fedele all’originale e sviluppa una recitazione e una comicità raffinatissima interagendo anche con il coro che in quest’occasione si dimostra molto più partecipe rispetto alle precedenti esecuzioni, del quale è da lodare l’ottima resa vocale sotto la guida di Armando Tasso.
Stefano Ranzani torna a dirigere un’opera lirica a Verona dopo quasi vent’anni e ritroviamo un concertatore attento alle indicazioni dell’autore, molto conscio della compagine canora, per la maggior parte debuttante, cui sfoltisce i “da capo” e qualche puntatura, mantiene un ritmo brillante e vivace, a volte anche troppo perché non compatta il suono dell’orchestra e si percepisce qualche chiassosità di troppo, ma è apprezzabile il gusto sentimentale nei momenti lirici. Come sopra citato la produzione si è avvalsa di cantanti, in corso di perfezionamento o già diplomati, dell’Accademia di Canto del Teatro alla Scala, e questa collaborazione segna il primo e forse non ultimo scambio artistico formativo tra Verona e Milano. Tuttavia è lecito rilevare, e senza polemica, che le stagioni del Teatro Filarmonico utilizzano spesso giovani allievi freschi d’accademia o concorsi, i quali saranno sì necessari ma non bisogna abusarne. Per un rilancio della stagione invernale, ignorata negli ultimi tempi da un pubblico distratto e svogliato (e aggiungo taccagno) servirebbero altre politiche.
Della compagnia due soli artisti sono già in carriera: Filippo Polinelli e Teresa Romano. Il primo si è distinto come il miglior elemento del cast con un’esibizione vocale di notevole levatura, la voce è bella e ben impostata, forbito il fraseggio, omogeneo nei registri. Ebbi occasione di ascoltarlo qualche anno fa in Haly (Italiana in Algeri) alla Scala e non ne ebbi grandi impressioni, mi fa molto piacere ricredermi e sottolineare l’evoluzione in positivo del cantante. La seconda è una giovane dotata di un ottimo materiale di cui si appezza in particolare il timbro brunito, particolarmente efficace per il ruolo, peccato che la tecnica non è ancora del tutto padrona dello strumento perché il registro acuto è spesso stridulo e stimbrato. Gli altri erano quasi tutti semi-debuttanti. Ludmilla Bauerfeldt è una Giulietta anche espressiva e precisa ma il timbro è ancora acerbo, il suo innamorato Jaeyoon Jung possiede una voce morbida e leggera ma i passi di agilità e l’acuto sono ancora da formare. Migliore Simon Lim basso di ottime speranze anche in altro repertorio che seppur dotato di voce importante manca in parte nel gusto e nell’accento. Filippo Fontana è più leggero vocalmente ma si disimpegna con onore e buona resa scenica. A posto Ian Shin e Carlos Cardoso nei ruoli secondari. Alla terza recita cui ho assistito il teatro era semivuoto, ma lo scarso pubblico presente ha tributato un convinto consenso all’intera compagnia.

Nabucco [Lukas Franceschini] Parma, 8 marzo 2013.
Nel teatro emiliano ritorna l’opera Nabucco di Giuseppe Verdi, ovvio che se non si esegue Verdi nella città natale, dove altrimenti? Peccato che di questo 2013 siamo a conoscenza di solo due titoli con allestimenti presentati in recenti edizioni del Festival. Cosa ci sarà o ci proporranno in autunno, momento clou de Festival del Centenario, è araba fenice.
Nabucco è opera di riscossa nella produzione verdiana, il trionfo scaligero del 1842 animò lo scoraggiato compositore dall’insuccesso de Il giorno di regno e fortunatamente per lui, ma anche per noi, il suo genio musicale continuò per altri cinque lustri. Il melodramma, su libretto di Temistocle Solera, è certamente ruvido ma già definito ove i personaggi emozionano e conquistano, il coro fa addirittura piangere. E’ il popolo senza terra che anima la poesia musicale di Verdi che proprio con questo, abusato nei concerti, “Va pensiero” ferma un vertice d’indiscussa ed ineluttabile emotività in musica. Tra i protagonisti, Nabucco, Abigaille e Zaccaria, non c’è bisogno di grande scavo intellettuale, sono schietti, diretti e ben forgiati. Gli altri contano pochissimo, son lì per drammaturgia, anche se a Fenena Verdi riserva una delle più armoniche e dolci arie scritte in tutta la sua carriera.
Due Nabucco in un mese con lo stesso regista, Daniele Abbado, uno in Emilia, l’altro alla Scala, il confronto è inesorabile, anche se gli allestimenti sono stati creati con molti anni di differenza. Quello scaligero, cui ho scritto nella precedente recensione, è più analitico, psicologico e atemporale rispetto a quello presentato a Parma che ricalca la tradizione ma in una lettura molto personale. Nato a Torino nel 1997, proposto al Festival Verdi nel 2010 e ora in stagione, è uno spettacolo che affascina per quel muro mobile che delimita tutta la forza drammatica della vicenda. Possiamo logicamente riconoscere il muro del pianto di Gerusalemme, ma qui la forza di cambiamento realizzata dallo scenografo Luigi Perego, bravo anche come costumista, è commisurata al suo univoco senso di separazione tra un popolo senza patria e la lotta per il potere. L’amore nell’opera è e resta nel segno della regia marginale. Funzionale come il regista ha inteso popolo ebraico, ossia il coro, vestiti con foggia anni ’40 ma senza un’identità definita rappresentando purtroppo un ripetersi nella storia dell’umanità, anche se quest’idea non era originalissima. Di gran pregio le efficientissime e calibrate le luci di Valerio Alfieri. Si è notata qualche piccola differenza nella ripresa della regia a cura di Boris Stetka, ma lo spettacolo regge e ha il suo fascino ed interesse.
La direzione di Renato Palumbo non brillava per originalità e scansione delle sezioni strumentali, collocandosi su un generico accompagnamento. I tempi impersonali scandivano cabalette a rilento, i da capo sovente omessi, eccessiva caratura delle percussioni, erano elementi che non determinavano traccia di ricordo nella sua interpretazione. Non si possono negare che alcune intenzioni erano anche efficaci, e di queste talune risolte con gusto, nobiltà d’accento e piglio verdiano prima maniera, ma era poca cosa per parlare di una lettura azzeccata.
Roberto Frontali era un mediocre protagonista, monocorde nel canto, voce spesso nasale, poco coinvolto dal ruolo che interpreta sommariamente. Anna Pirozzi si mette in luce per un accento e una voce di primordine. È cantante anche forbita ma l’impostazione generale rileva carenze nel passaggio, la zona grave è tendenzialmente afona e l’acuto non ben timbrato. Michele Pertusi debuttava la parte di Zaccaria, salvo errori di chi scrive, ha dimostrato tutta la sua arte nel fraseggiare ammirevolmente il personaggio, tuttavia non pare sia la virata adeguata al repertorio, la voce del cantante non avrebbe le caratteristiche per questo tipo di basso verdiano, mancano la cavata e la modulazione nel registro grave, che non appartengono al suo DNA. Anna Malavasi è una mediocre Fenena che sperpera l’occasione dell’aria al quarto atto, Sergio Escobar è tenore monocorde cantando tutto forte a squarciagola, senza stile ed accento. Tra le parti minori ricordo la presenza di Elena Borin, Luca Casalin e la bella prova di Gabriele Sagona.

DER FLIEGENDE HOLLÄNDER [Lukas Franceschini] Milano, 12 marzo 2013.
L’olandese volante, o anche Il vascello fantasma (nella traduzione italiana), fu composta da Wagner come atto unico ciò in netto contrasto con la tradizione teatrale del tempo. In seguito rielaborò la partitura e la suddivise in tre atti. Molto interessante a tal proposito le note del direttore Hartmut Haenchen, nel programma di sala dell’edizione scaligera, il quale ci illumina dettagliatamente sui sette stadi che rivelano lo sviluppo della partitura, che tuttavia si articolano essenzialmente in quattro differenti versioni. Il tema centrale dell’opera, definita romantica dallo stesso autore, è l’amore incondizionato come strumento per il raggiungimento della redenzione. Rappresentata in prima alla Semperoper di Dresda il 2 gennaio 1843, diretta dall’autore, questa partitura segna la prima rilevante presa di distanza dall’opera convenzionale. Le forme chiuse sono quasi assenti e la melodia procede senza interruzioni, compaiono i primi leitmotiv, melodie associate a personaggi, oggetti o concetti astratti. Gli stessi leitmotiv sono tutti introdotti nell’ouverture, che in varie rielaborazioni sarà ampliata fino alla stesura attuale. La storia è ripresa dalla leggenda folcloristica dell’olandese volante, che narra di un capitano condannato a navigare fino al giorno del giudizio. Wagner sostiene in Mein Leben che l’ispirazione sia stata anche in parte autobiografica, in seguito ad un suo viaggio “avventuroso” nel 1839.
Il nuovo spettacolo proposto nella sala del Piermarini lascia piuttosto perplessi sia nella parte visiva sia sulle voci. Il regista Andreas Homoki sposta la nordica vicenda dell’Olandese e Senta nei mari dell’Atlantico, in Africa. Daland è un ricco mercante colonialista e marinai suoi impiegati marittimi, Senta collabora con le segretarie, le quali appaiono come dipendenti stile telefoni bianchi. L’ambientazione è del tutto astratta e non corrispondente alla romantica vicenda pensata dall’autore, inoltre manca il mare, e questa è una grave lacuna, perché dalle acque arriva il protagonista e nelle stesse si getta nel finale la pentita Senta. Non si può affermare che il lavoro di Homoki sia del tutto estraneo alla vicenda ma l’ambientazione borghese-colonialistica non l’ho capita proprio e ammetto che sarà anche mia lacuna culturale, ma in teatro erano in molti sulla mia lunghezza. Si comprende la trasformazione di Senta, da fanciulla a donna, l’irruenza dell’Olandese, vestito come un cercatore d’oro con tanto di pelliccia (sic!) da Wolfgang Gussmann, il giovane Erik sufficientemente stolto con tanto di fucile e tenuta da caccia alemanna, Mary una metafora di governante stile in tailleur Frau Rothermaier. Lo stesso costumista è anche scenografo di un impianto fisso girevole e monotono, cui si può identificare ora un ufficio, o un salotto, o uno studio, però più adatti al dramma dei Buddenbrook che al soggetto marinaro. Tuttavia è da lordare la resa attoriale dei singoli in uno spettacolo cosi complicato quanto astruso, ove pare di intravedere una rivolta dei colonizzati africani, cui va sommata la bravura del coro, diretto da Bruno Casoni, versatile scenicamente e mirabile vocalmente.
Debuttava alla Scala il direttore Hartmut Haenchen, una bacchetta sicura e precisa ma routiniera nei colori, negli sbalzi dei sentimenti; egli tiene tutto sotto controllo ma manca la passione e una certa poetica introspettiva.
Purtroppo la parte vocale è deludente anch’essa, ormai alla Scala c’eravamo abituati a dei Wagner d’alto livello, in quest’occasione siamo sottotono, anche se i nomi sono famosi.
Bryn Terfel, alla recita cui ho assistito, dimostrava una voce stanca, poco sfaccettata, ruvida e monocorde nonostante un fraseggio anche interessante ma sommario perché caratterizzato più dall’irruenza che dalla poesia misteriosa. Anja Kampe sarebbe interprete ideale per Senta, purtroppo il settore acuto non è fermo e scivola sovente nel grido, oltre a dimostrare una limitata ampiezza nel medio, si è notato ovviamente nella ballata ma anche in tutti i duetti. Il tanto sponsorizzato Klaus Florian Vogt, tenore wagneriano del momento, non passa che l’ordinaria performance senza lasciare particolari tracce, come del resto anche Ain Anger un Daland cui va riconosciuto essersi contenuto nell’aspetto comico. Dominik Wortig era un marinaio imbarazzante e si poteva lasciare oltremanica anche Rosalind Plowright, oggi passata ai ruoli mezzosopranili, la quale non delinea segni positive se non per il nome che fu. Pubblico piuttosto perplesso sullo spettacolo, ma abbastanza convinto dall’esecuzione musicale.

DER FLIEGENDE HOLLÄNDER [Lukas Franceschini] Bologna, 13 marzo 2013.
Un altro allestimento dell’opera di Richard Wagner Der Fliegende Holländer questa volta al Teatro Comunale di Bologna, teatro che ha visto nel XIX secolo l’inizio delle rappresentazioni wagneriane in Italia.
Raramente, anzi forse mai, mi è capitato di assistere a due titoli operistici identici ad un giorno di distanza in due teatri diversi. Dopo l’Olandese scaligera, della quale ho già scritto, il giorno seguente ho assistito alla recita al Teatro Comunale di Bologna. Ogni spettacolo ha storia a sé stante, ma non nego che in tale occasione qualche confronto è scaturito involontario, e con il senno di poi Bologna “vince” su Milano di larga misura.
Innanzitutto con un bellissimo spettacolo di Yannis Kokkos, trattasi di una ripresa del 2000, ove tutto era perfettamente comprensibile immaginando la vicenda come un songo oppure una volontà o un bisogno d’amare della protagonista femminile, la quale s’immagina un illusorio e misterioso uomo venuto dal mare. Un mare che è riprodotto in un’immensa parete bianca, colore olandese 3che predomina una scenografia minimalista ma essenziale e di largo respiro visivo, ove c’è uno specchio che riproduce il “quadro” del marinaio errante. La romantica vicenda si sviluppa in un chiaroscuro di luci ben realizzate da Guido Levi, con le prue delle navi che approdano lateralmente al palcoscenico, l’introspettiva presenza dell’amore incondizionato è basato sul filo esile della pura poesia romantica, cui con metodi eleganti interagisce il terreno Erik, il giovane illuso dai sentimenti di Senta. Il padre Daland non è macchiettistico, appare come un genitore in ansia per le supposte instabilità della figlia cui crede rimedio sia un matrimonio, il quale se conveniente per lucro ancor meglio. Il protagonista è uomo distaccato e statuario, una figura anche sinistra, che non ha mai contatto con la giovane in funzione alla terribile maledizione, è la sua unica salvezza e finché non sarà sicuro della sua fedeltà non si lascerà trasportare da alcun sentimento o percettibile effetto. E’ in sostanza il suo apparire a inondare d’incubi e crescente vigore la mente di Senta che alla fine crolla trapassata nell’infrangersi di quel sogno che la divora. Kokkos realizza in maniera efficace tutte le sfaccettature dell’intricata vicenda in un’analisi di grande impatto e fervida presa sul pubblico. Molto belli i costumi sempre monocromatici ma di classe, ed esemplare la recitazione dei cantanti.
La precisa e oserei dire preziosa bacchetta di Stefan Anton Reck realizza una lettura mirabile per plasticità di tempi e romanticismo di scrittura che colloca questa direzione tra le più belle ascoltate negli ultimi anni di quest’opera. E’ cesellatore di olandese 4minuziosi frammenti molto emotivi, senza mai perdere il concetto onirico del leitmotiv. E’ assecondato in questa sua importante e centrata realizzazione da un’orchestra di prim’ordine, pur con qualche sbavatura negli ottoni. Splendido il coro diretto da Andrea Faidutti.
La compagnia di canto era molto omogenea senza proporre fuoriclasse ma di compìto e ottimo professionismo. Spiccava Mark S. Doss, un protagonista statuario ed ermetico dall’ottimo fraseggio e ampia vocalità sonora. Anna Glaber è una precisa e musicalissima Senta, cui mancherebbe, solo in parte, qualche accento più vigoroso, ma il canto è forbito e la resa puntuale. Molto bravo anche Mika Kares un Daland intrigante forse con caratura vocale leggera, ma egualmente efficace, altrettanto si può dire del romantico Marcel Reijans. Lievemente inferiori Monica Minarelli, convulsiva e sfuocata, e dell’approssimativo Gabriele Mangione. Grande successo con prolungati applausi al termine.

VĚC MAKROPULOS [Lukas Franceschini] Venezia, 19 marzo 2013.
È curioso che una città come Venezia da sempre all’avanguardia in materia di musica contemporanea ospiti solo oggi nel 2013 la penultima opera di Leoš Janáček Věc Makropulos, ovvero Il caso Makropulos, desunto dalla commedia omonima di Karel Čapek.
Il compositore assistette ad una pièce teatrale del testo nel 1922 e sempre alla ricerca di nuovi soggetti non banali, fu ispirato totalmente da questo bizzarro quanto intrigante copione. La vita di Emila Marty, la quale arriva alla bellezza di 337 anni prendendo un filtro, una vita costellata solo dal successo artistico ma troppo lunga e intrisa di solitudine ed infelicità affettiva. È un periodo molto particolare per Janáček, il quale sta vivendo una relazione con la giovane Kamila Stosslova, un quarantennio li separa anagraficamente, molti biografi lo definiscono un amore senile, tuttavia è legame forte quanto confermato dal lungo epistolario. Janáček indubbiamente non è autore facile, ma le sue opere e la sua musica rappresentano un rimando di particolari, di elaborazione fantastica, pur con stralci di autentico folklore mai dimentico della sua amata patria. Le trame delle sue opere sono tra le più accattivanti del panorama novecentesco letterario, basti ricordare Jenufa e Kata Kabanova, ma probabilmente l’Affare Makropulos è la più affasciante, mettendo in evidenza il mito della diva in un frequente cambiamento nella scrittura teatrale. Emilia Marty avrà nel corso degli anni cinque vite differenti con altrettanti nomi le cui iniziali saranno sempre E.M. Lei, cerca ora la “ricetta” della pozione incontrando antichi amori, un giovane scapestrato innamorato, un notaio intraprendente, un’eredità contesa, in una vicenda che s’intreccia di giallo; solo alla fine tutte le caselle tornano al proprio posto quando lei svelerà la sua identità che consente di dare tutte le risposte a tutti i protagonisti. Il racconto è sviluppato dal compositore con musica nervosa ed energica, il canto è al limite del declamato quasi dodecafonico e sicuramente non siamo in presenza di un romanticismo come in Kata Kabanova, o di un “verismo” dell’est come in Jenufa, ma possiamo individuare uno spessore duro di armonia lucida guizzante scultorea. L’opera è senza ariosi e melodie, ma si sviluppa in un canto di conversazione spesso sovrapposto, è costituita da temi brevissimi ed incisivi che teine il passo ad una drammaturgia originalissima che inchioda lo spettatore nella continua ricerca della verità, del perché, del che cosa. In quest’opera il musicista pone accenti su aspetti molto importanti dell’esistenza: la bellezza e il senso della lunga vita. Espressivo è il finale, nel quale la protagonista rinuncia a proseguire la vita bevendo ancora il filtro arrendendosi così al proprio destino e rendendosi conto che la vita non può essere cosi lunga, anche perché costellata da molte infelicità e soprattutto solitudine. Decisamente un monito che pone in rilievo il naturale scorrere dell’esistenza.
Il bellissimo spettacolo veneziano, coprodotto con i teatri di Strasburgo e Norimberga, ha evidenziato ancora una volta il genio creativo del regista Robert Carsen. Già nel preludio vediamo la protagonista nel retro di un tendone teatrale cambiarsi d’abito, indossa il costume delle varie eroine da lei interpretate, ma cambia anche virtualmente la propria identità ogni qualvolta qualcuno s’insospettisce della sua età e potrebbe scoprire il suo segreto. Il tutto si svolge in teatro perché Emila è donna di teatro, e la sua vita è stata quasi una recita teatrale assurda, impossibile e sotto taluni aspetti espressione della durezza dell’esistenza. Nel secondo atto l’opera si svolge a sipario chiuso dopo una recita di Turandot, geniale idea poiché entrambe le opere nacquero in prima assoluta nel 1926 e l’affinità di donne che non possono e non vogliono amare, seppur per differenti motivi, sia palese. Inoltre, Emilia alla fine della recita incarna un altro mito del ‘900: Lulu. Tutti gli uomini ruotano intorno a lei, innamorati e in parte sedotti dall’aurea misteriosa e divistica, ma nessuno riceverà ciò che desidera ovvero l’amore. La scena di Radu Boruzescu è lineare ed efficace soprattutto nei rapidi cambi di scena, meravigliosi i costumi di Miruna Boruzescu in particolare quelli creati per la protagonista.
La prodigiosa musica di Janáček, qui in un suo apice artistico, è magistralmente diretta da Gabriele Ferro, il quale con questa produzione tocca uno dei vertici della sua lunga e mirabile carriera, da ottimo concertatore è riuscito in una lettura variegata tra durezza timbrica, stereotipi novecenteschi e lirismo sensuale, senza mai perdere l’equilibrio e la tensione drammatica della difficile partitura.
Di gran pregio anche il cast ove primeggiava impagabile raffinata protagonista Angeles Blancas Gulin, della quale non saprei se lodare più l’attrice o la cantante. Ella era perfettamente calata nel ruolo con il suo canto forbito e sensuale, ora preciso ed espressivo nei diversi momenti. Leonardo Cortellazzi, tenore sempre in ascesa, era un ottimo Vitek, ma anche tutti gli altri erano molto attendibili e perfettamente calibrati nella parte: Martin Barta, Enrico Cesari, Ladislav Elgr, Andreas Jaggi, Eric Martinez-Castignani, Judita Nagyova, Leona Peleskova, William Corrò. Esito meritatamente trionfale al termine, per uno dei migliori spettacoli prodotti dalla Fenice.

OTELLO [William Fratti] Piacenza, 22 marzo 2013.
Con i tempi che corrono, forse Otello è l’opera verdiana più difficile da mettere in scena, soprattutto per il protagonista. Sono pochi gli artisti che oggi possono reggere la parte in maniera soddisfacente e quei pochi sono molto costosi. Il Teatro Municipale di Piacenza, come purtroppo è accaduto negli ultimi anni, non riesce ancora a reggere il confronto con il suo glorioso passato e anche questa produzione, seppur in netto miglioramento rispetto al precedente Don Carlo, non appaga pienamente il pubblico degli appassionati. E va sottolineato che i melomani più accaniti aspettano con ansia l’arrivo della prossima stagione, interamente firmata Cristina Ferrari.
Lo spettacolo ideato anni fa da Pier Francesco Maestrini per il San Carlo di Napoli, poi acquistato dal Regio di Parma, si avvale delle bellissime scene di Mauro Carosi e dei validissimi costumi di Odette Nicoletti, creando un amalgama altamente efficace, realista e ad alto impatto emotivo. La regia è opportuna ed incisiva in tutto il primo atto e in parte nel quarto, ma nel resto dell’opera cede il passo ad elementi aggressivi gratuiti ed inutili da parte di Otello e a momenti monotoni nei finali secondo e terzo. Gli scatti d’ira, l’epilessia e la riconversione del protagonista poco centrano con il lavoro di Boito e Verdi, né con l’eleganza della musica che accompagna la vicenda.
Sul fronte musicale, Maurizio Barbacini non compie prodezze, ma sa dirigere con cura la valida Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna. Il suono è pulito, i tempi sono precisi, i cromatismi seguono le indicazioni di partitura e il dialogo tra buca e palcoscenico è ben saldo. Peccato per un paio di pecche di una tromba e di un clarinetto. Positiva è anche la prova dell’ensemble del Coro Lirico Amadeus Fondazione Teatro Comunale di Modena e Coro del Teatro Municipale di Piacenza, guidati da Stefano Colò, e della Scuola Voci Bianche della Fondazione Teatro Comunale di Modena, preparata da Paolo Gattolin e Melitta Lintner.
Tornando al protagonista, Kristian Benedikt ha alle spalle oltre dieci anni di carriera internazionale con ruoli che vanno da Elisir d’amore, Lucia di Lammermoor, Rigoletto e La traviata a Tosca, Die Walküre, Ernani e Otello. Non si vuole polemizzare in merito al suo repertorio, ma è doveroso constatare su quali tessiture si inerpica il cantante. Misurando la sua performance col metro della crisi, del teatro di provincia e della scarsità di professionisti in grado di ricoprire questo ruolo in maniera adeguata, il risultato che ne consegue è sufficiente, ma tralasciando queste attenuanti si evincono diverse mancanze. Kristian Benedikt va premiato per l’intonazione, per la capacità di tenere gli acuti in avanti e per le doti interpretative – che purtroppo le scelte di regia hanno voluto snaturare con eccessiva veemenza e scelte poco probabili – ma la voce tende spesso a tirarsi e opacizzarsi, perdendo di rotondità e di squillo. Se la sortita con “Esultate!” non entusiasma, ma lascia sperare in un miglioramento, “Ora e per sempre addio sante memorie” e “Dio! Mi potevi scagliar tutti i mali” disattendono ogni aspettativa.
Considerazioni più o meno simili valgono per l’alfiere di Alberto Mastromarino, di cui, inizialmente, si apprezzano l’uso degli accenti e l’espressività del fraseggio, ma si nota immediatamente una certa mancanza nel legato. Gli stessi pregi e difetti si mostrano anche nel celebre Credo e nel duetto con Otello – che tra l’altro risulta essere molto noioso – dove l’assenza di squillo e l’emissione dei piani un poco dubbia, poiché sembrano più parlati che cantati, non contribuiscono certamente a rendere piacevole questa interpretazione.
Fortunatamente la Desdemona di Yolanda Auyanet si presenta con una qualità nettamente superiore e gli applausi che riceve, anche a scena aperta, ne sono la dimostrazione. Già dal celebre duetto d’amore di primo atto la professionista spagnola esibisce una vocalità ben timbrata, morbida e rotondeggiante, prodigandosi in un canto elegante e ricco di sfumature, con pianissimi e filati raffinati. Questa linea di canto è mantenuta ben omogenea anche in secondo atto e nella lunga scena della Canzone del salice e dell’Ave Maria, intense ed emozionanti. L’unico appunto sta nell’eccessiva marcatura dell’accento drammatico in terzo atto, che porta Yolanda Auyanet a perdere di morbidezza.
Molto buona è la prova di Arthur Espiritu nel ruolo di Cassio, che dimostra di possedere una bella voce luminosa. Invece l’Emilia di Elena Traversi è purtroppo inadeguata, le note più alte sono molto tirate ed in generale manca di malleabilità.
Efficaci il Roderigo di Gianlica Bocchino, il Lodovico di Enrico Turco, il Montano di Matteo Ferrara e l’araldo di Stefano Cescatti.

IL MATRIMONIO SEGRETO [William Fratti] Torino, 24 marzo 2013.
Non v’è dubbio che Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, una delle poche opere italiane del Settecento a non essere mai uscita dal repertorio, sia un capolavoro musicale, ma la sua messinscena deve fare i conti con una vicenda ben poco originale e molto inflazionata, nonché un libretto molto povero in parole e contenuti, senza frasi o parole che possano indurre una sincera comicità, ma che restano ancorate ad un velato humour.
L’allestimento ideato da Michael Hampe qualche anno fa, con scene di Jan Schlubach e costumi di Martin Rupprecht, sa omaggiare in maniera eccellente l’eleganza del secolo dei lumi e la raffinatezza della musica del compositore. Ma lo spettacolo – oggi ripreso da Vittorio Borrelli – soffre di monotonia, sia per le ragioni già descritte, sia per la mancanza di cambi scena ed è solo grazie alla capacità degli interpreti – soprattutto degli esperti Paolo Bordogna e Roberto De Candia – che il melodramma riesce ad avere un certo smalto.
La direzione di Francesco Pasqualetti è precisa e dal polso saldo e si nota un buon dialogo tra buca e palcoscenico. Colori e sfumature sono giustamente espressi, più a sottolineare le finezze musicali che non la vivacità della commedia. Benissimo la resa del quartetto di primo atto.
Paolo Bordogna è un eccellente Geronimo. Si presenta fin da subito con voce ben timbrata, brillante e squillante, nonostante la sua aria di sortita sia ben poco felice, ma sa risolverla mettendo in mostra tutte le sue qualità vocali ed interpretative. Lucentezza che mantiene, come sua consuetudine, per tutta la durata dello spettacolo. Lo affianca l’altrettanto esemplare conte Robinson di Roberto De Candia, che primeggia per chiarezza ed espressività di fraseggio e buon uso di cromatismi. I due artisti sono perfettamente amalgamati – il loro duetto ne è la chiara dimostrazione – e paiono uscire dalla medesima scuola: sanno interpretare i loro personaggi col giusto vigore, senza mai eccedere o cadere in sconsiderate macchiette.
Barbara Bargnesi, nel vestire i panni della dolce Carolina, sa mettere in scena un personaggio elegante, malinconico e delicato, con una voce quasi sempre soave, ma che in alcuni brevi tratti diventa un poco pungente. Buono è l’uso dei piani e dei pianissimi. La accompagna lo sposo segreto di Emanuele D’Aguanno, dotato di bella voce limpida seppur non imponente, leggerissimamente nasale negli acuti, ma ciò è abbastanza tipico nella sua tipologia di vocalità.
Chiara Amarù è una Fidalma dalla voce piena, rotonda e brunita, artista che merita certamente di essere ascoltata in ruoli più corposi. Erika Grimaldi è una Elisetta corretta ed efficace.

SOBAČ’E SERDCE [Lukas Franceschini] Milano, 27 marzo 2013.
L’unico titolo non ascritto al binomio Verdi-Wagner in programmazione al Teatro alla Scala è stato Cuore di Cane (Sobač’e serdce) di Alexander Raskatov, opera contemporanea, avendo avuto prima esecuzione il 7 giugno 2011 al Muziektheater di Amsterdam.
Sobač’e serdce, questo il titolo originale russo, è un’opera in due atti dall’omonimo racconto di Michail Bulgakov, ed è la prima opera di Alexander Raskatov ad essere rappresentata, un precedente lavoro (Il pozzo e il pendolo) è ancora in attesa di andare in scena. Il romanzo di Bulgakov, per lungo tempo proibito nell’ex Urss, è un testo che si pone sotto molteplici piani di lettura, in primis il limite umano della scienza, poi una chiara satira al potere totalitario comunista. Il libretto creato da Cesare Mazzonis, per molti anni direttore artistico del teatro alla Scala, si sviluppa con perfetta aderenza al romanzo e tende a porre un particolare accento al connubio politico oltre al fattore umano dello scienziato, il quale è creatore di un “mostro” che alla fine sopprimerà. Non sarebbe da imputare a Mazzonis colpe probabilmente non sue perché si è attenuto letteralmente al testo, tuttavia l’opera lirica per quello che esprime e per com’è la drammaturgia è troppo lunga e prolissa. Sarebbe stato più opportuno uno sfoltimento di scene e centrare in sinergia, poeta e compositore, il concetto del romanzo, poiché l’opera è sintesi. Quest’aspetto che a molti potrebbe sembrare arbitrario, mi pare sia confermato dalla sala dimezzata nel pubblico dopo il primo atto al Teatro alla Scala, il quale è stato il terzo teatro a rappresentare l’opera dopo Amsterdam e Londra. Ammetto di non conoscere molto la musica di Raskatov, ma non credo che questo sia il suo capolavoro perché piuttosto ripetitivo nel genere, trasbordante nel buffo, anche ironico nella satira politica, ma in generale pareva un qualcosa d’inedito di altri, Šostakovich tanto per citarne uno. Oltremodo non mi pare ci sia in Cuore di Cane un linguaggio nuovo o meglio graffiante soprattutto per le scene politiche che vorrebbero anche in parte avere riferimenti attuali, inoltre, non vi è novità di “stile” quando egli utilizza la doppia voce (controtenore e tenore) per il cane animale e il cane uomo. Spunti interessanti ne ho riscontrati, e molti anche piacevolmente ascoltati, ma al termine sembrava che mancasse quell’estro di autentica novità. È da lodare la presenza di un direttore come Martin Brabbins, che sostituiva Valery Gergiev, il quale esegue l’opera con certosina perizia ed indicibile trasporto, amalgamando l’ensemble orchestrale, molto differenziato, in perfetta ed incalzante sincronia. Azzeccatissimo anche il cast, nel quale primeggia Paulo Szot, autentico baritono che denota morbidezza vocale ed è coinvolgente nel personaggio. Della lunga locandina tutti sono bravi e sarebbe impossibile citarli integralmente, tuttavia non posso esimermi di segnalare il passionale ed istrionico Peter Hoare, il cane uomo, Nancy Allen Lundy la deliziosa cameriera Zita, Ville Rusanen sommesso assistente del professore.
Altro discorso merita lo spettacolo creato da Simon McBurney, già allestito sia in Olanda (alla prima assoluta) sia a Londra (prima ripresa). Il regista, assieme all’ingegnoso e bravo scenografo Michael Levine e alla squisita costumista Christina Cunningham, realizza un lavoro di rara recitazione, utilizzando video pertinenti e significativi (di Finn Ross), pareti mobili efficaci e marionette di straordinaria originalità (del Blind Summit Theatre), infatti, il cane è animato da quattro marionettisti di magistrale manualità. La narrazione è avvincente e tiene lo spettatore incuriosito e divertito nel seguire quale sviluppo sarà utilizzato per il finale che già conosce. Non mancano linguaggi scurrili di giusta pertinenza in un lavoro che intenerisce e fa riflettere molto. Per fortuna abbiamo avuto questo meraviglioso spettacolo, viceversa sarebbe stato molto più pesante seguire l’opera.

MACBETH [Lukas Franceschini] Milano, 2 aprile 2013.
Nuova produzione di Macbeth al Teatro alla Scala per il bicentenario verdiano nella sfiziosa versione di Firenze del 1847, ovvero la prima stesura dell’opera. Per tale occasione è stato proposto un nuovo allestimento che ha fatto rimpiangere i precedenti. È indiscusso che Macbeth sia un capolavoro, uno dei pochi da ascrivere alla prima parte della carriera compositiva di Verdi, quei fatidici “anni di galera” come da lui stesso denominati. L’opera fu composta in contemporanea con I Masnadieri, in seguito Verdi decise di rimandare la sua partenza per Londra e si concentrò sul testo shakespeariano per un contratto che lo legava al Teatro La Pergola. Verdi sovrintese meticolosamente a tutti i libretti delle sue opere e le lettere che ci sono pervenute confermano la prassi. Per Macbeth preordinò la struttura dell’opera e stabilite le scene del dramma che vi dovevano essere incluse, scrisse poi l’intero libretto in prosa italiana lasciando a Francesco Maria Piave il compito di metterlo in versi. Tale libretto riduce il dramma a meno della metà, tuttavia questa sforbiciata (spesso scelta necessaria nella stesura di un’opera) non diminuisce il dramma originale e il perno drammaturgico sulla figura dei due protagonisti.
Alla Scala l’opera è stata rappresentata in numerose edizioni dal 1849 al 1863 nella prima versione denominata di Firenze, dal 1874 nella versione di Parigi del 1865, la quale ha molte differenze rispetto l’originale, più ampliata, sostituzioni di arie, aggiunta di duetti, un balletto e finale corale. Sarebbe qui superfluo e prolisso fare un’analisi delle due versioni ed è innegabile che la seconda sia sotto taluni aspetti più “completa” e perfettamente calibrata musicalmente, tuttavia è un pregio artistico di rilievo poter ascoltare la prima del 1847, raramente rappresentata, la quale focalizza il personaggio del protagonista forse più emblematicamente ed introspettivamente soprattutto al III atto, e nel finale, ove gli è riservata l’aria conclusiva. Peccato che in questa produzione scaligera è stata eseguita una versione ibrida prendendo come base la prima versione ma inserendo l’aria di Lady Macbeth nel II atto “La luce lange” composta per Parigi al posto di “Trionfai! Securi alfine” ed il coro atto IV “Patria oppressa” eseguito nella versione del 1865. La scelta non è assolutamente filologica né pertinente, ignoro il senso di tali scelte. Non ci sono nel programma di sala indicazioni che delucidano tale operazione, anche se leggendo l’intervista al regista egli stesso avrebbe preteso tali cambiamenti per ragioni di drammaturgia, se così fosse è biasimevole che la direzione artistica della Scala accetti tali imposizioni.
Delude il nuovo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti, lasciandoci veramente imbarazzati, per una drammaturgia complessa e psicologica oltre il limite e per scelte ormai logore ed abusate che poco hanno a che fare con il melodramma verdiano. Abbiamo avuto nella sua lettura molte idee opinabili come il bambino che pugnala il suo orsacchiotto (un retaggio infantile del protagonista?), la lettera che arriva alla Lady via sms, gigantografie di Hitler e Mussolini, scene con torture militari (Guantanámo?), videoproiezioni di eserciti “recenti” e scene da mense comuni in tempi bellici o di carestia. In questo spettacolo manca il vero tratto registico, che per nulla cura il legame tra i due protagonisti e non sviscera la diabolicità della Lady. L’attualizzazione anni ’20 e ’30, periodo in cui s’insediano le dittature europee, è banale come la scenografia con chiara ispirazione alla pittura coeva (De Chirico), l’uso insistente di mini superflui e la povera recitazione completano il cerchio di uno spettacolo che vorrebbe dire tanto ma non trova una linea e sarebbe stato necessario insegnare a Lady Macbeth una recitazione meno ridicola per le due frasi della lettera. Non convincono i costumi anonimi e scialbi di Cristian Taraborrelli e Angela Buscemi, le scene ancora di Tarabborrelli e del regista sono funzionali quando identificano la scena interna o esterna delimitata da due muri semicircolari e movibili, ma il tutto finisce li, senza fantasia e ispirazione, cui vanno aggiunte delle luci non molto azzeccate di Frabice Kebour, una coreografia irruenta ed isterica di Raphaelle Boitel (che poi senza balletto cosa serviva?) e dei video troppo stereotipati di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii.
Il ritorno di Valery Gergiev alla Scala avrebbe dovuto rappresentare un lusso, ma probabilmente il repertorio italiano non è proprio il suo pane, molto più consono in quello russo. Il direttore manca di un efficace rapporto buca palcoscenico, i cantanti erano lasciati al loro destino e si concentrava soprattutto sul piano orchestrale ottenendo dalla compagine scaligera un bel suono, ruvido e vibrante ma del tutto estraneo alla logica del melodramma ove occorre cesellare sul canto e sul ritmo, il quale era sovente personale e non coesione di drammaturgia.
Anche il cast era sotto le aspettative pur riconoscendo che oggigiorno è molto difficile raggruppare una compagnia di primordine per un’opera verdiana. Franco Vassallo era un protagonista anonimo e per nulla espressivo, la sua esibizione non ha sortito effetti dannosi, mancava tuttavia di colore, fraseggio e personalità. Lucrecia Garcia nel debuttare il ruolo della Lady fa il passo più lungo della gamba. La voce è bella, devo riconoscerlo, ma non basta quando gli acuti sono tutti forzati, la zona centrale non rifinita e ben proiettata, la recitazione imbarazzante; in tutto ciò non è certo stata aiutata né dal regista né tantomeno dal direttore. Stefan Kocan, anche se vanta carriera internazionale, è stato un Banco inappropriato per voce opaca ed ingolata da rasentare l’imbarazzo. Il migliore della serata è stato Stefano Secco che nel IV atto ha fornito prova almeno di professionalità ed impegno cantando l’aria con canoni accettabili, voce molto bella e nobiltà d’accenti. Il resto della locandina si attestava su una dignitosa esibizione, mentre il Coro, diretto da Bruno Casoni, ha fornito prova di ottima preparazione e i suoi interventi meritevoli di plauso. Al termine qualche isolato dissenso soffocato da applausi contenuti.

RIGOLETTO – IL TROVATORE – LA TRAVIATA [William Fratti] Piacenza, 6, 8 e 10 aprile 2013.
Tra fischi, disapprovazioni, qualche tiepido applauso e solo un vero e pieno elogio, si conclude la Stagione Lirica 2012-2013 del Teatro Municipale di Piacenza, con le messinscene di Rigoletto, Il trovatore e La traviata firmate da Cristina Mazzavillani Muti. Gli spettacoli della trilogia popolare di Giuseppe Verdi non piacciono al pubblico piacentino e le ragioni sono molteplici.
Prima di tutto a fare infuriare i melomani e gli appassionati intervenuti è l’utilizzo dei microfoni che, per spiegarlo con le parole della Mazzavillani Muti, “è una scelta registica funzionale a una spazializzazione dei suoni”. Purtroppo sono in pochi a credere a queste parole, ma senza prendere alcuna posizione in merito è doveroso segnalare che l’amplificazione, nei teatri d’opera, è assolutamente inaccettabile; inoltre l’esperimento della spazializzazione dei suoni, se vero, non è ben riuscito, sortendo in alcuni casi effetti d’eco fastidiosi, in altri un’esagerazione inverosimile delle voci; infine, se invece si è voluto amplificare nascondendosi dietro il percorso spaziale dei suoni, allora tutto ciò diventa inaudito e vergognoso. Alvise Vidolin, curatore del sound design, sostiene che “la musica è artificio e come tale richiede di poter trasformare a piacimento gli elementi che la compongono e quindi anche lo spazio deve essere manipolabile: esso è diventato la quarta dimensione della musica”. Parole che, ad un’analisi più approfondita, appaiono vuote, poiché la realtà è tutt’altra: è lo spazio ad avere le tre dimensioni ed è il tempo, secondo il modello di Einstein, a divenirne la quarta. Il suono, essendo la sensazione uditiva di una vibrazione di un corpo in oscillazione, accade all’interno dello spazio; come può dunque lo spazio essere una dimensione della musica? Piuttosto è vero il contrario.
L’allestimento dei tre titoli verdiani, per cui la regista si avvale della collaborazione di Vincent Longuemare, con scene di Italo Grassi (Rigoletto, La traviata), visual design di Paolo Miccichè e immagini fotografiche di Enrico Fedrigoli (Il trovatore) e costumi di Alessandro Lai, è efficiente e funzionale e avrebbe potuto sortire un buon effetto se non fosse stato screditato, oltre che dall’utilizzo dei microfoni, da numerose soluzioni poco felici che, sommate tra loro, hanno contribuito al grave insuccesso della produzione. Ad esempio la messincena di Rigoletto, altamente evocativa – da segnalare le bellissime luci di taglio di Longuemare – confonde le idee con un terzo atto orientato al realismo; inoltre il protagonista non ha alcun segno di difformità; e perché deve spintonare Giovanna contro al muro? e perché Gilda non si traveste da uomo nel finale? Come fanno a confonderla per un “mendico”? Ne La traviata l’uso degli specchi, oltre a essere poco originale, poiché già utilizzato in maniere più o meno simili da molti altri registi, infastidisce il pubblico, arrivando a scene esilaranti in cui il continuo roteare di questi, abbinato al canto della protagonista, pare diventare la sirena di un mezzo del soccorso pubblico; per non parlare di Violetta che scrive “a lui” senza carta e penna; o Alfredo, che prima scopre che “ell’è alla festa!” senza leggere alcun biglietto, poi paga i servizi della sua amata lanciandole la giacca in faccia; o Flora e il Marchese, le cui mani non vengono lette da alcuno (il coro risiede nei palchi di proscenio); o Germont, che ha un trucco da apparire più giovane del figlio. Anche le coreografie di Catherine Pantigny sono in parte fuori luogo: la danza contemporanea e il teatro danza non si adattano bene a tutti i momenti musicali coreografati; soprattutto si cede a violenza gratuita, poco elegante e per nulla filologica, durante il coro dei mattadori. Ne Il trovatore le proiezioni si muovono così velocemente da far venire la nausea a molti spettatori e le immagini di Fedrigoli vogliono gli zingari allocati nei pressi di un centro industriale; ma anche in questo caso la poca originalità non ha alcun valore; inoltre, come mai Leonora prima scompare nell’acqua del mare, poi si appressa a salvare Manrico scalza ed in sottoveste? Fortunatamente devono nuovamente essere messe in evidenza le ottime luci di Longuemare, che talvolta fa apparire i personaggi sospesi all’interno delle immagini.
Altro motivo dell’insuccesso è la direzione soporifera di Nicola Paszkowski sul podio dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini. La mancanza di colori, accenti e sfumature rende tutto molto piatto, inoltre l’eccessiva lentezza obbliga i cantanti a prendere lunghissimi fiati o a respirare in punti non troppo opportuni. Le pagine riuscite positivamente, in cui il direttore ha saputo trasmettere qualche emozione, sono “Amami Alfredo” e “Oh, infamia orribile”. Molto buona è invece la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza guidato dall’abile Corrado Casati. Solo “Squilli, echeggi” non è riuscito alla perfezione, ma presumibilmente gli artisti non erano in grado di visualizzare chiaramente il direttore a causa del buio e delle proiezioni.
Sul fronte vocale il solo interprete ad aver dimostrato di essere all’altezza del ruolo – ed il solo ad avere ottenuto una vera e propria ovazione – è Simone Piazzola, che già aveva emozionato il pubblico piacentino nei panni di Germont lo scorso anno. Addirittura sa approfittare dei lunghi tempi di Paszkowski per appoggiare ancor meglio la voce, creandosi delle situazioni in cui può sfoggiare i suoi bellissimi pianissimi all’interno di lunghe forcelle. Il fraseggio è sempre elegante ed espressivo. Il personaggio dotato dello spessore di un artista navigato.
Gli altri cantanti, ognuno coi propri pregi e difetti, non escono dalla media: compiono il loro dovere e vengono accolti con ben poco entusiasmo.
Il solo a subire le ire del loggione è il Rigoletto di Francesco Landolfi, forse perché dà alla parte degli accenti così marcati e veristi da sembrare Compare Alfio. Rosa Feola è una Gilda dalla buona intonazione, ma con voce piccola, acuti esili e fraseggio povero. Giordano Lucà è un Duca dalla vocalità chiara e limpida, ma con un vibrato eccessivo e scarso negli accenti.
Monica Tarone, che dopo l’aria di primo atto è incomprensibilmente accolta come una primadonna degli anni d’oro della lirica, purtroppo non possiede l’adeguato spessore vocale per affrontare correttamente il ruolo di Violetta: le note basse non si sentono e molti acuti, a causa di una tessitura tutt’altro che leggera, sono tirati. Traviata non è un Mi bemolle. Si vuole continuare a strappare applausi al pubblico con una sola nota – tra l’altro riuscita neppure benissimo – o è forse arrivato il momento di ridare un certo peso a questo ruolo? Giuseppe Verdi ne sarebbe certamente molto felice. Davide Giusti è un Alfredo che non va molto oltre la media, ma la voce morbida e intonata è da riascoltare ed il personaggio è abbastanza convincente.
Il Manrico di Luciano Ganci è certamente dotato di vocalità importante e buono squillo, ma non riesce a reggere né l’intonazione, né la lunghezza della parte. Anna Kasyan è una Leonora elegantissima, soprattutto nei painissimi e nell’uso dei colori, ma la voce non è molto possente, le agilità sono pachidermiche e in quarto atto arriva evidentemente molto stanca. Alessandro Luongo è certamente un buon Conte di Luna ma, forse a causa di regia e direzione, non riesce a dare quanto dimostrato di possedere in precedenti spettacoli in ruoli abbastanza similari. Tea Demurishvili torna ad interpretare il ruolo di Azucena per la quarta volta nelle Terre di Verdi (Parma 2001, Busseto 2005, Vigoleno 2007), ma non riesce a riscuotere lo stesso successo delle passate edizioni: la voce si è molto appesantita ed ha perso molto della naturale morbidezza di cui era dotata.
Luca Dall’Amico è uno Sparafucile corretto, ma poco imponente e un Ferrando molto statico e scarsamente duttile, molto piatto nella celebre “Abbietta zingara”. Clara Calanna è dotata di bella voce brunita, ma la sua Maddalena non va oltre la lettura dello spartito. Isabel De Paoli è più adeguata come Giovanna che come Flora ed è in difficoltà negli acuti di Ines. Daniel Giulianini potrebbe essere un efficace Monterone, ma l’amplificazione non rende possibile esprimere opinioni. Donato Di Gioia è opportuno sia come Marullo, sia come Douphol. Giorgio Trucco non è troppo preciso nell’intonazione di Borsa, Gastone e Ruiz. Claudio Levantino sa essere un buon Ceprano e un altrettanto valido Marchese. Antonella Carpenito è meglio come Contessa di Ceprano che come Annina. Yelizaveta Milovzorova è un buon paggio e Federico Benetti è un dottore abbastanza centrato.

UN FLAUTO MAGICO [Lukas Franceschini] Verona, 11 aprile 2013.
Al Teatro Ristori di Verona sono state allestite due recite di Un flauto magico, spettacolo ideato da Peter Brook nel 2010 al Théâtre des Bouffes du Nord in coproduzione con molti altri teatri internazionali, al quale nel 2011 fu attribuito il Premio Molière per il Teatro musicale.
Trattasi di uno spettacolo di musica e recitazione dall’opera Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart liberamente adattato da Peter Brook, Franck Krawczyk e Marie-Hélène Estienne. Gli autori sintetizzano le vicende narrate nell’opera mozartiana in un concentrato di circa novantacinque minuti con accompagnamento di pianoforte, posto sul palcoscenico, tuttavia dovendo escludere molti aspetti della complessa drammaturgia ideata nell’originale. Il risultato nel suo complesso è al di sotto le attese. E’ sconcertante leggere l’intervista a Brook ove, un artista di tale rango, afferma che nutre avversione nei confronti dell’opera lirica una forma oggi troppo stereotipata. Dunque un nuovo metodo di lavoro che si basa su tre condizioni: la totale libertà di modificare, riorganizzare sia partitura sia libretto, la scrittura dei cantanti, aver sempre a disposizione la stessa compagnia, collocando musica e cantanti sul palcoscenico senza buca orchestrale, provare lo spettacolo per tre mesi. Tali pretese potrebbero essere anche legittime, tuttavia quando s’intraprende un lavoro “nuovo”, prendendo invece come denominatore un capolavoro dell’opera lirica con volontà di reinterpretarlo, modificarlo, aggiornarlo, e nel pieno rispetto dell’autore, credo che l’affermazione sia una contraddizione. Se Mozart avesse voluto attuare tali modifiche alle sue partiture, lo avrebbe fatto lui stesso, non lo fece in parte perché non ne ebbe il tempo (morì giovane), e probabilmente non era nelle sue intenzioni, non lo sappiamo. Altri compositori lo fecero, ad esempio Rossini e Verdi, oggi siamo a conoscenza delle diverse partiture e rifacimenti delle stesse opere. Pertanto se il sig. Brook vuole operare nel teatro musicale a suo piacimento, perché non si fa comporre un’opera nuova? Siamo sicuri che Mozart apprezzerebbe tale riduzione del suo lavoro? Siamo sicuri che l’operazione sia nel pieno rispetto della musica? Siamo sicuri che eliminando questa o quella parte si rende l’opera più adatta ai giorni nostri? A tutti questi quesiti io dico no! E non mi ritengo un conservatore, tutt’altro, ma l’opera lirica è stata creata in un determinato periodo e gode dell’influenza, del costume e della prassi di quel tempo. Riproporla in maniera diversa costituisce solamente eccentrica personalità dei registi che oggi si creano inventori di nuovi stili perché il vecchio non può stare al passo con il tempo che ovviamente è mutato. Quali sono poi le convenzioni accumulate dall’opera nel corso dei secoli? Paradossalmente avrebbe dunque senso chiamare i migliori pittori di oggi e far loro ridipingere la Cappella Sistina, ormai ferma da secoli a quel tipo di pittura.
Altro elemento che rende questa produzione sommaria è l’aver eleminato la compagine orchestrale ed aver eseguito la riduzione al pianoforte. L’orchestra è un elemento imprescindibile nell’opera di Mozart, e non solo, e la scelta dello strumento solistico può essere solo considerato in ragione di costi, ma che qui non trova spazio in virtù dei molteplici teatri che producono lo spettacolo e il budget non certo irrisorio.
Lo spettacolo che ci ha proposto Peter Brook è anche interessante ma del tutto banale, molto somigliante a quelle aberranti riduzioni dei melodrammi che si attuano per le scuole in forma di linguaggio didattico. La recitazione degli attori è pertinente ma resto perplesso che per realizzare una produzione così minimalista siano stati necessari tre mesi di prove, abbiamo assistito a spettacolo molto superiori con gestazioni molto minori, anche se è doveroso rilevare che oggi nei teatri d’opera le prove sono ridotte all’osso e questo oltre ad essere negativo per una buona realizzazione è evidente poi nell’esecuzione.
La scena è costituita da pochi elementi rappresentati da canne e non vi è nulla di particolare, i costumi piuttosto anonimi. Abbiamo avuto l’ottima partecipazione di un valente pianista Vincent Planès. Dei cantanti non mi sembra il caso di parlare tanto era scadente la loro esibizione, e mi sorprende che si sia potuto raggruppare una compagnia più appropriata dal punto di vista vocale la quale passava in secondo piano rispetto alla recitazione, ma questo modo di lavorare non è teatro d’opera ma teatro di prosa. Al termine ovazioni da parte del pubblico che esauriva il piccolo teatro veronese, probabilmente chi scrive è antico e ancorato a diverse concezioni del teatro d’opera e questa rilettura non l’ha proprio apprezzata.

DON CARLO [William Fratti] Torino, 14 e 16 aprile 2013.
In occasione dei festeggiamenti del quarantesimo anniversario della riapertura, il Teatro Regio di Torino punta su un cavallo vincente, con la messinscena di Don Carlo di Giuseppe Verdi nell’allestimento di Hugo De Ana e la direzione di Gianandrea Noseda.
Indubbiamente lo spettacolo del regista argentino è uno dei migliori in circolazione, sia per la qualità di scenografie e costumi, sia per l’aspetto tradizionale ma al contempo moderno e altamente tecnologico, sia per il gusto teatrale e la sapienza con cui sono curati tutti i dettagli e la gestualità di ogni persona presente in palcoscenico, sia per l’altissima attenzione alla filologia e ad ogni singola parola del libretto.
Gianandrea Noseda guida la valida Orchestra del Teatro Regio con fare esperto e sicuro, prodigandosi in una direzione ricchissima di colori e sfumature, soprattutto negli strumenti a fiato, importantissimi nell’organico strumentale di questo capolavoro verdiano. Il Maestro milanese sa far dialogare buca e palcoscenico creando momenti di alta intensità emotiva in perfetta sintonia con il teatro del compositore delle Roncole.
Nello spettacolo di domenica 14 aprile, Ramon Vargas veste i panni del protagonista e fin dalla prima romanza fa sentire pregi e difetti della sua performance, che purtroppo risulta essere di livello inferiore rispetto il suo solito. La morbidezza delle note centrali, dopo il passaggio all’acuto, lascia il passo ad un’emissione tirata ed il risultato non è propriamente piacevole.
Svetlana Kasyan sostituisce l’indisposta Barbara Frittoli, ma non ha le doti né la stoffa necessarie ad affrontare la parte di Elisabetta. Il suo timbro è molto interessante e pare possedere una vocalità importante, ma la tecnica è alquanto approssimativa. È discontinua, a tratti si indurisce e talvolta perde l’intonazione.
Ildar Abdrazakov, nel ruolo di Filippo II, ha tutto lo spessore del vero cantante verdiano, musicalissimo, attento alla purezza del suono e all’uso della parola, nonché fraseggiatore abilissimo. Durante il finale centrale irrompe con la sua presenza scenica, forte e autorevole, rendendo un personaggio molto intenso e si prodiga in un terzo atto ricchissimo di colori e di accenti, in cui emoziona, tra le altre cose, per il sapiente uso dei pianissimi.
Ludovic Tézier è un eccellente Marchese di Posa, in possesso di una linea di canto molto morbida ed omogenea, con una vocalità di una certa consistenza utilissima a scene di forte impatto come la doppia aria della morte, ma anche perfettamente in grado di saper alleggerire dove occorre, risultando dunque musicale e centrato anche nella temibile romanza “Carlo, ch’è sol il nostro amore”.
Daniela Barcellona è indiscutibilmente una grande artista e professionista e, pur trattandosi di un debutto, dona al personaggio di Eboli una grinta fuori dall’ordinario. Purtroppo il risultato in termini vocali non è altrettanto felice e nonostante la sua ottima preparazione tecnica non riesce a evitare lo stesso grosso errore commesso da molte sue colleghe belcantiste prima di lei. La cantante triestina affronta il difficile ruolo appesantendo la propria voce, con la conseguenza di schiacciare molte agilità – quando invece esse risultano essere solitamente uno dei suoi punti forti – e di forzare negli acuti, che dunque diventano corti e tiratissimi.
Marco Spotti è un eccellente Inquisitore, sia nell’interpretazione – alquanto realistica – sia nella voce, da vero basso profondo, ma senza rinunciare alla bellezza del cantabile e alla sicurezza delle note più alte.
Roberto Tagliavini è un ottimo frate e rende un giusto omaggio alla bellissima aria a lui dedicata “Ei voleva regnare sul mondo”. Sonia Ciani è un Tebaldo un po’ stiracchiato. Erika Grimaldi è una corretta ed efficace voce dal cielo, ben intonata e ben salda negli acuti. Dario Prola (14 aprile), Alejandro Escobar (16 aprile) e Luca Casalin sono adeguati nelle parti del conte di Lerma e dell’araldo reale. Più opportuni nella recita del 16 che in quella del 14 i deputati fiamminghi, interpretati da Fabrizio Beggi, Scott Johnson, Federico Sacchi, Riccardo Mattiotto, Franco Rizzo, Marco Sportelli.
Nello spettacolo di martedì 16 aprile il protagonista è interpretato da Hugh Smith, che all’ultimo minuto sostituisce il nome in locandina di Alex Vicens il quale, a sua volta, subentrava al precedentemente annunciato Roberto De Biasio. Il tenore americano ha tanta voce e bella, ma sembra non sappia dove metterla. Oltretutto gli acuti sono indietro.
Elisabetta è nuovamente Svetlana Kasyan, che si presenta più sicura e più intonata.
Filippo II è Giacomo Prestia, la cui performance risulta essere ancora migliore rispetto il recente Don Carlo modenese e piacentino, forse complice una direzione decisamente superiore.
Rodrigo è Dalibor Jenis. Voce squillante, accento verdiano, fraseggio espressivo.
Eboli è Anna Maria Chiuri, vocalità molto morbida, anche negli acuti più estremi, linea di canto decisamente omogenea, piani e pianissimi particolarmente eleganti, timbro tipico da mezzosoprano verdiano. Solitamente dotata di emissione potente e voluminosa, stranamente, durante la recita in oggetto, in alcuni momenti risulta leggermente coperta dal peso orchestrale.
Il grande Inquisitore è Aleksandr Vinogradov, toccante ed intenso nell’interpretazione, ottimo nella resa vocale, tanto nei gravi, quanto nei centri e negli acuti.
Molto buona è la prova del coro diretto da Claudio Fenoglio.

NORMA [Lukas Franceschini] Bologna, 18 aprile 2013.
Il capolavoro di Vincenzo Bellini, Norma, ritorna nella sala del Teatro Comunale Bologna dopo solo un lustro dall’ultima edizione, e l’interesse principale del titolo si focalizzava sul debutto di Mariella Devia nel ruolo della protagonista e sulla concertazione di Michele Mariotti direttore principale della Fondazione bolognese.
È superfluo rilevare quanto il titolo sia uno degli apici, non solo della produzione del compositore catanese, ma dell’intero panorama operistico ottocentesco. Norma fu clamorosamente fischiata alla prima rappresentazione il 26 dicembre 1831 al Teatro alla Scala, tuttavia dopo l’infelice esordio s’impose come vertice musicali del secolo e restò presente nel repertorio classico dei teatri, attirando oltre ad un grande consenso di pubblico e di critica, anche l’interesse di numerose interpreti femminili che identificarono nel norma 1ruolo un punto d’interpretazione musicale irrinunciabile.
Ecco dunque il motivo di questa produzione: Mariella Devia, una delle più grandi cantanti del panorama internazionale, ha accettato di interpretare il ruolo di Norma. In precedenza in molte interviste aveva sempre affermato che non l’avrebbe mai cantata, anche se le offerte furono numerose. Si limitò in sede concertistica al duetto dell’atto II con Adalgisa (lo esegui anche a Verona con Sonia Ganassi) e probabilmente alla grande aria e cabaletta del I atto. Vocalmente Norma non è il ruolo adatto alla signora Devia in particolar modo per l’accento e lo spessore, la quale ha fornito prova di essere grande cantane belliniana in Puritani, Capuleti e Sonnambula. Pertanto questo debutto è da considerarsi, usando un termine rossiniano, come un “péché de vieillesse” in parte legittimo ma non certo da ascrivere ai migliori momenti della cantante. Non è possibile affermare che la Devia oggi, dopo oltre quarant’anni di carriera, sia nel periodo più aulico della sua arte, tuttavia ella mantiene una conservazione dei mezzi rasente all’eccezionalità considerato il repertorio che affronta e non dimentico che ci troviamo al cospetto di un artista di primordine. La scrittura vocale di Norma impone all’esecutrice il possesso di mezzi non comuni soprattutto nel registro medio e grave, un perspicace accento e appropriato colore nel recitativo. Queste caratteristiche non sono mai state tipiche del canto della signora Devia, infatti, la cronologia del repertorio dimostra il prodigioso canto in ruoli peculiari opposti. Pertanto affrontare una parte di per se non adatta alle proprie corde e in aggiunta nella parte conclusiva della carriera, termine che non vorrei fosse interpretato come offensivo, lascia spazio solamente allo sfizio di aver cantato il ruolo. Oltremodo la voce comincia a risentire dell’usura e i fiati non sono più cosi prodigiosi come un tempo, ma il vero punto mancante è il recitativo cantato ove per sua natura la cantante non ha mai trovato terreno fertile. Se momenti poco riusciti sono stati l’esordio “Sediziose voci” e “Dormono entrambi” non sono mancate scene più riuscite quali “Mira o Norma” e l’aria finale ove il manierismo e in parte la pateticità l’hanno maggiormente agevolata. Anche se delude nella cabaletta “Ah bello a me ritorna” per incisività e fraseggio, non è possibile non ammirare la volontà ferrea e l’assoluta tenacia di riuscire con i suoi mezzi nel ruolo e questo le fa molto onore, denotando anche professionalità, noi accettiamo, come per altre cantanti, lo sfizio di affrontare questo nuovo titolo, saggiamente in un teatro piccolo e probabilmente unico.
Gli altri cantanti, i quali sono anagraficamente più contenuti della signora, hanno dimostrato che oggigiorno Norma diventa quasi un titolo ineseguibile. Aquiles Machado è messo ancor più a dura prova nell’affrontare un ruolo da baritenore poiché la sua vera natura sarebbe di tenore lirico leggero. La tecnica non precisa contribuisce a far sentire una voce gonfiata, dall’inesistente fraseggio e con una zona acuta ingolata e traballante. Carmela Remigio era un’Adalgisa piatta ed inferiore alle attese. La voce è molto logorata soprattutto nella zona centrale, il colore insipido e le intenzioni poco risolte. Il basso Sergey Artamonov già nella sortita esibiva una voce non seducente e con gravi problemi d’intonazione, pertanto la sua performance non lasciava traccia efficace se non aver eseguito la cabaletta “Norma il predisse” composta da Richard Wagner in luogo di “Ah dal Tebro”. Tale operazione, credo voluta dal direttore, merita esecuzione qualora ci si trovasse di fronte ad un basso fuoriclasse, ma in simile contesto non se ne sentiva il bisogno. Completavano la locandina Alena Sautier e Gianluca Floris.
Michele Mariotti cercava ed otteneva un bel suono ricercato e qualche raffinatezza dall’Orchestra del Comunale, la quale lo assecondava con perizia, ma in questo manierismo era sovente lento e poco ispirato nella drammaturgia dell’opera. Non è del tutto chiaro se la scelta di taluni tempi sia stato mezzo di aiuto ai cantanti o peggio ancora voler imprimere un’eccessiva tragicità allo spartito, aspetto che non era sempre preciso nell’insieme. Lo abbiamo ascoltato in altro repertorio molto più sicuro e apprezzato.
Lo spettacolo di Federico Tiezzi pur nella sua classica collocazione, dimostrava ormai i suoi anni sia come impostazione sia come sviluppo d’idee alquanto superate e poco illuminate, come quella di rendere Oroveso un cieco claudicante e quella sorta di tableau vivant creati dai mimi. I costumi di Giovanna Buzzi erano ancora molto belli, le scene di Pier Paolo Bisleri essenziali ed anonime, i sipari di Mario Schifano poco seducenti.
Al termine molti applausi, ho assistito alla terza recita, con ovazioni per Mariella Devia, che considero più un tributo all’artista che il merito della performance.

ATTILA [Simone Ricci] Roma, 20 aprile 2013.
L’Attila di Giuseppe Verdi è una scelta importante e impegnativa per festeggiare i duecento anni dalla nascita del compositore, un dramma ingiustamente bollato come “una delle peggiori opere” del bussetano.
Il limite di Attila è quello di essere spesso considerato, insieme all’Alzira, una delle peggiori opere di Giuseppe Verdi. Ma è davvero così? Il merito dell’Associazione Alfa Musicorum Convivium è stato quello di inserire due serate dedicate a questo dramma lirico nel proprio cartellone della stagione 2013 presso il Teatro Don Bosco di Roma: un impegno che va riconosciuto e apprezzato, nonostante l’allestimento non sia dei più semplici. La sala non completamente piena non va interpretata come una sconfitta, Verdi non è solamente quello della Traviata o dell’Aida, ma anche quello degli “anni di galera” e l’Attila ne è una preziosa testimonianza. La serata a cui ho assistito, quella del 20 aprile, è scivolata via con qualche leggero inciampo, ma il cast vocale è stato all’altezza di un lavoro non così semplice come potrebbe sembrare vista la sua durata.
I quattro protagonisti principali si sono ben comportati. Il ruolo del titolo è stato cantato da Alessio Magnaguagno: quest’ultimo non ha avuto paura di affrontare gli acuti che Verdi ha inflitto al Re degli Unni, ho notato anche una buona pertinenza drammaturgica e una discreta chiarezza della dizione. Convincente, poi, è stato il finale del primo atto, quello Spirti, fermate che è un tipico crescendo romantico ed emozionante della musica verdiana. Un inciampo nell’ultimo finale non ha comunque pregiudicato la performance, applaudita con convinzione. Fausta Ciceroni ha dominato con scioltezza la complessa tessitura della sua parte, quella di Odabella: il colore veniva modulato in modo intelligente per far capire e apprezzare al pubblico la diversità di stati d’animo del personaggio, una appropriata via di mezzo tra il bellicoso e il passionale.
L’impegno non semplice che viene imposto dal personaggio di Ezio ha trovato in Mario Tavolacci un interprete adeguato. La voce è stata limpida e controllata, proprio quello di cui c’era bisogno per disegnare tutto il complicato stato d’animo interiore del console romano. I duetti, poi, sono stati il pezzo forte della sua parte da baritono. Sono stato favorevolmente impressionato anche da Nunzio Fazzini, un Foresto appassionato, energico e con una tenuta vocale molto costante. L’Uldino di Daniele Antonelli è sembrato partire un po’ a freddo, ma ha poi saputo recuperare e affiancare in maniera adeguata e con ferocia Attila. Altrettanto può dirsi del Papa Leone I di Carlo Alberto Gioja, un ruolo che non può certo definirsi marginale.
Settimo personaggio di quest’opera è il coro, la cui presenza è strategica e fondamentale come e addirittura più di altri lavori verdiani. I cori Mirabiles Cantores e Querce del Tasso hanno convissuto per rendere al meglio questa prestazione: qualche incertezza si è potuta notare al momento del sorgere del sole sulla laguna veneta, ma poi i due cori sono stati all’altezza della situazione, cercando di rendere al meglio espressività e corposità. La direzione di Marco Boido aveva qualche pecca in determinate situazioni: queste letture devono far capire come nel 1846 Verdi ci dava davvero dentro quando bisognava accendere gli spiriti risorgimentali, senza dimenticare l’orchestrazione raffinata e romantica (d’altronde mancano solo cinque anni a Rigoletto).
Ebbene, la delicatezza del breve preludio e la già citata alba in laguna sono stati resi in maniera efficace, forse mancava un pizzico di pepe nei finali, in particolare l’ultimo, rallentato all’estremo. L’orchestra Eptafon si è comportata di conseguenza, ma l’impegno e la dedizione sono innegabili. La regia di Mary Ferrara e le scene di Anna Maria Recchia hanno tentato di amalgamare tutti gli stati d’animo e le situazioni dei sei personaggi principali e del coro, senza mai strafare: gli sfondi erano rappresentati da proiezioni sulla parete del teatro, forse non proprio il massimo della resa, ma anche l’essenzialità aiuta ad apprezzare meglio l’opera verdiana in tutto il suo spessore, in assenza di suggestioni eccessive.
L’inizio della rappresentazione è stato preceduto dall’introduzione della dottoressa Gabriella Minarini dell’Atelier della Voce di Firenze, un breve racconto storico-teatrale per far capire meglio al pubblico l’excursus di Attila. Dal 1846 a oggi questo dramma ha conosciuto fortune alterne, ma non bisogna dimenticarlo: ci sono certo gli errori di un compositore di appena trentadue anni, ma anche dei passaggi significativi che fanno presagire i capolavori futuri, un’opera breve e sanguigna, realizzata in poco tempo per onorare i contratti teatrali, ma anche godibile e fiammeggiante. La speranza è che essa sia presente in molti altri cartelloni anche dopo il 2013, anno del bicentenario verdiano.

OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO [Lukas Franceschini] Milano, 23 aprile 2013.
Nella stagione del Bicentenario VW non poteva mancare alla Scala la prima opera di Verdi, Oberto conte di San Bonifacio, la quale segna l’inizio del percorso artistico di Verdi proprio nel teatro milanese il 17 novembre 1839.
Sulla genesi dell’opera non ci sono notizie chiare né tantomeno tesi che possono avvallare molteplici ricostruzioni. Stando alle notizie stampate sul programma di sala a firma di Claudio Toscani e Pierluigi Petrobelli, l’Oberto è una sorta di rifacimento di un’altra opera mai rappresentata dal titolo Rocester, secondo Charles Osborne i titoli non sono compatibili tra loro e si spinge ad affermare che le due opere furono composte in periodi e stesure differenti. Più oculato è Julian Budden che prende in considerazione tutte le varianti del caso, rilevando che Verdi nelle lettere scritte in quel periodo mai scrisse il titolo melodramma ma usò sempre il termine “la mia opera” e aggiunge che di nessuna opera del tempo si poteva dire che veramente esistesse fino a quando non fosse stata rappresentata. Ciò è assolutamente vero, ma non possiamo non considerare che un’opera di Verdi, pare appunto Rocester, doveva essere rappresentata al Teatro dei Filodrammatici nientemeno con Giuseppina Strepponi, Giorgio Ronconi e Napoleone Moriani, poi annullata per malattia di quest’ultimo. Fu la stessa Strepponi, assieme ai colleghi (tutti divennero esecutori verdiani, lei addirittura moglie) a segnalare il nome di Verdi all’impresario (oggi lo denomineremo sovrintendente) della Scala Bartolomeo Marelli, avendone apprezzate le qualità musicali, seppur del principiante. Verdi ottiene dunque la prima scrittura, era intanto rientrato nelle terre natie, sposatosi con Margherita Barezzi e aveva anche qualche chance, poi sfumata, di poter rappresentare a Parma l’opera in oggetto. L’enigma non è certo risolto, ma molto probabilmente parti musicali ed abbozzi del Rocester confluirono nell’Oberto, anche se con librettista diverso, la prima ebbe i versi di un certo Piazza, la seconda di Temistocle Solera. Il genio verdiano, che oggi comunemente si conosce, è in parte riscontrabile in Oberto, ma è altrettanto indicativo che si tratta di un primo lavoro, e credo per nessun compositore si possa affermare che il primo spartito identifichi pienamente l’arte espressa in seguito. Altrettanto approssimativo sarebbe parlare di stile verdiano, in quel perdio il compositore cercava la sua strada e non dimentichiamo che durante il soggiorno milanese studiava spartiti di Donizetti, Mercadante, e coevi, conosceva gli stili e le mode musicali del tempo e sicuramente pur con una dose propria di originalità si sarà attenuto a questi concetti che andavano per la maggiore nei teatri milanesi: Scala, Carcano e Canobbiana, senza tralasciare il Filodrammatici frequentato dalla buona società locale e nel quale lui stesso diresse spartiti altrui. Il successo, non trionfo, dell’opera fu buono, infatti, dopo la prima seguirono tredici repliche e l’inizio di una carriera musicale tra le più straordinarie dell’Ottocento.
Alla Scala fino ad oggi vi sono state solamente altre tre edizioni, nel 1840, nel 1951, per le celebrazioni del 50° della morte, e nel 2002 per il Progetto giovani dell’Accademia. Oberto è un’opera interessante ma superata da molti altri titoli, significativa la rara riproposizione, perché allora non riutilizzare un allestimento già esistente ma attivarsi in una nuova produzione che avrà probabilmente poche riprese? Il nuovo spettacolo era firmato da Mario Martone che non bissa il successo realizzato qualche anno addietro con Cavalleria e Pagliacci. Martone vede in Oberto i mali del nostro paese rappresentato in massima dalla criminalità organizzata con le sanguinose guerre tra famiglie, ove la donna è sovente mercificata a patto di scambio e combatte una lotta parallela impari. Tali organizzazioni, sappiamo dai media, oggi sono mimetizzate furbescamente anche nel tessuto della società dell’Italia settentrionale, pertanto il regista intravede in una lettura molto personale un medioevo contemporaneo nella lotta di potere tra clan e volendo trovare nel Verdi debuttante l’inconscio profondo di vicende sempre attuali. L’analisi è piuttosto bizzarra, anche se ha delle attinenze, tuttavia il parallelo proposto è alquanto zoppicante perché in primis non è detto che bisogna sempre attualizzare la vicenda, fenomeno ormai logoro ed abusato, in secondo luogo le fazioni dei signori che si facevano guerra nel medioevo, erano ben diversi dalla criminalità organizzata odierna che attua i suoi interessi, traffici e malaffari in modo del tutto differenti dalla tirannia di Ezzelino da Romano, figura non presente nell’opera, ma sappiano personaggio esterno di rilievo. Tale analisi, ripeto molto discutibile, sia poi attualizzata visivamente ispirandosi ad un celebre film “Scarface” di Brian de Palma è ancora più inverosimile quando banale. La scena di Sergio Tramonti non è per niente originale ricopiando quella del film, i costumi di Ursula Patzak altrettanto. La scena perché in definitiva è sempre quella pacchiana sala della villa del boss del film, e un pizzico di originalità non sarebbe guastato, i costumi ispirati, o copiati si voglia, erano i soliti delle attualizzazioni moderne, ma un costumista dovrebbe anche pensare che un cantante d’opera non è un attore, e in un allestimento possono anche cambiare gli stessi cantanti, e far indossare certi abiti ad alcuni protagonisti di questo spettacolo era sostanzialmente ridicolo. Anche accettando tale impostazione, mancava soprattutto una regia, una focalizzazione dei personaggi, più impegnati a ricalcare nella spavalderia Al Pacino, e nell’erotismo Michelle Pfeiffer, il che lascia il tempo che trova. Il teatro romantico cui s’ispirava Verdi non era certo quello che ha profferto Martone, e la chiave oberto 10psicoanalitica va un po’ oltre al quel mondo sicuramente violento ma impostato diversamente rispetto la mafia e la camorra, la storia è chiara. Alla serata cui ho assistito il pubblico commentava negativamente lo spettacolo, taluni non conoscendo neppure l’ispirazione.
Riccardo Frizza, direttore e concertatore, sapeva mantenere una sostanziale coesione tra buca e palcoscenico. L’orchestra non era al meglio poiché alcune sbavature degli ottoni si sono sentite già nell’overture, ma la lettura del direttore era piuttosto anonima e piatta, non centrando l’obiettivo di valorizzare i due fondamentali aspetti dell’opera: l’intimistica e dolente scena personale che si alternava ad una baldanzosa ed energica vitalità cavalleresca. In tale contesto era impossibile cogliere lo spirito di un’opera giovanile come Oberto, nella quale Verdi s’ispirava, pur con elementi personali, ai precedenti dettami dei compositori coevi.
La locandina presentava nomi di richiamo, ma col senno di poi capiamo ancor più quando sia difficile proporre Verdi oggi. Il protagonista Michele Pertusi si riconfermava nel ruolo in maniera positiva, magari meno spavaldo nel recitativo di come l’avevo sentito anni or sono, ma il fraseggio è eloquente seppur non raffinatissimo, e il personaggio è impostato più sul padre ferito ed inerme che sul conte battagliero all’estremo. Maria Agresta è tra le cantanti più emergenti degli ultimi anni, ma ultimamente, a mio avviso sta improvvisando ruoli che dovrebbe guardare con più attenzione. Uno di questi è appunto Leonora figlia di Oberto. La signora Agresta è un ottimo soprano lirico poco organizzato nella zona centrale, affrontando questo ruolo scritto per un soprano lirico spinto, si percepisce una sostanziale difficoltà nel fraseggio, che sarebbe sorretto da una voce più centrale, e afonia nel settore grave, non secondario. Resta il temperamento della giovane cantante, apprezzabile e una musicalità innata, ma che dovrebbero consigliarle altri ruoli, pur confermandosi in questa produzione la migliore carta.
Aspetto che non si può certo affermare per Sonia Ganassi, alle prese con una parte contraltile troppo pesante per le sue corde, oggigiorno appannate, e con una non efficace propensione nelle agilità. Per alcuni aspetti Fabio Sartori avrebbe anche le possibilità di cantare un buon Riccardo ma questo tenore è monotono di suo, puntuale nella zona acuta, mancando però il senso della frase e il recitativo mai introspettivo ma sempre mezzo forte.

L’ELISIR D’AMORE [Lukas Franceschini] Verona, 30 aprile 2013.
L’Elisir d’amore, melodramma giocoso di Gaetano Donizetti, è stata l’ultima produzione primaverile al Teatro Filarmonico di Verona, in attesa della Stagione Areniana del Centenario, e del completamento della stagione al chiuso il prossimo novembre.
L’Elisir d’amore segna il primo grande trionfo di Gaetano Donizetti nel genere giocoso, il quale debuttò al Teatro della Cannobbiana di Milano il 12 maggio 1832. È una storia semplice ma d’indubbio gusto teatrale: il sempliciotto Nemorino che non riesce a far breccia nel cuore della capricciosa Adina, utilizza tutti gli strumenti come il falso elisir venduto dal ciarlatano Dulcamara, e per avere i soldi si arruola nella compagnia dell’irruente e grossolano Sergente Belcore, suo rivale in amore. Il gioco dei sentimenti è ben costruito su un libretto raffinato di Felice Romani, cui la frizzante musica del bergamasco sposa ritmo e situazioni patetiche con eleganza molto rilevante. Tutto è bene quel che finisce bene, l’amore trionfa, il deluso Belcore troverà altra amante nel mondo, e il furbo Dulcamara si convince che senza il suo “elisir” non si sarebbe arrivati a tale felice conclusione. L’opera non è mai uscita dal repertorio tanto è stato e sarà il favore del pubblico. Inoltre, fu cavallo di battaglia dei più disparati tenori ma tutti i ruoli sono di ampia e felice gratificazione per gli interpreti cui la storia sia del teatro sia del disco ci ha fornito prove superlative.
A Verona è stato ripreso l’allestimento del 2003 di Riccardo Canessa con i costumi di Artemio Cabassi. Una scelta felice considerato il grande successo che lo spettacolo riscuote da un decennio. Canessa, di origine napoletana, ambienta la brillante vicenda in area partenopea prendendo spunto dal tipico presepe locale per trovare con gusto e simpatia le caratteristiche dei personaggi e della variegata schiera di villici e soldati affidandosi alla tipica inventiva locale di collocare nel presepe personaggi a vario titolo. La compagine risulta di efficace teatralità, con quel guizzo meridionale che rende ancor più suggestiva la drammaturgia, colorando situazioni divertentissime, d’effettivo gusto e spassosa vitalità. Artemio Cabassi crea dei costumi di fattura riccamente colorati e di stampo della commedia dell’arte che ben raffigurano l’insieme e la concezione registica.
L’orchestra dell’Arena di Verona era diretta per la prima volta in uno spartito d’opera dal giovane Giacomo Sagripanti, il quale ha fornito prova di grande professionalità e buon ritmo narrativo. Ha concesso, forse, troppi portamenti vocali ai protagonisti, probabilmente dovuto alla ancor iniziale carriera, ma è stato capace di reggere con gusto e brillante brio tutta l’opera. Il coro, diretto da Armando Tasso, ha ben figurato sia vocalmente sia scenicamente.
Alla recita assistita ho trovato un cast variato rispetto la prima. Protagonista era un Francesco Meli in ottima forma, capace di particolari sottigliezze e splendida vocalità, oltre ad essere irreprensibile scenicamente. Ritengo che questo sia il suo repertorio più convincente rispetto i suoi ultimi debutti, e dovrebbe praticarlo con maggiore frequenza, oltremodo ha dovuto bissare l’aria a furor di popolo, anche se si è concesso puntature e portamenti, non previsti, poco stilistici. Di gran pregio e molto raffinata l’Adina di Serena Gamberoni, una cantante che sempre più sta avanzando in una carriera di rilievo raccogliendo ovunque unanimi consensi. Ruvido, sommariamente ingolato e poco espressivo il Belcore di Krum Galabov. Bruno De Simone proponeva il suo classico “ciarlatano” Dulcamara in maniera ineccepibile, autentico deus ex machina della situazione. Egli è dotato di gusto, senso della parola, pregevole sillabato, recitazione teatrale eccellente: in definitiva un ruolo centratissimo e contraccambiato da autentico entusiasmo da parte del pubblico. Brava e puntuale Rosanna Savoia nel ruolo di Giannetta. Teatro quasi gremito, il che è d’auspicio, e caloroso di convinti e meritati applausi al termine.

DON CARLO [William Fratti] Firenze, 8 maggio 2013.
Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, nel pieno della sua crisi economico finanziaria – con un ex presidente che, invece di accorgersi dei seri problemi che si sono sommati negli anni, si è interessato solo ad altro tipo di attività politiche – trova un lieve sollievo nel risparmio prodotto dalla decisione del commissario straordinario Francesco Bianchi di non produrre un nuovo spettacolo per la tanto attesa inaugurazione dell’80° Maggio, ma di rappresentare l’opera in forma di concerto.
Il Maestro Mehta, in palcoscenico con la sua orchestra, è il solito orologio svizzero e anche se non ha un dialogo particolarmente sentito con il cast vocale, né un gusto personale nell’interpretazione dello spartito, sa tirare fuori dalla partitura la verdianità più significativa, come se conoscesse l’intenzione del compositore, l’anima dello stesso Verdi. La pulizia del suono e l’eleganza dell’esecuzione sono i segni distintivi del direttore alla guida dei complessi artistici fiorentini, che trovano il loro apice nella scena dell’autodafé, con un coro, preparato da Lorenzo Fratini, al massimo del suo splendore; eccellente è la resa dei pianissimi nella scena di San Giusto.
Così come Wagner ha aperto la stagione del bicentenario, Verdi è il protagonista del Festival del Maggio Musicale Fiorentino, che raggiunge quest’anno la sua ottantesima edizione. Ma così come per Macbeth, che a giugno sarà rappresentato nella sua versione originale del 1847 nello stesso Teatro della Pergola, vista l’occasione del duecentesimo anniversario della nascita del Cigno di Busseto e la decisione di eseguire Don Carlo in forma concertistica, ci si sarebbe aspettato il ripristino dell’originale parigino del 1867, o piuttosto una delle tante revisioni successive. Invece si è preferita la più tradizionale versione in cinque atti, senza la riapertura di alcun taglio.
Sul fronte vocale si nota una certa ventata di novità, data dalla presenza di alcuni giovani cantanti e da altri che hanno iniziato ad affrontare da poco questo tipo di repertorio. Il solo Grande Inquisitore di Paata Burchuladze esula dal nuovo contesto e pur portando in scena la sua lunga esperienza, lo spettacolo oratorio non gli è certo di aiuto. Il celebre basso saprebbe rendere un personaggio ancora sorprendente, ma il tale esecuzione l’attenzione è orientata alla vocalità, che purtroppo sta subendo in pieno gli effetti della senescenza.
Massimo Giordano, che già da qualche tempo ha iniziato a frequentare ruoli più spinti, esce vincitore dalla performance fiorentina. La sua esecuzione non è certamente memorabile, ma la tecnica la conosce, sa quel che fa e, pur non possedendo il timbro tradizionalmente affidato a Don Carlo, giunge al termine della lunga vicenda senza segni di stanchezza. Non forza mai, non cerca di appesantire, canta sempre con i suoi mezzi e dimostra di essere un gran professionista. In primo atto è abbastanza piatto e poco prodigo di sfumature, ma col procedere dell’opera riesce a tirar fuori un minimo di colore e di fraseggio. Grazie al suo squillo piacevole, nel terzetto con Eboli e Rodrigo, fa la parte del leone. Il ruolo va certamente tenuto in repertorio, ma occorre che l’interprete faccia attenzione a certe vocali dopo il passaggio all’acuto, che spesso risultano essere troppo aperte.
Kristin Lewis ha dalla sua una bella voce, ma il suo modo di cantare, ben poco italiano, non riesce a prodursi nell’eleganza delle sfumature vocali affidate al personaggio di Elisabetta. Gli elementi necessari ci sono più o meno tutti, dalle salde note di petto agli acuti ben sostenuti, dai filati al canto forte, dall’appoggio alla tenuta dei fiati, ma non riesce a metterli tutti insieme in maniera omogenea, mancando dunque di morbidezza e spesso anche di corposità nella zona centrale. Il alcuni punti sembra addirittura lasciare completamente la scena ai suoi colleghi. Per non parlare della pessima dizione.
Il Filippo II di Dmitry Beloselskiy è invece una bellissima scoperta: bel colore, buon fraseggio, interpretazione intensa, vocalità autorevole, personaggio imponente. Considerando l’eccellente prova di secondo e terzo atto, ci si sarebbe aspettati qualcosa di più in “Ella giammai m’amò!”, in cui non mancano il gusto per l’accento e l’espressività verdiana, ma un miglior uso di piani e pianissimi avrebbe certamente sortito un risultato ancora migliore.
Ekaterina Gubanova possiede un bel colore brunito, ma la sua vocalità non è particolarmente indicata alla tessitura del ruolo di Eboli, dove i centri devono essere corposissimi ed in grado di arrivare ben sostenuti al do alto. Pur prodigandosi in una soddisfacente canzone del velo, presenta qualche difficoltà in talune agilità, nonché segni di infossatura in certe note gravi. Nel terzetto ai giardini della regina sembra addirittura non timbrata e si inizia a notare la sua debolezza nel recitativo.
Gabriele Viviani, certamente più adatto ad altro tipo di repertorio, canta correttamente tutte le pagine affidate a Rodrigo, ma non va molto oltre la lettura dello spartito. Manca di spessore e di conseguenza – dovendo cercar corpo – anche di squillo e di fraseggio, altrimenti notati in ruoli non verdiani. Sono poche le belle frasi in cui riesce a uscire con la pienezza della sua vocalità, come ad esempio in “A me il ferro”.
Alexander Tsymbalyuk è un frate con bel colore e facile negli acuti, apparentemente presi da sotto, ma pur puntando su un volume decisamente notevole, si indebolisce nelle note più gravi.
Laura Giordano è un Tebaldo dalla bella voce chiara, limpida e luminosa; Saverio Fiore è musicalissimo e squillante in Lerma e nell’Araldo; Ekaterina Sadovnikova è delicata e soave nella Voce dal cielo. Buona la prova dei deputati fiamminghi interpretati da Andrea Vincenzo Bonsignore, Gianluca Margheri, Italo Proferisce, Alessandro Calamai, Davide Ruberti, Marco Bussi.
Al termine dello spettacolo di mercoledì 8 maggio, applausi per tutti, tranne qualche piccola disapprovazione per il protagonista, ed ovazioni per Zubin Mehta e i complessi artistici del Maggio.

LA TRAVIATA [William Fratti] Zurigo, 11 maggio 2013.
L’Opernhaus di Zurigo ospita uno dei momenti più importanti e attesi della lirica internazionale: l’interpretazione di Diana Damrau del ruolo di Violetta Valery. Il tanto desiderato debutto europeo della Signora del belcanto è una vera festa per il teatro elvetico e le aspettative non sono disattese.
Diana Damrau, vero esempio di perfezione tecnica, esegue la parte in un tripudio di colori e durante “Ah, fors’è lui” si prodiga in una serie di sfumature ben riuscite, con filati raffinatissimi ed emozionanti, note basse ben salde e pronunciate. Nulla da eccepire, come da sua consuetudine, in merito all’eccellenza di acuti, sovracuti, appoggiature e agilità. Molto presumibilmente in primo atto l’attenzione alla purezza del canto non l’aiuta a rendere un personaggio particolarmente sentito, ma la magia accade durante il duetto con Germont, in cui Damrau lascia il passo ad un fraseggio più espressivo. Nella parte conclusiva, dove fortunatamente si assiste all’esecuzione di entrambe le strofe di “Addio del passato”, succede qualcosa per cui si rompe un filato su “Tutto finì”, ma il soprano tedesco sa sostituirlo immediatamente e con perizia con un pianissimo. In conclusione, la resa vocale è perfetta, l’interpretazione del personaggio deve invece maturare con l’esperienza, mentre si nota la mancanza, soprattutto nei recitativi, in particolar modo in primo atto, di uno spessore adeguato al drammatico ruolo verdiano, difetto tipico di chi ha uno strumento più adatto ad altro tipo di repertorio.
Saimir Pirgu è un Alfredo dotato di bellissima voce squillante e colpisce per la resa di un personaggio misurato oltre che per l’esecuzione di belle sfumature ed eleganti mezze voci, soprattutto in “Parigi o cara”. Le sue qualità naturali avrebbero però bisogno di essere sostenute da un miglior uso della tecnica, soprattutto sui fiati. In effetti si nota una certa mancanza di omogeneità tra forti e piani.
Il baritono rumeno George Petean è un Germont corretto, ma non va molto oltre la lettura dello spartito. La voce è abbastanza opaca, sfumature e cromatismi sono quasi assenti ed il personaggio è molto statico.
Buona è la prova di Julia Riley e Olivia Vote nei ruoli di Flora e Annina, mentre adeguati sono gli altri comprimari Boguslaw Bidzinski, Yuriy Murga, Tomasz Slawinski, Noël Vazquez nei panni di Gastone, Douphol, Obigny e Grenvil.
Il Coro dell’Opera di Zurigo diretto da Jürg Hämmerli è invece abbastanza deludente, poiché manca di omogeneità e sia all’inizio, sia durante “Noi siamo zingarelle” va fuori tempo.
Delicata e particolarmente piacevole è la direzione di Keri-Lynn Wilson, che adotta dei tempi un po’ dilatati, ma con un determinato senso interpretativo, mai noiosa né soporifera. La sua è una lettura che sembra lasciare spazio ai sentimenti degli interpreti piuttosto che focalizzarsi su una musicalità più puntuale ma meno personale.
Molto gradevole è l’allestimento firmato da Jürgen Flimm che, con le scene di Claudia Blersch, i costumi di Florence von Gerkan, le luci di Jakob Schlossstein e le coreografie di Katharina Lühr, sa creare uno spettacolo filologico e col giusto abbinamento di modernità e tradizione.
Al termine della serata, applausi per tutti ed ovazioni per Diana Damrau.

FALSTAFF [William Fratti] Zurigo, 12 maggio 2013.
Per la ripresa dello spettacolo di Sven-Eric Bechtolf dell’ultimo capolavoro del genio di Verdi, la Opernhaus Zürich si avvale ancora dell’abilità di Ambrogio Maestri nel ruolo del protagonista. L’“enorme Falstaff” sembra cucito addosso al baritono pavese, non solo per il phisyque du rôle, ma anche per la sapienza con cui sa rendere ogni singolo passaggio del terribile ruolo verdiano. Ciò che più colpisce, nell’interpretazione di Maestri, è l’espressività del fraseggio, la gamma delle sfumature e dei colori, la quantità del volume e la dote di una comicità esilarante ma raffinata, mai eccessiva. La resa vocale è eccellente in “Mondo ladro” e molto buona, seppur non troppo pulita, nel resto dell’opera dove, in diversi recitativi, l’artista perde di morbidezza nell’uso dei piani, delle mezze voci e dei falsetti.
Elena Mosuc debutta il ruolo di Alice e lo fa con la sua consueta attenzione alla purezza del suono, distinguendosi per una tecnica di ferro oltre che per i piacevolissimi passaggi lirici. Va però notato che la sua vocalità, proveniente dal repertorio di coloratura, possiede uno spessore meno accentuato rispetto alle tradizionali esigenze della parte.
Massimo Cavalletti torna al ruolo di Ford con grande consapevolezza, mostrando la luminosità brillante della sua voce, dotata di squillo e ottima proiezione. L’interpretazione intensa e pressoché perfetta di “È sogno o realtà”, in cui si prodiga nell’uso di espressivi accenti verdiani, è davvero emozionante.
Sen Guo è una Nannetta efficacissima, dotata di vocalità molto luminosa e che resta tale anche nei numerosi pianissimi, davvero piacevoli. L’affianca l’altrettanto lucente canto del Fenton di Javier Camarena, che sa distinguersi anche per la resa di un personaggio appositamente innamorato ed impacciato.
Yvonne Naef è dotata di un bellissimo timbro scuro e brunito, ma va notata una certa imperfezione nei legati, che rendono la sua esecuzione poco omogenea. Resta il fatto che la sua Quickly è davvero sopraffina e presumibilmente non si potrebbe interpretare meglio.
Anche la Meg di Judith Schmid si mostra per la sua vocalità particolarmente profonda e per un personaggio ben riuscito.
Michael Laurenz lascia un indelebile segno della sua presenza anche attraverso il breve ruolo di Cajus. La voce è brillante, le mezze voci sono ben eseguite, la recitazione è puntuale. Andrebbe riascoltato in un ruolo comprensivo di cantabili.
Un po’ meno efficaci sono Martin Zysset e Dimitri Pkhaladze nei ruolo di Bardolfo e Pistola.
La direzione di Nello Santi, che si merita le ovazioni ricevute al termine della serata, è precisa, morbida, ben accentuata, anche se sfortunatamente l’orchestra non lo segue così esattamente come dovrebbe. Appena sufficiente è la prova del coro diretto da Ernst Raffelsberger.
Eccellente la resa complessiva dello spettacolo firmato da Sven-Eric Bechtolf, che pur avvalendosi di un allestimento semplicissimo sa interpretare ogni singola nota della partitura verdiana. Le scene sono di Ulrich Senn, i costumi di Marianne Glittenberg, le luci di Jürgen Hoffmann.

IL TRIONFO DI CLELIA [Lukas Franceschini] Bologna, 14 maggio 2013.
Il Teatro Comunale di Bologna festeggia il suo 250° compleanno con la stessa opera che lo inaugurò il 14 maggio 176, Il trionfo di Clelia, composta dal più celeberrimo musicista del momento Christoph Willibald Gluck, e fu festa grande.
Il Teatro fu progettato e realizzato da uno di massimi architetti del tempo Antonio Galli Bibiena, cui non serve altro oltre il nome, tanto è tuttora la sua fama. Lo stesso, inoltre, fu l’artefice delle scenografie dell’opera scelta per l’inaugurazione. E’ interessante leggere nel programma di sala le vicende concernenti il teatro, ad esempio la capacità di posti che al tempo pare fossero 1600 contro i 900 attuali, è evidente che allora le normative per la sicurezza al tempo erano probabilmente inesistenti. Artefice dell’apertura del teatro fu il Conte Luigi Bevilacqua Ariosti, il quale in nome degli “impresari del teatro” prese contatto con Gluck e si accordarono per la commissione. Da allora la dotta città bolognese avrà un rapporto molto stretto con il suo teatro, cui non mancarono momenti di assoluto prestigio con prime esecuzioni. A tal proposito non si può dimenticare che Bologna fu la prima città italiana ad ospitare opere di Richard Wagner, e proprio in un palco del Comunale Giuseppe Verdi, quasi di nascosto, assistette ad una recita de Lohengrin. Non mancarono prime assolute come Le Grand Macabre di Gyorgy Ligeti e Hyperion di Bruno Maderna. Il Teatro Comunale di Bologna fu anche sede del più famoso concerto annullato nell’Italia del ‘900, un concerto che avrebbe dovuto commemorare Giuseppe Martucci e che sarebbe dovuto essere diretto da Arturo Toscanini, all’apice della fama. Toscanini si rifiutò di concertare l’inno fascista, Giovinezza, all’inizio del concerto, per questo fu aggredito con un sonoro schiaffo nelle vicinanze dell’albergo ove soggiornava dalle milizie in camicia nera. Il maestro lasciò Bologna e in seguito l’Italia considerato il clima ostile e vi fece ritorno solo nel 1946 per inaugurare il Teatro alla Scala ricostruito e votare al referendum del 2 giugno. Tale offesa all’uomo e all’arte ebbe un gesto in parte riparatore quando il direttore musicale del Comunale, Riccardo Chailly, propose lo stesso concerto nel 50° anniversario, in ricordo dell’uomo Toscanini intellettuale libero e democratico che non scese mai a compromessi sia come uomo, sia come artista in tutta la sua vita.
Nella stessa data dell’inaugurazione il Teatro Bolognese offre “Il trionfo di Clelia” opera mai più rappresentata dopo l’inaugurazione a Bologna. Qualcuno potrà osservare che se lo spartito è restato nel cassetto fino ad oggi, di gran valore non fu. Tesi sbagliata come principio, inoltre non tutte le opere sono capolavori assoluti e il ricco panorama non consente di realizzare anche alternativamente il numerosissimo elenco delle partiture esistenti. Nel caso specifico ci troviamo di fronte sicuramente ad un lavoro di grande valore, l’autore è rappresentativo, ma rilevo che trattandosi di una partitura pre-riforma suppongo non abbia attirato l’attenzione dei musicisti probabilmente perché si ritiene più interessane la successiva produzione dell’autore. Dal programma di sala leggiamo che alla prima l’opera durava ben tre ore abbondanti cui si devono sommare altre due ore di coreografie danzanti. Era prassi al tempo creare non opere ma spettacoli che impegnavano tutta una serata essendo questo l’unico tipo d’intrattenimento pubblico di una città. Oggi sarebbe stata improponibile una tale realizzazione. Carlo Vitali ci illustra il complesso recupero dello spartito e la revisione e confronto con le molteplici fonti conservate in diverse istituzioni musicali europee. Pertanto l’esecuzione bolognese può essere considerata la prima esecuzione italiana in tempi moderni dopo le anteprime di Atene nel febbraio 2012 e Londra nel giugno successivo. Artefice di tale operazione è stato il M° Giuseppe Sigismondi Di Risio, il quale a seguito dei ritrovamenti predetti ha anche firmato un’edizione discografica.
Il Teatro Comunale non ha osato produrre uno spettacolo nuovo, forse anche in considerazione dei costi, perciò ha “preso” in blocco la produzione greca: regia, scene, direttore e solisti. Il risultato è stato molto alterno. Se da un lato non possiamo che lodare le intenzioni della sovrintendenza di recuperare anche titoli desueti, l’occasione era prelibata, uscendo dal soporifero repertorio troppo ripetitivo in Italia, dall’altra non possiamo affermare che l’operazione non stata alle altezze del Comunale, una maggiore oculatezza negli aspetti vocali e registici non sarebbe guastata. Lo spettacolo, curato in scene e regia, era affidato a Nigel Lowery, lo stesso artefice della riesumazione ateniese nel 2011. Non ho trovato particolarmente efficace la sua impostazione, la quale, come soprattutto quasi tutti i registi stranieri e non solo odierni, crede che la soluzione ottimale sia quella di spostare l’azione in epoca moderna e in tale concezione sviluppare la trama del libretto In questo caso abbiamo avuto un’ibrida rappresentazione con povere idee, le quali sono sviluppate nel parallelismo che la monarchia è l’antico, la democrazia il moderno. La storia insegna invece l’alternanza di queste istituzioni, e il loro funzionamento è caratterizzato sempre dalle persone atte nel compito concettuale del potere. La scena che è definita onirica dallo stesso regista, io la trovo banalissima, s’ispira al teatro d’avanguardia russa. Ammetto la mia ignoranza in materia, ma il nesso tra un testo di Metastasio, su un bozzetto originale del Bibiena nel riprodurre un’opera del ‘700 gluckiano con il teatro d’avanguardia russo proprio mi è incomprensibile. La Roma descritta nel libretto contrasta totalmente con la fabbrica del 900 in piena espansione industriale, oltre a ciò anche i personaggi non trovano uno spessore drammaturgico e una logica azione nella circostanza sociale e teatrale del testo. Il mondo nuovo, ovvero il progresso, immaginato con l’accensione delle lampadine che rappresentano la modernità, lascia lo spazio che trova e riconfermano la pochezza d’inventiva del regista. Un palcoscenico sul palcoscenico, con tenda bianca tirata dai cantanti, identificava la scena quasi fissa. Movimenti ed entrate da recita scolastica, senza senso e non dico particolari intuizioni ma elementare eleganza barocca. I costumi di Monica Benini s’inseriscono nello stile registico ma non lasciano certamente traccia nella memoria. Non si sarebbe preteso uno spettacolo che rievocasse i fasti dell’inaugurazione, ma ad esempio non esistevano i bozzetti del Bibiena cui trarre lo spunto per una scenografia che rievocasse quella particolare inaugurazione, o si è pensato che riproporre uno stile ‘700 sarebbe stato troppo “vecchio” o vetusto e non adatto al teatro di oggi?
Maestro concertatore è stato il valente Giuseppe Sigismondi De Risio, un direttore esperto nel repertorio settecentesco che ha profuso uno stile appropriato alla partitura, particolarmente inciso il recitativo. Dal programma di sala si apprende che ha effettuato molti tagli, per fortuna, non si capisce se arie o recitativi, tuttavia ha tenuto ben salda la drammaturgia e molto valente il lavoro di una significativa tenuta tra buca e palcoscenico.
Gluck aveva previsto nella partitura la presenza di ben tre castrati, due soprani e un tenore. Le parti sono pertanto molto impegnative soprattutto quelle riservate ai cantanti tipici dell’opera barocca, e il cast riunito a Bologna, quasi per intero lo stesso che cantò ad Atene e nell’incisione predetta, non era certamente all’altezza per un simile compito. Le voci erano povere di smalto e non in grado di assolvere arie acrobatiche del Gluck pre-riforma. Per dovere di cronaca li elenchiamo: Maria Grazia Schiavo, l’unica a dimostrare un preciso e sufficiente stile, Mary-Ellen Nesi, Burçu Uyar, Irini Karaianni, Vassils Kavayas, Daichi Fujiki. Festa doveva essere, lo è stata all’inizio ma è stato sorprendente il dimezzamento del pubblico dopo il primo intervallo, il restante, al termine, ha premiato la compagnia e il direttore con generosi applausi, mentre il regista non si è presentato alla ribalta.

EVGENIJ ONEGIN [William Fratti] Torino, 19 maggio 2013.
Dopo le brucianti passioni personali, familiari e politiche del Don Carlo verdiano, il Direttore musicale e i complessi artistici del Teatro Regio di Torino si cimentano con le vicende umane di Evgenij e Tatjana, interpretando eccellentemente la struggente musica di Ciajkovskij.
Gianandrea Noseda riesce ad eseguire, con la consueta precisione e purezza di suono, il sentimentalismo del compositore russo, approfondendo l’analisi psicologica dei personaggi attraverso l’andamento musicale. Diverso è invece l’approccio di Kasper Holten, che crea uno spettacolo decisamente valido e accattivante nell’impianto visivo, coadiuvato dalle belle scene di Mia Stensgaard, dai costumi splendenti di Katrina Lindsay e dalle luci suggestive di Wolfgang Göbbel, ma troppo orientato alle menti e ai cuori tormentati dei protagonisti, perdendo quasi completamente l’aspetto di grandeur operistica previsto dal compositore. È vero che Ciajkovskij voleva rappresentare una vicenda intima, addirittura scegliendo di farla debuttare in un teatro secondario per non essere costretto entro i canoni del grand-opéra in voga all’epoca, ma è anche vero che egli era figlio di un’epoca e l’importanza delle feste e dei balli inseriti nel melodramma non andrebbe sottovalutata.
Vasilij Ladjuk è un buon Onegin. Voce baritonale piena ed intensa; personaggio misurato, ma energico; raffinato nei piani ed espressivo nel fraseggio.
Svetla Vassileva non smentisce se stessa, né nei pregi, tantomeno nei difetti. È sempre la grande artista e la grande interprete già vista e ascoltata in numerosissime altre occasioni, dotata di presenza scenica abbagliante. La voce è sempre bella, con timbro morbido e fare elegante, fraseggio eloquente e filati raffinatissimi. Ma l’intonazione talvolta rischia la precarietà e questa è una lacuna che la grande professionista si è sempre portata dietro. Il personaggio di Tatjana è ineccepibile: innamorata, speranzosa, affranta, ma infine stoica, onesta e fedele a sé stessa.
Maksim Aksënov, nel ruolo di Lenskij, mostra una vocalità limpida, ma al tempo stesso dotata del giusto spessore, uno squillo luminoso e la capacità di rendere delle piacevoli sfumature. La scena del ballo a casa Larin riesce col giusto impeto, travolgente ed emozionante.
Nino Surguladze è un’esecutrice sempre precisa, musicale, attenta al suono e alla parola, dotata di voce calda e brunita. È davvero un peccato che il ruolo di Olga non sia provvisto di una pagina solistica.
Aleksandr Vinogradov è eccellente nella resa musicale dell’aria dedicata al principe Gremin, in cui si prodiga in valide sfumature, piacevoli colori e accenti ben posizionati. Peccato che il suo personaggio è voluto, presumibilmente dalla regia, troppo ingenuo e modesto, andandosi a perdere tutta l’autorità principesca che invece dovrebbe sorreggere la difficile decisione di Tatjana.
Marie McLaughlin è una Larina efficace, eccellente nella resa del personaggio, anche se non troppo precisa nell’intonazione; mentre la Njanja di Elena Sommer spicca per il suo timbro scuro. Molto buona è la prova di Carlo Bosi nelle vesta di Triquet, che esegue sapientemente e finemente la bella canzone “À cette fête conviés”, con prodigio di mezze voci. Adeguati Vladimir Jurlin nei panni del capitano delle guardie e Scott Johnson nelle vesta di Zareckij.
Buona la prova del coro diretto da Claudio Fenoglio.

THE RAPE OF LUCRETIA [Lukas Franceschini] Firenze, 19 maggio 2013.
Nell’anno completamente dedicato a Verdi e Wagner tutti i teatri si sono dimenticati di Benjamin Britten, del quale ricorre il centenario della nascita, tranne fortunatamente il Maggio Musicale Fiorentino. È evidente che un grande nome come Britten è schiacciato dai colossi italiani e tedeschi, tuttavia egli è il più importante compositore inglese del ‘900 e tra i più rappresentativi a livello nazionale. Al 76° Maggio è stata inserita in cartellone The Rape of Lucretia nell’allestimento del 1999 di Daniele Abbado, spettacolo che ha sempre registrato ampi consensi di pubblico e critica. Britten compose l’opera nel 1946 per il Festival di Glyndebourne, subito dopo il successo di Peter Grimes, su libretto del fidato Ronald Duncan che prese spunto dal dramma di André Obey “Le viol de Lucrèce” (il quale a sua volta si rifà a Tito Livio e Shakespeare). The Rape of Lucretia è la prima delle tre opere da camera di Britten (l’organico è formato da dodici suonatori), peculiare l’uso dei cori affidati a sole due voci (tenore e soprano) che s’identificano nella visuale cristiana ed apologo morale della vicenda già avvenuta. L’opera è fortemente drammatica e incentrata sull’abuso di potere che si sviluppa nella scena dello stupro della protagonista da parte del conquistatore etrusco Tarquinio. Il disonore che sente Lucrezia è così profondo che arriva a suicidarsi anche a fronte del perdono da parte del marito comprensivo del suo sacrificio. Trattasi di un’opera molto esistenziale, nella quale il potere umano non si pone limiti a fronte di un diritto di conquista, oltre alla prospettiva critica della violenza da parte della società circostante, cui Britten dedica ottime raffinatezze orchestrali. Probabilmente non è casuale che il compositore scrisse l’opera dopo al secondo conflitto mondiale nel quale i conquistatori perpetrarono soprusi di ogni genere. In parte è questa la chiave di lettura di Daniele Abbado che segna significativamente una regia molto lineare, coadiuvata da video bellici per imprimere un ulteriore forza narrativa al soggetto. In questo spettacolo non manca la poesia, basti pensare la prima scena con Lucretia ove assieme alle ancelle, Bianca e Lucia, fila la lana nella quiete della casa e nell’attesa del marito. Anche la scena del suicidio mostra un lineare estatico sentimento di sacrificio giocato su delle corde. Lo spettacolo ha avuto il suo punto di forza anche nella scena scarna ma efficientissima, i bellissimi costumi, e nelle mirabili luci entrambe curate da Gianni Carluccio. Nell’insieme una visione elegante, ma anche essenziale, di superiore intelligenza (vedasi la scena dello stupro, contenuta) e raffinata coesione drammatica. Potrei osservare che forse si è abusato nelle proiezioni, ma è piccolo dettaglio e del tutto personale.
La validità di Jonathan Webb, maestro concertatore, era di estremo rigore, solcando un terreno a lui molto congeniale regalandoci uno stile narrativo terso e un’ottima resa calibrata dell’ensemble strumentale, solisti dell’Orchestra del Maggio in serata di grazia.
La protagonista, Julianne Young, emergeva per intensità drammatica e un canto cesellato nel colore. Jacques Imbrailo, Tarquinio, le rispondeva con ieraticità ed espressione efficace, altrettanto si può registrare nella sofferta interpretazione del lacerato Collatino di Thomas Tatzl. Di pregio e d’impeccabile resa i solisti dei cori maschile e femminile che erano Gordon Gietz e Susannah Glanville. Ben integrati nel contesto gli altri interpreti, Philip Smith e le perfette Gabriella Sborgi e Laura Catrani. Il pubblico non esauriva il piccolo ma incantevole Teatro Goldoni, ma ha apprezzato il bellissimo spettacolo applaudendo con entusiasmo al termine tutta la compagnia.

GOTTERDAMMERUNG [Lukas Franceschini] Milano, 22 maggio 2013.
Alla Scala si è conclusa l’imponente costruzione operistica di Richard Wagner Der Ring des Nibelungen, il cui ciclo completo sarà rappresentato in due sessioni a giugno dirette dal M° Daniel Barenboim. È indubbio che il Ring alla Scala ha avuto sorti molto alterne se si pensa che l’ultimo ciclo completo con stesso direttore, regista e cast, risale al 1963. Negli anni ’70 vi fu la famosa interruzione della produzione di Luca Ronconi, negli anni ’90 quello diretto da Riccardo Muti ebbe registi diversi e il prologo fu eseguito in forma di concerto. Si arriva pertanto all’odierno allestimento per il bicentenario ove tutto sembrava proseguire come da prassi tranne il cambio dell’interprete di Brunnhilde e le prime recite del Crepuscolo non dirette da Barenboim, causa malattia, tuttavia finalmente anche alla Scala si rappresenta il Ring completo.
Gotterdammerung è la terza giornata che conclude il saga wagneriana, lasciando il finale libero a diverse interpretazioni e argomentazioni. Molti studiosi del compositore tedesco asseriscono che il Crepuscolo è la parte meno suggestiva del ciclo perché, in parte, gli accadimenti sono forzati e il filo che reggeva la tensione dell’architettura si spezza rendendo il tutto sommariamente banale, anche se precipita verso la tragedia conclusiva. Il Crepuscolo è una vicenda di malignità, ove gli dei hanno il destino segnato e nulla potrà modificare la loro sorte d’estinzione. Wagner, in parte voleva porre l’accento sul mondo corrotto dei divini, il quale è pur sempre meno dissoluto di quello umano. Rappresentativa è la trasformazione umana di Brunnhilde che non cede all’invito di Waltraute di rendere l’anello d’oro, questi è il pegno d’amore donatogli da Siegfried, lei è divenuta umana e per tale posizione s’immolerà con il corpo di Siegfried e l’anello, lasciando il grande interrogativo sul futuro degli umani nella nuova era.
Lo spettacolo creato da Guy Cassiers, regia e scene, è meno emozionante rispetto alle altre giornate. Pur nel rispetto del testo abbiamo spesso una scena buia, con utilizzo eccessivo di video (seppur ragguardevoli) e una macchinosa scenografia che si riduce sovente a un agglomerato di praticabili, e per rappresentare il palazzo dei Ghibicunghi abbiamo una sorta di tribuna a vetro, all’interno corpi umani a pezzi. Il finale, la grande scena dell’olocausto di Brunnhilde delude per scontata impostazione sempre sulla tribuna e manca quell’effetto travolgente che dovrebbe ammaliare lo spettatore. Se da un lato suggestionano le interminabili icone scenografiche e visuali che evocano il passato, ci sono parse troppo convenzionali sia la sommaria identificazione di Brunnhilde sia la parodistica civetteria di Gutrune. I costumi di Tim van Steenergen non restano nell’immaginario, tolto il seducente strascico della protagonista femminile, come pure la coreografia di Sidi Larbi Cherkaoui.
Sul podio è Karl-Heinz Steffens a sostituire il titolare. Ammetto una certa delusione a questo cambiamento, ma come spesso accade, essere prevenuti, oltre ad essere scorretto, in seguito ci si deve ricredere. Il maestro ci offre una prova elevata per tenuta e trasparenza. Molto apprezzata la perizia tecnica tra le varie sezioni, un suono illuminato, scalfito e anche se in taluni momenti sarebbe stata opportuna maggiore incisività non posso che lodare nel complesso la sua direzione.
Il cast era in parte quello proposto nel corso delle stagioni scorse per l’intero Ring ad eccezione di Iréne Therorin che interpretava la protagonista. La signora Theorin ha una voce con volume impressionante e sarebbe un’interprete ideale se anche la tecnica fosse altrettanto rifinita. Purtroppo un tale materiale vocale è difficile da controllare e sovente nel settore acuto le note non erano controllate, se non gridate. Il personaggio era veemente e ben realizzato, il fraseggio eloquente, magari un po’ poveri i colori. Lance Ryan non brillava nella difficile parte, ma è accertato che anche i tenori wagneriani sono ormai cosa rara. Egli mancava di accento e nobiltà eroica oltre ad avere serie difficoltà nel settore acuto. Bravo Mikhail Petrenko; Hagen, un cantante dalle molteplici sfaccettature, solido e ben colorito nel fraseggio, più sui generi il fratello, Gerd Grochwski. Ancora in grado di regalare grandi emozioni era Waltraud Meier, con una voce non più fresca ma intensa ed incisiva. Anna Samuil era troppo leggera per il ruolo di Gutrune, brave le Norne e le figlie del Reno, sui generi Johannes Martin Kranzle. Rivelante l’apporto del coro istruito da Bruno Casoni. Grande successo al termine, dopo sei ore di spettacolo, e con pubblico entusiasta seppur non numeroso.

EVGENIJ ONEGIN [Lukas Franceschini] Torino, 24 maggio 2013.
Ciajkovskij compose Evgenij Onegin ben quarant’anni dopo la pubblicazione del romanzo omonimo di Puskin e le prime esecuzioni non ebbero il successo sperato perché non fu colto immediatamente lo spirito nostalgico della musica. Rilevante, ma non essenziale, è considerare che i due lavori, letterario e musicale, si collochino in due diverse metà del secolo XIX, e lo spirito in generale era differente, tuttavia mai come nell’Onegin Ciajkovskij mette in risalto la sofferenza della confessione, quasi morbosa. Egli focalizza per gradi la felicità, la rassegnazione confinata nel finale all’annullamento, concezione operistica del dramma di un amore irrealizzabile. La scena centrale, e focale, la grande aria della lettera di Tatjana da cui si riconosce il “tema” musicale per lo sviluppo dell’intera opera. Il dramma è concepito in quadri con senso compiuto di narrazione e in ogni atto si focalizza un personaggio senza tralasciare i ruoli minori che hanno pure rilievo con un’aria o interagendo nella scena. Le danze hanno grande risalto, sia popolari sia aristocratiche, Cajkovskij è un genio in materia, e spesso fungono da azione drammaturgica basti pensare la lite alla festa del secondo atto. Il protagonista, vile ed egoista, è un uomo che quando prende coscienza del sentimento per Tatjana gli eventi sono ormai troppo avanzati per poterlo riavviare e lo spettrale ultimo duetto conferma l’impossibilità di nuovi spunti.
Lo spettacolo di Kapser Holten convince a metà. Geniale l’inizio in cui vediamo una Tatjana matura (già sposa di Gremin) rileggere una lettera e tornare indietro con la memoria e ripercorrere in flashback tutti gli avvenimenti. Il regista attualizza abbastanza bene i tratti dei personaggi, che passano dalla spensieratezza giovanile alla più ponderata maturità adulta, ma scivola sull’idea di creare una drammaturgia troppo psicoanalitica inserendo dei ballerini-mini a uso di “doppia” identità dei protagonisti. Altro punto discutibile è stato lasciare il cadavere di Lenskij in scena per tutto il terzo atto, identificando l’ossessione e il rimorso del protagonista per l’amico di un tempo. Idee ormai vetuste ed abusate che nulla aggiungono o sottolineano a quanto espresso in musica e parole nell’opera. Forse Holten ha guardato più a Puskin che a Cajkovskij con il risultato di modellare con attenzione e ricercata coerenza i personaggi, ma rifuggendo i momenti di sfarzosi delle feste, in particolare quella del II atto, risolte con una sommaria coreografia scenica. Togliere ad un compositore come Cajkovskij le grandi scene di ballo è grave errore, sia musicalmente sia per quel colore tipicamente russo che s’identifica in maniera preponderante con la danza. Nell’insieme Tatjana è una ragazza in preda a forti emozioni sentimentali che sono toccati dal cinico Onegin, purtroppo non riescono a confrontarsi e gli eventi li allontaneranno, anche il casuale incontro finale non capovolgerà le loro vite e l’inesorabile solitudine di lui sarà il seguito non scritto del poi. Le belle scene di Mia Stensgaard, un impianto fisso di volta in volta illuminato differentemente, ben si adatta al dramma puskiano, e il gioco delle porte che si aprono e chiudono segnano un effetto di grande emotività. Ancor più straordinari i costumi di Katrina Lindsay, pregevolissimi nei tessuti, ammalianti nei colori, e di raffinata sartoria, in particolare l’abito da sera svolazzante di Tatjana, rosso e bianco, resterà nella memoria. Belle le coreografie ma come predetto non ben utilizzate nell’impianto registico.
Passando all’aspetto musicale molte lodi vanno a Gianandrea Noseda, uno dei migliori direttori italiani sempre in crescita che con quest’Onegin riconferma le sue alte qualità delle quali già avevamo avuto segno. La sua lettura, limpida e precisa, era attenta al dettaglio, al particolare senza tralasciare le grandi emotività nei momenti cruciali di tensione e nelle grandi scene corali. Ottima l’orchestra, la quale ben guidata da Noseda, non perde occasione di mettersi in luce in tutte le sezioni della compagine rispettando alla lettera il dettato compositivo. Oserei dire straordinario il Coro diretto da Claudio Fenoglio, preciso, vibrante, e superbamente armonico.
Nel cast non ci sono stati altrettanti risultati. Nell’insieme è possibile affermare che si tratta di una compagnia di routine, con alti e bassi, ma dovendo fare un’analisi individuale è imbarazzante notare che il migliore della compagnia era Carlo Bosi nella canzone francese di Triquet. Vasilij Ladjuk cantava un Onegin corretto ma non convinceva totalmente nel suo monotono canto. Svetla Vassileva avrebbe anche il physique du rôle perfetto, ma povera di colore e di accento, assente la passione soprattutto nella difficile e lunga scena della lettera, cui vanno aggiunti acuti non proprio saldissimi. Maksim Aksenov era un generico e insignificante Lenkij, Aleksandr Vinogradov un’imbarazzante Gremin tutto intubato vocalmente, si spera sia solo un momento passeggero. Completavano la locandina, la simpatica Larina di Marie Mclaughlin, oggi mezzosoprano, e la sfocata Elena Sommer che interpretava Filipp’evna. Teatro gremitissimo e prodigo di lunghi applausi al termine.

RIGOLETTO [Simone Ricci] Roma, 25 maggio 2013.
Il Teatro Italia ha dedicato una serata al celebre capolavoro verdiano: la maledizione che incombe sull’opera hanno convinto il pubblico, la chiara testimonianza che questo titolo sa affascinare in ogni epoca.
Una partitura povera di melodie e carente di pezzi concertati. Sembra quasi incredibile che la critica musicale abbia pensato questo del Rigoletto all’indomani della sua prima rappresentazione assoluta a Venezia nel 1851. Eppure, il pubblico ha continuato ad accogliere con entusiasmo questo capolavoro verdiano, un successo che dura da 162 anni. Il titolo è stato scelto anche dal Teatro Italia di Roma per una rappresentazione che ha cercato di far apprezzare quella che è una evoluzione fondamentale dell’arte del cigno di Busseto. La serata è stata giustamente dominata dal continuo presagio della sventura, di quella maledizione che è il tema portante dell’opera. Il dramma incombente era la conclusione più logica della tensione creata attraverso le note.
Il tentativo di modernizzare la scena con succinte ragazze pronte a sedurre l’intera corte del Duca di Mantova fa pensare che molto non sia cambiato in certi costumi dal ‘500 a oggi. Un telo trasparente serviva a dividere a metà il palco, in modo da ottenere lo sdoppiamento dell’azione: questa trovata risultava però poco efficace nel finale, quando Rigoletto abbraccia il sacco che dovrebbe contenere Gilda morente, ma quest’ultima compare alle sue spalle, quasi eterea, una scelta che ha confuso e non poco lo spettatore. Per il resto, è stata resa in maniera apprezzabile l’alternanza dell’oscurità e della luce di tuoni e lampi nel terzo atto. Le scene e i costumi, curati da Mac24, sono stati nel complesso all’insegna della semplicità e tradizione.
Passando al lato esecutivo, si può considerare di buon livello l’interpretazione di Stefano Meo nel ruolo del titolo: il baritono si è distinto per l’esecuzione intensa e molto ben calata nella difficile psicologia di questo personaggio. In particolare, il suo Sì, vendetta, tremenda vendetta ha concluso degnamente il secondo atto, regalando al pubblico la sete di giustizia che Rigoletto pretende dal comportamento del Duca. Il tenore Roberto Costi ha tratteggiato con proprietà il ruolo di questo libertino del XVI secolo, nonostante non avrebbe guastato maggiore spavalderia: da notare, inoltre, come alla scoperta dell’identità della presunta amante di Rigoletto non si dovrebbe continuare a ridere, ma mostrare un pizzico di preoccupazione.
Imma Iovine era un Gilda appropriata: il Mi bemolle piazzato nella già citata Vendetta è stato penetrante e luminoso, in grado di “rispondere” agli acuti di Meo. Il fraseggio è stato convincente e morbido, in primis in un’aria non certo semplice come quella del “Caro nome”, resa con piglio innamorato e sognante, come richiede questo ruolo. Un curioso contrattempo ha invece riguardato lo Sparafucile di Daniele Biccirè. Il suo ingresso, infatti, è avvenuto in abiti moderni, con jeans e maglietta, direttamente da una fila della platea: c’è chi ha pensato a una trovata originale del regista Natale Filice, ma il sipario chiuso e l’apparizione successiva in abiti da scena fa propendere per un inconveniente, visto che spettava a questo basso anche il ruolo di Monterone. Biccirè non è sembrato affatto imbarazzato e ha suscitato il necessario timore con i bassi profondi del sicario che offre i suoi servigi a Rigoletto.
Il cast era completato da Rita Sorbello, una Maddalena dal piglio seducente e dalla vocalità fresca e dalla Giovanna di Anna Maria Bini, rassicurante e premurosa: per il resto vanno ricordati Andrea Fermi (Borsa), Luca Vianello (il Conte di Ceprano), Bibiana Carusi (la Contessa di Ceprano), Andrea Scorsolini (Marullo) e Giorgia Costantino (paggio). L’Orchestra Cherubino Opera Live, guidata con sicurezza da Gian Marco Moncalieri, si è dimostrata partecipe e capace di trasmettere con intensità drammatica tutti i chiaroscuri della partitura, nonostante qualche disallineamento con alcune frasi dei cantanti. Il livello del Coro Diapente, preparato da Lucio Ivaldi, va giudicato buono, ma avrei apprezzato qualche ritmo maggiormente incalzante in alcuni frangenti.
In parole povere, il capolavoro verdiano offerto da questa produzione non ha sfigurato, qualche elemento grezzo andava levigato per ottenere un voto ancora più alto, ma il pubblico romano ha gradito lo spettacolo, tributando gli applausi più scroscianti per Meo e Moncalieri, senza far mancare il suo affetto agli altri protagonisti. Il gobbo esternamente difforme e ridicolo, ma internamente appassionato e pieno d’amore (come lo definì lo stesso Giuseppe Verdi per allontanare le critiche circa la scelta di un soggetto troppo immorale e triviale) sa sempre arrivare al cuore della gente e non è un caso che, bicentenario a parte, sia una presenza fissa e molto gettonata dei cartelloni di tutto il mondo.

IL FARNACE [William Fratti] Firenze, 29 maggio 2013.
Il Festival del Maggio Musicale Fiorentino continua a produrre cultura e buona musica e in questa Ottantesima edizione, nonostante sia concentrata sul Bicentenario Verdiano e sul centesimo anniversario della nascita di Britten, propone la prima esecuzione assoluta dell’ultima revisione de Il Farnace di Antonio Vivaldi, mai andata in scena dopo gli sfortunati avvenimenti che videro il lento declino del celebre compositore.
All’esterno del Teatro Comunale è presente una piccola manifestazione di protesta dei lavoratori della Fondazione, cui si aggiunge l’appoggio morale del direttore Federico Maria Sardelli, immediatamente espresso al suo ingresso in buca. Il momento economico e finanziario italiano è difficile per tutti, non solo per gli operatori della cultura, e certamente sarebbe più facile ed accettabile sostenerli se non si vedessero situazioni in cui molti dei percettori dello stipendio pubblico se ne stanno comodamente seduti su una sedia, durante l’orario di lavoro, intenti a sonnecchiare, sbadigliare, telefonare, giocare con l’iPhone, l’iPad o le parole crociate. E ciò capita molto spesso, purtroppo non solo al Maggio, ma anche in tanti musei della città. Prima di protestare molto probabilmente si dovrebbe fare un sano ed approfondito esame di coscienza.
L’occasione di questa primissima esecuzione, nella recentissima edizione critica curata da Bernardo Ticci, con l’aggiunta della sinfonia da Il Bajazet, dell’aria di fine secondo atto da Il Farnace del 1727, ma senza il mai ritrovato terzo atto, poteva essere il momento ideale per la produzione di un allestimento davvero suggestivo e orientato alla parola, lontano dalla tradizione operistica, dal teatro barocco, dai simboli e dalle allegorie che rischierebbero di allontanare lo spettatore contemporaneo dalla reale drammaturgia del testo, esattamente così come ne esprime il desiderio il regista Marco Gandini. Purtroppo tale idea non è sviluppata in maniera corretta. Le incomprensibili impalcature, i carri luminosi, le luci fastidiosamente abbaglianti, sono tutti elementi che disturbano la visione e l’ascolto e alterano l’attenzione; così come la presenza degli spartiti sui leggii, cui spesso si affidano i cantanti, non contribuisce positivamente allo sviluppo dell’azione scenica. Sarebbe stato più efficace rappresentare la vicenda senza particolari ingombri scenografici, anche solo sulla pedana montata in proscenio e attorno alla buca, coadiuvati dalla giusta attrezzeria e da un valido gesto teatrale. Ottima è anche l’idea di utilizzare costumi senza epoca precisa; peccato però per le giacche indossate dai romani, davvero troppo ordinarie e prive di particolare significato.
La direzione di Federico Maria Sardelli è puntuale e precisa e sa guidare con eleganza l’organico ristretto del Maggio, con la sua mano di espertista del repertorio. Sul fronte vocale è difficile esprimere chiare opinioni in un’opera eseguita per la prima volta in epoca moderna, poiché le precedenti versioni, così come previsto da Vivaldi stesso, utilizzano diversi registri vocali per gli stessi personaggi.
Cercando di entrare più nel merito di ognuno dei singoli protagonisti, si evidenzia una certa raffinatezza nelle interpretazioni di Mary-Ellen Nesi, Delphine Galou e Loriana Castellano nei ruoli di Farnace, Berenice e Selinda. Le artiste sanno essere delicate, tingendo di drammatico dove occorre, esprimendosi in maniera molto soddisfacente nel tipico canto barocco.
Sonia Prina invece si distingue per una certa abilità nell’uso dell’accento, soprattutto nel recitativo. Il colore scuro della sua voce è incantevole e presumibilmente si adatterebbe meglio ad una parte più vigorosa, ma sa esprimere molto bene il bipolarismo di Tamiri, prima eroica poi patetica, quindi audace ed infine tenera.
Roberta Mameli è un Gilade molto contemporaneo e la sua esecuzione è più attenta alla resa del personaggio che non al belcanto e alla purezza del suono. Forse questo è il motivo per cui riscuote il maggio successo, soprattutto dopo l’aria “Quell’usignolo che innamorato”, ma non è affatto semplice stabilire se sia meglio focalizzarsi sull’interpretazione scenica piuttosto che sull’esecuzione musicale in questo tipo di repertorio.
Efficaci, ma non entusiasmanti, il Pompeo di Emanuele D’Aguanno e l’Aquilio di Magnus Staveland.
Al termine dello spettacolo il pubblico intervenuto, che occupa solo le file di platea e palchi, mentre le gallerie restano vuote, accoglie calorosamente tutti gli artisti, ad esclusione del gruppo di regia. Molti spettatori abbandonano la sala dicendo: “era meglio farla in forma di concerto, così come era inizialmente previsto”.

MEFISTOFELE [William Fratti] Parma, 1 giugno 2013.
Il Comitato Parma col Cuore festeggia il suo diciottesimo compleanno ed organizza il consueto appuntamento estivo con la lirica a scopo benefico. Il titolo scelto, in occasione del Bicentenario Verdiano, è Mefistofele di Arrigo Boito, compositore ed ultimo librettista di Verdi, artista a cui è intitolato il conservatorio della città.
Si tratta di un’opera di difficile esecuzione, particolarmente nella strumentazione, nella concertazione e nella lunga e copiosa parte corale ed essendo poco rappresentata, assente dunque dal repertorio di molte orchestre e di molti cori, avrebbe bisogno di molte prove per raggiungere una resa soddisfacente. Pietro Mianiti, con il suo consueto polso ben saldo, riesce in qualche modo a portare I Musici di Parma alla sufficienza e le pagine meglio riuscite sono quelle più liriche; purtroppo ciò non vale per il Coro Lirico Aurea Parma diretto da Emiliano Esposito, che si dimostra poco preciso fin dal primo attacco. Leggermente migliore è la prova del Coro Voci Bianche Ars Canto guidato da Gabriella Corsaro. Trattandosi di professionisti già ascoltati più volte e che spesso hanno saputo regalare maggiori emozioni rispetto a complessi artistici di teatri internazionali ben più blasonati, si può affermare con certezza che il risultato modesto ottenuto in questa occasione sia dovuto esclusivamente al poco tempo a disposizione per prepararsi con accuratezza.
Dopo il grande successo ottenuto lo scorso anno nel ruolo di Scarpia, Carlo Colombara torna al Teatro Regio nelle spoglie di Mefistofele, esibendosi con un fraseggio eccellente, sostenuto da un validissimo uso della parola, anche se non tutti i suoni sono così puliti e cristallini come al solito. È musicalissimo in “Son lo spirito che nega”, anche se si nota che qualche acuto è posizionato un poco indietro.
Lo affianca Daria Masiero nel ruolo di Margherita, anch’ella reduce dall’ottima esecuzione di Tosca dello scorso anno. “L’altra notte in fondo al mare” è resa con una linea di canto morbida e ben omogenea, con fraseggio particolarmente espressivo e significativi accenti drammatici accompagnati da un elegante canto lirico. Raffinatissimi e toccanti sono i piani di “Spunta l’aurora pallida”.
Giovanni Manfrin è un Faust soddisfacente nello squillo, soprattutto in “Dai campi, dai prati”, ma la resa complessiva non è particolarmente efficace.
Eugenio Masino è un Wagner dalla voce limpida e si distingue particolarmente per la capacità di fraseggiare.
Leonora Sofia è adeguata nel ruolo di Marta.
Non si menzionano i ruoli di Elena, Pantalis e Nereo, poiché in questa edizione l’atto quarto non è eseguito.

LE NOZZE DI FIGARO [Lukas Franceschini] Vicenza, 9 giugno 2013.
La XII edizione delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico ha quale tema di fondo “Mozart e la Spagna” e in tale cornice è stata presentata l’opera Le nozze di Figaro nella versione napoletana del 1814. Come di consueto la rassegna porta alla luce spartiti anche di repertorio ma in versione alternativa rispetto alla prima esecuzione.
Il dramma giocoso composto da Mozart con il fondamentale contributo del librettista veneto Lorenzo Da Ponte, vide la luce nel 1786 a Vienna, fu poi replicato nelle città principali dell’Impero Asburgico sempre con autorevoli consensi. Curiosamente la prima italiana avvenne a Monza nell’autunno del 1787 (con varie modifiche e parti aggiunte negli ultimi atti di Angelo Tarchi), esecuzioni si ebbero successivamente a Torino nel 1811, tra il 1814 e 1815 al Teatro alla Scala e a Napoli. Furono i teatri di San Carlo e del Fondo ad ospitare le Nozze esattamente il 15 marzo 1814 e il 6 maggio 1815, in un allestimento che si presume identico e la presenza di cantanti del calibro di Manuel Garcia, Conte (era prassi trasportare la tessitura), e Isabella Colbran, futura signora Rossini, quale Contessa. La partitura di queste recite partenopee si è ritrovata nell’archivio del Conservatorio di San Pietro in Majella, la quale oltre alla trasposizione differente di alcuni personaggi ha per caratteristica principale che i recitativi sono accompagnati non dal consueto cembalo ma dagli archi dell’orchestra, secondo un uso napoletano importato dalla Francia e al quale si attenevano tutti i musicisti del tempo. La partitura ritrovata è tuttavia mutilata del primo e secondo atto, pertanto attraverso la collaborazione di alcuni allievi del Conservatorio di Napoli è stato integrato l’accompagnamento dei recitativi secondo il modello del terzo e del quarto ritrovati sotto la supervisione dei loro docenti e l’approvazione del musicologo Giovanni Battista Rigon. Da rilevare che rispetto alla versione integrale originale la presente partitura presenta molti tagli dei recitativi negli atti III e IV e la soppressione, fortunatamente, delle arie di Marcellina e Don Basilio. Senza entrare nei particolari si può affermare che l’opera è una sorta di denuncia sociale e per questo fu molto osteggiata sia la versione in prosa di Beaumarchais sia lo spartito di Mozart, come descritto minuziosamente da Giorgio Appollonia nel volume edito per la manifestazione vicentina. Sapevamo da ben lungi che oltre quella patina di simpatia e anche comicità Le nozze di Figaro anno nel suo intimo una velata lotta di classe tra servi e padroni, questi ultimi ne escono non in bella figura, la società stava cambiando e la Rivoluzione del 1789 alle porte.
Sostanzialmente la versione napoletana non si differenzia troppo da quella viennese, tuttavia è preferibile l’accompagnamento del cembalo perché forgia in maniera più incisiva il recitativo, con l’accompagnamento d’archi si perdono molte sfaccettature, o forse è solo questione di gusto e di abitudine allo strumento solistico. Bene ha fatto il Festival vicentino a proporre l’edizione in oggetto cui si ricorda anche in prima esecuzione in tempi moderni, e si sono potuti ascoltare modi e costumi musicali di quasi due secoli addietro ove non c’era il rigore odierno, rimaneggiare le partiture era considerato meno arbitrario.
Il meraviglioso spazio del teatro ideato da Palladio è già una cornice mozzafiato se stante, la creazione registica è molto limitata causa divieti e rispetti del luogo. Antonio Petris ci riesce in maniera egregia utilizzando tutto il palcoscenico ove è collocata anche l’orchestra, i cantanti-attori girano attorno ad essa creando scena dopo scena con mimica credibile divertente. Il regista affronta l’opera con mano esperta rendendo credibile ogni personaggio pur senza calcare la mano e trovando le diverse sfaccettature che essi identificano, unica eccezione, per mio gusto personale, il paggio Cherubino che era troppo stereotipato nella figura monellaccio contemporaneo con tanto di Ipod, cuffie e ritmo danzante rap che trasbordava dal fulgido fanciullo sentimentale d’ardore adolescenziale.
Giovanni Battista Rigon ha concertato con la consueta precisione e valente perizia, ha necessariamente sfoltito la compagine orchestrale in virtù del luogo e cercato per quanto possibile di trovare la compattezza del suono, in alcuni momenti d’assieme (considerate anche le posizioni dei cantanti) non tutto era preciso e qualcosa gli sfuggiva di mano, ma nell’insieme un’esecuzione positiva avendo a disposizione la buona Orchestra di Padova e del Veneto e il valente Coro I Polifonici Vicentini.
Tra i cantanti si collocavano su un livello superiore Filippo Morace e Giulia Bolcato. Il primo, cantante in carriera da anni, si è prodigato in un Figaro sornione e controllato, ottima la resa vocale chiara, pulita e precisa come il personaggio sprizzante di simpatia. La seconda è una giovane ragazza che in Susanna trova un  personaggio centrato, elegante, disinvolto e di classe. Grande sorpresa ha destato la resa vocale, raffinata, precisa e musicale, un’esibizione di rilievo e si può supporre un avvenire luminoso oltre al piacere di risentirla. Distinta la contessa di Giacinta Nicotra, efficace nel personaggio e nel fraseggio pur con qualche incertezza nell’aria d’esordio. Luca Dall’Amico è stereotipato in interpretazione rude e schematica di discreta misura, Margherita Settimo era un Cherubino piuttosto ingolato e più attenta alla danza che alle brillanti pagine a lei riservate. Brava Candida Guida come Marcellina, non propriamente un basso Claudio Levatino che sarebbe da ascoltare in altro ruolo, corretti Gian Luca Zoccatelli, Minni Diodati e Alberto Spadarotto. Grande successo al termine.

UN BALLO IN MASCHERA [Simone Ricci] Roma, 10 giugno 2013.
Una delle poche opere “romane” di Giuseppe Verdi trova la sua collocazione ideale proprio nella Capitale, con la scelta della forma di concerto che esalta le preziosità della musica.
Il più melodrammatico dei melodrammi: è così che Gabriele D’Annunzio definì Un ballo in maschera, a voler sottolineare il profondo intreccio tra tragedia, ironia e gioco dell’opera di Verdi. Eppure, anche privato dell’aspetto visivo e senza scene si può apprezzare il melodramma in tutta la sua purezza, a patto che l’esecuzione musicale sia autorevole e fuori dal comune. È quello che è accaduto all’Auditorium Parco della Musica di Roma, grazie a una direzione d’orchestra puntuale e personale e a una scelta di un cast mai come in questa occasione azzeccato. Questa recensione si riferisce alla serata del 10 giugno.
La Sala Santa Cecilia ha tributato i giusti onori alla rappresentazione. Un plauso particolare non può che andare al direttore d’orchestra, un Antonio Pappano in ottima forma. La partitura è stata letta in maniera dettagliata, senza strafare e puntare alla ricercatezza, ma cercando di sfruttare al massimo la scelta della forma di concerto. Gli spettatori hanno così potuto fruire appieno dei tre atti che devono parecchio al modello teatrale francese: le danze, i motivi cantabili e i ritmi vivaci sono stati resi in modo impeccabile, la scelta più adatta per apprezzare il contrasto acuto tra il clima di festa del ballo e la tragedia imminente.
Tracciando un parallelo con un direttore importante dell’800 come Angelo Mariani (è nota la sua amicizia-rivalità con lo stesso Verdi), sembra che Pappano con la ricchezza dei colori, la magia della sonorità e il fuoco abbia voluto comporre un altro Ballo in maschera nel Ballo verdiano. Di conseguenza, non si può che nutrire lo stesso giudizio dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, a cui si devono diverse finezze stilistiche (in particolare la ripresa di E’ scherzo con il flauto che riesce a doppiare il tenore). Un cenno lo merita anche la Banda Musicale della Polizia di Stato, a suo agio nel rendere con freschezza e convinzione le musiche che precedono il ballo in maschera. In splendida forma anche il coro, preparato dal maestro Ciro Visco e capace di alternare i momenti lieti a quelli tragici.
La partitura e il libretto del melodramma verdiano sono incentrati sulla figura di Riccardo, l’illuminato governatore di Boston, dunque ci si aspettava molto dalla prova di Francesco Meli. Il ruolo è stato interpretato come meglio non si poteva, grazie alla possente emissione vocale e alle capacità drammatiche, in quanto il suo canto è riuscito a far rivivere il personaggio in tutta la sua complessità psicologica. Una voce importante e acuti più che voluminosi, udibili anche a parecchia distanza: il soprano ucraino Liudmila Monastyrska possiede doti incredibili, ma spesso sono state proprio queste a far pensare più a una Abigaille che ad Amelia: non si tratta di una critica, ma di una osservazione, la sua voce può essere adattata ancora.
C’è chi definisce Dmitri Hvorostovsky un baritono dai mezzi non più freschi come un tempo, ma il suo carisma e la teatralità hanno fatto la differenza: il suo Renato era cupo e meditativo, molto apprezzato nell’aria Eri tu che macchiavi quell’anima, dall’espressività calda e appassionata. In più conosce alla perfezione la parte e non ha avuto bisogno di leggio e copione. Laura Giordano si è dimostrata un Oscar vivace e frizzante, proprio come lo voleva Verdi, spesso questo ruolo viene caratterizzato da troppe leziosità e petulanze, ma il soprano palermitano ha deliziato il pubblico con una grande presenza scenica e una dizione perfetta. Grandi applausi anche per Dolora Zajick, la quale ha retto bene i momenti più frastagliati del ruolo di Ulrica, soprattutto la grande aria Re dell’abisso, affrettati!
Le parti cosiddette di accompagnamento sono state credibili, dal marinaio Silvano (Massimo Simeoli), al giudice (Carlo Napoletani) e il servo di Amelia (Maurizio Trementini), tutti artisti del Coro dell’Accademia. I due bassi Riccardo Zanellato e Carlo Cigni, poi, sono stati rispettivamente un Samuel e un Tom loschi al punto giusto e capaci di inserirsi con precisione nel finale del Secondo Atto, quello in cui si notano maggiormente. Al termine della rappresentazione il pubblico ha concesso applausi cordiali e generosi a tutti, con dei boati ben udibili per Meli e Pappano. Si tratta della chiara testimonianza che un’opera come il Ballo, in cui la messa in scena ha una sua importanza strategica, può essere resa al meglio anche in forma di concerto.

AIDA [Lukas Franceschini] Verona, 14 giugno 2013.
Inaugurazione speciale quella del Festival dell’Arena di Verona giunto alla 91a edizione, tuttavia nel 2013 si celebra il Centenario della manifestazione iniziata esattamente il 10 agosto 1913 per volontà ed intuizione del tenore Giovanni Zenatello e del direttore d’orchestra Tullio Serafin.
La prima opera rappresentata fu Aida di Giuseppe Verdi, che in seguito è diventata quasi un simbolo dell’Arena di Verona, oltre ad essere l’opera più rappresentata nell’anfiteatro romano con ben quasi seicento rappresentazioni Sommariamente lo spazio aperto ha segnato l’aspetto monumentale del II atto della composizione, anche se l’aspetto intimistico ne trova una discreta penalizzazione, tuttavia gli ampi spazi hanno fornito in numerosi allestimenti creatività a registi e scenografi per realizzare momenti di spettacolare fascino e questo in parte ha caratterizzato lo spettacolo detto tipicamente “areniano”.
Il 2013 segna l’anniversario sia del festival sia del compositore probabilmente più conosciuto Giuseppe Verdi pertanto tutta la stagione è monografica (eccetto il Romeo et Juliette a fine agosto), non dimenticando l’altro anniversario quello di Richard Wagner cui è riservata una serata di Gala.
La Fondazione Arena ha voluto rilevare nella presente stagione come Aida sia il “simbolo” implicito dell’Anfiteatro e pertanto ha programmato due diverse edizioni dell’opera proponendo un nuovo spettacolo per i mesi di giugno e luglio e riproponendo in agosto e settembre la rievocazione storica basata sui bozzetti di Ettore Fagiuoli.
La nuova produzione è stata affidata al team più innovativo degli ultimi anni La Fura dels Baus diretto da Carlus Pedrissa e Alex Ollé. La Fura ha prodotto in un recente passato un riuscitissimo Ring wagneriano di nuova lettura al Maggio Musicale Fiorentino, adoperandosi poi in Tannhäuser alla Scala oltre ad altri lavori di successo in tutta Europa, Spagna soprattutto, raccogliendo molti consensi ma anche qualche critica perché rompe gli schemi della tradizione. Non nego che le attese per questo nuovo lavoro erano alte anche perché si sapeva che avremo visto qualcosa di diverso, uscendo dalla stantia routine cui l’Arena ci ha abituato. Tali attese sono andate, generalizzando, deluse poiché il gruppo iberico a mio avviso non ha saputo cogliere appieno l’utilizzo dello spazio e creare una drammaturgia sui personaggi.
Si parte con un’Arena vuota, al centro del palcoscenico due tralicci a forma di gru, si percepisce subito trattasi di una spedizione archeologica che mette in casse di legno, del British Museum, i reperti ritrovati. Da qui parte la storia di Aida sicuramene custodita per millenni in minuscoli elementi ritrovati e studiati. Idea anche apprezzabile come “prologo” poi arriva l’innovazione, l’avanguardia nel raccontare un Egitto anche faraonico gigantesco ma con l’occhio di oggi e con dune gonfiabili sulle gradinate. Costumi bellissimi e di futura memoria di Chu Oroz, ma anche comparse in tuta arancione che continuano a dispendersi confusamente sul palcoscenico. La lettura, spesso psicoanalitica e sociale, non sfocia mai sui sentimenti dei personaggi, i quali sono lasciati sempre a loro istinto alla pura presenza in scena perché devono cantare. Emoziona l’elemento fuoco, acqua e terra, tuttavia tutta questa macchinosa scenografia e movimentazione è distrattiva nei confronti della musica, sembra che i registi spagnoli vogliano tenere Verdi in un contorno da colonna sonora per un’azione scenografica. Se da un lato emoziona il finale atto primo, con la luna appesa nella preghiera al dio locale, delude in parte il trionfo che è realizzato come una parata con costruzione di una sorta d’immenso specchio curvo sotto il quale sfilano animali meccanici governati come macchine di giostre, elemento della grandiosità della civiltà egiziana, le piramidi si posso ammirare ancora. Il pubblico ride, qualcuno osa qualche fischio. Quasi del tutto eliminate le danze. Il III e IV atto sono migliori. Bellissima la realizzazione del Nilo con l’acqua che invade il palcoscenico e nella quale Aida canta i due duetti fulcro dell’opera. Spiritosi ma superflui i coccodrilli umani che sguazzano per tutto l’atto, almeno non disturbano. Personalmente ho apprezzato il finale, nel quale il grande specchio curvo si chiude sopra i due infelici amanti come una fatal pietra e la sconsolata Amneris prega sopra essa. Come predetto, non c’è uno sviluppo sui personaggi i quali devono fare ricorso alla loro esperienza di palcoscenico per creare quel poco che gli è permesso, è un allestimento disorientativo che raramente emoziona, escluso il finale, tuttavia si lascia guardare senza grandi pretese, o volontà di riuscire a capire cosa e perché. Ho l’impressione che i registi non abbiamo voluto fare dei cliché, ma si siano troppo sbizzarriti in stravaganti innovazioni per rendere uno spazio enorme un qualcosa di grandioso ma senza nervo. Guardando i bozzetti iniziali molte situazioni sono cambiate alla recita, probabilmente ci saranno stati degli intoppi che hanno reso necessarie modifiche all’ultimo momento. Un grave errore è stato quello di gonfiare le grandi dune sulle gradinate durante l’esecuzione di “Ritorna vincitor” disturbando in maniera preponderante la performance del soprano. Pare strano che nessuno abbia evidenziato il problema in sede di prova. Questa nuova Aida attira più per curiosità che per vero interesse, ma in definitiva è stata un’occasione mancata.
Sul versante musicale lo standard odierno era nella norma dei cartelloni di altri teatri, poiché mettere assieme un cast per Aida, non è cosa poco nei giorni nostri.
Omer Meir Wellber è direttore con discreto talento, ma alterno, il braccio è anche incisivo e il colore, l’eleganza del suono erano apprezzabili, a volte pareva in parte suggestionato dallo spazio, ed è comprensibile, ma la sua lettura si colloca nella buona ruotine interpretativa. Purtroppo in Arena certe sottigliezze e sfumature sono impercettibili, sarebbe stato meglio evitare non perché fuori luogo ma decisamente preferibili le incisività. L’orchestra dell’Arena lo seguiva con passo sicuro e fermo, pur denotando sempre qualche falla negli ottoni, ma è un problema di tutte le compagini orchestrali. Il coro, diretto da Armando Tasso, si è ben prodigato a dimostrare l’ottima conoscenza dell’opera.
La migliore tra i cantanti era Hui He, soprano con voce bella, brunita e sensuale, capace di coniugare sia esigenze liriche sia drammatiche con efficacia ed eleganza. Per dovere di cronaca manca il temibile do dei “Cieli azzurri”, ma non è gran cosa giacché oggi nessuna lo esegue. Fabio Sartori è un Radames preciso e di misura, la voce è squillante quando occorre, se riuscisse ad esprimere un fraseggio più forbito e qualche colore più suggestivo sarebbe il primo della classe. Spenta e poco efficace l’Amneris di Giovanna Casolla, alla quale il personaggio non calza proprio a parte una sommaria interpretazione. I gravi sono forzati perché innaturali alla sua vocalità, il fraseggio poco incisivo, resta un registro acuto di rilievo ma che sarebbe auspicabile utilizzare in altro repertorio. Ambrogio Maestri era un Amonasro superficiale e con voce non sempre intonata e precisa, più attento alle furie del guerriero che all’intimità di padre e re sconfitto. Grezzo e sfuocato il Ramfis di Adrian Sampetrean. Buone le prove di Roberto Tagliavini, il Re, e Carlo Bosi, il messaggero, opaca la sacerdotessa di Elena Rossi. L’inaugurazione della stagione con Aida non ha registrato il tutto esaurito, i lati estremi della gradinata erano vuoti, il pubblico ha ben gradito la performance canora con prolungati applausi, molto timidi quelli riservati al Fura dels Baus.

MACBETH [Lukas Franceschini] 18 giugno 2013.
Finalmente un teatro che allestisce la prima versione Firenze 1847 del Macbeth di Giuseppe Verdi, ed è stato proprio il Maggio Musicale Fiorentino a riportare l’opera nel luogo76mmf-macbeth123 ove nacque ovvero il bellissimo ma rovente Teatro alla Pergola.
Le due versioni del Macbeth si possono considerare come due sorelle, nate dagli stessi genitori, con molte somiglianze ma differenti. Preferirne una o l’altra dipende dai gusti, sono entrambe bellissime, ma sostanzialmente divergono innanzitutto per scrittura poiché hanno diciassette anni di differenza e sono state generate per due diversi teatri con gusti e tradizioni non eguali. Quello che sicuramente emerge nella prima versione è il personaggio di Macbeth, più incisivo, protagonista assoluto. Le arie aggiunte e il finale sono esemplari per focalizzare il terribile re scozzese, senza sminuire gli altri personaggi, lady in primis, la quale non è per nulla inferiore per drammaturgia, ma ha meno predominanza.
A Firenze è tornato Graham Vick uno dei registi più innovati sulla scena teatrale. Si sapeva già in anticipo che la sua messa in scena non sarebbe stata tradizionale e così è stato, tuttavia Vick pur forzando spesso la mano non è no va mai contro la musica e il libretto, inventa e rilegge da par suo in maniera intelligente ed originale. L’ambientazione è ambientata in epoca recente che potremo identificare intorno ai primi anni ’70, anni contraddistinti dall’ondata di terrorismo nazionale. Macbeth dunque è un borghese ufficiale che trova il suo momento d’ascesa politica, la festa del secondo atto è un party campagna elettorale; le streghe, crude e selvagge prostitute iperdrogate, gli predicono il futuro. La doppia facciata della coppia malefica è contraddistinta da una casa del design raffinato e di patina educata, si accoglie Ducano, vecchio e in carrozzella, con tanto di albero di natale e scambio di doni, poi emergono i vizi privati perché le allucinazioni di Macbeth nel terzo atto sono frutto di droga, scambiata in metodo efficace in una sorta di orgia con tanto di travestito. L’arroganza ma anche l’effimera sicurezza del protagonista crolla di fronte agli eventi, la pazzia si manifesta in una cruda carneficina degli esuli con tanto di mitra. Dunque borghesi in ascesa di potere immediato ed altrettanto poco duraturo. Spettacolare il finale quando Malcom sopprime Macbeth, il nuovo re ancora in mimetica assume il potere sempre con le armi, in definitiva il concetto non cambia: despota che subentra ad un altro. Vick si concentra su questi elementi molto crudi e lo fa in maniera ben collaudata, il suo pregio resta ed è quello di essere chiaro e comprensibile a tutti (cosa rara oggi), tuttavia unica perplessità è quella che sono sempre state utilizzate luci molto forti, quasi a giorno, che non creano quell’ambiente sinistro che sarebbe convenuto alla vicenda.
Sul podio abbiano ritrovato James Conlon in ottima forma, seguito da un’orchestra preziosa e precisa e un meraviglioso coro diretto da Lorenzo Fantini. Il direttore con braccio sicuro legge la difficile partitura con tempi serrati ed azzeccati, non tralasciando poetici momenti drammatici ed espressioni di colore e dinamismo, sempre attento al canto e alla trascinante drammaturgia.
Meno soddisfacente la parte vocale soprattutto perché eseguendo la prima versione, il protagonista è fondamentale e Dario Solari non è certo un fulmine di guerra. La voce è anche interessante ma le lacune tecniche sono evidenti soprattutto nella zona di passaggi, la quale ha prodotto qualche inciampo negli atti conclusivi. Molto meglio la Lady di Raffaella Angeletti, la quale ha reso un credibile personaggio con incisività, accenti e fraseggio eloquente, tuttavia in alcuni momenti è parso che avesse tendenza a forzare quando non serviva viste le dimensioni del teatro. Marco Spotti era un valido Banco cui magari avrei preferito un fraseggio più accattivante, molto bravo Saimir Pirgu in Macduff elegante, nobile ed appassionato nell’aria. Molto brava la lunga schiera di cantanti nei ruoli minori. Teatro semivuoto alla recita cui ho assistito, forse per le torride temperature, ma al termine il pubblico ha festeggiato tutta la compagnia con calorosi applausi. Giustamente tutte le rappresentazioni di Macbeth sono state dedicate alla memoria del M° Bruno Bartoletti, insigne musicista e direttore d’orchestra artefice di straordinari eventi musicali che hanno segnato la storia del Maggio Musicale Fiorentino.

MACBETH [William Fratti] 19 giugno 2013.
È un errore sostenere che la versione successivamente ideata per Parigi nel 1865 sia quella definitiva; semplicemente si tratta di due opere differenti, pensate per teatri diversi, con tradizioni e convenzioni lontane tra loro, con protagonisti dalle vocalità non propriamente identiche. Un enorme ringraziamento va al Maggio Musicale Fiorentino che ha voluto riproporre il melodramma primigenio per l’occasione dei festeggiamenti del Bicentenario Verdiano: il pubblico ha potuto riscoprire una musica e un canto che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti ai più. E sinceramente, avendo a disposizione un protagonista con la voce e il temperamento di Luca Salsi, questo Macbeth è decisamente più interessante di quello parigino: il ruolo è molto più lungo, corposo e dalla tessitura più acuta in alcuni punti.
Il baritono parmense ha Verdi nel sangue e sa fraseggiare a accentare come conviene al canto del compositore bussetano. Emozionantissimo è “Sangue a me” nel finale secondo; intensa ed adrenalinica la cabaletta a conclusione del terzo atto. La voce dell’artista è fresca e musicale, lo squillo è luminoso e potente, l’attenzione al suono e alla parola sono di primo ordine.
Tatiana Serjan, in possesso di una voce particolarissima che si adatta perfettamente al ruolo della perfida Lady, si presenta al pubblico con una cavatina strepitosa: ogni nota è ben salda e appoggiata; i gravi sono corposi e gli acuti solidi e ben incanalati; l’accento drammatico è vigoroso ma sapientemente misurato; le agilità sono ben impostate anche dove i numerosi staccati potrebbero creare difficoltà; i piani sono sostenuti da un’ottima tecnica sui fiati; il canto spianato è lirico ed omogeneo.
Marco Spotti è un Banco diverso dal solito ed è un vero piacere sentire la sua voce da Grande Inquisitore in un ruolo generalmente affidato a vocalità più cantabili. La sua robustezza e i suoi accenti gravi, che sanno salire al registro acuto con estremo agio e facilità, danno un nuovo sapore al personaggio, a cui vanno aggiunti un fraseggio particolarmente espressivo e un’eccellente interpretazione, anche nella successiva apparizione.
Saimir Pirgu è un Macduff corretto, dotato di bella voce squillante, musicale ed elegante, con solo qualche piccola mancanza dell’intenzione drammatica, poco sentita e trasmessa.
Ben adeguati ed efficaci i ruoli comprimari, primi fra tutti il Malcolm di Antonio Corianò e il medico di Gianluca Margheri. Seguono Elena Borin (Dama della Lady), Alessandro Calamai (Un domestico), Carlo Di Cristoforo (Un sicario), Giovanni Mazzei (Prima apparizione), Sara Sayad Nik (Seconda apparizione), Lorenzo Carrieri (Terza apparizione).
La direzione di James Conlon, alla guida della brava Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, è davvero entusiastica e ciò lo si nota fin dal preludio. I suoni sono sempre puliti e precisi, le sfumature e i colori sono interessanti e drammaturgicamente centrati, il dialogo tra buca e palcoscenico è sempre presente ed in diretto contatto con la platea e ciò contribuisce a creare un clima di naturale perfezione, dove ogni cosa è al posto giusto. Magicamente emozionante è il concertato del finale primo. Intelligente è la scelta di utilizzare un organico orchestrale ridotto; tre gruppi di sei per le streghe, proprio secondo l’indicazione verdiana; come pure l’esecuzione di tutti i da capo, ad eccezione di uno soltanto.
Molto buona è la prova musicale del Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Lorenzo Fratini; eccellente è l’interpretazione delle streghe, soprattutto per la capacità individuale di ognuna di recitare una parte differente e difficile, senza paura di mettersi in mostra in primo piano.
Lo spettacolo di Graham Vick, appositamente creato per la Pergola, è straordinario sotto ogni punto di vista: estremamente contemporaneo, ma altamente filologico (manca solo “quella sordida barba”); moderno nella concezione drammatica – a testimonianza dell’intramontabilità sia dell’opera shakespeariana sia di quella verdiana – e nell’impianto, in grado di passare da una scena all’altra con continuità e senza interruzioni. La regia, nei movimenti, nei gesti e negli sguardi è precisissima e tutto ha un senso. Ogni cosa, anche ciò che è apparentemente isolato, ha un significato, che lungo il procedere della vicenda è svelato e indi compreso. Lo sviluppo drammaturgico è così fluido che in alcuni punti sembra di assistere ad un serial televisivo.
Eccellenti le scene e i costumi – belli e funzionali – di Stuart Nunn; incredibilmente azzeccate le luci di Giuseppe Di Iorio, che ha saputo rendere ogni diversa situazione col solo uso del bianco. Adeguata la coreografia di Ron Howell. Un solo appunto: sarebbe stato indubbiamente più elegante eliminare ogni accenno sessuale nella recitazione delle streghe (peraltro fortunatamente sporadici e velati), soprattutto perché inutili alla rappresentazione.
Lunghi, calorosi e scroscianti applausi, accompagnati da urla ed acclamazioni, hanno accolto tutti gli artisti. Peccato che la piccola sala evidenziasse alcuni posti vuoti.

MARIA STUARDA [William Fratti] Firenze, 20 giugno 2013.
Grande successo per la Maria Stuarda fiorentina in forma di concerto, anche se i numerosi posti vuoti lasciano intravedere un certo malcontento, oppure una qualche mancanza di interesse da parte del pubblico.
Bardari e Donizetti con quest’opera non sono stati propriamente maestri di drammaturgia in quanto a fatti, ma hanno saputo descrivere minuziosamente i sentimenti dei protagonisti attraverso parole toccanti e musica sublime. Pertanto, ingrediente necessario alla riuscita del melodramma è l’espressività del fraseggio, tanto nell’interpretazione vocale, quanto nell’esecuzione musicale, ma la serata in oggetto è purtroppo apparsa tiepidina e sinceramente un poco noiosa.
Alain Guingal conduce la brava Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino in una performance precisa e pulita nel suono, ma abbastanza povera in colori e sfumature e da qui ne risulta un effetto complessivo abbastanza piatto, in certi punti addirittura poco amalgamato con le voci. La celebre scena dell’incontro tra Maria ed Elisabetta, invece di trasmettere pathos e sentimento, induce più facilmente alla sonnolenza.
Mariella Devia, regina del belcanto, si presenta in scena con la consueta perfezione: la voce è sempre bella, ogni nota è precisamente emessa ed appoggiata, la purezza del suono – pur non essendo cristallina come un tempo – è da manuale, l’attenzione alla parola è inconfutabile, i legati sono pressoché divini. La parte è inoltre eseguita con ricchezza di variazioni, pur non mostrando più la stessa elasticità di qualche anno fa. Davvero interessante è il fraseggio in “Morta al mondo, e morta al trono… Figlia impura di Bolena” sostenuto da accenti eccellenti. Peccato che l’indiscussa sovrana del belcanto non abbia mai alzato gli occhi dallo spartito, contribuendo così ad una serata davvero povera di emozioni.
Laura Polverelli è brava cantante, ma interprete migliore in altro tipo di repertorio. Nei panni della terribile Elisabetta manca dello spessore necessario alla resa drammatica del ruolo ed inoltre è talvolta coperta dal peso orchestrale.
Voce modesta, poco corposa e voluminosa, anche per il Leicester di Shalva Mukeria, che perlomeno si distingue positivamente per il pregio dei piani e delle mezze voci.
Davvero interessante il timbro di Gianluca Buratto nei panni di Talbot, anche se fraseggio e uso della parola quasi incomprensibili.
Adeguati il Cecil di Vittorio Prato, l’Anna di Diana Mian e il Coro diretto da Lorenzo Fratini.

L’ELISIR D’AMORE [Margherita Panarelli] Torino, 26 giugno 2013.
“Quanto è bella, quanto è cara, più la vedo e più mi piace” esordisce Nemorino, ed è possibile affermare che lo stesso vale applicato a questa deliziosa composizione di Donizetti, di cui non ci si stanca mai e che anzi si vuole risentire da capo appena conclusa!
Il Teatro Regio di Torino è riuscito nel non facile compito di assemblare un cast in cui ogni elemento brilla di luce propria perché adatto in ogni virgola, o in ogni nota se si preferisce, al personaggio che interpreta. La deliziosa regia di Fabio Sparvoli, semplice, ma fresca e brillante, sposta la vicenda negli anni ’50, nelle atmosfere di “Pane, amore e fantasia”, i costumi sono coloratissimi e il carro dorato di Dulcamara è una fiammante Topolino granata.
La protagonista, Désirée Rancatore, da ad Adina il giusto pepe senza farla diventare un’oca impertinente. La sua è un’Adina molto cosciente dei propri sentimenti e da quando Nemorino, disperato che sposi Belcore, la supplica di non farlo, lei cambia atteggiamento completamente nei suoi confronti. Se prima era una sfida a chi riesce a far cedere l’altro adesso lei comprende appieno la profondità dei sentimenti di lui e nonostante sia ancora piccata per la sua falsa indifferenza ora il riconquistarlo è diventato un affare serio. Al perfetto phisique du rôle unisce inoltre una vocalità pirotecnica con variazioni da lasciare senza fiato per lucentezza degli acuti, omogeneità di emissione nei vari registri e colorature, trilli, tutti perfettamente eseguiti nella cabaletta “Il mio rigor dimentica”, che incanta la platea e di cui è stato richiesto e ottenuto il bis, e non solo. Queste caratteristiche la rendono una delle odierne interpreti di riferimento per questo ruolo, senza alcun dubbio.
Francesco Meli interpreta Nemorino con una dolcezza impareggiabile senza togliergli quel pizzico di involontaria malizia del personaggio che sembra il più inadeguato, il meno esperto delle cose del mondo, ma la sua candida umiltà vince sulla furbizia di Adina, che ne rimane conquistata, e addirittura di Dulcamara, che crede di avere un vero Elisir. Se “Quanto è bella, quanto è cara” fa sorridere di tenerezza, i duetti con Adina mettono in luce un Nemorino che vuole risponderle a tono perché lui un orgoglio comunque lo possiede! La voce di Meli torna ad ammaliare, specialmente con “Una furtiva lagrima” anche questa con bis, per la qualità del timbro e per la perfetta maestria del proprio strumento. Soavi pianissimi, mezzevoci vibranti, squillo e interpretazione brillante rendono il suo un Nemorino perfetto.
I panni di Belcore, qui un Carabiniere graduato, sono invece vestiti da Fabio Maria Capitanucci che li indossa con ironia e interpreta Belcore come un simpatico burlone molto pieno di sé. La voce del baritono è davvero bella, sicura, forse solo qualche leggera difficoltà nel registro acuto, assolutamente trascurabile.
Nicola Ulivieri interpreta Dulcamara, imbonitore istrionico e dalla grande inventiva, sempre seguito da un mimo (il bravissimo Mario Brancaccio) e gli offre una voce di basso mobile e scherzosa perfetta per il personaggio che interpreta. In “Udite, o rustici” tende ad essere in anticipo rispetto all’orchestra ma non si fa scomporre e rientra al tempo giusto alla seconda strofa. Deliziosa la Giannetta di Annie Rosen.
Giampaolo Bisanti dirige in modo discontinuo, quasi meccanico, con tendenza a dilatare i tempi esageratamente, per fortuna seguendo i cantanti.
Ottima la performance di coro e orchestra del Teatro Regio, sempre a livelli altissimi.

MADAMA BUTTERFLY [Lukas Franceschini] Venezia, 26 giugno 2013.
Al Teatro La Fenice ritorna la tragedia giapponese Madama Butterfly di Giacomo Puccini in un nuovo allestimento Progetto speciale della 55° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia ed incluso nel Festival Lo Spirito della musica di Venezia 2013.
La vicenda della piccola e sfortunata fanciulla giapponese è sostanzialmente conosciuta, non serve rispolverarla, tuttavia pongo l’accento che pur addentrandosi nel mondo esotico orientale Puccini resta ed è totalmente italiano sia in scrittura musicale sia in linguaggio. Egli certamente utilizza delle giapponeserie per illustrare un mondo lontano ma il nocciolo della drammaturgia è la perfida e sadica misura nei confronti dell’ingenua protagonista, ove la società occidentale, approfittatrice e barbara, è meschina e anche la figura ambigua del Console non è assolto appieno. I richiami con la tradizione giapponese sono evidenti e significativi ma l’opera resta di estrazione musicale europea, Puccini non aveva, probabilmente non voleva, esplorare il mondo asiatico nella propria cultura. Questa premessa per introdurre lo spettacolo estremamente stilizzato di Alex Rigola con la scena minimalista (o povera) di Mariko Mori, che hanno voluto realizzare l’opera ispirandosi al teatro kabuki che a mio modesto parere poco si addice alle concezioni pucciniane. Se da un lato abbiamo un giardino, identificato da tre sassi, abbaglia il telo scenografico bianco ed illuminato a giorno, in uno spazio quasi surreale si sviluppa il dramma con i protagonisti tutti vestiti in bianco (troppo!). Non mi appettavo il mondo oleografico e da cartolina giapponese, ma lo schema proposto pur rappresentando un altro livello d’arte espressiva orientale non ha colto la sostanza della drammaturgia. Nel primo atto una forma geometrica sta sospesa sul palcoscenico, scende nella seconda parte e potremo identificare come il simbolo dell’infinito. La regia si limita, o meglio è limitata, ad una gestualità statica del tutto estranea a ciò che si sta assistendo. Se da un lato potremo anche accettare nel primo atto una gestualità siffatta, nel duetto d’amore, ove Butterfly e Pinkerton stanno a cinque metri di distanza è inverosimile. Nella seconda parte la trasformazione americana di Cio-Cio-San è totalmente evitata, concentrandosi su una recitazione astratta ed arcaica sia dell’arte sia dell’espressione. Uno spettacolo che trova una coerenza solo in se steso ma non con una vicenda così complicata ed altrettanto definita.
Omer Meir Wellber da ancora una volta conferma della sua predisposizione sinfonica piuttosto che operistica. La sua concertazione è nervosa e frenetica, più attento alle sonorità che al linguaggio di conversazione così raffinato in Puccini. Il momento migliore l’interludio e l’alba tra il secondo e terzo atto, ma in generale la sua lettura manca di sfumature, di accenti d’intenzioni, di miniatura, anche se non si può negare che il ritmo è conciso ed equilibra buca e palcoscenico.
Il cast era di onesta routine, molto penalizzato dallo spettacolo, ovviamente con i distinguo. Svetlana Kasyan è un soprano con voce molto interessante, potente e brunita. La dizione non era raffinata e il canto di conversazione la metteva a disagio, ma la zona acuta dimostrava delle falle. Per quanto possibile in questo contesto cercava di interpretare ma spesso il fraseggio e l’accento non erano particolarmente forbiti. Giorgio Berrugi era un ordinario Pinkerton al quale anche per il piccolo ruolo non si potrebbe richiedere altro. Elia Fabbian possedeva maggior senso teatrale ed intenzioni, che sviluppava con mezzi anche soddisfacenti ma talvolta grezzi. Non particolarmente incisiva la Suzuki di Rossana Rinaldi, talvolta stonato e con linea di canto approssimativa il Goro di Nicola Pamio, corretti gli altri numerosi comprimari tra i quali si distinguevano William Corrò e Riccardo Ferrari.

LA TRAVIATA [Lukas Franceschini] Verona, 28 giugno 2013.
Il Festival areniano del centenario prosegue con la messa in scena della trilogia romantica verdiana, la prima opera proposta è La Traviata nell’allestimento del 2011 realizzato da Hugo De Ana. È prassi consolidata e corretta quella di riutilizzare gli allestimenti recenti per ovviare ad altri costi e produrre un solo nuovo spettacolo a stagione. La Traviata è tra le opere più rappresentate all’Arena, il primato spetta ad Aida ovviamente, ma ha sempre registrato un grande favore di pubblico. Lo spettacolo in oggetto è una delle migliori realizzazioni che si siano viste sul palco dell’anfiteatro e raccolse consensi unanimi al suo debutto. De Ana ci offre uno spettacolo di grande prestigio ed eleganza, una scena ricchissima di colore delimitata da cornici di quadri mastodontici, nei quali si sviluppa una drammaturgia serrata e ben calibrata sugli interpreti. Non cerca soluzioni astruse o psicoanalitiche irriverenti, tanto in voga oggigiorno, egli traccia con maestria un dramma di alto spessore e spettacolare realizzazione negli insiemi. Violetta è la cortigiana che sappiamo, il cui sogno di un amore vero s’infrange sulla cruda realtà di una società ottusa e dell’inesorabile malattia. Ella frequenta un ambiente ai margini dell’ufficialità ma ricco e festaiolo, determinato da costumi di alta sartoria ed accecante cromatismo, che nella cornice di una scena astratta ma altrettanto elegante crea una visione d’impagabile bellezza. Vanno aggiunte anche le luci, realizzate sempre da De Ana, a corollario di uno spettacolo di sicura memoria.
Il versante musicale ha offerto invece più ombre che luci. Andrea Battistoni è il giovane direttore che conosciamo e anche con una buona dose di talento, il quale tuttavia necessita ancora di molta strada che dovrà compiere con tenacia e tranquillità. In quest’occasione mi è parso molto meno calibrato del solito. Se da un lato si possono apprezzare delle raffinatezze in generale, la sua concertazione era molto lenta, in specie nei preludi, e molto scollegata con il palcoscenico. Le varie sezioni non erano particolarmente coese, spesso i fiati non precisi, considerando anche che la compagine orchestrale sembrava distratta. Il ritmo narrativo era sufficientemente serrato ma nelle scene d’assieme mi sarei aspettato più precisione e un mordente più incisivo in generale.
La protagonista Lana Kos è un soprano croato con voce molto interessante ma ancora da raffinare nel fraseggio e nel registro acuto ove ha evidenziato qualche incertezza, mi auguro di riascoltarla magari al chiuso ed avere più conferme che smentite.
John Osborn spazia con molta facilità tra Rossini e Verdi, i quali non sono certamente simili e lo stile è differente, qualora si richieda tale precisazione. Ad una voce sicuramente appropriata, tolta qualche inflessione di pronuncia, corrisponde anche un personaggio ben realizzato ma non incisivo, soprattutto per una zona centrale non certo solida. Gli diamo onore di aver cantato la cabaletta, senza da capo, ma tutto sommato il ruolo resta agli estremi delle sue possibilità poiché colore ed accento non giocano una parte primaria.
Non mancano questi aspetti a Roberto Frontali ma oramai la voce piuttosto logora, spesso nasale e povera di armonici, e realizza un Germont più nelle intenzioni che nei fatti.
Abbastanza buona la lunga schiera nelle parti minori, tra le quali si mettevano in luce la simpatica Flora di Sanja Anastasia, il brillante Gastone di Carlo Bosi, il ruvido Marchese di Paolo Orecchia e la mesta Annina di Teona Dvali.
Arena piuttosto scarsa di pubblico ma molto generosa di applausi al termine.

L’ELISIR D’AMORE [William Fratti] Torino, 30 giugno 2013.
Non v’è dubbio che la qualità che oggi si può trovare al Regio di Torino la si scorga in ben pochi altri teatri italiani, ma non si comprende appieno l’esigenza di un nuovo allestimento dell’Elisir donizettiano, tra l’altro molto simile alla precedente produzione del 2007, proveniente da Roma. Fabio Sparvoli imita se stesso, certamente con una regia e un impianto efficaci, ma senza portare grandi novità. Ciò importa ben poco al pubblico, letteralmente incantato dalle voci dei due protagonisti principali, che concedono il bis di “Una furtiva lagrima” e “Il mio rigor dimentica”.
Désirée Rancatore è indubbiamente un’Adina di riferimento. Donizetti non l’aveva scritta così, ma secondo i canoni dell’epoca la parte era musicata sulle corde dei primi interpreti, per poi lasciare ampio spazio alle variazioni. Pertanto Rancatore fa in parte riferimento alla tradizione dei lirico leggeri del passato, ma soprattutto appunta lo spartito di note personali, dimostrando anche di essere un’ottima musicista. La sua voce negli ultimi tempi ha acquisito colore e corposità nella zona centrale, ma non certo a discapito dei suoi punti di forza. La sua tecnica impareggiabile nelle agilità, negli staccati e nelle appoggiature, unita ad una naturale elasticità e ad un’eccellente tenuta dei sovracuti, fanno di lei il soprano di coloratura per antonomasia, ma con una marcia in più nella capacità di legare i suoni e nella rotondità del canto spianato.
La affianca un invincibile Francesco Meli. Se anni fa un noto tenore modenese è stato decretato il miglior Nemorino della storia, oggi tale primato rischia di sfuggire dalle mani dell’Emilia per approdare sulla costa ligure. L’omogeneità e la morbidezza della linea di canto; l’espressività e l’eleganza del fraseggio, tanto nei tratti comici, quanto negli accenti patetici; la raffinatezza delle mezze voci, sorrette da un’esemplare tenuta dei fiati, tale da permettergli l’esecuzione di bellissime forcelle; la ricchezza delle sfumature e dei cromatismi fanno di Meli un vero fuoriclasse. Sulla carta il ruolo di Nemorino è abbastanza semplice, ma è davvero complesso saperlo interpretare così bene, in un tripudio di colori che sapientemente spaziano dall’Almaviva rossiniano in “Esulti pur la barbara” fino al Foscari verdiano in “Adina, credimi”. Gli ultimi anni della carriera del tenore genovese lo hanno visto affrontare sempre più spesso ruoli ben più corposi e ciò ha contribuito positivamente alla graduale maturazione della sua voce, che ha acquisito spessore e volume, senza perdere, grazie ad una solida tecnica, la luminosità degli acuti, anzi oggi ancor più squillanti. I sovracuti di testa restano l’eredità proveniente dal repertorio leggero.
Nicola Ulivieri sa essere un ottimo Dulcamara, molto apprezzato per la sua musicalità e la purezza del suono, in quanto non cede alle macchiette di tradizione, che rischiano di sporcare il canto.
Purtroppo il Belocre di Fabio Maria Capitanucci appare stanco e poco brillante, così la voce risulta opaca e tirata al limite negli acuti.
Efficace la Giannetta di Annie Rosen; divertente il mimo, assistente del dottor Dulcamara, Mario Brancaccio; buona la prova del Coro diretto da Claudio Fenoglio.
Corresponsabile del successo di questo Elisir è Giampaolo Bisanti alla guida della brava Orchestra del Teatro Regio, che sa creare un amalgama ben compatto, con un dialogo sempre presente tra buca e palcoscenico, direttamente connesso col pubblico in platea. Come già notato altre volte, grande pregio di questo direttore è la capacità e l’umiltà di saper seguire gli interpreti, non come mero accompagnatore, ma fraseggiando accanto a loro con la compagine orchestrale. In questo modo la sua guida sa creare un lavoro di squadra, intensificando le emozioni trasmesse agli spettatori, obiettivo principale – almeno così dovrebbe essere – dello spettacolo dal vivo.
Un grande ringraziamento va agli artisti impegnati nella recita, che hanno voluto dedicare alla memoria di Alida Ferrarini.

AIDA [Lukas Franceschini] Verona, 3 luglio 2013.
Siamo tornati all’Arena di Verona ad una recita di Aida, nuova produzione de La Fura dels Baus, sia per un cambio cast sia per rivedere questo nuovo allestimento che alla prima non ci aveva convinto.
Della nuova produzione si riconfermano le opinioni espresse in occasione della prima, trattasi di uno spettacolo sicuramente tecnologico ma del tutto estraneo alla musica e alla drammaturgia espressa. Dal punto di vita musicale le cose non sono cambiate da quanto espresso in precedenza. Il maestro Omer Meir Wellber si riconferma discreto professionista, magari adesso leggermente più rodato, ma talune sfasature tra buca ed orchestra sono sempre percettibili, tuttavia non manca una certa idea narrativa era evidente ma in uno spazio aperto difficilmente realizzabile.
L’Aida di Maria José Siri è alquanto discutibile sia per intenzioni sia per interpretazione. La voce è anche interessante ma non rifinita nella zona di passaggio e nel registro acuto, sovente stridulo quanto non limitato. La resa del personaggio è ancora più disarmante considerato il tono quasi isterico della recitazione, il fraseggio sempre esasperato.
Fabio Sartori è sempre un Radames corretto e puntuale, senza colore ed accento, ma è solido e arriva in fondo con onore. Una certezza in questi tempi che conviene rilevare e conservare.
Danila Barcellona debuttava all’Arena di Verona, non nel ruolo di Amneris che va considerato un personaggio ai margini del suo repertorio più incline al belcanto e ai ruoli en-travesti. La sua prestazione si può apprezzare per il peso vocale importante ma non uniforme in tutti i registri, ove si notavano sfasature nella zona di passaggio e un acuto non particolarmente folgorante. Il personaggio è reso in maniera convenzionale e la recitazione sommaria.
L’Amonasro di Marco Vratogna non lasciava segni degni di nota, poiché la voce è ruvida e il canto non rifinito. Dei due bassi, Adrian Sampetrean non andava altre la banalità, mentre Roberto Tagliavini dimostrava buona musicalità.

UN BALLO IN MASCHERA [Lukas Franceschini] Milano. 19 luglio 2013.
Al Teatro alla Scala è stato allestito l’ultimo spettacolo prima della pausa estiva: Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, nuova produzione in collaborazione con la Fondazione Teatro Comunale di Bologna.
Considerando i tempi attuali nei quali i teatri lamentano sempre più ristrettezze economiche, forse sarebbe stato opportuno riutilizzare il precedente allestimento scaligero del 2001, impegnato solo allora per nove rappresentazioni.
L’opera in oggetto è un capolavoro assoluto di tutto il melodramma ottocentesco, come cita Gustavo Marchesi “…intriso di preziosismo, sensualità, macabro, splendore, rovina e tensione tragica”, e un mix che fece coniare a Gabriele D’Annunzio la frase: il più melodrammatico dei melodrammi. In effetti, eccetto i problemi con la censura e variazione di personaggi e luoghi, il Ballo è probabilmente l’opera della piena maturità verdiana anzi la prima della serie che si chiuderà poi con Falstaff. La tavolozza dei colori è emblematica, e i personaggi, scolpiti sia nella musica sia nel dramma, esemplari. Vi sono il frivolo paggio Oscar, il fedele e vendicativo Renato che però rappresenta il valore del matrimonio e della famiglia, la fanatica stregoneria di Ulrica, la tormentata Amelia e l’affascinante Riccardo, il protagonista, uomo di potere ma anche di sentimento, incurante del destino e della paura, ardito, che osa proclamare quasi gridando un inno alla vita e all’amore in un duetto tra i più infuocati della storia dell’opera. Egli è anche uomo nobile ed umano, nel finale la sua magnanimità è esaltante e riscatta le spavalderie precedenti, il tutto reso musicalmente con raffinato accento. La trama dell’opera potrebbe essere attualissima e ideale per ogni epoca, se Verdi e il Somma dovettero ambientarlo nella lontana Boston, fu solo per problemi con la censura.
Il nuovo spettacolo scaligero era curato da Damiano Micheletto spesso citato come enfant terrible dell’opera, assieme ai consueti Paolo Fantin (scenografo) e Carla Teti (costumi). Ma perché terrible? Michieletto è un giovane regista che attualizza sempre la drammaturgia delle opere, non a caso ma con un senso analitico del testo e con coerenza. Questo non vuol dire che a priori le sue realizzazioni siano sempre condivisibili, ma la sua cifra artistica è ben definita, poi ci possono essere lavori che entusiasmano altri meno, è una delle regole del teatro. Alla prima rappresentazione di Un ballo in maschera alla Scala il regista è stato oggetto di una violenta contestazione. Al di là dei gusti, meriti e difetti, devo affermare in assoluta sincerità che il regista veneziano ha pagato ingiustamente o meglio eccessivamente, una scelta artistica del teatro di regia fortemente voluto dalla Scala in questa stagione. Tutte le opere di Verdi, eccetto Falstaff, sono state rappresentate in allestimenti “moderni” e l’ultimo della fila ha dovuto sopportare la disapprovazione del pubblico anche per gli altri. Per non essere di parte affermo che la nuova creazione di Michieletto non mi ha né convinto né entusiasmato, ma questo non toglie che il lavoro effettuato non sia stato curato e studiato. Michieletto ha il pregio, anche in altre sue produzioni, di essere sempre chiaro e coerente, non v’è nulla d’implicito o di non chiara comprensione, pur legittimando le differenti opinioni circa la realizzazione. Michieletto non fa in questa produzione un’innovazione particolare, sposta l’azione nell’America di oggi ove Riccardo è un candidato alla carica di Governatore in piena campagna elettorale, Renato il capo della sua scorta, Oscar responsabile ufficio stampa, Ulrica una santona-predicatrice televisiva. Niente e nulla di scandaloso, anzi tutto molto coerente con l’era degli smartphone, che fotografano Riccardo negli studi della tv locale, e degli schemi da tipici della politica corrotta, più evidente oggi rispetto ieri. Semmai possono essere discutibili talune scelte: inizio atto secondo ambientato in una periferia luogo abituale d’appostamento di prostitute in attesa di clienti, sinceramente poco sicuro anche per un incontro d’amore clandestino, e il grande ballo finale che manca della magnificenza di certe campagne elettorali americane molto incentrate sullo show, mentre la resa in teatro era molto disarmante essendo realizzata da cartoni pubblicitari con la foto del candidato. I personaggi, tuttavia, sono credibili e ben calibrati nella loro drammaturgia, questo significa che il regista ha studiato a fondo il libretto e non s’improvvisa in uno spettacolo disomogeneo, cui vanno aggiunti gli ammirevoli costumi di Carla Teti e la bellissima scena di Paolo Fantin che passa con maestria da un ambiente all’altro, efficace la prima scena e la casa di Renato al terzo atto.
Sul podio del Teatro alla Scala è salito Daniele Rustioni, ormai affermato direttore a livello internazionale. Rustioni è stato un concertatore attento e sufficientemente capace nell’affrontare la partitura, la quale oltre ad essere molto difficile, richiede saldezza di braccio ed impeto. Egli è riuscito a tenere un solido equilibrio tra buca e palcoscenico, essere pertinente nel disegno musicale, senza però metterci quel certo mestiere d’incisività che sarebbe stato opportuno in alcuni momenti soprattutto del secondo atto così carico di tensione. È auspicabile che nelle recite successive abbia trovato maggior calibro ma la sua direzione nel complesso è positiva perché non si sono notate sfasature e l’orchestra lo seguiva con diligenza e buon suono. Anche il coro, diretto da Bruno Casoni, ha mantenuto il suo standard abituale confermandosi un’ottima compagine musicale.
Venendo ora al cast non è possibile non rilevare che attualmente il Ballo è un’opera molto difficile da allestire, giacché voci ed interpreti scarseggiano, anche a discapito di critiche questa mia affermazione è supportata non solo da questa esecuzione ma anche da altre di un recente passato. La locandina presentata alla Scala offriva, né più né meno, il meglio oggi ipotizzabile e non per questo la migliore compagnia.
Marcelo Alvarez ha allargato da qualche anno il suo repertorio anche a titoli che non hanno avuto la stessa riuscita di altri. Uno di questi è Riccardo, del quale avrebbe voce e presenza adeguata, ma non una tecnica di canto raffinata e ciò lo mettono in evidente imbarazzo. Cantante poco abituato alla perizia tecnica sfrutta in ogni senso lo splendido timbro ma questo non gli permette di essere un ottimo cantante quando i fiati sono corti, gli acuti lanciati alla meno peggio, con l’aggiunta ad un legato inesistente.
Sondra Radvanosky, che debuttava in Scala, è stata cantante di grandi qualità ad esempio quando anni or sono debuttò all’Arena di Verona e faceva pronosticare un futuro molto luminoso. Anche in questo caso, e nello specifico nell’Amelia in questione, la voce è tanta e di particolare effetto ma ormai gli acuti sono tutti forzati, denota una sommaria lacuna nel registro grave, mentre il centro non è rifinito. Che peccato! Quando tentava una smorzatura il risultato era modesto, per non parlare dei suoni notevolmente aperti durante il canto di conversazione che è a senso unico.
Zeljko Lucic non è proprio il baritono romantico che la parte richiede perché il suo canto è sempre sgraziato cui si deve sommare un gusto grossolano e un’assenza di eleganza vocale. Marianne Cornetti è un’altra cantante che avrebbe talento e voce di primordine ma ormai diseguale e malferma. Devo ammettere che in questo ruolo breve non ho notato particolari screziature riscontrate in altre occasioni, e tutto sommato ha passato la prova, pur restando sempre in evidenza i difetti. La migliore della serata è stata Serena Gamberoni, un Oscar di rilievo per brillantezza di canto e brio musicale che ha avuto un giusto e indicativo successo personale. Tra i comprimari il solo Alessio Arduini, Silvano, si è fatto notare per bella e precisa vocalità.
Ho assistito alla quinta recita e il pubblico non era così generoso d’applausi durante l’esecuzione, forse in parte scosso per la regia, ma al termine ha distribuito consensi a tutta la compagnia apparsa alla ribalta tutta assieme, dopo le contestazioni della prima. Per dovere di cronaca aggiungo che il direttore è uscito quando il soprano è andato ad accoglierlo e a questo punto essendo quasi un’uscita solistica è stato bersaglio di qualche contestazione dal loggione. Sbagliata l’uscita in tal modo, ma sbagliati anche i “buu” alla sola bacchetta, sarebbe stato curioso assistere alle uscite singole.

L’ELISIR D’AMORE [Francesco Bertini] Padova, 26 luglio 2013.
A discapito degli anni problematici, la città di Padova continua ad organizzare una stagione lirica autunnale con almeno tre titoli del grande repertorio, specie ottocentesco. Dal 2012 ha avuto principio anche un’altra iniziativa estiva, la “Lirica sotto le stelle” che dalla cornice del Giardino di Palazzo Zuckermann si è spostata, in occasione dell’edizione 2013, nel cortile del Castello Carrarese, spazio recentemente recuperato e riservato ad una serie di eventi culturali, di alto profilo, che richiamano pubblico open air.
Tra le altre proposte spicca la messinscena di L’elisir d’amore, a mo’ di inaugurazione anticipata della prossima stagione lirica. A fugare i dubbi di chi temeva non ci fosse affluenza, dato il fuggi fuggi verso le località vacanziere e il caldo torrido, è stato il pienone di pubblico giunto anche last minute. La produzione ha l’evidente intento di dare spazio a giovani artisti ai quali viene data la possibilità di calcare il palcoscenico mettendo a frutto gli anni di formazione.
È senz’altro il caso di Lavinia Bini, soprano toscano. La sua Adina è frizzante e spigliata, ma non priva di quell’umanità e verità che la rende personaggio credibile, naturale, vivo. La cantante possiede vocalità interessante e, salvo alcune piccole difficoltà, evidenziatesi con il procedere della serata, maturità di mezzi per iniziare ad affrontare certo repertorio con fraseggio consapevole, come dimostrato in quest’occasione, e felice inventiva scenica.
Al suo fianco il tenore Fabrizio Paesano, annunciato lievemente indisposto, ha voce esile ma piacevole se non fosse per le deficitarie condizioni dell’intonazione che durante l’intero spettacolo fatica a stabilizzarsi. Sarà interessante un ascolto tra qualche tempo, confidando in un miglioramento apportato dallo studio e dal perfezionamento.
Mattia Olivieri, Belcore, ha presenza scenica ottimale per il ruolo del sergente ma per quanto attiene l’interpretazione musicale soffre di alcune genericità, in particolare nel fraseggio, pur esibendo uno strumento dalle doti prestanti e in piena maturazione.
L’annunciato Filippo Morace, artista di punta di questa edizione padovana, non ha potuto partecipare alla recita per indisposizione. Il sostituto, giunto poche ore prima della recita, è il triestino Paolo Rumetz, baritono presente di frequente nel Teatro Verdi del capoluogo friulano. Considerando l’arrivo last minute, il cantante ha “salvato” la parte del ciarlatano che richiede impegno e buongusto. La sua prestazione, seppur perfettibile e non sempre raffinatissima, denota padronanza scenica, consapevolezza dei tempi teatrali e sagacia interpretativa.
A chiudere il cast vocale Silvia Celadin, Giannetta.
Il Coro città di Padova, preparato da Dino Zambello, è a tratti poco amalgamato ma porta a termine fiduciosamente la recita. Come lo scorso anno, anche in quest’occasione l’Orchestra di Padova e del Veneto è apparsa corretta e diligente.
Questo risultato è stato ottenuto grazie alle direttive di Giampaolo Bisanti, concertatore a proprio agio nel repertorio italiano. Bisanti ha affrontato a lungo le opere di Verdi e Puccini ma ha coltivato anche gli autori della prima parte dell’Ottocento, dimostrando, proprio con Donizetti, un interessante sintonia. È encomiabile la sua capacità d’accompagnare i cantanti, rispettando, senza imporsi, le loro esigenze e dando, allo stesso tempo, un’impronta personale alla lettura dell’opera, accresciuta dal suo intelligente fraseggio.
Ad occuparsi dell’allestimento è Giulio Ciabatti che svuota il palco il più possibile, lasciando unicamente alcune sedie colorate e dei panni sfalsati, a mo’ di fondale, e affida gran parte dello spettacolo all’inventiva degli artisti i quali portano in scena il loro bagaglio attoriale, ovviamente secondo le indicazioni suggerite dal regista. I costumi di Lorena Marin sono semplici ma efficaci. Prolungati applausi al termine e successo caloroso.

LUISA MILLER [William Fratti] Busseto, 27 luglio 2013.
Leggendo un pensiero inviato da Carlo Bergonzi, con un nodo stretto in gola, Vittorio Testa apre la serata del 27 luglio, presentando il Progetto Verdi 2013 in collaborazione con Fondazione ATER Formazione – Scuola dell’Opera Italiana, che vede in Leo Nucci in docente principale e responsabile didattico del Corso di alto perfezionamento per Interpreti del canto e Maestri collaboratori con specializzazione nel repertorio verdiano.
“Esiste, per me, una meravigliosa poesia greca titolata “Viaggio ad Itaca” e la sintesi si può ridurre così: “Cerca la tua Itaca con tutte le tue forze ma fa si che il viaggio duri il più a lungo possibile e godi ogni momento del viaggio”. Questa è stata l’avventura del “Corso di alto perfezionamento per interpreti del canto con specializzazione nel repertorio verdiano” e questa, mi auguro, per me che ho avuto modo di imparare tanto, divenga per i giovani, che hanno la possibilità concreta di essere aiutati e incoraggiati, un viaggio lungo e pieno di gioia nell’apprendere! L’oper è un mondo pazzo e qualche volta grottesco che ha già una prerogativa unica, può dare emozioni irrepetibili! Ciò è quello che sogno avvenga nella nostra messa in scena della “Luisa Miller” del Genio Giuseppe Verdi che noi, da umili umani, cerchiamo di onorare. Un grazie a tutti coloro che hanno collaborato a realizzare questo viaggip che spero sia appena iniziato. Leo Nucci”. Queste parole del celebre baritono, stampate sul programma di sala, sono particolarmente significative e trovano reale concretizzazione sul palcoscenico di Piazza Giuseppe Verdi.
La messa in scena teatrale di Leo Nucci, con il regista collaboratore Salvo Piro, i costumi di Alberto Spiazzi e il disegno luci di Claudio Schmid, è semplicissima: piante, fiori e arredamento da giardino sono la cornice unica della vicenda e ciò è totalmente efficace, a dimostrazione che se il melodramma racconta di sentimenti umani, ciò che è indispensabile sono soltanto il gesto e la parola.
Donato Renzetti dirige con gusto la brava Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, anche se difficilmente si riesce a esprimere un’opinione in merito alla qualità del suono e all’uso delle sfumature, poiché l’acustica non è delle migliori. Certamente l’effetto visivo è particolarmente emozionante, con la Rocca Pallavicino e il Monumento a Giuseppe Verdi alle spalle della scena, ma per approfittare appieno della naturale acustica della piazza, come del resto è stato fatto per decine di anni, il palcoscenico dovrebbe essere montato davanti a Casa Barezzi e con le opportune quinte in legno.
Giulia Della Peruta è una Luisa dal colore limpido, che pur non possedendo un particolare accento drammatico, sa interpretare il personaggio con buon fraseggio, eccellente uso della parola, omogeneità musicale su tutta la linea di canto, senza mai perdere di volume neppure nelle note più basse. La tecnica è notevole e lascia intravedere la stoffa di una solista di riguardo, cui si augura una prospera carriera.
Vincenzo Costanzo è un Rodolfo inizialmente molto emozionato, ma che dimostra immediatamente di saper cantare, anche se un po’ meno generoso dei colleghi e con qualche nota non propriamente intonata. Purtroppo non è naturalmente dotato di squillo e il suo belcanto all’italiana, piacevolissimo nei cantabili, tende a opacizzarsi dopo il passaggio all’acuto e in effetti, durante i concertati, la sua voce non riesce a distinguersi dal gruppo.
Man Soo Kim è un Miller in possesso di accento e fraseggio tipicamente verdiani, con vocalità luminosa e brillante, ed è un vero peccato che nel recitativo l’intonazione sia precaria e che alcuni acuti siano un po’ tirati al limite.
Gianluca Lentini purtroppo non possiede né l’autorevolezza interpretativa né lo spessore vocale adeguato per vestire i panni di Walter e la sua performance risulta un po’ monotona, oltreché mostrare qualche pecca nell’intonazione e nelle note più gravi.
Il ruolo di Wurm è eseguito da Cristian Saitta, che sfoggia un’imponente presenza scenica propriamente sostenuta da una voce voluminosa, corposa e ben centrata, tanto nel recitativo quanto nel cantabile.
La Federica di Junhua Hao è ben misurata nel personaggio, forse troppo, e mostra una bella voce intensa e brunita, anche se eccessivamente pastosa nella pronuncia. Buona la resa delle note più estreme, sia basse, sia alte.
Completano il cast la brava Renata Campanella nel ruolo di laura e Bruno Nogara nei panni del contadino. Buona la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati.

L’ITALIANA IN ALGERI [Lukas Franceschini] Pesaro, 7 agosto 2013 (prova generale).
La XXXIV Edizione del Rossini Opera Festival si è aperta con la nuova produzione dell’opera L’italiana in Algeri ovviamente del compositore cittadino nativo nel lontano 1792.
L’italiana fu il primo grande trionfo di Rossini in quella Venezia che lo vide affermarsi prima con le farse, poi con il genere serio, Tancredi. Non era la prima volta che egli si cimentava con l’opera buffa, l’anno precedente il suo debutto scaligero ne’ La pietra del paragone ottenne un meritato successo, tuttavia è con Italiana che inaugurò un genere ricercato di commedia giocosa al cui vertice si possono allineare anche i titoli La Cenerentola e Il barbiere di Siviglia. Non mi soffermerò sulla trama e la raffinatezza musicale, l’opera è di repertorio, piuttosto sarebbe il caso di porre l’accento sull’universo femminile rossiniano, cui Isabella è uno dei più azzeccati personaggi: donna padrona di se stessa, d’iniziativa, audace più dell’uomo, e vera italiana nella praticità degli eventi che riflettono in parte le stranezze maschili.
Il nuovo allestimento pesarese era curato da Davide Livermore alla regia, Nicolas Bovey per scene e luci, Gianluca Falaschi per i costumi. Purtroppo questa Italiana annoia per idee rivisitate da precedenti spettacoli, vedasi l’aereo di Isabella in ammaraggio, le continue gags da vecchio cabaret, il persistente danzare ad ogni movimento musicale, salti e giravolte continue. L’azione è spostata ai giorni nostri e il bey non è altro che un ricco petroliere islamico, con tutto quel che ne consegue. A far ridere in quest’opera c’è già la musica e basterebbe con le scene comiche raffinate create all’origine, pertanto non era necessario aggiungere nulla, o meglio evidenziare cosi banalmente i caratteri dei personaggi. I quali erano troppo stereotipati sul fisico avvenente sia della protagonista sia di Mustafà, spesso molto spogliati. Irritanti le due hostess che mimavano molte scene, superfluo il momento in cui il bey s’imbottisca di viagra prima dell’incontro con la donna italiana. Durante l’overture erano simpatici i video, curati da D-Wok, che illustravano l’antefatto, ma ancor più meravigliosi erano i costumi di Gianluca Falaschi, cromatici, di raffinata sartoria che s’ispiravano a film e personaggi cinematografici: bellissima la protagonista che faceva il verso a Florinda Bolkan o Wonder Woman.
L’opera non s’identifica solo con lo spettacolo, anzi prima di tutto ci sono la musica e cantanti, ma è comune e sbagliata considerazione odierna puntare soprattutto su questo. I risultati musicali sono stati molto modesti dall’insipida direzione di José Ramon Encinar, debuttante al Rof, che concertava con tempi lenti e scarso mordente, incapace di reggere il gioco istrionico rossiniano e con un non ben calibrato rapporto tra buca e palco. Le colpe non erano tutte sue perché stranamente anche l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna dimostrava numerose mancanze soprattutto nel settore fiati, si esprimeva in un suono legnoso e con molte imperfezioni nell’insieme. Magari nelle recite successive certe lacune saranno colmate, me lo auguro!
Protagonista era Anna Goryachova, che salvo errori esce dall’Accademia Rossiniana locale, e lo scorso anno non fu un Edoardo, in Matilde di Shabran, entusiasmante. La voce della signora Goryachova è piuttosto limitata nel settore grave, potrebbe sorgere anche qualche dubbio sul suo registro, poco raffinata nel canto, acuti spesso gridati con l’aggiunta di agilità scolastiche o abbozzate, tutto questo non fa di lei una primadonna rossiniana. Tuttavia, e spiace rilevarlo, lei ha un fisico avvenente ed è una donna bellissima, questo forse il suo asso nella manica per questa produzione che puntava più su una recitazione sensuale cinematografica piuttosto che sulle qualità sonore.
Meglio il Mustafà di Alex Esposito, credo anche debuttante nel ruolo, il quale è stato un cantante che riesce ad essere un personaggio vocale credibile, con voce pertinente, un buon sillabato scandito, anche se l’accento non è sempre ponderato e la resa durante lo spettacolo discontinua.
Note negative anche per Yijie Shi, tenore amorfo e con voce contraltina incolore che non gli permette l’esecuzione dell’impervio ruolo, oltre ad una tecnica malferma con cali d’intonazione. Mario Cassi, Taddeo, proponeva un personaggio molto stereotipato nei gesti e nei modi e troppo trattenuto in vocalità che dovrebbe essere più variegata e disinvolta. Senza traccia la Zulma di Raffaella Lupinacci, eccessiva e poco raffinata l’Elvira di Mariangela Sicilia, si metteva in luce per buona linea di canto Davide Luciano nella preziosa aria “delle femmine”. Al termine un festoso applauso da parte dello straripante Teatro Rossini, nel quale erano presenti molti colleghi delle altre due produzioni.

L’OCCASIONE FA IL LADRO [Lukas Franceschini] Pesaro, 8 agosto 2013 (prova generale).
Al Rossini Opera Festival è consuetudine presentare nel cartellone annuale una delle numerose farse a fianco di titoli più importanti. Per l’edizione del 2013 è stata riproposta L’occasione fa il ladro nello storico allestimento di Jean-Pierre Ponnelle creato per il Rof nel 1987.
L’occasione fa il ladro è una farsa in un atto che Rossini compose per il Teatro di S. Moisè nel 1812, siamo dunque agli inizi della carriera iniziata appunto a Venezia con La Cambiale di matrimonio, tralasciando la questione di Demetrio e Polibio a Bologna. In questi primi anni il compositore scrisse cinque farse per il teatro veneziano, e raccolse successi pieni (eccetto il Bruschino) cimentandosi contemporaneamente sia nel serio sia nell’opera buffa articolata in atti. Molti hanno voluto fare una classifica di queste cinque “operine”, a chi scrive pare superfluo: trattisi di cinque deliziosi spartiti, magari le preferenze personali vanno più su una che l’altra, ma in tutte si trovano tratti e stili anche occasione 1precedenti a Rossini con l’ovvio zampino del genio, che attribuisce a quasi tutti gli interpreti momenti di vera classe con arie brillanti. Nell’occasione sono di particolare pregio l’aria di Alberto e di Bernice, autentici gioielli.
Riprendere lo spettacolo di Ponnelle nel 2013 è stato anche un tributo al regista nel 25° anniversario della sua scomparsa, volutamente sottolineato da Sonja Frisell che dell’artista fu assistente per lungo corso. Ponnelle creò quest’allestimento all’Auditorium Pedrotti e realizzò una farsa di mirabile invenzione, teatralità innata, servendosi di quasi “nulla”. Durante l’overture i tecnici montano dei sipari in tela mobile che servono da scenografia, il personaggio di Martino porta una grossa valigia che colloca in mezzo al palcoscenico e da questa escono tavoli, sedie, e personaggi come una sorta fiaba. A questo aggiungiamo che la recitazione e la vis comica sono sempre sorvegliate e gradevoli, rifacendosi al teatro della commedia senza trasbordare in scenette d’avanspettacolo. Sonja Frisell coglie appieno l’impostazione del maestro, sovente in Italia è la regista che riprende gli spettacoli di Ponnelle, cambia pochissime cose con gusto e senso drammaturgico anche in base ai riallestimenti come nel caso odierno al Teatro Rossini. Costumi di elegante sartoria, tradizionale l’ambientazione d’epoca di primi ottocento, si può affermare senza ombra di smentita che si tratta di uno spettacolo che non porta il peso degli anni, sempre attuale, sempre piacevole e divertente, come se ne vorrebbero vedere altri. Ecco un fattore che molti direttori artistici dovrebbero tener presente nella scelta dei registi, in Ponnelle vi sono sempre elementi imprescindibili nel suo teatro d’opera: il rispetto della musica e l’eleganza.
Sul versante musicale si è avuta la piacevole conoscenza del direttore Yi-Chen Lin, giovane ragazza di Taipei. Concertatrice non nuova al Rof dove ha già diretto Il Viaggio a Reims “Giovani”, oggi è promossa in sala grande. La signora Lin è stata una gradita sorpresa e conoscenza, ha un bel gesto, stile di concertazione, rende l’opera con ritmo e gusto interpretativo, riuscendo in maniera molto egregia nel compito di coesione generale. Anche in questo caso il cast canoro non era eccezionale, anche se occorre rilevare che erano ottimi attori. Emergeva per simpatia, ottimo fraseggio e qualità vocali il Martino di Paolo Bordogna, da qualche anno una garanzia in questo repertorio. Roberto De Candia si produceva in un canto poco espressivo e molto parlato, risultando opaco e talvolta sfuocato, Enea Scala non ha dalla sua le qualità del tenore rossiniano, troppo linfatico e poco acrobatico soprattutto nella celebre aria. Elena Tsallagova ha poche caratteristiche della virtuosa e molti limiti nel registro acuto. Accettabili Viktoria Yarovaya quale Ernestina e Giorgio Misseri nel ruolo di Eusebio.

GUILLAUME TELL [Lukas Franceschini] Pesaro, 8 agosto 2013 (prova generale).
Il terzo titolo operistico al Rossini Opera Festival 2013 è stato Guillaume Tell, l’ultima opera del compositore, che al Rof nel corso della sua lunga storia è stata rappresentata solo una volta nel lontano 1995.
Il Tell è la più monumentale opera di Rossini, oltre al congedo dalle scene, e per vari motivi si stacca notevolmente dalla scrittura musicale abituale, è intrisa di anima epica e potente, grandiosa per concezione. Accanto ai personaggi, scolpiti a meraviglia, vi è un altro elemento di rilievo: il popolo svizzero. Questi è rappresentato dal coro, dipinto nei suoi costumi pastorali, in particolar modo nel I e III atto, mentre nel II atto si esaltano i sentimenti patriottici con fierezza e dignità nell’amore alla libertà, impulso generoso e audace. La musica che lo contraddistingue è espressa dalla soave fragranza dei pascoli alpini ove vive, tenendo il passo con cori solenni quasi religiosi, canti montanari estatici e danze eleganti. L’orchestrazione rossiniana, come predetto, in quest’opera supera quanto fatto da lui stesso e dagli altri, il ritmo è sempre dinamico e vivo, la tavola dei colori densa e feconda, fermi i punti cruciali dell’opera: il pastorale e l’eroico. Vi è poi il sentimento della natura, in parte poeticamene espresso dalla sinfonia, che origina poi descrizioni peculiari come quella dei tre diversi popoli che si uniscono a convegno nel II atto. Il colore orchestrale è straordinariamente reso al IV atto quando dall’incupirsi del temporale, si rischiara nel finale in una luminosità addirittura catartica, portando un possente soffio di vita in una dimensione lirica di contemplativa quasi universale.
Da sempre la problematica centrale nell’allestire il Tell è la scelta del tenore, cha ha una parte così rilevante tale da emergere sugli altri coprotagonisti. Il primo interprete fu Alphonse Nourrit, tenore con voce corposa, accento molto incisivo, zona centrale ampia e capacità di salire all’acuto in falsettone. In seguito la parte fu “acquisita” da Gilbert Duprez che trasformò gli acuti in falsetto a “di petto”, ricevendo il biasimo di Rossini. Tutto questo però mandava in delirio il pubblico, ma è confermata una scrittura con salti improvvisi, ardimento e una spinta a picchi vocali di ardua capacità tecnica.
Per la nuova produzione del Rof è ritornato il regista inglese Graham Vick dopo il discusso Mosè in Egitto del 2011. Anche dopo questo spettacolo c’è stata un po’ di delusione, perché non ho trovato il Vick di un tempo che creava allestimenti più memorabili. Non si tratta di una produzione, o meglio, concezione registica sbagliata ma troppo politicizzata e poco coerente con il significato dell’opera. Quando si entra in teatro, all’Adriatic Arena, si vede un sipario chiuso bianco e rosso, prevalente il secondo colore, con un pugno chiuso a tutto campo. Quale sia il nesso tra comunismo e la storia della Svizzera mi è ignoto, potrei affermare che la lotta del popolo per la libertà nel ‘900 è in parte rappresentata da lotte d’ideologie di sinistra, ma a ragion veduta la rivolta storica svizzera la fecero i signori locali, certo con l’aiuto del popolo, ma in Svizzera il comunismo non ha mai avuto fertile terreno. Penso che Vick abbia volto rilevare un generale percorso, probabilmente non ideologico, dell’insurrezione dei popoli contro l’usurpatore, tutto ciò è abbastanza astratto e prosaico. Lo spazio bianco delle scene di Paul Brown non è definito ma essenziale e non suscita particolare emozione. La visuale alpestre si rappresenta non spesso con aperture di porte scorrevoli e proiezioni, tuto dejà vu. La contrapposizione tra il potere dello straniero e la voglia di libertà del popolo locale è sempre rappresentata con violenza estrema, di chiaro riferimento nazista, un po’ troppo sopra le righe. Non è possibile negare, in questa chiave, un grande lavoro introspettivo sui personaggi che sviluppano la loro drammaturgia in maniera efficace ma sempre oltrepassando il limite. Di assoluta gratuità e poco convincente la scena del grande balletto del III atto che qui è trasformata in una pantomima di cruda brutalità, evitando il grande momento del grand-opéra dedicato alla danza che Rossini compose in maniera sublime, tuttavia erano bravissimi i ballerini impegnati. Efficace invece la scena del II atto con i cavalli finti che denotano l’aristocrazia, ma nello stesso tempo è l’animale da lavoro del popolo pertanto nell’insurrezione sono tutti stramazzati morti a terra. Il finale, una delle pagine musicali più emblematiche di tutta la storia dell’opera, trova nella scala che discende dall’alto e salita dal giovane Jemmy, una visione molto chiara ma non entusiasmante sotto il profilo visivo. Di pregio i costumi.
Michele Mariotti era il direttore concertatore dell’opera e rispetto ad altre sue esibizioni rossiniane stavolta le cose non sono andate tutte per il verso giusto. Personalmente penso che forse fosse troppo presto per affrontare un titolo così complesso. Già nella sinfonia il gesto era lentissimo, anche nel galop finale senza contare gli sbandamenti degli ottoni, in seguito il passo narrativo mancava di efficacia e drammaturgia, per nulla intrigante la scena del giuramento e molto discontinue le sezioni con il coro. I concertati erano un altro tallone d’Achille, soprattutto il finale atto III ove ha perso la bussola. Non posso mancare che egli si sia prodigato ad ottenere anche momenti interessanti ma proprio per diversità dello spartito non riusciva nell’intento, ed aveva a disposizione un’orchestra in netto peggioramento rispetto alle esibizioni nella stagione bolognese. Chi invece ci ha offerto una prova superlativa è stato il magnifico Coro de Teatro Comunale di Bologna, precisissimo, musicale, sempre omogeneo, un vero piacere per l’ascolto.
Nicola Alaimo era un protagonista anche volenteroso che cercava un fraseggio eloquente, ma sovente non lo trovava, la scrittura lo metteva talvolta in difficoltà nella zona centrale sviluppando poi nel registro superiore suoni amorfi e stridenti. Stranamente nella grande aria del III atto è stato abbastanza efficace e variegato, ma per questo personaggio servirebbe maggio peso specifico e mordente. Marina Rebeka sarebbe anche un’onesta e brava cantante ma è stata impegnata in un ruolo superiore alle sue qualità vocali, le quali sono tipicamente di soprano di coloratura e non lirico. Esegue la prima aria in maniera corretta ma poco accentata, la seconda, che è molto virtuosistica, la mette in evidente difficoltà sia per tecnica sia per scrittura e per la bacchetta molto veloce. Se impegnata in altri ruoli, avrebbe più possibilità di emergere.
Questa produzione di Guillaume Tell è stata allestita quando il tenore rossiniano del momento, Juan Diego Florez, ha accettato di esibirsi nell’impervia parte di Arnold. Il fatto che il cantante peruviano affronti questo tipo di partitura potrebbe significare che voglia ampliare il repertorio, in effetti, molto limitato. Per affrontare tale ruolo servono altri strumenti vocali. Florez ha una voce che purtroppo non riesce ad ampliare sonoramente, l’eroismo e la potenza sono limitati, resta un fraseggio anche corretto ma non scandito ed accentato. Gli acuti del Tell non sono quelli di altre opere rossiniane e mancavano di spessore e di slancio appassionato, credo che sia anche una cosa voluta dallo stesso cantante ma poco filologica. La parte è lunga e difficile, non occorre ricordarlo, e Florez arriva alla mitica aria al IV atto molto provato, anche questo è un segno di cui sopra citato, la voce s’inasprisce più del dovuto e la cabaletta non trova un esecutore di prim’ordine come in altri ruoli sostenuti.
Le quattro voci gravi non erano certo all’altezza della situazione. Simon Orfilia era legnoso e monotono, leggermente migliore Simone Alberghini che almeno tenta un colore vocale ed intenzioni non sempre riuscite. Luca Tittoto avrebbe un materiale di primordine ma molto meno raffinato e scandito rispetto ad occasioni da me ascoltate in precedenza. Wojtek Gierlach era imbarazzante per gusto e impostazione di canto. Amanda Forsythe dimostrava anche musicalità ma era forzata nell’acuto dovendo eseguire anche l’aria del III atto. Veronica Simeoni non lascia molta traccia nel piccolo ruolo ma è corretta, Celso Albelo non ha tecnica adeguata per la tremenda aria del pescatore essendo sempre ingolato e forzato, Alessandro Luciano, spesso coperto dall’orchestra, dimostrava buona musicalità e onesta esibizione.

IL TROVATORE [Simone Ricci] Macerata, 10 agosto 2013.
Sono ben 160 anni che l’opera verdiana è in repertorio, nonostante una trama intricata e al limite dell’assurdo: merito della musica romantica e trascinante.
La quarantanovesima edizione del Macerata Opera Festival è stata dedicata quest’anno al tema dei “Muri e divisioni”: l’ultima serata allo Sferisterio non poteva che concludersi con un titolo verdiano, Il trovatore, la cui trama ingarbugliata continua a dare filo da torcere da 160 anni a questa parte. Si tratta, infatti, di uno dei libretti più complicati che sono stati musicati dal Cigno di Busseto, l’ultima fatica di Salvatore Cammarano, il quale morì prima di ultimare i versi (la conclusione fu curata da Leone Emanuele Bardare). Eppure, la regia di Francisco Negrin è riuscita ad avere la meglio di zingari, roghi, guardie, duelli e tutto quello che fa parte di questo calderone.
La scelta maceratese è andata nella direzione di un Trovatore gotico e spettrale, quasi un thriller in grado di tenere inchiodati ed emozionati gli spettatori. Gli applausi e le ovazioni non sono mancati neanche in questa serata conclusiva: merito di un cast ben amalgamato e capace di rendere al meglio i tormenti dei vari personaggi. Questo intreccio ambientato nel ‘400 spagnolo è stato risolto grazie a due tavoli presenti sul palcoscenico, due veri e propri simboli che stavano a indicare il passato e il presente. Il bambino bruciato da Azucena compariva in continuazione nella scena, rendendo ancora più vivi i suoi ricordi e orrori.
Qualche luce intermittente di troppo poteva forse essere evitata, i vari duelli e combattimenti somigliavano a quei vecchi flipper che si accendevano di mille colori: azzeccata ed essenziale, invece, la corda rossa fluorescente che veniva utilizzata per incatenare Azucena, Manrico e perfino Leonora, il simbolo di un legame rosso sangue tra i protagonisti (la stessa corda veniva sfruttata per rendere partecipi gli spettatori del passato della madre di Azucena). Le scene erano molto semplici, ma rendevano in maniera adeguata l’atmosfera di quest’opera: un dramma che si svolge interamente di notte, con la sola luce della luna e del fuoco a rischiarare le immagini.
Il cast vocale è stato selezionato con cura e i risultati sono stati lusinghieri. Gli applausi più convinti sono andati alle due protagoniste femminili. Susanna Branchini ha confezionato una Leonora magnetica e intensa: la sua vocalità è quella di soprano lirico spinto, ma non ha affatto sfigurato in tale ruolo, tipicamente da soprano drammatico di agilità. Il pubblico ha apprezzato, in particolare, il suo “D’amor sull’ali rosee”, ma il canto è stato agile e potente in ogni occasione, con una resa drammatica davvero impressionante. Le difficoltà c’erano tutte, soprattutto nei passaggi più concisi tipici di Verdi, ma la sfida è stata affrontata nel migliore dei modi. Lo stesso discorso vale per l’Azucena di Enkelejda Shkosa.
Il mezzosoprano albanese non si è fatta intimorire da un incomprensibile silenzio del pubblico al suo “Stride la vampa” e ha continuato sulla strada giusta. Si sta parlando del personaggio che determina le sorti di tutti gli altri, una sorta di “burattinaia” sognante e angosciata: non è mai semplice fondere i tratti vocali e quelli psicologici, un mix di positività e negatività che la Shkosa ha però gestito con rara intelligenza. Il tenore venezuelano Aquiles Machado ricorda nella sua vocalità Placido Domingo e ha tutte le carte in regola per poter vantare una carriera simile. Manrico viene spesso affrontato da tenori eroici e dal grande squillo in acuto: Machado ha convinto nel suo eroismo e nei sentimenti nei confronti della madre, ci saremmo aspettati qualcosa di più dal fraseggio, il quale può essere ancora più elegante. “Di quella pira” è stata affrontata con coraggio e senza eccessive forzature (al do acuto è stato preferito il sol verdiano).
Simone Piazzola ha debuttato appena due anni fa, ma questo baritono ha classe da vendere: il ruolo del Conte di Luna gli è calzato addosso alla perfezione: “Il balen del suo sorriso” ha emozionato il pubblico e ha contribuito a inquadrare meglio questo personaggio, geloso e vendicativo, ma anche capace di simili slanci romantici. Il cast è stato completato dal Ferrando di Luciano Montanaro, leggermente impacciato nell’aprire l’opera, ma poi più convincente, dalla Ines di Rosanna Lo Greco, sensibile e ben affiatata con Leonora, dal Ruiz di Enrico Cossutta e dal messo di Alessandro Pucci. Un plauso va al Coro Lirico Marchigiano Vincenzo Bellini, ben addestrato da David Crescenzi.
Infine, Paolo Arrivabeni ha diretto con piglio e sicurezza: l’Orchestra Regionale delle Marche ha permesso di fruire appieno di questo romanticismo per nulla ricercato del Trovatore, alternando poesia e violenza, amore e vendetta, senza dimenticare il contributo della Banda Salvadei Città di Macerata. Il Verdi romantico e popolare ha brillato più delle stelle dell’ultima notte del Festival.

L’OCCASIONE FA IL LADRO [William Fratti] Pesaro, 18 agosto 2013.
Lo storico allestimento di Jean-Pierre Ponelle nel corso di oltre un quarto di secolo è stato ripreso in molti teatri, ma continua ad essere funzionale, efficace ad attuale, mai polveroso, grazie anche all’intervento di Sonia Frisell, che in questa occasione ha voluto ricordare il venticinquesimo anniversario della scomparsa del grande regista.
Yi-Chen Lin torna sul podio del Teatro Rossini dopo aver egregiamente diretto Il viaggio a Reims nel 2011 e dimostra chiaramente di possedere il polso giusto per questo repertorio. In termini di precisione è una vera e propria macchina da guerra, ma sa anche ricercare accenti, colori e sfumature, producendo suoni interessanti e musicali.
Anche Elena Tsallagova è reduce da un buon successo ne Il viaggio a Reims, ma vestire i panni di Corinna non è come portare quelli di Berenice, che necessita di maggiore sicurezza negli acuti e nelle agilità. Pertanto risulta essere adeguata nel canto patetico, dove si intravedono una certa delicatezza ed eleganza, soprattutto nei piani, ma le note alte sono sempre pungenti, con suoni mai arrotondati, tanto da apparire quasi fastidiosa, fino a perdere efficacia anche nel legato.
Enea Scala è sempre limpido e raffinato. La sua voce pare avere acquisito un poco di corposità, guadagnando in termini di morbidezza ed omogeneità. Il duetto di Alberto e Berenice “Se non m’inganna il core” è una delle pagine migliori dell’esecuzione.
Don Parmenione è Roberto De Candia, una garanzia in termini di interpretazione scenica e di correttezza nel canto, ma in questa occasione non spicca particolarmente e soprattutto appare leggermente opaco.
Eccellente è il Martino di Paolo Bordogna, cantante brillante e luminoso, fraseggiatore espressivo, attore accorto ed irrefrenabile, portatore della vera intenzione rossiniana.
Adeguata la prova di Viktoria Yarovaya, solo a tratti un po’ troppo appuntita negli acuti affidati ad Ernestina, e di Giorgio Misseri, Don Eusebio musicale seppur modesto.

L’ITALIANA IN ALGERI [William Fratti] Pesaro, 19 agosto 2013.
Il Treantaquattresimo Rossini Opera Festival apre con un nuovo allestimento de L’Italiana in Algeri firmato da Davide Livermore, che crea uno spettacolo moderno e divertente, soprattutto nei richiami cinematografici. Purtroppo la gestualità è così marcata da diventare quasi fastidiosa, soprattutto negli interventi dei figuranti – dapprima simpatici, poi quasi opprimenti – e nel continuo danzare a ritmo di musica – fatto ormai alquanto inflazionato nelle commedie rossiniane e donizettiane. Le scene e le luci di Nicolas Bovey sono piuttosto efficaci, i costumi di Gianluca Falaschi sono azzeccatissimi e molto ben confezionati, il video design di D-Work, non solo ciò che è proiettato durante l’ouverture, è davvero riuscito. È inoltre doveroso ringraziare tutto il gruppo di lavoro per le parole riprodotte durante il rondò di Isabella: mentre ella canta “Pensa alla patria, e intrepido il tuo dover adempi: vedi per tutta Italia rinascere gli esempi d’ardir e di valor” si leggono frasi come “La politica: un servizio per la gente”, “L’Italia per l’opera”, “L’Italia per la grande musica”, “L’Italia per le Università”.
La direzione di José Ramon Encinar non è delle migliori, poco vivace e dinamico ed è forse per questo che riceve copiose disapprovazioni dal pubblico. È però da segnalare una certa purezza di suono in alcuni momenti. Ci si domanda, nello sviluppo dell’intenzione rossiniana, se abbia ascoltato o meno le indicazioni del maestro collaboratore responsabile. La prova dell’Orchestra e del Coro del Teatro Comunale di Bologna sono prive di grossi pregi e difetti.
Per quanto riguarda la protagonista – anche nelle altre opere del Festival e sempre più spesso in numerosi teatri italiani – è da constatare un persistente ingaggio di artiste femminili di bell’aspetto, dal dolce viso, filiformi, con capelli scuri e dal nome particolarmente esotico, a discapito di eventuali interpreti, alcune forse meno facili da vestire e truccare, ma certamente più adatte nella vocalità. In questo caso ad eseguire la parte di Isabella è Anna Goryachova, incantevole pietroburghese che lo scorso anno ha riscosso un grande successo di pubblico con Edoardo in Matilde di Shabran, pur avendo mostrato numerosi limiti nel canto. Indubbiamente si notano diverse migliorie, a partire dall’arrotondamento della voce, che si rilevano sempre di più col procedere dell’opera. In “Per lui che adoro” mostra un’eleganza e una morbidezza davvero pregevoli, con un buon uso delle variazioni; una certa musicalità si nota anche in “Pensa alla patria” ed il personaggio è molto ben centrato e affascinante. Purtroppo anche i difetti sono sempre presenti lungo tutto l’arco della vicenda, a partire dal volume vocale poco corposo, che la porta ad essere spesso coperta dall’orchestra, fino agli acuti più estremi, suo tallone d’Achille, molto tirati e poco piacevoli.
Alex Esposito è invece uno dei migliori bassi belcantisti del momento, in grado di portare sul palcoscenico personaggi sempre accattivanti, con chiare intenzioni, linea di canto ben omogenea, buon uso della parola. Il suo Mustafà è fin troppo marcato – probabilmente per logiche di regia – ma ciò non ostacola il suo canto dal suono preciso e con fraseggio eloquente.
Yijie Shi è contraltino rossiniano molto apprezzato, in possesso di una tecnica di canto davvero sorprendente. Nel canto patetico è morbidissimo e molto raffinato, con piani e pianissimi davvero eleganti e ben impostati. Forse risulta essere meno espressivo durante i virtuosismi, ma probabilmente perché concentrato sulle sue corde. Nei panni di Lindoro può risultare meno efficace che in altri ruoli, ma si tratta solo di una questione di gusto, poiché la sua esecuzione è certamente più che corretta. Nel terzetto “Pappataci! Che mai sento!” emette dei suoni sinceramente pregevoli.
Mario Cassi è un Taddeo con poco spessore vocale. Se affiancato all’interpretazione della Goryachova –  ad esempio nel duetto “Ai capricci della sorte” – la situazione precipita nella noia.
Davide Luciano, nei panni di Haly, è molto musicale ed efficace; Mariangela Sicilia è un’Elvira divertente nel personaggio, ma alquanto pungente e fastidiosa su tutto il registro acuto; Raffaella Lupinacci è una Zulma che passa inosservata.

GUILLAUME TELL [William Fratti] Pesaro, 20 agosto 2013.
L’ultimo capolavoro teatrale del genio pesarese è il titolo di punta dell’edizione 2013 del Festival, eseguito nella sua forma originale, seppur con qualche piccolo taglio, di cui ci si accorge solamente dopo attento esame. Indubbiamente la decisione di Juan Diego Florez di debuttare il temibile ruolo di Arnold è la motivazione principale che ha spinto il ROF ad allestire un titolo che, nella sua storia ultratrentennale, è stato rappresentato una sola volta. Attorno alla vocalità tenorile adatta alla parte è stato detto e scritto molto; ancora oggi si dice e si scrive molto, ma la verità, esprimendola con le parole di un celebre compositore, sta altrove: ciò che davvero importa è che un cantante si senta a suo agio con la scrittura, che la esegua bene e che faccia vivere il personaggio. Non è possibile paragonare la voce di Florez con quelle di Nourrit o Douprez, poiché di allora si possiedono solo le cronache e non certo le registrazioni. E non è nemmeno possibile paragonarla a quella di altri interpreti di cui si ha testimonianza fonica, poiché il suo strumento – e pertanto il suono che viene prodotto – è diverso da quello di altri. Certamente la voce del tenore peruviano acquisisce maggior significato e trasmette maggiori emozioni nell’interpretare altri ruoli, ma è comunque possibile affermare che il suo Arnold, in primo atto e all’inizio del secondo, spicca per eleganza e morbidezza, cui si aggiungono una buona dizione e un eccellente fraseggio nell’eloquenza patetica. Meno interessante è l’espressività eroica dal finale secondo in poi, anche se la qualità e la tecnica di canto restano di altissimo livello. Aria e cabaletta sono rese molto bene, con estrema perizia e precisione, anche se nella cadenza “Je viens vous voir pour la dernière fois” si sente un piccolissimo segno di cedimento. Riassumendo, Juan Diego Florez è sempre il fuoriclasse che il mondo intero conosce, il canto è chiaro, limpido ed estremamente corretto, ma deve sempre fare i conti con se stesso ed è innegabile che altri ruoli gli rendano maggiore giustizia ed egli renda loro un più grande onore.
Marina Rebeka è una Mathilde molto tiepida. Il suo personaggio è poco rifinito, senza nervo e molto incolore. Tale interpretazione inefficace si sposa con un’esecuzione vocale che non va oltre la correttezza, cui si aggiungono accenti poco incisivi e acuti vicini al pigolio.
Non va meglio ad Amanda Forsythe, che pur sapendo rendere un Jemmy accattivante e dimostrando una certa musicalità nel canto spianato e nella zona centrale, emette degli acuti molto pungenti, tirati e poco puliti. Ha inoltre una proiezione molto debole, perdendosi sotto il peso corale ed orchestrale nei concertati, pur possedendo una vocalità molto acuta.
Morbida, omogenea nella voce ed espressiva quanto basta la Hedwige di Veronica Simeoni, anche se non riesce a spiccare.
Elegante nel timbro e raffinato nei piani, Celso Albelo mostra, come già notato in altre occasioni, una delle più belle voci tenorili degli ultimi anni, ma poco omogeneo e tendente all’urlo nel passo verso il canto forte nella zona acuta.
Simone Alberghini è adeguato nel ruolo di Melcthal, tanto nell’interpretazione quanto nel canto.
Luca Tittoto mostra il suo colore scuro con particolare efficacia e con un personaggio ben riuscito.
Meno opportuni sono invece il Walter di Simon Orfila, che si presenta con una voce che sembra quasi usurata e senescente e il Leuthold di Wojtek Gierlach, cavernoso, ma ben poco cantante. Appropriato il Rodolphe di Alessandro Luciano.
Riguardo al protagonista, Nicola Alaimo dimostra ancora una volta di essere interprete di prim’ordine e cantante di buon livello, anche se pare troppo presto per vestire i panni del mastodontico Guillaume. Questo ruolo, come tanti altri scritti per questo genere di vocalità nel repertorio rossiniano serio, necessita di uno spessore vocale, di una profondità psicologica e di una importanza drammaturgica che si possono acquisire solo con molta esperienza. Indubbiamente esistono le eccezioni che confermano la regola, ma non si tratta di questo caso. Ad ogni modo il baritono palermitano offre una prova molto positiva, soprattutto in “Sois immobile, et vers la terre”.
Anche per Michele Mariotti è forse troppo presto affrontare questa partitura immensa, ma bisogna riconoscergli il merito di avere creato un certo amalgama. La direzione è purtroppo discontinua: sublime, con interessanti colori e sfumature, in alcuni punti; un poco monotona in altri. Modesta la prova dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Eccellente è infine l’esibizione del Coro diretto da Andrea Faidutti: ben omogeneo, chiaramente preciso, esemplare anche in ambito recitativo.
Riguardo l’allestimento ideato da Graham Vick, purtroppo lascia molti dubbi, in quanto lo si trova simbolico in alcune parti e realistico in altre, col risultato di imprimere parecchia confusione. Le idee ci sono e se ne comprende l’esistenza, anche se talvolta ne sfugge l’intero significato, accessibile ai più solo in parte. Sicuramente le scene spoglie di Paul Brown, considerata la lunghezza del grand-opéra, l’assenza dei sovra titoli e il fatto che tale capolavoro non appartenga al grande repertorio, non aiuta buona parte del pubblico. Meglio i costumi, sempre di Brown e il progetto luci di Giuseppe Di Iorio. Validissime le coreografie di Ron Howell e bravissimi i danzatori, anche se il pubblico è decisamente indignato, prima per i movimenti apparentemente avulsi dalla scena, poi per la violenza con cui è espresso il volere di dominio sulle genti elvetiche.

MARIA DE RUDENZ [William Fratti] Bergamo, 20 settembre 2013.
Pare doveroso ringraziare la Città di Bergamo, che ogni anno propone sul palcoscenico del Donizetti alcuni dei capolavori più sconosciuti dell’illustre compositore e che, in questa stagione 2013, festeggia anche il duecento cinquantenario di Giovanni Simone Mayr e il bicentenario di Giuseppe Verdi.
Purtroppo ogni volta si compie sempre il passo più lungo della gamba, distribuendo le poche risorse economiche a disposizione tra un numero troppo alto di spettacoli, col risultato di portare in scena una qualità mediocre, se non scadente. Atteggiamento che deve assolutamente cambiare se la città vuole raggiungere il traguardo di Capitale Europea della Cultura 2019.
Lo spettacolo ideato da Francesco Bellotto è visivamente poco piacevole, nonché poco accessibile. Leggendo le note di regia sul programma di sala si possono comprendere solo le intenzioni, non certo il modo in cui si è tentato di renderle sul palcoscenico, che sembra più un’accozzaglia di vario genere. Inoltre, per lo spettatore, è molto sgradevole andare all’opera col libretto delle istruzioni: viene a cadere il concetto di popolarità che nel corso dei secoli ha reso sempre più importante questa sublime forma d’arte. L’impianto scenico di Angelo Sala è ben poco efficace. I costumi, seppur piacevoli nel coro, non sono adeguati alla vicenda. È tutto sviluppato a tratti e senza omogeneità: si passa da ambientazioni che ricordano American Horror Story: Asylum e The ring a Frankenstein e La famiglia Addams. È vero che Maria de Rudenz è un dramma sull’insanità mentale, ma il teatro non è il cinema e occorre sempre tenere presente non solo cosa si sta raccontando, ma anche come e a chi.
La direzione di Sebastiano Rolli mostra il pregio di un’esecuzione in forma integrale, con le seconde strofe, i da capo e le cadenze, con una certa pulizia del suono e un buon andamento nei momenti più intensi, complice anche un indubbio miglioramento dell’orchestra rispetto alle edizioni precedenti. Allo stesso tempo manca una ricerca più approfondita di fraseggio, di colori e di sfumature, facendo risultare la vicenda un poco appiattita, scarseggiando quei cromatismi essenziali che dovrebbero trasmettere meglio il carattere bipolare dei tre protagonisti.
Maria Billeri veste i panni della De Rudenz e, come da sua consuetudine, mostra di possedere un gran volume, centri corposi ed eccellente accento drammatico. Purtroppo questo ruolo necessita anche di un sapiente uso dei pianissimi e una ferrata capacità di rendere i momenti idilliaci, in cui l’artista trova alcune difficoltà. Giustamente alleggerisce in certe pagine, come accade nella prima aria, ma si sente mancare omogeneità e dove occorrono i piani restano comunque i mezzo forte. Inoltre anche gli acuti risentono di questa impostazione e sembrano non ben incanalati e non propriamente limpidi. La resa del personaggio è invece efficace ed accattivante. Peccato che la regia l’abbia sempre voluta vestita in abito monacale.
Dario Solari è un Corrado poco adeguato in ambito vocale. In tutto il primo atto gli attacchi sono sporchi e imprecisi, l’accento è poco marcato, il fraseggio è assente. Non che il baritono uruguaiano abbia mai posseduto una vocalità particolarmente luminosa e squillante, ma in tale occasione sembra stanco e svogliato.
Ivan Magrì, reduce da un serio incidente accorso durante la prova generale, decide comunque di vestire i panni di Enrico, cantando da una sedia a rotelle. L’infortunio è molto probabilmente di una certa importanza, considerando il fatto che il tenore catanese non accenna neppure a muovere una gamba, un braccio o la testa per tutta la durata dell’opera, applausi compresi. Ciononostante dimostra un’enorme maturazione nella sua vocalità rispetto a performance precedenti, soprattutto nell’omogeneità della linea di canto e nello squillo. Certi passaggi sono veramente pregevoli, pur notandosi una certa fatica nei fiati, visibilmente dovuta all’infortunio.
Efficace il Rambaldo di Gabriele Sagona, che presenta un bel cantabile, morbido e musicalmente accurato. Un po’ acerba la Matilde di Gilda Fiume. Opportuno il cancelliere di Francesco Cortinovis.
Molto buona è la prova del coro diretto da Fabio Tartari, in netto miglioramento rispetto alle precedenti edizioni del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti.

OTELLO [Marco Benetti] Cremona, 2 ottobre 2013.
Calano le luci in sala, il sipario rosso del Teatro Ponchielli si alza e lo sguardo incontra un telo (come se non ne avessimo già visti troppi) grigio leggero mosso dal vento. Da un lato esce Jago in abito veneziano, fine ‘400: la scena sarà ambienta a Cipro nel periodo previsto dal libretto di Boito (i costumi sono di Leila Fteita che firma anche la scenografia). Parte la musica sulla scena della tempesta.
Sparisce il velo di cui sopra e l’impianto scenico che appare è minimale: una pedana circolare mobile con un fondale di tessuto apribile in tre punti per permettere l’ingresso dei personaggi (si citano nelle note di sala dei rimandi al teatro elisabettiano). Ci si accorge presto però che questa scelta non è certo tra le migliori, forse suggerita dall’austerity generale che colpisce soprattutto il mondo della cultura e non solo. Le scene risultano spogliate col risultato che siano o di grandissimo effetto (Atto I, Scena I: la pedana mobile aiuta a rendere l’idea di ebbrezza  dell’ubriacatura di Cassio; Atto III, Scene con gli ambasciatori a cui si aggiungono due lampadari scesi dall’alto; Atto IV con un telo arancione calato al centro della pedana a simulare la stanza di Desdemona) oppure molto banali o dal sapore già vissuto (il Credo di Jago di cui dirò tra poco; Atto II, Scena V: si perde il gioco straordinario di Otello nascosto e di Jago e Cassio che conversano; Atto III, Scena V). Si sono potute vedere anche comparse metafisiche e sinceramente un po’ troppo “trash” (mi si passi il termine): mentre Jago canta il suo Credo al principio dell’ Atto II, una ragazza in cappa nera e con falce annessa mima la morte fino ad essere semidenudata da Jago oppure i “fuochi d’artificio” nel III Atto, Scena IX, forse metafora del “velen lavora” o del “leone” svenuto per terra (?). A ciò si aggiungono i gesti registici anche qui abbastanza grossolani. L’opera ha una svolta con l’Atto IV già sopra citato che nella sua staticità offre l’unica variante scenica a tre atti precedenti visivamente tutti uguali. Il velo arancione aiuta a creare uno spartiacque tra quello che si vede e quello che sappiamo accadrà (l’ingesso di Otello) ma che non vediamo. Otello muore e nell’atto di baciare la mano di Desdemona la pedana gli allontana la mano dell’amata negandogli così l’ultimo desiderio, contemporaneamente il drappo arancione cade e si staglia sullo sfondo Jago (che Boito lascia fuggire inseguito dalle guardie, riscrivendo la tradizione shakesperiana che lo voleva morto) quasi a volerne indicare un’ipotetica impossibilità realistica di non poter distruggere il male per sempre.
La parte vocale viene licenziata con buon esito dalla recita.
Otello- Walter Fraccaro si dimostra tutto sommato adatto al ruolo, difficile sia per la scrittura che per le qualità sceniche richieste, una parte molto dinamica, da cui esce vincitore anche se è da notare una dinamica forse un po’ troppo spinta dal mezzo forte in su.
Alberto Gazale interpreta uno Jago molto convincente sia per presenza scenica che per la voce che regge per tutta l’opera, mostrando tutte le sue qualità interpretative. Una bellissima lezione di canto.
Desdemona di Daria Masiero è trattenuta per i primi tra atti, non si riusciva a capire di che tempra fosse fatta. Ma come è noto il IV Atto è l’atto di Desdemona: e non delude la sua Canzone del Salce come non delude l’Ave Maria.
Vanno aggiunte alcuni altri nomi a questa lunga locandina come quello di Giulio Pelligra, Cassio che si distingue per una voce squillante e Raffaella Lupinacci – Emilia che, nonostante un’iniziale tenue ingresso, si è risvegliata nel quartetto dell’Atto II.
La direzione di Giampaolo Bisati alla testa dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali è buona anche se qua e la risulta forse un po’ superficiale, sicuramente si poteva fare di meglio in scene come il furto del fazzoletto (Atto II, Scena IV) o l’ingresso di Otello nell’ultimo atto (Atto IV, Scena III). Una menzione speciale credo debba essere fatta al Coro del Circuito Lirico Lombardo diretto da Antonio Greco che da prova di grandissima bravura sia nell’Atto I che nell’Atto III.

OTELLO [William Fratti] Cremona, 2 ottobre 2013.
Il Teatro Ponchielli di Cremona inaugura la Stagione Lirica del Bicentenario Verdiano con Otello, nel nuovo allestimento di Stefano De Luca prodotto sul palcoscenico comasco. Mettere in scena l’indiscusso capolavoro musicale del Cigno di Busseto non è affare semplice e anche questa occasione è densamente ricca di pregi e difetti.
Innanzitutto l’impianto scenografico di Leila Fteita, indubbiamente in gran parte dettato dalla necessità del risparmio economico, è efficace nello sviluppo di una regia pulita, ma è necessario considerare che la posizione dei cantanti è spesso indietreggiata rispetto al proscenio e mancano fondali e quinte di legno, pertanto la voce degli interpreti non è adeguatamente proiettata verso la platea. Inoltre un tale vuoto scenico necessiterebbe di un lavoro di regia molto accurato, ma tale è solo a tratti. Opportuna è l’indagine psicologica dei protagonisti, ma nei momenti corali spesso manca una ricerca più profonda nella gestualità dei comprimari, che sembrano immobili e inebetiti di fronte agli accadimenti. Piacevoli i costumi, sempre di Leila Fteita, ed il disegno luci di Claudio De Pace.
Decisamente positiva è la prova delle masse artistiche, che dimostrano di saper offrire performance di qualità se solo ne hanno l’opportunità e il desiderio. Giampaolo Bisanti, sul podio dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, si cimenta in una guida scrupolosa e meticolosa fin dalle primissime battute, sapendo tingere il terribile dramma dei cromatismi necessari. Antonio Greco dirige con polso il Coro del Circuito Lirico Lombardo, soprattutto nei difficili momenti di primo atto.
Walter Fraccaro possiede la giusta vocalità e l’impeto più appropriato per l’interpretazione del temibile personaggio  di Otello, anche se non si può parlare di impresa encomiabile. La scrittura di questo ruolo non è affatto semplice e leggendo non solo le note, ma anche le altre indicazioni dello spartito, si evince che occorrono squillo, capacità d’accenti, ma anche una salda tenuta dei fiati per i numerosi pianissimi e una buona musicalità per i legati e i tratti più dolci. Tutte caratteristiche che Fraccaro possiede in parte e pertanto riesce a portare in scena un’esecuzione soddisfacente.
Daria Masiero è una Desdemona corretta, purtroppo non appagante nei primi tre atti, dove si possono cogliere la dolcezza, il garbo e l’eleganza, ma non la passione, l’animo e la disperazione. Decisamente superiore rispetto al resto è invece tutta la scena della canzone del salice, dove accenti, marcature e legati riescono a rendere al meglio i tratti di queste sublimi pagine verdiane.
Alberto Gazale è indubbiamente uno dei migliori Jago del momento: uso della parola, fraseggio, impiego degli accenti, espressività sinceramente impareggiabili. Purtroppo nella recita in oggetto si sentono alcuni aspetti della voce e del canto non proprio perfetti, molto probabilmente dettati da un’indisposizione.
Giulio Pelligra è un Cassio luminoso ed efficaci sono Alessandro Spina, Antonio Barbagallo, Raffaella Lupinacci e Luca Vianello nei ruoli di Lodovico, Montano, Emilia e un araldo. Inadeguato è invece il Roderigo di Saverio Pugliese.

SIMON BOCCANEGRA [William Fratti] Parma, 4 ottobre 2013.
È Simon Boccanegra ad aprire il Festival del Bicentenario. Manifestazione, purtroppo, che a Parma non ha portato altro che guai.
Il primo tentativo di mettere in opera una rassegna interamente dedicata a Giuseppe Verdi risale al 1990. A quel tempo l’obiettivo fu soprattutto culturale e non solo turistico – si eseguì Il trovatore accanto alla sua versione francese Le trouvère, con tanto di convegno dedicato, e l’allora sconosciuta Alzira – ma l’esperimento si esaurì su se stesso. Ci si riprovò un decennio più tardi in occasione del Centenario del 2001, con un Festival della durata di un anno intero, ma il Teatro Regio ne uscì completamente spremuto. Non appena si ripristinarono le finanze, ci si riprovò con una rassegna che nient’altro fu che una coda di stagione, fino ad arrivare alla sua radicale trasformazione nel 2007, con l’ideazione di un vero Festival in termini di calendarizzazione, ma con la totale perdita della chiave culturale a favore del solo scopo turistico ed economico. Un fatto del tutto lecito, soprattutto se l’intento è quello di promuovere la città attraverso il teatro, riempiendo alberghi, ristoranti, musei e attività commerciali. Ma resta il fatto che le finanze teatrali di un capoluogo di provincia – per lo meno questo vale nello Stato italiano – non sono sufficienti per gestire due stagioni all’anno. Ora la nuova dirigenza sta tentando di risollevare le sorti del regio palcoscenico, ma nuovamente sta usando la parola Festival con ciò che è solo una breve e concentrata stagione, poiché le produzioni non sono concomitanti e alternate, né le date in cartellone superano il numero di cinque, ovvero quelle che generalmente sono messe a disposizione dei cittadini e dei visitatori limitrofi. Non è certo la presenza di una TV giapponese a fare la differenza. Una rondine non fa primavera. Forse è arrivato il momento che Parma decida se recuperare la reputazione del Regio tornando alle eccellenti stagioni che lo hanno contraddistinto e reso famoso in tutto il mondo fino al 2000, oppure se fare un Festival Verdi che sia apprezzato a livello internazionale, ma facendo solo quello, per farlo bene, come del resto accade a Pesaro.
Fortunatamente con questo Simon Boccanegra torna l’alta qualità. Lo spettacolo interamente firmato da Hugo De Ana, realizzato nel 2004, è certamente uno dei migliori in circolazione, sotto ogni punto di vista, sia per il pregio dell’allestimento e dei costumi, sia per la regia, tanto nei movimenti e nella gestualità dei protagonisti, quanto nelle azioni e nelle posizioni delle masse.
Lo stesso entusiasmo è da condividersi per la direzione di Jader Bignamini, perché sa ricercare i colori e le sfumature di cui è intrisa questa partitura, senza eccedere nel patetico o nell’eroico, ma stando sempre in equilibrio sullo sviluppo dei sentimenti umani tanto cari a Verdi. Conduce con armonia e purezza di suono la brava Filarmonica Arturo Toscanini, confrontandosi anche con qualche momento di vera passione, come all’ingresso della plebe nella scena del consiglio.
Roberto Frontali è un Simone forse poco drammatico, ma sicuramente molto verdiano. La sua voce si sposa alla perfezione con questo ruolo – come con quasi tutti i ruoli baritonali del Cigno di Busseto – e regala al pubblico una vera lezione di canto, a partire dall’intonazione perfetta, fino all’eleganza del fraseggio e alla potenza dello squillo.
Carmela Remigio non possiede la tipica vocalità verdiana e la partitura le risulta un poco pesante; ciò lo si sente soprattutto verso il basso, dove tende a svuotarsi. Ma sa indubbiamente portare i suoi pregi in primo piano, a partire dalla raffinatezza della linea di canto, molto probabilmente mutuata dal repertorio barocco e mozartiano. Va inoltre notato che l’aria di sortita di Amelia è resa in maniera eccellente: morbidissima nel passaggio, pregevole nei colori, aggraziata nel fraseggio.
Diego Torre è un Adorno più che corretto. Dotato di voce piena, generosa e squillante, pare particolarmente adatto al repertorio verdiano e pucciniano, ma necessita di affinamento nell’uso degli accenti e della parola, dei cromatismi e delle sfumature, dei piani e delle mezze voci.
Giacomo Prestia è un Fiesco di prim’ordine, con un fraseggio densamente espressivo, una traboccante tavolozza di colori e note gravi particolarmente corpose e possenti. Qualche acuto non risulta propriamente corretto, ma si tratta di poco rispetto all’intera esibizione.
Marco Caria è un Paolo molto efficace, dotato di bella voce brillante, timbrata e sa farsi notare sia nei passaggi cantabili, sia in quelli più drammatici. Lo stesso vale per Antonio Corianò, che veste i panni di un luminoso e sonoro capitano dei balestrieri. Adeguati Seung Pil Choi e Lorelay Solis nelle vesta di Pietro e dell’ancella.
Eccellente, come sempre, il Coro del Teatro Regio diretto da Martino Faggiani.

FALSTAFF [William Fratti] Busseto, 12 ottobre 2013.
Nel giorno del duecentesimo compleanno di Giuseppe Verdi a Parma si tiene un concerto diretto da Francesco Ivan Ciampa, a sostituzione dell’eterno assente Yuri Temirkanov, che per l’ennesima volta è improvvisamente trattenuto a San Pietroburgo.
I tecnici del Teatro Regio, che si vantano di essere in tanti pur avendo ancora chiare difficoltà economiche, si dividono tra due palcoscenici, poiché un’accurata organizzazione ha previsto che in concomitanza si tenesse la prova generale di Falstaff a Busseto con Renato Bruson. E molto probabilmente per un’altra curiosa e certamente casuale contemporaneità di impegni, lo stesso giorno a Piacenza si tiene l’anteprima di Luisa Miller con la messinscena teatrale di Leo Nucci. E sabato 12 ottobre si rappresentano le due prime.
Questo è un buon esempio di come funzionano le cose in molte parti d’Italia: c’è chi crede di arrivare molto lontano, pensando solo a coltivare il proprio orticello, magari decidendo anche di seminare le stesse verdure del proprio vicino; e c’è chi ritiene di essere ben organizzato, disperdendo denaro che invece potrebbe essere risparmiato con una migliore pianificazione del lavoro. E i dirigenti che fanno questo raccolgono senza tregua il loro compenso, mentre i contribuenti continuano a pagarglielo tramite tasse sempre più salate.
L’allestimento storico del Teatro Verdi di Busseto, già realizzato dal Teatro alla Scala di Milano nel 1913, 1926 e 2001, è ancora splendido e decisamente superiore a tanti altri spettacoli creati in epoche più recenti. La regia di Renato Bruson, in collaborazione con Marina Bianchi, è pulitissima, filologica, priva di inutili macchiette, totalmente espressiva del sublime libretto di Boito e dell’eccezionale musica di Verdi. Meno interessanti, ma comunque efficaci, sono i costumi di Massimo Carlotto e le luci di Andrea Borelli.
Sebastiano Rolli, sul podio della Filarmonica del Teatro Regio di Parma, dà vita a momenti molto interessanti – come la prima scena di primo atto, che potrebbe essere tranquillamente realizzata senza voci alla stregua di un’insolita sinfonia – mentre i più difficili pezzi d’assieme – finale secondo e finale terzo – sono un po’ confusionari, certamente per una concomitanza di cause da imputare ad ognuno degli esecutori.
Renato Bruson, classe 1934 e oltre cinquant’anni di irreprensibile carriera, veste ancora una volta i panni del pancione, portando sul piccolo palcoscenico bussetano un personaggio inarrivabile, reale personificazione del volere shakespeariano e verdiano. Purtroppo la voce e il canto non possono più nemmeno essere oggetto di critica.
Vincenzo Taormina è un bravissimo Ford che si mette in ottima luce soprattutto nel bellissimo duetto di secondo atto, dove mostra brillantezza, ampiezza di squillo, buon fraseggio e un eccellente accento drammatico nella temibile aria “È sogno o realtà?”.
Alice Quintavalla porta il nome del suo personaggio e ne esegue la parte vocale con morbidezza ed omogeneità su tutta la linea di canto. Le è accanto l’altrettanto brava Linda Jung, che pur non possedendo filati naturali, sa destreggiarsi nel ruolo di Nannetta con una tecnica ben salda.
Leonardo Cortellazzi è un Fenton delicato e raffinato ed esegue delle mezze voci molto piacevoli, anche se non sempre perfette, forse a causa di una tenuta dei fiati non impeccabile. La sua voce, tipica da tenorino all’italiana, è sinceramente molto piacevole, ma ne andrebbe potenziata l’emissione o la proiezione. Si badi che l’artista mantovano ha tutti i numeri per arrivare all’eccellenza e che tali critiche vogliono solo rispettare in maniera obiettiva le potenzialità del professionista.
Francesca Ascioti ha una bella voce di contralto, perfetta per interpretare la comare Quickly. I colori, le sfumature e l’uso della parola sono certamente i suoi punti forti, ma anche i più deboli, poiché i pianissimi non sono ben proiettati e non si sentono. La affianca la brava Valeria Tornatore nei panni di Meg, ben adeguata, ma non sempre precisissima.
Jihan Shin è un Cajus brillante e sonoro; Marco Voleri e Evgeniy Stanimirov sono un Bardolfo e un Pistola efficaci nel personaggio, ma non molto nel canto.
Meno opportuno del solito è il Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani. Ma forse gli artisti storici sono impegnati nelle altre produzioni e qui se ne riporta solo il nome.

LUISA MILLER [William Fratti] Piacenza, 15 ottobre 2013.
Il Teatro Municipale di Piacenza apre la Stagione del Bicentenario con Luisa Miller, nell’ambito del Progetto Verdi 2013 in collaborazione con ATER Formazione, Scuola dell’Opera Italiana e Comune di Busseto.
La messa in scena teatrale di Leo Nucci che ha visto l’alba a Busseto nel mese di luglio, con il regista collaboratore Salvo Piro, i costumi di Alberto Spiazzi e il disegno luci di Claudio Schmid, è arricchita con le splendide scene di Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti. Un allestimento molto semplice, poco pretenzioso, ma di gusto e totalmente efficace.
Il grande pregio di questo spettacolo è l’aver ridato la regia a Giuseppe Verdi, seguendo pedissequamente le parole e le note del libretto. Un esempio su tutti: in moltissime messinscene, come del resto in altrettante pubblicazioni, Miller è condotto al castello dagli arcieri alla fine di primo atto. Ciò è chiaramente errato e in questa produzione si torna finalmente alla filologia, restituendo un senso al coro di apertura di secondo atto, che spiega a Luisa l’arresto del padre.
Donato Renzetti dirige la brava Orchestra Giovanile Luigi Cherubini col fare del padre di famiglia, accompagnando con grazia i giovani cantanti e musicisti, anche se in qualche momento si lascia andare a suoni leggermente lunghi e un po’ troppo legati, perdendo quel rigore che fa stare sull’attenti anche il pubblico.
Gli interpreti protagonisti sono tutti ben preparati, principalmente sull’uso della parola, del fraseggio e dell’accento, ma in molti di loro si sentono ancora i segni di una voce acerba, adolescente e non in grado di affrontare un mostro come un’opera verdiana.
Samantha Sapienza ce la mette tutta, ma il ruolo di Luisa è troppo pesante per la sua vocalità e per la sua tecnica non ancora ferrata. Non si sentono errori evidenti, ma è chiaro che i fiati non sono ben tenuti e la proiezione è ridotta ai minimi termini, facendola scomparire sotto il peso orchestrale.
Vincenzo Costanzo, come già notato a Busseto, è un Rodolfo dalla tipica voce all’italiana e che dimostra di saper cantare, ma non è naturalmente dotato di squillo e tende a opacizzarsi dopo il passaggio all’acuto, svanendo durante i concertati. L’intonazione è migliorata rispetto a qualche mese fa, ma non la generosità, poiché neppure in questa occasione esegue il da capo della cabaletta, mentre la collega non si tira indietro. Inoltre rischia di uscire durante il duetto con Federica, ma è fortunatamente recuperato dal direttore.
Byunghyuk Choi è un Miller squillante, ben timbrato e capace negli accenti, che sicuramente sa farsi notare.
Gianluca Lentini purtroppo non mostra segni di miglioramento rispetto a luglio e il suo Walter passa molto inosservato.
Costantino Finucci possiede un bel fraseggio espressivo, nonché un cantabile molto musicale. Le qualità del suo Wurm si notano particolarmente durante le arie di Miller e di Luisa, ma soprattutto nel duetto con Walter.
La Federica di Tamta Tarieli si presenta con una voce particolarmente piena, pastosa e rotonda, con facilità all’acuto e al grave, anche se le note basse sono quasi tutte emesse di petto, perdendo morbidezza ed omogeneità.
Ognuno di questi giovani è da riascoltare, previa maturazione vocale e miglioramento tecnico.
Completano il cast la brava Renata Campanella nel ruolo di Laura e Bruno Nogara nei panni del contadino.
Buona la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati.
L’operazione è sicuramente da ripetere, poiché gli esordienti non devono essere buttati in palcoscenico come nella fossa dei leoni, ma occorre giustamente prepararli attraverso appositi corsi di formazione. Purtroppo la risposta del pubblico non è stata delle migliori. Forse sarebbe più opportuno offrire questo genere di spettacoli all’interno della stagione e non all’inaugurazione; magari anche con prezzi più bassi e più adeguati alla qualità canora proposta.

DON CARLO [Lukas Franceschini] Milano, 16 ottobre 2013.
Al Teatro alla Scala per le celebrazioni verdiane è stata ripresa l’opera Don Carlo, produzione del 2008, nella versione di Milano 1884, con cast e direttore totalmente variato.
A parere di chi scrive l’opera rappresenta il massimo capolavoro verdiano della maturità. Spesso criticato per un libretto difficile, tratta dal dramma di Schiller, e anche da uno stile che si avvicina ad altri autori, coevi e passati, ritengo siano ingiuste colpe. Verdi pur nella sua autonomia s’ispirò al grand-opéra francese considerato che la commissione era per Parigi, ma lo stile verdiano è contraddistinto soprattutto nell’umanità che egli ha infuso in ogni singolo personaggio, riuscendo maggiormente in questo caso dell’autore tedesco. Una peculiarità delle opere “francesi” di Verdi è che dopo la prima rappresentazione ebbero una veicolazione internazionale nella traduzione o versione italiana, pertanto anche Don Carlos, del quale è doveroso ricordare le molte versioni secondo i rifacimenti e modifiche apportati dal compositore. La produzione adottata al Teatro alla Scala è quella del 1884, la più breve e concisa, che Verdi elaborò per proprio per il teatro milanese.
Lo spettacolo è la ripresa dell’allestimento che inaugurò la stagione 2008. La regia di Stéphane Braunschweig è molto lineare con qualche accento introspettivo inserendo delle controfigure di bambino sui personaggi di Carlo ed Elisabetta. La scena minimalista è funzionale anche perché aiutata da belle proiezioni e luci molto efficaci. I costumi di Thibault Vancraenenbroeck sono di altissima sartoria e bellissimi, essi incontrano una piacevole visione nel contesto storico. Nell’insieme la drammaturgia è resa con sufficienza chiarezza, e nei tempi attuali è una lodevole considerazione, magari sono mancate alcune pennellate di grandiosità, atto III, tuttavia si apprezzano la compostezza narrativa e l’ottima realizzazione.
Fabio Luisi salvo errori debuttava nella direzione operistica alla Scala. Il direttore ligure ci ha offerto una concertazione molto precisa ed accurata, riuscendo a tenere sotto controllo sia buca sia palcoscenico, ma mancava di respiro ed anima risultando spesso monotono e pedante. Egli non esprime al meglio il senso musicale del grand-opéra e le grandi scene d’assieme non sono messe a fuoco in maniera incisiva.
Il cast comprendeva nomi di spicco attualmente sulle scene internazionali, tuttavia questo non è sinonimo di esemplare esecuzione. Fabio Sartori, come ho avuto modo di scrivere più volte, è un tenore solido e corretto al quale non si possono imputare appariscenti mancanze, anzi di questi tempi è una garanzia, tuttavia manca nel fraseggio, spesso monotono e a senso unico la realizzazione del personaggio che manca anche di slancio e mordente. Martina Serafin, Elisabetta, era ben calata nel suo personaggio che era ancor più valido per la bellezza scenica, ma la voce è sfibrata e non omogenea, il settore acuto sovente stridulo e forzato, la zona centrale non definita che ella cercava di risolvere con striscianti melodie non propriamente musicali. Dal punto di vista vocale s’imponeva il Filippo II di René Pape che è in possesso di uno strumento di primordine pastoso e rotondo. Egli ha saputo trovare anche accenti e fraseggi pertinenti, ma spesso cercando di dare espressività al canto l’intonazione e il gusto erano precari e disomogenei. Massimo Cavalletti, Rodrigo, si è distinto con garbo nel primo duetto, ma poi nel corso dell’esecuzione la voce ha perso di smalto e i limiti tecnici sono affiorati soprattutto nel duetto con Filippo e nella grande scena della morte per voce non particolarmente ampia e scansione ridotta. Note non positive anche per la Eboli di Ekaterina Gubanova, una cantante dotata anche di voce bella e robusta nel centro, però tecnicamente non capace di legare i suoni, con una zona acuta limitata e spesso imbarazzante, ad esempio le cadenze della canzone del velo erano scolastiche, non grintosa nel terzetto del II atto e un “O don fatale” poco espressivo oltre ai limiti di cui prima. Decisamente improbabile l’Inquisitore di Stefan Kocan, voce gonfiata e poco musicale, meglio il Frate di Fernando Rado, solido cantante, traballante invece il Conte di Lerma di Carlos Cardoso, piuttosto anonimo il Tebaldo di Barbara Rita Lavarian, insignificante la Voce dal cielo di Roberta Salviati. Il pubblico rimasto, si notavano molti forfait all’inizio dell’ultima parte, ha decretato un discreto successo al termine a tutta la compagnia.

SIMON BOCCANEGRA [William Fratti] Torino, 20 ottobre 2013.
Il Teatro Regio di Torino, ancora nel pieno dei festeggiamenti del Bicentenario, inaugura la Stagione d’opera 2013-2014 con Simon Boccanegra nello storico spettacolo di Sylvano Bussotti, realizzato nel 1979 e già ripreso nel 1995.
Il catalogo verdiano comprende ventisette titoli originali, più i rifacimenti, ed è davvero curioso assistere ogni anno – non solo con Verdi, ma anche con altri compositori – alla messinscena dei medesimi titoli, ma con allestimenti differenti, in diversi teatri, come se si volesse fare a gara a chi lo esegue meglio. E così il Simone debutta a Parma il 1 ottobre, a Torino il 9 ottobre, a Piacenza il 14 marzo 2014 (produzione che poi salirà sul palcoscenico di Modena) e a Milano il 31 ottobre 2014. Lo stesso titolo in quattro diversi spettacoli, in quattro città che distano al massimo 240 km. Programmazione tutta all’italiana.
Il Boccanegra di Bussotti compie 34 anni, ma non mostra segni di obsolescenza, né senescenza; anzi, è in grado di superare moltissime messinscene più recenti. È evocativo e suggestivo, soprattutto per ciò che concerne i caratteri esclusivi dell’ambientazione di quest’opera: il mare, l’aurora, la brezza marina. Purtroppo la ripresa della regia, affidata a Vittorio Borrelli, appare noiosa e polverosa: non sembra andare oltre i semplici fatti della vicenda, né con la gestualità, né con l’approfondimento psicologico dei personaggi, né con gli accadimenti di contorno che servirebbero a movimentare la scena.
L’Orchestra del Teatro Regio presenta la sua abituale eccellenza, soprattutto nella precisione musicale e nella pulizia del suono. Sul podio è il suo direttore Gianandrea Noseda, che sa essere poeta nei passaggi più sinfonici; un maestro di stile, come suo consueto, eseguendo certe pagine in maniera davvero pregevole, come tutto il prologo, l’inizio di primo atto o il finale dell’opera. Ma in altri punti appare un po’ troppo spiccio, frettoloso, mancando di esprimere il pathos necessario a certe scene, tra cui il celebre duetto tra Simone e la figlia.
Ambrogio Maestri veste i panni di un protagonista ben poco centrato, non riuscendo mai ad entrare veramente nel personaggio. Riguardo alla voce, ben timbrata e naturalmente dotata di squillo, sarebbe in grado di affrontare qualunque ruolo verdiano, ma non ne uscirebbe vincitore a causa di numerose lacune tecniche. Il canto forte e fortissimo riesce sempre bene, anche nel fraseggio, ma già con il mezzo forte tende ad indietreggiare e ancor peggio i piani non sono altro che dei falsetti mal appoggiati. Ascoltare il baritono pavese fa venire rabbia, poiché avrebbe una vocalità davvero eccellente se solo la perfezionasse con lo studio in maniera continua e accurata.
Maria José Siri ha dalla sua una bella intonazione, un volume corposo soprattutto nei centri e un cantabile davvero musicale. Ma è poco omogenea nel passaggio, oltre il quale non presenta quasi mai una voce propriamente pulita. Tutto ciò lo si nota particolarmente nella celebre aria di Amelia “Come in quest’ora bruna”.
Michele Pertusi porta sul palcoscenico torinese tutta la sua eleganza, il suo stile, la sua classe di cantante attento al suono, al rigore tecnico, all’uso della parola, al fraseggio e alla resa del personaggio. L’esecuzione del suo Fiesco è indubbiamente una lezione di canto. Rimane solo da capire se la sua voce, particolarmente brillante, è idonea a rappresentare una parte intrisa di note molto basse. Del resto lo stesso Verdi aveva più volte dichiarato di non avere mai pensato a particolari timbri di voce, ma solo ad artisti che potessero far vivere i suoi personaggi. E Pertusi ne ha tutta l’autorevolezza. Ma resta il fatto che la sua voce, bella e luminosa, dona molto più piacere alle orecchie del pubblico nell’interpretazione di ruoli più acuti, come Attila e Lombardi.
Roberto De Biasio torna a vestire i panni di Adorno dopo un’indisposizione che l’ha costretto a cancellare alcune recite e nei primi duetti con Amelia e Fiesco mostra il suo squillo scintillante e un’ottima capacità di fraseggiare, coadiuvata da un sapiente uso dei colori. Non eccelle particolarmente nel finale primo, dove dovrebbe primeggiare in punti come “Pel cielo! Uom possente tu se’!”, o nel finale secondo nel celebre passaggio “Dammi la morte; il ciglio a te non oso alzar”; mentre la resa dell’aria e del finale ultimo sono decisamente di alto livello.
Devid Cecconi centra il personaggio di Paolo, ma presenta una voce un poco svuotata, come se non fosse in perfetta forma fisica. Molto buone sono invece le prove di Fabrizio Beggi e di Dario Prola nei ruoli di Pietro e del capitano dei balestrieri. Più che corretto il Coro del Teatro Regio guidato da Claudio Fenoglio.

NABUCCO [Lukas Franceschini] Bologna, 22 ottobre 2013.
Le celebrazioni per 200° anniversario della nascita di Giuseppe Verdi al Tetro Comunale di Bologna terminano con la produzione dell’opera Nabucco.
Superfluo soffermarsi ancora una volta sull’importanza di questo titolo nella vasta e lunga creazione artistica verdiana, Nabucco, terzo titolo cronologico, è il primo successo pieno ed autentico. L’opera (1842) si colloca nella prima fase della carriera di Verdi, un periodo decennale, nel quale il compositore macina opere in sequenza incessante, realizzando anche spartiti di merito ma che troverà la completa maturità dal Rigoletto (1851). Di Nabucco è necessario rilevare l’inizio dell’uso espressivo del colore orchestrale, la meravigliosa parte corale e l’atmosfera dell’esilio e delle cose perdute. Pur con solenni fanfare, marcette e grandi scene corali, emergono soprattutto il pianto della patria perduta e il tormento del dispotico protagonista. Verdi inizia a caratterizzare individualmente i personaggi: Abigaille e Nabucco non sono che gli antenati di successivi protagonisti sicuramente più delineati; ed altra peculiarità consiste che l’amore è relegato in secondario ordine.
Per la ripresa autunnale bolognese il teatro Comunale rispolvera un precedente spettacolo di Yoshi Oida, con povera e disarmante scenografia di Thomas Schenk ed orientali costumi fastosi e cromatici di Antoine Kruk. Pur considerando una sommaria eleganza e di facile lettura questo spettacolo disarma e non affascina. Un’impalcatura fissa, su cui si dispone il coro, è l’unico dettaglio di cifra, piccoli praticabili quasi in proscenio sono utilizzati dai solisti. Non vi è nulla d’indecifrabile ma personalmente non credo che il teatro kabuki si addica ad un’opera risorgimentale ed intimamente forte come Nabucco. Ottime le luci di Andrea Oliva che hanno contribuito in maniera decisiva ad una visione meno statica. Il pubblico accetta tale impostazione ma non ne pare convinto.
Sul podio Michele Mariotti, che qui esprime più felicemente rispetto al Guillaume Tell estivo, trovando colori adeguati, precisione in buca e forte coesione con i solisti. Talvolta il senso narrativo non era incalzante come lo stile verdiano, tuttavia è doveroso precisare che la tenuta e la resa complessiva era più che soddisfacente soprattutto negli insiemi corali, cui giustamente ha concesso il bis del celebre “Va pensiero”. Il coro diretto da Andra Faidutti si è distinto in una prova eccelsa, sicuro, compatto e di grande professionalità.
Vladimir Stoyanov, Nabucco, era l’unico tra gli interpreti che sapeva cosa significasse cantare Verdi, accento, colore, fraseggio. Purtroppo non era in serata ottimale rispetto il suo standard e ci è parso stanco e contenuto. Anna Pirozzi era un’Abigaille tutta sopra le righe, con un registro acuto sguaiato, e un’impostazione vocale precaria che non reggeva fraseggi eloquenti e il canto legato. Lo Zaccaria di Dmitry Beloselskiy non identificava la cifra verdiana necessaria e nonostante un materiale interessante si produceva in una monotona interpretazione. Marina Pinchuk era una sbiadita Fenena, Sergio Escobar un improbabile Ismaele con gravi difetti d’intonazione. Senza lode ma nella classica routine gli altri cantanti.
Dopo le entusiastiche ovazioni al Coro nell’assolo del III atto, al termine della recita il pubblico, che gremiva il Comunale, ha riservato a tutti un caloroso plauso di successo.

I MASNADIERI [Lukas Franceschini] Parma, 25 ottobre 2013.
Dopo quarant’anni dalla sua ultima rappresentazione, torna a Parma I masnadieri, opera degli anni di galera purtroppo poco rappresentata, ma ingiustamente.
Il Festival Verdi del Bicentenario non è stato esaltante e festoso come avrebbe dovuto, probabilmente anche in funzione del periodo di recessione in cui ci troviamo, e la cultura è tra le prime ad essere sacrificata.
Dopo la ripresa di un “vecchio” allestimento di Simon Boccanegra e il Falstaff del centenario 2001, l’unico nuovo spettacolo prodotto è stato I Masnadieri che mancava al Teatro Regio dal 1974. I Masnadieri occupano un posto molto importante nella produzione e nella carriera di Verdi. Innanzitutto si tratta della prima commissione all’estero, dopo neppure dieci anni di carriera, al Her Majesty’s Theatre di Londra (22 luglio 1847). Altra peculiarità è che la parte dell’unico personaggio femminile fu scritto per la celeberrima Jenny Lind, soprano di coloratura ma egualmente efficace in ruoli drammatici, per la quale Verdi non compose le cadenze nelle arie previste. I Masnadieri sono soggetti da sempre a grandi critiche soprattutto per un libretto non tra i più forbiti ad opera di Andrea Maffei, le vicende dei Moor non sono sintetizzate al meglio rispetto al romanzo di Schiller, tuttavia è una delle opere più interessanti, dal punto di vista musicale, e più ispirate prodotte da Verdi nei cosiddetti anni di galera, durante i quali egli componeva ossessivamente.
Il nuovo allestimento di Leo Muscato ha riservato un piacevole sorpresa. Spettacolo minimalista tutto giocato su una pedana inclinata, con tende a sipario di gran fattura di Federica Parolini, costumi azzeccati di Silvia Aymonino, e strepitose luci di Alessandro Verazzi. Il regista crea un dramma efficace complici cantanti che sanno ben recitare; suggestione di interni ed esterni, con piante calata a vista che creano una reale e credibile foresta. C’è tutto quello che deve esserci in questo spettacolo all’apparenza semplice ma di non sommaria realizzazione, preciso, suggestivo e coinvolgente.
Aggettivi che non si possono confermare anche per la parte musicale. La direzione di Franesco Ivan Ciampa era corretta ma non andava oltre un accompagnamento manierato senza scavo orchestrale e colore. Roberto Aronica è un cantante preciso ma poco raffinato, mai una mezzavoce e un fraseggio eloquente ovviando per un noioso canto aperto e forte. Aurelia Florian non era in grado di sostenere una parte drammatica di coloratura con difficoltà nel modulare e slancio belcantistico. Leggermente meglio Damiano Salerno dal quale avremo voluto uno scavo psicologico più appropriato, migliore di tutti Mika Kares autorevole Massimiliano. Di pregio l’intervento di Giovanni Battista Parodi e Antonio Corianò. In gran forma il Coro del Teatro Regio di Parma. Applausi convinti al termine.

I MASNADIERI [William Fratti] Parma, 25 ottobre 2013.
Il dramma lirico, scritto per Her Majesty’s Theatre, è chiaramente un esempio tipico del Romanticismo e non solo per il libretto di Andrea Maffei, tratto da Friedrich Schiller. La musica e i personaggi guardano ai lavori precedenti, come Nabucco, Ernani, Giovanna d’Arco, Attila e il contemporaneo Macbeth, ma presagiscono anche il futuro de Il trovatore e La traviata.
A questa linea romantica appartiene anche il nuovo allestimento firmato da Leo Muscato, composto da un solo ed efficacissimo impianto scenico di Federica Parolini – anche se l’eccessiva pendenza, pur rendendo lo spettacolo visivamente migliore per il pubblico, mette in seria difficoltà gli artisti – e dalle luci altamente suggestive di Alessandro Verazzi, che richiamano ambientazioni gotiche e romanzesche, ben poco realistiche, ma in verità perfettamente in linea con la vicenda. Peccato che l’invenzione scemi proprio nel finale, con la creazione di un’ambientazione incomprensibile, in cui spiccano enormi alberi appesi a mezz’aria. Contribuiscono alla riuscita della messinscena i pregevoli costumi di Silvia Aymonino. Ma al di là dell’effetto visivo, ciò che piace nel lavoro di Leo Muscato sono la gestualità e i movimenti dei personaggi, solisti e coristi, che raccontano la storia di Schiller – che qui sembra anticipare Poe – attraverso la parola, gli sguardi, le espressioni, i cenni e le azioni, in un continuo movimento che non annoia mai, ma che al tempo stesso non risulta essere nemmeno eccessivo.
La brava Filarmonica Arturo Toscanini dipinge il dramma con suoni limpidi e puliti, guidata da Francesco Ivan Ciampa che mantiene saldo il vigore verdiano, lasciandosi andare a qualche momento più lento che in taluni casi aiuta ad intensificare il pathos. Eccellente il preludio col violoncello di Diana Cahanescu.
Roberto Aronica veste i panni di un protagonista eroico che potrebbe tranquillamente fare il paio con Ernani. L’intonazione e la precisione musicale sostengono una voce ben impostata in avanti, brillante e squillante. Solo i piani e i colori più delicati sono sacrificati in questa impostazione così spinta, ma è tutto così omogeneo e ben amalgamato che se non si leggesse lo spartito, non ce ne si renderebbe conto. Ciò che davvero importa è che il personaggio di Carlo è interpretato con intensità e che la voce di Aronica trasmette forti emozioni.
Aurelia Florian è una brava e giovane cantante, ma non è adatta a vestire i panni di Amalia. Partendo dal presupposto – contrariamente a quanto sostengono tanti melomani – che non esistono un timbro e un colore pensati dal Maestro, ma che la voce verdiana risiede nell’accento e nel fraseggio in grado di far vivere un personaggio all’interno di una scrittura, ogni artista in grado di sostenere comodamente una tessitura, indipendentemente dalla tinta, può reggere un ruolo del Cigno di Busseto. Molto del lavoro del giovane Verdi risiede indubbiamente nel belcanto, ma con la forte aggiunta della componente drammatica e ciò vale anche per la parte di Amalia, scritta per un soprano drammatico di agilità. Aurelia Florian, nell’eseguire questa parte troppo pesante per le sue possibilità, non riesce ad eccellere, dovendo rallentare per trovare appoggio nelle numerose agilità ed indebolendosi nei passaggi più bassi. Da notarsi anche che, ad ogni attacco, per pochi istanti la sua voce pare stimbrata, o le sue corde non perfettamente chiuse e si ha la sensazione di un piccolo vuoto, anche se non si capisce bene quale ne sia la causa. Ad ogni modo il soprano riesce comunque a mettere in mostra le proprie qualità, a partire dai bellissimi e pregevoli filati naturali, fino al sapiente uso dei cromatismi. Sarebbe interessante riascoltarla in una parte più lirica, come Medora o Desdemona.
Damiano Salerno è un Francesco davvero eccellente. Forse la sua voce non è così potente come ci si aspetta solitamente da un baritono verdiano, ma il fraseggio, l’accento – prima drammatico, poi patetico, infine delirante – l’uso della parola, oltre all’omogeneità della linea di canto, alla musicalità e alla brillantezza fanno di lui un bravissimo interprete, con una resa del personaggio sinceramente ben riuscita.
Anche Mika Kares, nel ruolo di Massimiliano, lascia la sua impronta più che positiva sul palcoscenico di Parma, con la sua vocalità piena e corposa, la sua nobiltà d’accento e la sua capacità di rendere il vecchio reggente decaduto.
Antonio Corianò sa eseguire con grande perizia la parte di Arminio, mai protagonista, mai comprimario, ma sempre presente, a cui si richiede un volume adeguato – soprattutto per il quartetto conclusivo di primo atto – una buona capacità di fraseggiare e una musicalità tale da non rendere mai piatti i suoi numerosi recitativi.
Lo stesso vale per Giovanni Battista Parodi nelle vesta del pastore Moser. Il ruolo è breve, ma importante per la resa della bellissima scena in cui Francesco chiede il perdono, ma gli viene negato. Parodi lo esegue col giusto piglio, giustamente autoritario nella resa vocale e nel personaggio.
Conclude l’adeguato Enrico Cossutta nei panni di Rolla.
Validissima, anche scenicamente, la prova del Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani, coadiuvato da mimi molto bravi.

PETER GRIMES [Simone Ricci] Roma, 26 ottobre 2013.
Il centenario della nascita di Benjamin Britten è stato celebrato dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con l’esecuzione in forma di concerto della sua opera più celebre.
Diversi posti liberi, ma una presenza di pubblico da non disprezzare: l’Auditorium Parco della Musica non ha dimenticato il centenario della nascita di Benjamin Britten e per l’occasione ha dedicato tre serate a uno dei suoi lavori più conosciuti, “Peter Grimes”. Si tratta di un titolo che in passato e anche in tempi recenti non ha mai consentito di ottenere un teatro tutto esaurito, ma la direzione di Antonio Pappano e l’esecuzione in forma di concerto hanno permesso di apprezzare meglio la musica e di festeggiare degnamente il compositore britannico. La riscoperta delle sue “fatiche” non può che passare da una presenza più costante di questa e altre opere nei cartelloni di tutto il mondo.
Questa recensione si riferisce alla serata di apertura, quella del 26 ottobre. La Sala Santa Cecilia ha potuto fruire di uno spettacolo degno di questo nome, anche se non molto semplice da comprendere, come testimoniato dagli applausi non sempre convinti. L’atmosfera, costantemente densa di scena in scena, la fortissima carica di tensione e l’approfondimento dettagliato della psicologia dei personaggi sono le tre caratteristiche che sono emerse in modo chiaro. L’aver scelto molti cantanti di madrelingua inglese ha senza dubbio favorito il risultato finale, con una dizione nitida e ben comprensibile.
Il protagonista principale, Peter Grimes appunto, è stato cantato da Gregory Kunde, tenore americano di lungo corso che dispone di una voce piuttosto potente, con tutti gli acuti necessari: l’unico appunto che gli si può muovere è che non sempre è stata mostrata la giusta sensibilità per le sfumature del suo ruolo, ma nel complesso l’interpretazione ha reso l’idea dell’uomo tormentato, tanto che il pubblico romano gli ha tributato l’applauso più caloroso di tutto il cast. La donna da sposare, l’amata Ellen Orford, era interpretata da Sally Matthews, soprano che in carriera ha spesso deliziato con i pianissimi: stavolta non sono mancati gli slanci lirici, portentosi e vellutati allo stesso tempo.
Alan Opie vanta un curriculum in cui la parte del capitano Balstrode è presente diverse volte: nonostante questa lunga esperienza, comunque, il suo bel timbro è risultato in talune occasioni poco potente, ma bisogna anche rilevare la sua recitazione molto intensa, capace di coinvolgere tutti in assenza di scenografia. Non si poteva chiedere più di quanto ha dato a Matthew Best: prima dell’inizio dello spettacolo è stato annunciata la sua non perfetta salute (una fastidiosa laringite), ma in realtà la vocalità è stata di tutto rispetto. Va citato anche il Robert Boles di Michael Colvin, vocalmente adeguato, intraprendente e a suo agio in questi panni.
Il resto del cast è stato completato dalle frizzanti Elena Xanthoudakis e Simona Mihai (le due nipoti), da una decisa e sicura Susan Bickley (Auntie), dalla Mrs Sedley un po’ scialba di Felicity Palmer, oltre ai discreti Harry Nicoll (Reverendo Adams) e Roderick Williams (Ned Keene). Le note più liete, in tutti i sensi, sono giunte da coro e orchestra. In entrambi i casi si è trattato di componenti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: il coro era vivace e grintoso, in grado di accompagnare ogni momento della storia, ben preparato dal maestro Ciro Visco. Non c’è stata alcuna mancanza, invece, nell’orchestra, abilmente guidata, come già detto in precedenza, da Antonio Pappano.
Ogni singolo strumento è stato spronato fino alle sue prestazioni massime, con una incisività molto espressiva: gli intermezzi hanno affascinato parecchio, anche perché consentivano di avvertire la tensione del mare che rimbomba e rumoreggia. Le atmosfere sono state sottili e al limite dell’impressionismo. Insomma, nulla è stato banale, la Sala ha accolto la musica di Britten in tutta la sua psicologia e genialità, senza trascurare comunque due elementi fondamentali come la calma e l’intimità, necessarie in diversi momenti e che hanno fatto pensare a dei veri e propri spunti cameristici.
Chiudendo gli occhi si poteva pensare all’avvicinamento costante di grandi ondate di mare e di suono, la tensione non è mai venuta meno. La scelta ambiziosa dell’Auditorium è stata ripagata: Peter Grimes non sarà forse capace di conquistare sterminate platee come altri titoli, però sta vivendo da diversi anni a questa parte di una “rinascita” molto utile. Le celebrazioni di Britten sono cadute in un momento più che propizio, la speranza è che del compositore di Lowestoft si conosca meglio anche il resto del repertorio, senza limitarlo ai soliti nomi.

MESSA DA REQUIEM [William Fratti] Parma, 31 ottobre 2013.
Il Festival Verdi conclude la sua edizione 2013 con Messa da Requiem, l’opera più rappresentata a Parma in questi ultimi anni, con la partecipazione di importanti direttori e grandi artisti, ma nessuna di queste è mai risultata impeccabile, per un motivo o per l’altro.
Indubbiamente la parte del leone la fa il preparatissimo Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani, sempre intenso ed emozionante, letteralmente sublime nei pianissimi e nei sussurri, ineguagliabile nella capacità di mettere in scena l’intenzione verdiana.
In questa occasione l’anello più debole è l’Orchestre National de France, precisissima negli archi ma non altrettanto nei fiati e soprattutto poco nella parte, quasi senza sentimento. La dirige Daniele Gatti che, al contrario, è concentratissimo sul suono, sulle pause, sui silenzi, rispettosissimo dei pianissimi e delle indicazioni di Verdi, attentissimo al vero significato terreno e divino che questa musica è in grado di trasmettere. Significato ulteriormente sottolineato dall’onorevole presenza in sala del Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e da un teatro che, negli ultimi anni, non è mai stato così pieno, in ogni ordine di posto.
Dopo qualche tempo di assenza dalle scene Fiorenza Cedolins torna sul tanto amato palcoscenico di parma in buona forma, pur senza riuscire ancora a ripetere le prodezze di Luisa Miller e de Il trovatore. Ma ci si augura di risentire presto la voce che tanto ha dato alle platee di tutto il mondo. Eccellenti, nella loro delicatezza, “Quid sum miser” e “Recordare”.
Veronica Simeoni sostituisce l’indisposta Daniela Barcellona con un’interpretazione molto musicale e attenta al suono: per le note basse, mai snaturate di petto, predilige una più dolce emissione mista. Del suo canto piace l’eleganza con cui svolge lo spartito, anche se ne risentono un pochino le parti più intense della partitura.
Francesco Meli, come già in altre occasioni, è sinceramente meraviglioso, raffinatissimo, con una tenuta dei fiati da manuale, in grado di eseguire delle mezze voci non solo perfette, ma soprattutto toccanti, da pelledoca. Il finale di “Quid sum miser”, “Ingemisco” e “Hostias” sono delle vere e proprie lezioni di canto.
Michele Pertusi, come suo consueto, canta con una classe impareggiabile, tecnicamente perfetto, attento al suono e alla parola, fraseggiatore espressivissimo. “Salva me” – a conclusione di “Rex tremendae” – eseguito in pianissimo, quasi in sottovoce, ma ben timbrato, è davvero sorprendente. Bellissimi anche i piani di “Lacrymosa”.
Al termine dell’esecuzione, ovazioni meritatissime per tutti gli artisti.

I CAPULETI E I MONTECCHI [Lukas Franceschini] Verona, 7 novembre 2013.
La stagione Lirica 2012-2013 al Teatro Filarmonico si è conclusa con la nuova produzione dell’opera I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini.
Auspicabile che questa programmazione segue il filone inaugurato in Arena con Romeo et Juliette di Charles Gounod che potrebbe consistere nel proporre tutte le opere che hanno come soggetto la sfortunata coppia di giovani innamorati veronesi. I Capuleti debuttarono al Teatro La Fenice l’11 marzo 1830 con protagonista nel ruolo di Romeo la celeberrima Giuditta Grisi. Bellini utilizzò molto materiale della precedente opera, Zaira, che non ebbe successo al Teatro Ducale di Parma. La peculiarità di affidare il ruolo maschile en travestì rimane una singolare invenzione del compositore nel voler assemblare in un quasi identico timbro gli amanti coinvolti nell’adolescenziale passione, sincerità giovanile, oltrepassando il confine delle contese famigliari, e saranno queste due voci bianche profondendo un onirico cromatismo vocale a terminare tragicamente in uno spegnersi di voce una vicenda molto romantica e commuovente.
Il nuovo spettacolo veronese, in coproduzione con La Fenice di Venezia e l’Opera Nazione Greca di Atene, vedeva il ritorno di Arnaud Bernard alla regia affiancato da Alessandro Camera, scenografo, e Maria Carla Ricotti, costumista. La lettura di Bernard sarebbe stata originale, in partenza, avendo ambientato la vicenda in un museo colmo di quadri, questi spostati dal personale durante l’overture. Nella notte, durante la chiusura del museo, i personaggi raffigurati nei quadri uscivano e prendevano forma umana, tanti sono i riferimenti di Romeo e Giulietta dipinti da numerosi autori. Il regista firmava anche le note di regia pubblicate nel programma di sala, ove commetteva un imperdonabile errore. Egli affermava che il libretto di Felice Romani, sommo poeta operistico ottocentesco, era strampalato, debole teatralmente e per nulla fedele a Shakespeare. Avrebbe dovuto sapere che sia il Romani sia Bellini nel comporre, con fretta, non si rifecero al dramma del Bardo inglese, quasi sconosciuto al tempo in Italia ma piuttosto all’opera di Nicola Vaccaj e all’ampia tradizione letteraria tra cui la novella di Matteo Bardello. Nel racconto drammaturgico definisce il melodramma opera da museo ma aggiungeva particolari notevolmente superflui, come il personale delle pulizie che girava per il palcoscenico, o il personale tecnico al lavoro. Probabilmente per paura di rendere una lettura troppo banale e spoglia di valore drammatico, quando invece non avrebbe dovuto fare nulla se teneva come punto di riferimento il senso idilliaco dell’impossibile amore giovanile dei protagonisti risolto dal compositore sotto l’aspetto più puro del belcanto romantico ottocentesco, che è il vero senso di quest’opera, la quale conferma alcuni difetti del giovane compositore ma esprime un senso teatrale ben preciso seppur scarno. Piuttosto banale e anche fuori luogo la scelta di intravedere una sorta di scena di pazzia di Giulietta nel II atto durante l’aria “Ah! Non poss’io partire” ove Bellini non voleva assolutamente esprimere quello che era certamente uno stile tipico delle eroine tragiche del tempo. Aiutavano ad una discreta visione i bellissimi costumi della Ricotti, un po’ meno la scenografia di Camera piuttosto anonima ma con quadri di riferimento molto azzeccati.
L’aspetto musicale era sommariamente deludente. Fabrizio Maria Carminati concertava onestamente la partitura senza avere però lo slancio romantico che necessiterebbe e sovente la sua direzione era fiacca e con tempi troppo lenti. L’orchestra lo seguiva svogliatamente e con parecchie sezioni nei fiati non ben calibrate, mentre il coro, diretto da Armando Tasso, figurava con professionalità.
Nelle vesti del giovane Montecchi abbiamo trovato Daniela Pini, la quale salvo errori debuttava il ruolo. La Pini più adatta al repertorio barocco cercava quanto possibile di dare slancio e passionalità al personaggio, ma la voce non particolarmente sviluppata non rendeva appieno le peculiarità vocali oltre a variazioni non particolarmente ricercate.
Mihaela Marcu offriva una prova in parte più emozionante, con voce apprezzabile e stile appropriato, anche se nella seconda parte dell’opera si è sentito un calo di prestazione e con fraseggio meno incisivo. Inappropriato per il ruolo e ancora troppo acerbo il Tebaldo di Giacomo Patti, le cui lacune tecniche vocali mettevano in difficoltà sia il direttore nella concertazione sia i colleghi negli assiemi. Poco espressivo e ruvido il Lorenzo di Dario Russo, nasale ed ingolato il Capellio di Paolo Battaglia. Teatro con vistosi vuoti, i quali hanno caratterizzato tutta la stagione (speriamo in un futuro con più affluenza) ma generoso di applausi per tutta la compagnia.

LA SERVA PADRONA [William Fratti] Firenze, 8 novembre 2013.
La Stagione d’opera del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino prosegue con La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, già messo in scena nel 2011 nella splendida cornice del Teatro Goldoni. L’allestimento firmato da Curro Carreres, con le bellissime scene e i piacevoli costumi di Raffaele Del Savio e le efficaci luci di Luciano Roticiani, pur riportando la vicenda – rispetto precedenti edizioni – al secolo dei lumi, è ancora estremamente contemporaneo, sia per la sua funzionalità, sia per la capacità di rendere gli accadimenti nella sua totale pienezza di significato evergreen.
Anche in questa occasione è Massimiliano Caldi a dirigere la brava sezione d’archi dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, con estrema perizia, particolare attenzione al suono e al ritmo, bel gesto ed interessante uso dei colori. Davvero pregevole è la resa musicale di “Sempre in contrasti”. Eccellente è la prova di Andrea Severi al cembalo.
Sul fronte vocale Lavinia Bini è una Serpina ancora acerba, un poco stridula in certi acuti e non ben timbrata nel recitativo. A parte ciò sa essere ben intonata e molto armonica, soprattutto in “Stizzoso, mio stizzoso” e “Lo conosco a quegli occhietti”, ma il momento più riuscito è indubbiamente il canto patetico di “A Serpina penserete”, sinceramente raffinato e toccante.
Purtroppo Davide Bartolucci, pur essendo dotato di buona intonazione e di una linea di canto abbastanza morbida, non sembra avere la vocalità necessaria e sufficiente per poter affrontare ruoli da protagonista, poiché in questa occasione, in un teatro piccolo come il Goldoni e con un’orchestra formata da meno di venti elementi, è talvolta coperto, oltre ad avere acuti tirati e gravi ben poco solidi.
Molto buona è la resa di Alessandro Riccio nei panni di Vespone. Calorosi applausi hanno accolto tutti gli interpreti alla fine dello spettacolo.

TOSCA [Natalia Di Bartolo] New York, 9 novembre 2013.
Tosca è un’opera complessa, potente, di forte impatto emotivo. Come tale va rappresentata, o rischia di perdere la propria connotazione e le proprie caratteristiche di capolavoro della musica italiana. I personaggi sono emblemi della passione e dell’italianità nel mondo e l’Opera in scena a New York è sempre un evento.
Al Metopera, le aspettative del pubblico erano sentite e la rappresentazione (la cui prima, il 29 ottobre, era stata dedicata alla memoria del grande baritono italiano Tito Gobbi, storico interprete del ruolo di Scarpia), in particolare quella del 9 novembre 2013, si presentava particolarmente interessante e delicata dal punto di vista della messa in scena, perché era previsto che andasse trasmessa in diretta nei cinema francesi ed alla radio.
Così è stato e, grazie a tali mezzi, la splendida musica di Puccini ha potuto raggiungere un pubblico vastissimo, irradiandosi anche sul web.
Moderni mezzi per uno sforzo produttivo non indifferente, che presentava come punta di diamante il tenore siculo-francese Roberto Alagna. Voce splendida ancora agli attuali 50 anni compiuti, un bebé in arrivo, una carriera sfolgorante di luci anche del palcoscenico da chansonnier.
Come Mario Cavaradossi, la sua voce matura, chiara, con quel tanto di caratteristico slittamento delle corde nelle zone di passaggio, si è dispiegata con la consueta generosità ed ampiezza, robusta e ben modulata. Da obiettare soltanto il fatto che la parte di Cavaradossi non pare a lui particolarmente congeniale, perché richiede momenti di forza e di possanza vocale, soprattutto in “Recondita armonia” e “E lucevan le stelle”, brani celeberrimi, che la sua voce non possiede di natura; un impasto più brunito e robusto, che il grande Roberto non ha. Ed è bene che non lo cerchi, perché potrebbe essere di danno allo splendore di una voce che si mantiene costante e brillante nel tempo. I risultati complessivi sono stati comunque eccellenti ed hanno suscitato l’entusiasmo del pubblico che gremiva il Metopera.
Generoso come sempre nell’interpretazione, Alagna si è trovato però un po’ in difficoltà a fianco di una Tosca, Patricia Racette, che non ha più la freschezza vocale necessaria, patisce un vibrato eccessivo ed una sfibratezza che hanno reso improbabile soprattutto il suo “Vissi d’Arte”: il tenore avrebbe meritato una partner decisamente più all’altezza, anche come grazia e presenza scenica. Robusto pure vocalmente, forse in eccesso, lo Scarpia di George Gagnidze, fin troppo caratterizzato in cattiveria e poco in precisione vocale. Apprezzabili gli altri interpreti, tra cui il sagrestano di John Del Carlo; gradevole e corretto il Coro del Metopera, diretto da Donald Palumbo.
A “governare” le sonorità sontuose e brillanti dell’orchestra, il M° Roberto Frizza, che ha sorretto una rappresentazione scenicamente a tratti slegata, per via della regia non sempre accorta e precisa, curata da Luc Bondy. Lo stesso direttore, però, a volte portando anche a livelli sonori particolarmente alti il volume orchestrale, ha dato modo di allargare i tempi in determinati passaggi, a discapito della linea di canto degli interpreti, Alagna per primo. Ma nel complesso la direzione, insieme alla performance del grande tenore, ha rappresentato il punto di forza della rappresentazione.
Debole e poco convincente, invece, l’allestimento, che era curato da Richard Peduzzi, con le luci di Max Keller. I costumi di Milena Canonero non erano anch’essi particolarmente degni di nota. L’allestimento nasceva da una co-produzione tra il Metropolitan Opera, la Bayerische Staatsoper ed il Teatro alla Scala, dove era già stato messo in scena lo scorso anno.
Grande sucesso di pubblico, naturalmente, pur con qualche nervosismo serpeggainte dietro le quinte, spettatori soddisfatti, applausi scroscianti.
La produzione newyorkese ha visto alternarsi Roberto Alagna e Marcello Giordani nel ruolo di Cavaradossi e Patricia Racette e Sandra Radvanovsky in quello di Tosca.

DER FLIEGENDE HOLLÄNDER [William Fratti] Cremona, 15 novembre 2013.
Il Teatro Ponchielli di Cremona, dopo Otello di Giuseppe Verdi, festeggia il Bicentenario verdiano e wagneriano con una nuova produzione di Der fliegende Holländer, rappresentato per la prima volta sul palcoscenico cremonese. L’opera romantica non è certamente tra le migliori del compositore tedesco, ma si colloca comunque nel grande repertorio, sia per la sua vicinanza all’espressione musicale italiana, sia per la sua unanime collocazione di prima opera matura di Richard Wagner.
Lo spettacolo è affidato alla cura del talentuoso Federico Grazzini che però, in questa occasione, non riesce a mettere in scena le sue valide capacità: nei lunghi pezzi solistici o negli altrettanto infiniti duetti gli interpreti sono lasciati al solo fraseggio, causando noia e monotonia. Fortunatamente riescono meglio le pagine corali. Inoltre le poche azioni compiute non sono filologiche: le parole pronunciate da Senta, Mary e le altre donne lasciano chiaramente intendere che stanno filando, mentre la scena è trasposta in una stireria industriale, di cui Erik è la guardia di sicurezza, pur dicendo di essere un cacciatore. I costumi di Valeria Donata Bettella sono adeguati alla trasposizione, semplici e di effetto cupo. Anche le scenografie di Andrea Belli sono opportune, ma troppo povere per smuovere un po’ l’eccessiva piattezza. Né ci riescono le proiezioni di Luca Scarzella, molto scolastiche e ben poco ricercate. Efficaci, ma senza lodi, le luci di Pasquale Mari.
Migliore è il versante musicale, con la sapientemente romantica bacchetta di Roman Brogli-Sacher alla guida dell’Orchestra I Pomeriggi Musicale, che si mostra in buono stato, se non per qualche imprecisione nei fiati, soprattutto i corni.
Thomas Hall può essere considerato un espertista del ruolo dell’olandese e della sua vocalità si apprezzano l’ampio volume, lo squillo luminoso, il fraseggio eloquente.
Anche Patrick Simper è specialista del personaggio di Daland e lo esegue con accuratezza e disinvoltura.
Elena Nebera sarebbe una Senta eccellente se non fosse per le difficoltà che trova nel settore acuto. La voce è morbida, la linea di canto omogenea, l’interpretazione sentita e il fraseggio ricco di sfumature.
Kor-Jan Dusseljee fa parte di quella generazione di tenori avvezzi al canto forte. Non si notano errori nella sua esecuzione di Erik, ma c’è molta povertà d’accento e di colore.
Decisamente migliori Gabriele Mangione nel ruolo squillante del timoniere, con cui mostra acuti ben posizionati in avanti e un morbido canto all’italiana, e Nadiya Petrenko nei panni di Mary.
Sufficiente la prova del Coro del Circuito Lirico Lombardo diretto da Antonio Greco.

JÉRUSALEM [William Fratti] Fidenza, 17 novembre 2013.
È la passione, che alloggia tra i muri e le quinte del Teatro Magnani di Fidenza, a creare la magia, a mettere insieme ogni volta un gruppo di lavoro coinvolto dal solo amore per l’arte, la musica e l’opera lirica. Nell’anno del Bicentenario Verdiano il Gruppo Promozione Musicale Tullio Marchetti, particolarmente nella persona del suo presidente Antonio Delnevo, compie la coraggiosa impresa di mettere in scena Jérusalem, universalmente conosciuta come revisione francese de I Lombardi alla prima crociata.
In realtà Verdi fu pagato come per un’opera nuova e vendette la partitura a Ricordi sotto il nuovo titolo. Effettivamente le modifiche sono troppe per potersi considerare un semplice rifacimento. Sarebbe più corretto affermare che la trama della seconda è ispirata alla prima e che la musica dei Lombardi è quasi totalmente confluita nella Gerusalemme, ma con la modifica dei recitativi e l’aggiunta di molti ed interessanti numeri musicali.
La magia fidentina prende forma nel primo grand-opéra verdiano e lo spettacolo firmato da Riccardo Canessa funziona perfettamente nell’atto ambientato al palazzo del Conte di Tolosa. Le scene e i costumi di Artemio Cabassi – mutuate da spettacoli precedenti, come Adriana Lecouvreur di Fidenza e I Lombardi alla prima crociata di Piacenza, per ovvi motivi economici – sembrano un ideale continuum con il teatro stesso e gli artisti in palcoscenico, come i musicisti in buca, definiscono un amalgama riuscitissimo che farebbe invidia a molte istituzioni che ricevono finanziamenti pubblici.
Purtroppo dal secondo atto in poi si iniziano a vedere e sentire le lacune, dettate indubbiamente dalle limitate risorse – e tempo per le prove – a disposizione. La regia di Canessa resta compatta fino alla fine nell’elegante gestualità e nell’efficace interpretazione dei tre protagonisti, mentre i comprimari e il coro sembrano affidati a se stessi. Le scene e i costumi di Cabassi comportano i medesimi difetti di cui si era già scritto in occasione dei Lombardi piacentini. Inoltre si continua a udire il suggeritore, poiché molti artisti non conoscono la parte come dovrebbero.
Una menzione a parte è da riservarsi ai ballabili. Giuseppe Picone è indubbiamente étoile di prim’ordine, elegante e raffinato; le giovani danzatrici del Balletto di Siena hanno tutti i numeri per proseguire la loro carriera nell’ambito della danza classica; le coreografie di Marco Batti sono accurate e tradizionali, molto in linea con la musica, ma solo se questa la si considera separatamente dalla vicenda. I ballabili dovrebbero essere ambientati nei giardini dell’harem dell’Emiro di Ramla, mentre sembrano collocati in una dimensione decisamente europea.
Il vero protagonista di questo genere musicale parigino, contrariamente a quanto accadeva nel melodramma romantico italiano, è il tenore. Ed ecco che nella trasformazione dai Lombardi a Jérusalem scompaiono i personaggi di Arvino e Oronte per accorparsi nella mastodontica parte di Gaston, a cui si aggiunge la nuova e complessa gran scena e aria di fine atto terzo. L’australiano Rosario La Spina manca dall’Italia da circa un decennio – tra le sue performance ricordiamo Riccardo in Oberto alla Scala e Arvino ne I Lombardi a Parma – e torna con voce generosa e smagliante, dotata del giusto accento verdiano. È un vero peccato che il passaggio all’acuto sia molto forzato, che la sua interpretazione sia povera di colori e che i piani siano pressoché inesistenti. Ma non v’è dubbio che si tratti di problemi passeggeri, legati particolarmente al difficile e imponente debutto.
Daria Masiero si cimenta con un ruolo avulso dal suo repertorio e vince la sfida, ma con tutti i “però” del caso. Innanzitutto il dover affrontare le pagine drammatiche affidate a Hélène la porta ad indurire leggermente la propria naturale morbidezza, suo punto di forza. Pertanto la preghiera iniziale non è risolta con le sue finezze più tipiche; ma risulta fortemente incisiva nel primo grande concertato; mentre sembra risparmiarsi nel secondo. Gli stessi pregi e difetti l’accompagnano per il resto dell’opera: le cabalette sono sanguigne, eseguite con bel timbro e agilità ben impostate, mentre i cantabili sono un po’ meno dolci e delicati di quanto solitamente l’artista non sappia fare. Anche gli acuti più estremi non sono dei migliori. Masiero è indubbiamente una grande professionista e la ripresa del ruolo porterà certamente a dei progressi.
Carlo Colombara è il solo ad avere già debuttato il ruolo ed evidentemente porta in palcoscenico una sicurezza, una resa del personaggio e una presenza che gli altri non hanno. La sua vocalità possente e cavernosa, il suo fraseggio espressivo, la sua autorevolezza e la sua musicalità fanno il resto. Occorre però segnalare che, oltre a mancare il da capo della cabaletta, la sua attenzione alla parola scenica e all’effetto teatrale sono talvolta eccessivi, tanto da sporcare certi suoni.
Donato Di Gioia e Cesare Lana sono un Conte di Tolosa e un Ademar de Montheil efficaci solo a tratti. Come già scritto sopra, il primo atto funziona bene, dopodiché, oltre a non sapere dove andare né dove mettersi in maniera fin troppo evidente – ma non sarà tutta colpa loro – iniziano a subire dei cedimenti vocali, apparentemente dovuti alla parte non troppo ben memorizzata.
Buona la prova dello squillante Raymond di Seung Hwa Paek, del brillante Emiro di Massimiliano Catellani, della brunita Isaure di Stefania Maiardi. Opportuno l’ufficiale di Giovanni Maria Palmia e il soldato di Silvio Agnesini, anche se nel finale primo sembra più un vecchio spaventato che un sicario. In quanto a Noris Borgogelli, nei panni dell’araldo si sarebbe preferita una voce più sicura, stentorea e autorevole.
Riguardo la parte musicale, decisamente imponente, il direttore Marco Dallara e la Filarmonica Terre Verdiane compiono un vero miracolo. Ovviamente non ci può essere una minuziosa ricerca di cromatismi, né un’eccezionale pulizia di suono, ma si apprezzano la compattezza, il mordente e indubbiamente l’intenzione verdiana, che forse scorre naturale nelle vene di questi professionisti.
Anche per il Coro dell’Opera di Parma diretto da Fabrizio Cassi occorre una citazione a parte, come per il balletto. Non ci sono dubbi in merito alle loro competenze musicali e ne sono prova i fortunatissimi concertati di primo atto e l’altrettanto ben riuscito “Ô mon Dieu! Vois nos misères!”. Ma al di là delle dimensioni troppo ridotte, soprattutto nelle scene in cui occorrerebbe il doppio coro dei pellegrini e dei crociati, si evidenziano coristi che non conoscono la parte – alcuni restano muti per intere frasi, guardandosi attorno, altri tendono le orecchie al suggeritore – oltre a non sapere cosa fare in scena, problema che presumibilmente non deriva da loro.
Il tutto è contornato da un pubblico rumorosissimo, che si prodiga in chiacchiere, esclamazioni a voce alta, numerosi e incessanti attacchi di tosse, fastidiosissimi applausi al termine di ogni numero chiuso, quasi una decina per atto, più i pezzi delle danze.
Nonostante tutto il Gruppo Promozione Musicale Tullio Marchetti, Fidenza e Giuseppe Verdi vincono ancora. E il successo è meritato per tutti.

AIDA [Lukas Franceschini] Milano, 17 novembre 2013.
La stagione operistica 2012/2013 del Teatro alla Scala, denominata VW (Verdi-Wagner) nella ricorrenza del bicentenario della loro nascita, si conclude con l’opera Aida, della quale è riproposto l’allestimento che inaugurò la stagione 2006/2007.
Franco Zeffirelli firmava allora la sua ennesima Aida ricalcando in parte sia la produzione del 1963, sia quella dell’Arena di Verona. Lo spettacolo è classico e godibile, in esso troviamo l’Egitto faraonico immaginario e suggestivo, dorato e splendente di una civiltà così lontana ma altrettanto importante storicamente. Un allestimento senza sorprese nel senso di scellerate o cervellotiche scelte registiche ma lineari e comprensibili. In esso vi è tutto quanto uno spettatore, esperto o meno, sa di trovare nel melodramma in oggetto, realizzato con classe, cambi scena a vista, costumi spettacolari di Maurizio Millenotti, in aggiunta alle bellissime coreografie di Vladimir Vasiliev nelle quali si sono esibiti superbamente i solisti Sabrina Brazzo e Marco Agostino assieme al Corpo di Ballo e agli Allievi dell’Accademia della Scala. Di grande pregio il lavoro di Marco Filibeck nel realizzare luci di straordinaria efficacia.
Sul podio abbiamo trovato il maestro Pier Giorgio Morandi, una bacchetta sicura e capace di portare in porto una nave non sempre col vento in poppa. Morandi, per quanto di mia conoscenza, è un solido direttore capace di tenere tempi serrati ma incisivi, il ritmo e la narrazione sono efficaci, sfumature e pathos più che pertinenti. Un piacere l’ascolto della sua concertazione, pulita e corretta, molto in sintonia con il palcoscenico e notevolmente superiore ad altre bacchette più blasonate o famose, non solo in Scala.
Il cast proposto esprimeva la difficoltà odierna nel trovare cantanti adeguati per i ruoli verdiani, e questo non solo a Milano, tuttavia si sono avute anche gradite sorprese.
Liudmyla Monastyrska la ascoltai qualche anno fa nello stesso ruolo con esiti non propriamente brillanti. Nella recita scaligera ho trovato una cantante molto migliorata sotto il profilo interpretativo e più controllata vocalmente. Ella possiede una voce enorme ed importante che sovente sovrasta i colleghi, ma oggi più musicale rispetto ieri. Ovvio che nei primi due atti aveva terreno più facile, e nei concertati del finale atto II la faceva da padrona, forse anche sopra le righe. La seconda parte dell’opera le era più ostica perché era impegnativo piegare uno strumento così importante, nell’aria “O cieli azzurri” non esegue il do filato (chi lo fa oggi?) ma riesce ad essere persuasiva e corretta, pur dovendo denotare una sommaria mancanza di sensualità e mezze voci soprattutto nel duetto finale.
Anche di Jorge De Léon, Radames, non avevo ricordi splendidi, mentre in quest’occasione devo ammettere di aver sentito un tenore corretto, mai sopra le righe, molto espressivo nel fraseggio, sempre controllato e capace di realizzare un personaggio completo senza voler strafare. E’ gran cosa meritevole rispetto agli ultimi Radames da me ascoltati.
Note meno positive per l’Amneris di Ekaterina Semenchuk, cantante molto limitata nel settore acuto ed impersonale, che si esprimeva in un canto sommario e rozzo oltre alle carenze sceniche. Alberto Mastromarino era un Amonasro opaco e sovente nasale, Marco Spotti un corretto Ramfis, Alexander Tsymbalyuk un onesto Re. Completavano il cast Jaeheui Kwon, messaggero, e una sbiadita sacerdotessa come Sae Kyung Rim. Teatro gremito e molto generoso di applausi al termine.

IL BARBIERE DI SIVIGLIA [Margherita Panarelli] Torino, 17 novembre 2013.
20 febbraio 1816, al Teatro Argentina in Roma si compie il fiasco più celebre e più clamoroso della storia dell’opera: Il Barbiere di Siviglia, che però a dispetto di questo da quel giorno mai uscì dai cartelloni dei teatri.
Per aprire il mini festival rossiniano di questa stagione ( Il Barbiere di Siviglia, Guglielmo Tell ed un Galà Rossini in Giappone ) il Teatro Regio di Torino riprende la simpatica e colorata regia di Vittorio Borrelli, mix di scenografie e costumi di altre produzioni amalgamate con delizioso risultato. L’esterno e l’interno della casa di Don Bartolo, interamente ricoperti di piastrelle azulejos tipicamente iberiche, sono posti su una piattaforma rotante che consente cambi scena rapidi e leggeri. All’esterno domina la “jalousie” del balcone di Rosina, naturlamente chiusa a chiave. L’interno mostra invece un grande androne con una lunga balconata che lo percorre in tutta la sua lunghezza.
La già divertente trama è stata arricchita di gag spassose anche se non tutte attinenti alla trama: Almaviva indossa l’uniforme da soldato alla fine del duetto “All’idea di quel metallo” durante uno spogliarello, ogni soldato gli domanda un autografo nel Finale primo, Rosina lancia freccette al busto raffigurante l’odiato tutore e raccoglie una vera montagna di bagagli per la propria fuga. Passando alla parte canora il risultato non era meno deludente, almeno sul versante maschile.
Antonino Siragusa incanta il pubblico torinese con la brillantezza e la duttilità della sua voce che sgrana le intricate agilità rossiniane con rara chiarezza e precisione. Sentiamo un Almaviva come l’avrebbe sentito Rossini: falsetti e pianissimi dosati egregiamente e il giusto pizzico di incoscienza e autoironia di questo Grande di Spagna che si traveste da soldato ubriaco e maestro di musica.
Paolo Bordogna dipinge un Bartolo giovanile e rusé anziché il solito signore anziano che si fa prendere per il naso. Ben consapevole della furbizia di Rosina e quindi molto attento più che la sua mancanza a gabbarlo è l’astuzia degli avversari. Vocalmente intrepido grazie alla notevole estensione sia nel grave che nell’acuto la sua ” A un dottor della mia sorte” è pirotecnicamente sicura. Il sillabato magistrale del basso brianzolo gli consente velocità da capogiro e fraseggio impeccabile.
La protagonista, Laura Polverelli, purtroppo non si rivela allo stesso livello dei colleghi. La voce risulta aspra oltre il passaggio inoltre le note tenute presentano un vibrato largo che infastidisce molto e impedisce di apprezzare una voce altrimenti di bel colore. Il personaggio da lei tratteggiato inoltre non è privo di leziosità che impoveriscono una donna di carattere quale è Rosina.
Solare e simpatico combinaguai ( più che nuovo borghese in contrasto con l’antico borghese ) il Figaro di Vito Priante, al debutto nel ruolo. Il basso possiede voce dal timbro scuro, anche più scuro di quello di Paolo Bordogna che rende interessante il confronto tra i due.  La voce è sicura in tutti i registri e la celeberrima cavatina ” Largo al factotum” è porta con verve. Priante non indugia in gigioneggiamenti privi di gusto e la linea di canto è infatti pulita e semplice ma efficace nel fraseggio.
Si conferma ottimo cantante e attore Nicola Ulivieri (sentito lo scorso Giugno come Dulcamara in Elisir d’amore nello stesso teatro) nel ruolo di Don Basilio. Voce di bel timbro, omogenea nei vari registri accompagnata da una recitazione morigerata ma solerte.
Menzione di speciale merito per la Berta scoppiettante della brava Giovanna Donadini e l’Ambrogio divertentissimo del mimo Antonio Sarasso. Molto bene anche Ryan Milstead come Fiorello e Riccardo Mattiotto come Ufficiale.
Alessandro de Marchi dirige con grazia e precisione scegliendo tempi vivaci ma non perdendo mai il controllo dell’insieme, ne è un ottimo esempio la sezione più rapida dell’aria di Bartolo “signorina un’altra volta” in cui Paolo Bordogna e l’orchestra formavano una sola entità. Ottima prova anche per il coro preparato da Claudio Fenoglio.
Nel complesso una serata divertente, molto gradita dal pubblico che ha applaudito per almeno dieci minuti con calore l’intero cast.

L’AFRICAINE [William Fratti] Venezia, 26 novembre 2013.
È purtroppo un’occasione mancata quella de L’africaine al Teatro La Fenice di Venezia, a cui comunque è da riconoscersi il merito e il pregio di voler ricordare il centocinquantesimo anniversario della morte di Giacomo Meyerbeer. Compositore ingiustamente bistrattato dai teatri lirici di oggi, massimo esponente del grand-opéra, padre dell’opéra-lyrique e dello stile francese della seconda metà dell’Ottocento, dovrebbe occupare – se non un posto d’onore – una certa posizione nei calendari dei palcoscenici d’opera di tutto il mondo.
Dopo tanti anni dalla sua ultima rappresentazione, non ci si aspettava che a Venezia fosse messa in scena con dei tagli. Non si auspicava certamente l’esecuzione delle pagine omesse prima della sua forma definitiva, ma almeno una versione integrale dello spartito di Fétis usato per il debutto, il 28 aprile 1865, dopo la morte di Meyerbeer.
Lo spettacolo di Leo Muscato presenta un impianto scenico pressoché identico a quello de I masnadieri di Parma: una grande pedana in pendenza, larga quasi quanto il boccascena, profonda dal proscenio al retropalco. Chiaramente non ricca e indubbiamente un grand-opéra dal basso impatto scenografico, ma un eccellente e minuzioso lavoro di regia fatto su ciascuno degli interpreti, dai protagonisti ai comprimari, dai coristi ai mimi e figuranti. Ognuno ha un’azione da compiere, un gesto da produrre, uno sguardo con cui trasmettere un’emozione o un’intenzione. Ed è così che Muscato dimostra di saper fare molto bene il suo mestiere, poiché tutto ha un senso, anche in ciò che succede dietro o accanto alle scene solistiche, per tutta la durata dei cinque atti della vicenda.
L’abilità scenografica di Massimo Checchetto si fa notare nella grandeur del terzo atto, in cui la poppa di una nave tardo quattrocentesca riempie letteralmente il palcoscenico. Bellissima è la tempesta finale, in cui l’ondulare, il cadere e il rialzarsi degli interpreti – col giusto ritmo – lascia davvero intendere ai bruschi movimenti del bastimento in balia del tifone. Le altre parti dell’opera sono quasi totalmente prive di scene, dotate di poca necessaria attrezzeria, ma comunque di grande effetto evocativo, poiché mai nulla sembra mancare.
Completano la riuscita dello spettacolo i bei costumi di Carlos Tieppo, giustamente misurati, mai troppo sfarzosi, ma con ogni dettaglio necessario a caratterizzare i personaggi. Lo stesso vale per le luci di Alessandro Verazzi, suggestive e abili nel dare risalto all’azione, coprendo il gap – voluto – della scarna scenografia, a favore di una visione più introspettiva. Forse sono un po’ troppo colorate durante il consiglio, poiché fanno a pugni col pavimento rosso, ma ciò è immediatamente perdonato al finale primo, di sicuro effetto nel momento in cui si tinge di sangue all’anatema scagliato dal grande inquisitore.
Meno apprezzate sono le proiezioni d’entr’acte di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii, poiché poco comprensibili. Forse il senso è quello di portare l’attenzione, come già fecero Scribe e Meyerbeer, sulla continua prevaricazione di alcuni popoli su altri, ma allora sarebbe stato il caso di ambientare L’africaine in un’epoca più contemporanea. Lasciandola ancorata al tempo di Vasco de Gama ha poco senso toccare altri e più recenti tasti dolenti della storia umana. Opportunamente adeguati anche i movimenti coreografici del choeur dansé nel finale quarto.
Sul fronte musicale Emmanuel Villaume porta alla Fenice un’orchestrazione molto elegante, un po’ lontana dagli effetti tragico grandiosi meyerbeeriani, ma sicuramente rispettosa delle voci e del gusto romantico ottocentesco; venendo meno l’esecuzione integrale, come pure un’edizione critica, anche certe libertà nella concertazione e nell’andamento musicale possono essere accettate di buon grado. Senza dubbio il ritmo, il colore e l’accento occupano una parte importante del lavoro del direttore, anche se l’orchestra non lo segue fin da subito: non tutti i suoni del brano di apertura sono propriamente precisi. Più che positiva, anche se non eccelsa, la riuscita della difficile pagina del consiglio “Aux voix! Aux voix!”, vero arduo banco di prova.
Veronica Simeoni veste i panni di una raffinatissima Sélika, donna regale d’altri tempi e d’altre culture, più dolce che autoritaria nell’atteggiamento e nella vocalità. La parte, prima pensata per un mezzosoprano, poi per un soprano drammatico, è indubbiamente di grande difficoltà, ma l’intelligenza professionale della Simeoni le permette di eseguirla senza errori né sbavature, usando la sola ricetta – che sarebbe utile a molte delle sue colleghe – di cantare con la propria voce e la propria conoscenza tecnica, senza forzare, ne scimmiottare altri interpreti che, nel bene e nel male, possiedono altri strumenti. Così Veronica Simeoni risulta essere sempre lineare e morbidissima, omogenea su tutta la linea di canto, con una certa eleganza belcantista alla francese, rotonda e pulita negli acuti e naturalissima nelle note basse, per cui mai – se non forse in una frase verso il finale – predilige l’emissione di petto.
La affianca il Vasco de Gama di Gregory Kunde che, dall’alto della sua lunga esperienza, sa amalgamare l’accento eroico con quello patetico, riuscendo in un lirismo che lo vede vincitore, prima di tutto nei lunghi concertati, fino alla gran scena del quarto atto, in cui sa esprimere estasi nel cantabile e disperazione nella cabaletta. Il canto è spinto, ma mai forzato, i cromatismi forse non sono così ricercati, ma a favore di una particolare attenzione alla vocalità, ben timbrata, bilanciata e posizionata in avanti, che fa emozionare più volte il pubblico – che lo vorrebbe applaudire a scena aperta – soprattutto durante i limpidi e imperiosi acuti.
Angelo Veccia è centratissimo nei panni di Nélusko e si denota una puntuale ricerca dei caratteri drammatici e psicologici affidati a questo difficile personaggio, padre di molti ruoli del repertorio dell’opéra-lyrique. La voce è calda e brillante, ma gran parte del suono sembra fermarglisi in bocca invece di uscire e correre per la sala, pertanto risulta vincente negli ariosi e nei cantabili, in cui dà sfogo al suo bel timbro baritonale, mentre il recitativo, le parti più delicate compresi i piani e le pagine più drammatiche non riescono con altrettanta efficacia. Buono è l’uso degli accenti in termini di espressività, ma la dizione è pessima.
Jessica Pratt porta le vesta di un’ingiustamente decapitata Inès. Le pagine più importanti del ruolo stanno all’apertura di primo e quinto atto, ma quest’ultima scena, come già accennato, è stata purtroppo tagliata. Come sua consuetudine l’artista porta in palcoscenico una raffinatezza innata, che qui si nota particolarmente nel legato, nei filati e nell’omogeneità della linea di canto. Sfortunatamente i sovracuti non sono propriamente puliti, ma ci si augura si tratti di un problema passeggero.
Luca Dall’Amico è un Don Pédro squillante, luminoso e ben proiettato, che sa farsi notare tanto nelle scene d’assieme, quanto nel duetto di terzo atto, interpretando un personaggio che però è più vicino al rivale in amore che non al presidente del consiglio del re.
Emanuele Giannino e Mattia Denti sono un Don Alvar e un grande inquisitore particolarmente efficaci, mentre Davide Ruberti è un Don Diégo dalla voce un po’ opaca. Rubén Amoretti è un gran sacerdote possente, ben timbrato e molto musicale, mentre Anna Bordignon forse si trova a dover eseguire una parte che non è la sua.
Molto buona, sia in termini musicali e vocali, sia interpretativi, la prova del Coro del Teatro la Fenice diretto da Claudio Marino Moretti, compresi i solisti a cui sono affidati i piccoli ruoli comprimari.
Successo meritatissimo per tutti, soprattutto per il teatro e la città, che sono chiamati a meditare: durante lo spettacolo erano presenti moltissimi turisti stranieri, arrivati a Venezia con lo scopo primario di assistere ad un titolo importante, pressoché mai rappresentato, contribuendo economicamente all’indotto in termini di notti in hotel, pasti ai ristoranti e acquisti nelle attività commerciali. È vero che il bilancio della Fenice raggiunge più facilmente il pareggio con la vendita dei biglietti degli eterni presenti Traviata, Barbiere e Don Giovanni, ma la città guadagna di più con la presenza di migliaia di viaggiatori giornalieri muniti di pranzo al sacco, o con qualche vero turista in meno, ma fruitore di ben più servizi? Questo è un invito a Venezia – e non solo – ad iniziare a misurare economicamente l’indotto portato dalla cultura, smettendo di vederla come un costo, ma iniziando a considerarla una vera risorsa e un vero motore per il Paese.

ERNANI [William Fratti] Roma, 27 novembre 2013.
Sciopero preannunciato, ma fortunatamente scongiurato, quello che doveva infliggere un duro colpo all’apertura della Stagione 2013-2014 del Teatro dell’Opera di Roma.
Dopo tanti anni Riccardo Muti torna all’amatissimo Ernani, che esegue in maniera filologica, con fare belcantista – come vuole il primo Verdi – eliminando i passaggi di tradizione e a favore di un’orchestrazione che ha molto delle sonorità tipiche del romanticismo; non a caso flauti, oboi e clarinetti occupano in buca una posizione privilegiata. Ma ciò che davvero contraddistingue questa direzione è una particolare attenzione alla pulizia del suono e ad un andamento che tende a mettere in risalto le voci, lasciando agli interpreti il tempo di fraseggiare.
Il nuovo allestimento interamente firmato da Hugo de Ana, coprodotto con Sydney Opera House, è davvero grandioso e, se affiancato al Don Carlo torinese e al Simon Boccanegra parmigiano, può essere considerato uno dei suoi lavori migliori, dove la maestosità dell’impianto – che utilizza molti degli elementi architettonici tipici dei palazzi del Cinquecento – fa certamente la parte del leone. Lo spettacolo è un magnifico amalgama di progettazione tecnica e umana, dove l’azione dei solisti, del coro e dei mimi si mescola ad un perfetto equilibrio scenico, in cui si inseriscono ottimamente le coreografie di Leda Lojodice. L’ideale connubio tra la tradizione della parte visiva e la modernità tecnologica dell’allestimento e dei materiali fa il resto. Sinceramente pregevoli i costumi, disegnati dallo stesso De Ana e l’azzeccatissimo disegno luci di Vinicio Cheli.
Francesco Meli, che in questi ultimi anni si sta rivolgendo sempre più spesso ai ruoli verdiani, debutta nella parte del protagonista con un grandissimo successo personale. La voce non è stentorea, ma la sua esecuzione è un vero tripudio di colori, arricchita di cromatismi e mezze voci raffinatissimi, passaggi più che pregevoli – soprattutto nell’aria di apertura e nel duetto con Elvira, oltre a qualche piccola ed interessante variazione nella cabaletta – nonché una musicalità e un’omogeneità su tutta la linea di canto davvero eccellenti. Il solo limite della sua vocalità nell’affrontare questi ruoli spinti, sta nel canto in forte, poiché in alcune pagine – terzetti di primo e secondo atto, finali primo e terzo – è in parte coperto dal peso orchestrale o dai colleghi. Ostacoli che certamente saranno superati con il tempo, grazie all’importante preparazione tecnica dell’artista e alla naturale maturazione del suo strumento. Non v’è dubbio alcuno che Francesco Meli sia oggi uno dei migliori tenori dell’intero panorama lirico internazionale.
Tatiana Serjan, nei panni di Elvira, purtroppo non riesce a eguagliare se stessa e a raggiungere il medesimo risultato del recente Macbeth fiorentino. La voce è un po’ dura e legnosa, in certi punti sembra addirittura stimbrata – nel finale primo si sente di più il flauto che dovrebbe supportarla – e le note gravi sono prive di corposità, scomparendo prima di raggiungere la sala. Ci si augura che si tratti solamente di un’indisposizione passeggera.
Luca Salsi torna ad interpretare il giovane Carlo con una maturazione davvero sorprendente. Se al suo debutto era solito prediligere ruoli squisitamente lirici, ora, dopo aver eseguito dei veri mostri come Macbeth e Rigoletto, ha certamente un’ineguagliabile padronanza dell’accento e del fraseggio verdiano. In primo e secondo atto sfoggia il suo bel colore brillante, ma soprattutto dei pianissimi timbratissimi e davvero perfetti. Col procedere della vicenda, all’eleganza, alla freschezza e all’omogeneità si aggiungono slancio drammatico ed espressività, rafforzati da un canto ben impostato e sempre in avanti.
Il Silva di Ildar Abdrazakov non delude alcuna aspettativa e può sinceramente essere considerato il basso verdiano per eccellenza nel timbro, nel colore, nel cantabile, nell’uso della parola, nell’autorevolezza dell’interpretazione. La sua voce, tecnicamente perfetta, è riconoscibile in qualunque momento, come pure la sua presenza scenica. A tanta magnificenza è da aggiungersi una certa abilità nel legato e nell’uso dei pianissimi; “Io l’amo… al vecchio misero” nel finale secondo, ricco di sentimento, è toccante fino alle lacrime.
Gianfranco Montresor e Antonello Ceron sono efficaci nei loro rispettivi ruoli di Jago e Don Riccardo ed è un vero piacere udire la voce piena e corposa di Simge Büyükedes nei panni di Giovanna.
Buona è la prova del Coro dell’Opera di Roma diretto da Roberto Gabbiani, che si distingue soprattutto nel celebre “Si ridesti il Leon di Castiglia” di cui è concesso il bis dopo insistente richiesta del pubblico. Ma prima, con fare giustamente provocatorio – considerati gli ultimi avvenimenti del Teatro e la presenza in sala del Presidente Napolitano oltreché di altre cariche dello Stato – Riccardo Muti si rivolge agli spettatori e domanda: “Ma si ridesterà il leone?”.
L’appello del Maestro prosegue al momento degli applausi. Dopo una meritata, lunga e scrosciante acclamazione rivolta a tutti gli interpreti, il direttore chiede il silenzio e domanda: “L’aiutiamo questo teatro?”. C’è da sperare che tutta la classe politica intervenuta abbia pagato il biglietto di tasca propria senza usufruire di agevolazioni e che inizi ad orientarsi verso un cambiamento di rotta. I teatri d’opera possono essere un volano per il turismo e l’economia, ma hanno bisogno di idee e di investimenti e soprattutto di un totale rinnovo volto all’eliminazione degli sprechi, con dirigenze in grado di amministrare e di prendere adeguate scelte artistiche, non – come accade spesso – provenienti da cortesie politiche e volte ad un medesimo sistema di favoritismi.

I VESPRI SICILIANI [William Fratti] Piacenza, 29 novembre 2013.
Il Teatro Municipale di Piacenza prosegue i festeggiamenti del Bicentenario Verdiano con uno degli spettacoli più belli ed interessanti degli ultimi anni: I vespri siciliani firmati da Davide Livermore – con scene di Santi Centineo, costumi di Giusi Giustino, luci di Vladi Spigarolo, coreografie di Luisa Baldinetti, Cristina Banchetti e lo stesso Livermore – creati per il palcoscenico della sua città in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.
Già all’epoca si era espresso il parere che tale allestimento – veramente patriottico nell’animo – avrebbe dovuto calcare le scene di tutti i teatri del Paese ed è una gioia vederlo ora in Emilia, in una coproduzione che parte da Reggio, città natale del Tricolore. Purtroppo la grandiosità scenografica a cui si era assistito a Torino, ora viene a mancare a causa dei limitati spazi e dell’assenza degli opportuni impianti tecnologici, ma la riduzione è stata eseguita con adeguato criterio e il messaggio – tra cui l’intromissione della criminalità organizzata negli affari dello Stato; lo smisurato potere dei mass-media; nonché il carnevalesco comportamento del Parlamento – è opportunamente trasmesso agli spettatori.
Alla prima rappresentazione piacentina, terminata la prima parte alla fine di secondo atto, il pubblico ha chiassosamente espresso il suo dissenso, che pareva essere rivolto alla regia. Ma da un’indagine più approfondita presso il loggione e le gallerie ci si è resi conto che le disapprovazioni erano totalmente rivolte agli interpreti, mentre lo spettacolo stava piacendo. Ed effettivamente non si può che essere d’accordo.
Purtroppo Sofia Solovij, nei panni di Elena, è in grado di fare il suo dovere solo nella prima ottava. Al di sotto il canto è così fievole e poco udibile che non è neppure possibile esprimere un giudizio; mentre oltre il passaggio diventa stridula e fastidiosa, tanto da essere fischiata a scena aperta dopo “Mercé, dilette amiche” e da attirare rumorosi mormorii in “Taccia il bronzo omai fatale” nel terzetto finale, che è risultata la pagina più terribile della serata. E nel frattempo ci si continua a domandare come mai sia così tanto necessario scritturare tali “eccellenze” dall’estero, pur potendo ascoltare pubblicamente esecuzioni del medesimo livello su You Tube; dove siano le orecchie dei dirigenti durante le prove; insomma, gli spettatori paganti iniziano ad essere stanchi di ascoltare rappresentazioni approssimative, sentendosi sempre rispondere “ma è giovane”, “ma è indisposto”, “ma non ci sono soldi”, “ma non era libero nessun altro”, ecc.
Lorenzo Decaro, che potrebbe anche essere dignitoso in un repertorio meno spinto e in cui non occorra a tal punto la presenza di squillo e la capacità d’accento come in quello verdiano, esegue il difficilissimo ruolo di Arrigo con le note al posto giusto nei numerosissimi acuti, ma senza considerare che i suoni restano in gran parte imprigionati nella sua testa e nella sua mascella, invece di correre in sala. Inoltre l’intonazione non è sempre delle migliori. Al termine dell’aria di quarto atto – quella di quinto è soppressa – il pubblico si fa sentire davvero inferocito.
Mansoo Kim è l’unico protagonista degno di nota. La sua voce è molto al di sopra di quella dei colleghi, soprattutto nel timbro e nel volume e dimostra di saper usare la parola, cercando un minimo di fraseggio. Ma la sua insicurezza nell’autoritario ruolo di Monforte è troppo evidente da poter accontentare a sufficienza.
Roberto Scandiuzzi, Procida, che sulla carta era il solo a dare una certa fiducia, si presenta svogliato e disomogeneo, tanto da far scordare la naturale bellezza del suo colore.
Se la cava meglio il Danieli di Oreste Cosimo, brillante, luminoso ed è il solo che sa distinguersi nell’arduo concertato di terzo atto. Altrettanto positiva è la prova di Costantino Finucci nei panni di Roberto; mentre meno opportuno è Alessandro Busi nel ruolo di Bethune. Completano il cast Cristian Saitta, Vaudemont; Jenish Ysmanov, Tebaldo; Riccardo Gatto, Manfredo; Elisa Barbero, Ninetta.
Abbastanza positiva, anche se non eccellente, soprattutto nei primi due atti, la prova del Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia diretto da Martino Faggiani.
Ottima è invece la bacchetta di Stefano Ranzani, che guida con vivacità e buona dose d’accento l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna. Il direttore milanese, sempre attento alla pulizia dei suoni e alla precisione musicale, riesce in qualche modo ad amalgamare lo spettacolo, pur predisponendo di interpreti per lo più inadeguati.
In effetti Stefano Ranzani e Oreste Cosimo sono i soli a sortire una qualche acclamazione al termine dell’opera, salutata con applausi molto deboli e un generale “fuggi fuggi” del pubblico.

L’AFRICAINE [Lukas Franceschini] Venezia, 29 novembre 2013.
La nuova stagione lirica 2013-2014 del Teatro La Fenice è stata inaugurata con l’opera L’Africaine di Giacomo Meyerbeer, occasione sfiziosa per ascoltare un capolavoro del grand-opéra francese, assente dai teatri italiani da oltre quattro decenni.
L’Africaine è un’opera complessa sia musicalmente, sia nella drammaturgia, oltre all’aggiunta della versione. Infatti, è risaputo che il librettista, Eugène Scribe, morì nel 1861 e pertanto il compositore dovette mobilitare altri autori tra cui la celebre attrice ed autrice teatrale Charlotte Birch-Pfeiffer. Nel 1864, il 2 maggio, scompare anche Meyerbeer dopo aver completato la partitura ma lasciando uno ancora da revisionare. Tale compito spettò a François-Joseph Fétis, e quando l’opera fu rappresentata in prima assoluta il 28 aprile 1865 all’Opéra di Parigi differiva notevolmente da quella dell’autore. Furono compiuti numerosi tagli, anche in considerazione della prolissità dello spartito, così riducendo alla sola visione intimistica dell’opera, scostandosi tuttavia dalla concezione ideatrice di Meyerbeer che voleva con quest’opera non staccarsi dallo stile francese epico, compreso un importante balletto. Come giustamente afferma Tarcisio Baldo nel programma di sala “…L’Africaine è un atto di denuncia contro il colonialismo e lo schiavismo, travestito da missione conoscitiva di nuovi continenti ma in realtà atto di conquista di nuove terre per rimpinguare le casse esauste della vecchia Europa…”. L’opera si potrebbe sintetizzare come una vicenda ricca di colpi di scena, grandiose melodie, confermando la magnificenza del grand-opéra fuso nel dramma lyrique su un soggetto esotico, che ebbe avuto molta fortuna oltralpe durante la fine del XIX secolo.
Come predetto, è indicativo che l’opera manchi dai teatri italiani da oltre quarant’anni, salvo errori di chi scrive, l’ultima edizione fu a Firenze con Muti e una giovanissima Jessye Norman. Il pubblico dunque è disabituato a simili spartiti, non ne conosce che sommariamente il concetto, sorvolando sulle caratteristiche tipiche di questo tipo d’opera. Non è possibile porre l’accento anche sull’oneroso impegno richiesto ai cantanti, tra i quali oltre alla protagonista si contano altre quattro prime parti.
Doveroso dare atto alla Fenice il coraggio nel proporre un tale titolo, soprattutto oggi che le stagioni liriche sono composte prevalentemente da opere di repertorio per scongiurare la scarsità di pubblico. Altrettanto lecito è domandarsi perché offrire un’opera così difficile e quali siano le ragioni che hanno portato la direzione artistica a tale scelta. Con modestia credo che la risposta sia per dare al pubblico una gamma più variegata del panorama operistico e puntare su un’inaugurazione di lustro. Tuttavia non si sono tenuti presenti canoni canori pertinenti, i quali attualmente sono precari per i ruoli richiesti, e l’esito finale ha confermato tale tesi.
La direzione di Emmanuel Villaume non ha brillato, mi è parsa pesante e spesso non ben calibrata, sotto molti aspetti non pertinente per quello che doveva essere un grand-opéra, anche se è doveroso dargli il merito di aver tenuto in mano con sufficienza l’apparato orchestrale in equilibrio con il palcoscenico. Altro gravissimo errore, ma non sono sicuro se da imputare allo stesso direttore, sono stati i tagli praticati alla partitura, arrivando perfino a snaturarla. Arie completamente eliminate, compreso il duetto Selika-Ines, da capo soppressi come da prassi anni ’50, sezioni intere svanite. Capisco che per la Fenice sarebbe stato molto oneroso allestire anche il balletto, ma sarebbe stata occasione speciale e pregevole, tuttavia su questo punto si può soprassedere ma sulle altre sforbiciate certamente no. Mi è oscuro il motivo per cui è lecito effettuare tagli a questo tipo di opere mentre si eseguono integralmente le partiture wagneriane.
La protagonista, Veronica Simeoni, ha azzardato una parte superiore alle sue capacità, non possedendo una voce duttile e una sensualità pertinente. Vocalmente scialba perché la zona acuta è al limite, il registro grave quasi inesistente, le resta un medium anche interessante ma povero di colore e accento, caratteristiche imprescindibili per il ruolo di Selika, cui la Simeoni abbozza sommariamente la parte, e fortuna per lei assai accorciata nel finale. Gregory Kunde è oggi tenore “per tutte le stagioni” interpretando ruoli diversissimi tra loro con eclettica spavalderia. Ammetto che personalmente lo preferivo agli esordi, in parti più belcantistiche, ma considerati i tempi devo ammettere che sul mercato si conferma una sicurezza anche in altro repertorio. Questo non significa che sia il Vasco ideale, ma almeno era il più in parte di tutta la compagnia. Ottimo fraseggiatore, ben declamate le frasi, favorito dai tagli doveva fare i conti con la pesantezza del ruolo e gli anni di carriera: nella celebre aria, non propriamente il suo miglior momento, avrei preferito maggior lirismo ed abbandono estatico, ma ormai la voce di Kunde è abbastanza legnosa e poco duttile.
Jessica Pratt doveva essere un fiore all’occhiello di questa produzione, il personaggio di Ines lo avrebbe dovuto calzare a pennello; invece non era propriamente in forma risultando spesso forzata e il registro acuto non ben calibrato. Sul personaggio lei di suo non sa fare molto, ma la parte era cosi amputata tanto da risultare quasi banale, mentre avrebbe dovuto sostenere tutto il carisma della seconda primadonna.
Altro elemento fondamentale di un’opera come l’Africaine è il personaggio di Nelusko. Le incisioni a 78 giri abbondano di grandi del passato che almeno in disco hanno lasciato traccia di due tra le più belle arie per baritono. Non poteva certo competere con questa parte il pur volenteroso Angelo Veccia, per carenze sia tecniche sia vocali: monotono, poco espressivo, fraseggio inesistente, scansione vocale a senso unico, oltre ai deprecati tagli posti all’esecuzione. Tra la lunga schiera dei ruoli secondari si metteva in luce Emanuele Giannino quale Don Alvar, un po’ meno Luca Dall’Amico scuro e ruvido Don Pedro, imbarazzante il Don Diego di David Ruperti. Al termine ci si rendeva conto che tali opere possono essere riproposte solo se si ha a disposizione un cast di rilievo, anche se oggi non saprei dove trovare interpreti adeguati.
Lo spettacolo era realizzato da Leo Muscato, coadiuvato da Massimo Cecchetto per le scene e Carlos Tieppo quale costumista. Muscato realizza una visione molto bella e fortunatamente in stile storico. Ispirandosi all’epoca del “siglo de oro” enfatizza la grande potenza dei conquistadores del tempo, drappi damascati e arazzi nelle scene interne, con l’ottima visione di scene corali e d’assieme ben assortite. Leggermente meno riuscita la scena del carcere, ove Selika canta la celebre cantilena tra le sbarre guardando l’amato, mi sarei aspettato più pathos, l’atto quarto era realizzato in maniera troppo minimalista. La scena della nave era mozzafiato, una credibile visione dei vascelli che solcavano gli oceani, mentre di grande originalità la morte per avvelenamento della protagonista su una pensilina che la avvicina ad annusare la pianta malefica. Muscato offre a tutti i personaggi una caratterizzazione precisa in perfetto equilibrio tra grande dramma storico e vicende private, peccato abbia voluto inserire dei video ad ogni inizio d’atto che si rifacevano a scene del colonialismo o belliche di recente passato: inutili ed incomprensibili. Di pregio i costumi di Tieppo e molto azzeccate le scene di Cecchetto.

LA TRAVIATA [Natalia Di Bartolo] Palermo, 30 novembre 2013.
La Traviata di Giuseppe Verdi è un’opera molto popolare, ma è soprattutto un capolavoro. Non la si può e non la si deve mai sminuire quale Opera “di repertorio”. Eppure pare che ciò accada spesso… Quindi, forse per cercare di evitare la ripetitività di brindisi sontuosi e balli di zeffirelliana memoria, c’è chi pensa a variazioni sul tema. È il caso dell’edizione messa in scena al Teatro Massimo di Palermo il 30 novembre 2013, nell’ambito della stagione lirica 2013.
La messa in scena dell’opera, proveniente dal Teatrio Regio di Torino, in coproduzione con il Santa Fe Opera Festival, con la regia di Laurent Pelly, ripresa da Anna Maria Bruzzese, e le scene di Chantal Thomas è stata segnata da questa sorte, a dire il vero poco felice.
La sempre gradevole Daniela Schillaci, Violetta Valery, si è districata per bene fra mille trabocchetti. Costretta a cantare sul proscenio da un ipertrofico moltiplicarsi sul palcoscenico di inspiegabili parallelepipedi giganteschi, si è trovata a dover gorgheggiare il suo “Amami Alfredo” in una magione-rifugio nelle campagne fuori Parigi inspiegabilmente angusta (ed incombente sul golfo mistico). Tutto ciò dopo aver cantato un primo atto in panni volutamente accesi e sopra le righe anche nella regia, che la costringeva a dare a Violetta una spigliatezza non consona allo spirito dell’eroina verdiana.
Ma la freddezza della direzione monocorde del M° Matteo Beltrami, alla guida dell’ottima Orchestra del Teatro Massimo, l’ha penalizzata e costretta ad un’esibizione che avrebbe potuto essere più coinvolgente, costringendola anche a tempi galoppanti. Nonostante tutto, il personaggio di Violetta è venuto fuori, grazie alla sensibilità personale dell’artista, che ha dimostrato le capacità sempre crescenti di una voce che si volgerà quanto prima a debuttare ne Il Trovatore, certamente assestandosi in ruoli decisamente più robusti e consoni alla propria natura ed alle proprie corde interpretative.
Il tenore Luciano Ganci, nei panni di Alfredo Germont, ha mostrato voce potenzialmente assai interessante, ma decisamente da curare e “rivedere” con attenzione nell’impostazione tecnica, nonché in quella espressiva. Il suo personaggio è rimasto nella bacchetta del direttore, sia dal punto di vista vocale che da quello interpretativo. Confidiamo nelle sue potenzialità e nella giovane età.
Poco espressivo il Germont padre di Devid Cecconi, incolori e quasi inascoltati gli altri interpreti. Penalizzato pure il Coro, diretto da Piero Monti, costretto dalla regia anche a movenze farraginose e talvolta assai poco eleganti, che non facevano altro che creare confusione, senza lasciar capire debitamente lo snodarsi dell’azione.
Una notazione senza commento ai vocalizzi di matrice registica della valente danzatrice del Corpo di Ballo del Teatro Massimo nel brano delle zingarelle, su coreografia ripresa da Giancarlo Stiscia.
Assolutamente inspiegabile la divisione in due atti, con il preludio al terzo atto a sipario aperto ed interpreti in scena, coro a coprire la vestizione-svestizione di Violetta, che, finalmente rimasta sul proprio letto, al momento di morire, pur se lasciata inspiegabilmente sola dai suoi “più cari al mondo”, ha dato vita a se stessa, con la caparbia volontà di esistere: vocalmente buona la Schillaci nel finale.
Inutile sottolineare ancora l'”originalita” delle scene della Thomas, aggiungendo un’ultima notazione, purtroppo negativa, anche sui costumi dello stesso regista Pelly, variegati nelle fogge e negli stili, in cui era irriconoscibile una collocazione temporale ed a cui le luci, non sempre ben calibrate, di Amerigo Anfossi non davano particolare risalto.
Insomma: quand’è che torniamo a Violetta Valery in crinoline, fra bicchieri di cristallo e dorate suppellettili? Anche il canto, forse, ne verrebbe esaltato.

IL CAPPELLO DI PAGLIA DI FIRENZE [William Fratti] Firenze, 3 dicembre 2013.
La Stagione 2013 del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino si conclude con una delle più belle opere del Novecento. Nino Rota, in questo sublime capolavoro, sa amalgamare alla perfezione i suoni e le melodie di grande respiro delle sue colonne sonore con le maniere mozartiana e rossiniana, senza scordare piacevoli intrusioni tipiche del melodramma romantico, nonché qualche accenno all’impeto verista.
Per motivi di budget, già annunciati mesi fa, al Teatro Comunale si ripropone il medesimo spettacolo del 2011 firmato da Andrea Cigni, con scene e costumi di Lorenzo Cutuli e luci di Luciano Roticiani. Con questa visione, folle al punto giusto, il regista riesce a enfatizzare i caratteri cabarettistici e operettistici della vicenda, con una funzionalità sempre efficace che, seppur non realistica, sa mantenersi entro il limite del non assurdo.
Complice della buona riuscita dell’intera produzione è la giovane compagnia di canto, visibilmente a suo agio nei panni dei simpatici personaggi di Rota. Purtroppo la piacevole recitazione non è sufficientemente coadiuvata da un altrettanto riuscita esecuzione vocale.
I soli che riescono a riempire la grande sala fiorentina e a passare agevolmente l’orchestra in ogni momento sono Gianluca Buratto – un Nonancourt importante, dotato di voce ampia e pastosa – e Francesco Verna – autoritario e collerico Emilio dalla vocalità sonora – mentre gli altri interpreti, seppur adeguati, si odono a malapena.
Il Fadinard di Filippo Adami è dolce ed elegante; alcuni colori sono interessanti, ma non sempre il suo canto risulta particolarmente pulito. Ombrosa e calda è la Baronessa di Romina Tomasoni. Opportune, seppur con i limiti già suddetti, Laura Giordano nei panni di Elena e Marta Calcaterra in quelli di Anaide. Azzeccati nei personaggi, un po’ meno nella linea di canto, il Beaupertuis di Mauro Bonfanti e il Felice di Gregory Bonfatti. Completano il cast Stefano Consolini (Vézinet), Saverio Bambi (Achille), Irene Favro (Modista), Leonardo Melani (Guardia), Nicolò Ayroldi (Caporale). Un plauso ad Andrea Severi (Pianista) e Ladislao Horvath (Minardi).
La direzione musicale di Andrea Battistoni, sul podio dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, non è encomiabile, né riprovevole; semplicemente fa il suo dovere, senza cercare particolari spunti interpretativi. Sfortunatamente i concertati appaiono un poco confusionari, mentre ben riuscita è la pagina del temporale.
Più che sufficiente la prova del Coro diretto da Lorenzo Fratini.
Applausi molto deboli e frettolosi, al termine dello spettacolo, hanno accolto tutti gli interpreti.

LUCIA DI LAMMERMOOR [Natalia Di Bartolo] Catania, 3 e 7 dicembre 2013.
Lucia di Lammermoor, capolavoro donizettiano, non ha bisogno di presentazioni…L’intera opera è un susseguirsi di meraviglie sonore e vocali: metterla in scena è decisamente un atto di coraggio. A maggior ragione a Catania, in questo momento di gravi difficoltà per il Teatro Massimo Bellini ed i suoi dipendenti: un nuovo allestimento scenico dell’ E.A.R., una prova del fuoco per ciascuno degli artefici.
Funerali simbolici al Teatro catanese sul parterre, a platea gremita, in una composta e significativa manifestazione del coro; di rimando, applausi scroscianti di un pubblico che s’immedesima ed immagina anche come possa essere triste il proprio futuro senza la stagione lirica dello splendido teatro catanese. Auspici di positiva risoluzione da parte di tutti, nonché firma di documento di protesta.
Attesa, quindi, fra gli spettatori, sensibilizzati dal grido dei manifestanti: “Il teatro non deve morire!” e dalla dichiarazione accorata del regista Guglielmo Ferro: “Il Teatro è nostro”, da difendere quale “baluardo della nostra civiltà”.
Andata in scena, dunque, questa sofferta Lucia, il 3 dicembre 2013, preceduta qualche giorno prima dalla colta ed interessante presentazione dell’Opera da parte del musicologo Giuseppe Montemagno, alla presenza degli interpreti e del Direttore, nel foyer del teatro.
Interessante e ben coordinata la regia del Ferro, che vedeva un assoluto rarefarsi degli orpelli ottocenteschi, con azione e personaggi volutamente riportati alla crudezza tempestosa del primo romanticismo. Suggestive le scene, dotate di proiezioni in obliquo, e gli effetti di Stefano Pace, che hanno contribuito a conferire alla produzione quell’atmosfera romantica puramente scottiana scelta dal regista come chiave di lettura anche filologica, che al romanzo del grande scrittore inglese, a cui è ispirato il libretto di Salvatore Cammarano, intendeva proprio rifarsi. Il tutto ben supportato dalle luci di Bruno Ciulli e dai costumi di Françoise Raybaud , severi ed adatti al clima di “Sturm und Drang” evocato dalla messa in scena.
Alla guida dell’orchestra del Teatro Massimo Bellini, che ha dimostrato come sempre doti di altissimo livello, il Maestro concertatore e direttore Emmanuel Plasson, che ha portato una ventata di classe d’oltralpe alla Lucia in italiano, avendola già diretta anche nella versione in francese. Doti di leggerezza e di stile che ricordano la bacchetta dell’illustre padre Michel e che fanno di lui un giovane Direttore già assolutamente autorevole ed esperto, con un gusto spiccato per L’Opéra Français ed un bagaglio da questa proveniente che si misura anche, però, con doti di ottima resa sonora dell’Opera del repertorio italiano, nella completa padronanza della guida della compagine orchestrale.
Nella parte di Lucia, il soprano Rosanna Savoia ha dato voce dolente e sentita ad un personaggio che necessita d’introspezione e, contemporaneamente di assoluta padronanza vocale, data la presenza di momenti di improba difficoltà…fra tutte, la celeberrima scena della pazzia, in duetto col flauto solista. Vocalmente gradevole e interpretativamente delicata, la Savoia ha dato vita ad una Lucia volutamente un po’ smarrita fin dall’inizio dell’Opera, dotata di corretta esecuzione e presenza scenica.
Il tenore Alessandro Liberatore,  nei panni di Edgardo,  sia pure colpito da un’improvvisa indisposizione che ne ha compromesso la resa vocale, ha portato a termine ugualmente la recita.
Debutto nella parte di Enrico per il l’ottimo Piero Terranova, baritono dagli accenti morbidi, ma anche robusti ed imperiosi, che ha sottolineato con adeguata interpretazione il carattere del fratello di Lucia, imponendosi per qualità vocale e resa sonora.
Sentito il Raimondo di Francesco Palmieri; corretti e gradevoli anche Loredana Rita Amegna, Alisa, Giuseppe Costanzo, Lord Arturo, e Salvatore D’Agata, Normanno.
Da sottolineare la prestazione del Coro del Teatro Massimo Bellini, sotto la guida di Tiziana Carlini: consueta professionalità di belle voci.
Rimarchevole,  nel secondo cast, la presenza del tenore Emanuele D’Aguanno nei panni di Edgardo, che, debuttando nel ruolo, ha dato voce, nella serata del 7 dicembre 2013, sotto l’autorevole direzione del M° Leonardo Catalanotto, ad un eroe romantico giovane ed espressivo, pieno d’impeto e di passione, con una linea di canto ed un legato davvero notevoli e mille promesse vocali per il futuro, che auspichiamo lo portino verso traguardi di tutto rispetto, magari volgendosi anche al repertorio francese per il quale appare già tecnicamente portato.
Pubblico plaudente e soddisfatto, che auspica e attende adesso positive notizie per il proprio amatissimo teatro e la ventura stagione Lirica 2014-2015.

LA FINTA SEMPLICE [William Fratti] Cremona, 6 dicembre 2013.
Il Teatro Ponchielli di Cremona conclude la Stagione Lirica 2013 con La finta semplice, dramma giocoso del dodicenne Amadé. È difficile dare un parere del tutto obiettivo a quest’opera: se la si guarda dal punto di vista puramente mozartiano, è ovvio che solo in parte lascia intravedere ciò che sarà il compositore salisburghese, sia musicalmente, sia teatralmente; se la si considera tenendo ben presente l’età di chi ne ha scritto la partitura, è immediato parlare di genio; se invece la si ascolta con le orecchie di fine Settecento, allora è possibile considerare questo lavoro un perfetto amalgama degli schemi tipici e delle convenzioni dell’opera buffa di quei tempi.
Il nuovo allestimento firmato da Elisabetta Courir, con scene di Francesco Arrivo, costumi di Anna Cavaliere e luci di Giuseppe Ruggiero, è stato presumibilmente costruito in considerazione di un budget ultraridotto, ma è stato commesso un grandissimo errore: i tendaggi assorbono il suono ed avendo a disposizione un cast di voci molto piccole, in platea si sentiva quasi nulla. L’idea di avvalersi di uno spazio in continuo movimento è interessante, ma da un lato è troppo simile al blasonato storico spettacolo di Ponelle de L’occasione fa il ladro, dall’altro, avendo a disposizione solo le luci per creare un effetto visivo un po’ diverso, dopo qualche scena diventa monotono. La parte peggiore è l’inserimento della narratrice – la bravissima Annagaia Marchioro – che pur sapendo fare egregiamente il suo lavoro, non serve a nulla, anzi, fa passare gli spettatori per poco intelligenti – come se non potessero seguire la vicenda senza le sue spiegazioni – oltre a rompere l’andamento dell’opera e ad allungarla oltre misura. Allora sarebbe stato meglio evitare di tagliare dei pezzi musicali. Se la cava meglio Salvatore Percacciolo sul podio dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, prodigandosi in suoni puliti e colori tipicamente classici.
La giovane Salome Jicia è la protagonista Rosina, abbastanza corretta nel canto, anche se è molto dura e la dizione è pessima. L’istrionico Andrea Concetti veste i panni di un divertente Don Cassandro, ma non sembra essere particolarmente generoso, pur essendo il solo ad avere una vocalità sufficientemente udibile dalla platea. Il fratello Don Polidoro è Raoul d’Eramo, tenorino dotato di bel colore tipicamente latino, ma in chiare difficoltà nel passaggio all’acuto. Inoltre in “Sposa cara sposa bella” perde l’intonazione.
Elena Belfiore è una Giacinta corretta, affiancata da una musicale Bianca Tognocchi nei panni di Ninetta. Matteo Mezzaro è un Fracasso dotato di bella voce limpida ed elegante, mentre il Simone di Gabriele Nani pare essere più un tenore corto che un baritono, ma sa essere puntuale e lineare.

DON PASQUALE [Lukas Franceschini] Verona, 13 dicembre 2013.
La stagione d’Opera e Balletto 2013-2014 dell’Arena di Verona al Teatro Filarmonico è stata inaugurata, come di consueto, la sera di Santa Lucia con l’opera Don Pasquale di Gaetano Donizetti. Don Pasquale è l’ultimo capolavoro buffo di Donizetti, andò in scena per la prima volta al Théâtre des Italien il 3 gennaio 1843 con una compagnia superlativa: Luigi Lablache, Antonio Tamburini, il tenore Mario e Giulia Grisi. L’autore ripristina la comicità in un dramma buffo con nuova inventiva, che in parte rallenta il divertimento, ricavandone comprensione per i difetti umani, il tutto condito con brillante musicalità ed altrettanta crudezza. Il successo fu immenso, l’opera fu richiesta da tutti i teatri europei e restò sempre in repertorio, pertanto esclusa dalla cosiddetta Donizetti-renaissance. Si ascoltano con piacere battibecchi e arie di forbita costruzione tipica dell’opera comica ma qui elevati alla maturità compositiva e allo stile di una nuova musica in voga negli anni ’40 del XIX secolo. Non da sottovalutare la sapiente caratterizzazione di tutti e quattro i protagonisti, scolpiti come in un perfetto mosaico cui ogni parte è subalterna all’altra: il vecchio babbione gabbato ma anche umano e umiliato, il dottore ingegnoso nel perfido gioco, la scaltra e seduttrice Norina, l’innamorato Ernesto un po’ in balia degli eventi ma che regge il ruolo grazie ad una grande aria cui Donizetti riconosce nuova importanza avendo romanticizzato il tenore del melodramma giocoso.
Il nuovo spettacolo della Fondazione Arena portava la firma di Antonio Albanese, il quale non ha bisogno di presentazioni e salvo errori era alla sua seconda regia operistica. Lo spettacolo bello nella sua concezione di sviluppo “nel territorio”, ovvero ambientato nella Valpolicella, tra i filari dei pregiati vitigni veronesi essendo Don Pasquale produttore vinicolo e ricco possidente terriero che come in un’estate di San Martino cerca di accasarsi con giovane moglie. Norina è una “giovine spiantata” vendemmiatrice stagionale, gli altri due personaggi nei rispettivi ruoli di nipote (erede) e dottore. Albanese cerca di trovare una lettura moderna e sagace, e per molti versi ci riesce con garbo e simpatia, dando la giusta verve a tutti i protagonisti, rischia meno sul versante tragico forse per paura di calcare la mano, il dramma del protagonista non è del tutto a fuoco. Pone rilievo ai servitori di casa Corneto, figuranti muti, che divertono nella loro attendibilità; purtroppo in più occasioni scivola sulla farsa e gratuita gestualità tipica del vecchio avanspettacolo ma senza mai eccedere. La scena di Leila Fteita è di pregio quando si è all’interno, il primo atto si svolge in cantina con una parete stracolma di pregiato vino, molto riuscita, elegante la casa di Don Pasquale del secondo atto. Meno riuscita la scena all’aperto costituita da uno striminzito filare di vitigni, che si trasforma in giardino nel finale. Costumi moderni di Elisabetta Gabbioneta, credibili e di bel gusto teatrale.
La bacchetta di Omer Meir Wellber è più incisiva del solito con tempi stringati, brillanti ed ironici di ottima fattura. In qualche occasione si lasciava prendere la mano e copriva le voci negli assieme ma nel complesso sapeva scavare negli aspetti teatrali della commedia senza tralasciare anche gli aspetti patetici e drammatici. L’orchestra si rendeva ben disponibile a tale lettura e rispondeva con garbo, anche se non tutte le sezioni erano precise e calibrate. Meglio la prestazione del coro, preciso e brillante cui il regista offre un momento di maggiore visibilità esibendosi in platea.
Simone Alaimo è un protagonista azzeccato, stilizzato, elegante e sornione, gli anni d’illustre carriera pesano e purtroppo il canto era spesso parlato, ma si rende doverosamente omaggio all’artista di rango. Buona anche la prova di Irina Lungu, intrigante e civettuola Norina, peccato che il settore acuto e il trillo non siano ben calibrati. Mario Cassi era un decoroso Malatesta cui manca ancora esperienza per calibrare bene il ruolo, mentre era certamente inadeguato l’Ernesto di Francesco Demuro, al quale manca tecnica, stile e fraseggio richiesti dalla parte.
La serata inaugurale è stata trasmessa in diretta SkyClassica ed era dedicata alla mai dimenticata soprano veronese Alida Ferrarini, superba interprete di Norina al Filarmonico di Verona nel 1978 e 1989.

LA FAVORITE [William Fratti] Montecarlo, 15 dicembre 2013.
L’Opéra di Montecarlo ospita il tanto atteso debutto di Juan Diego Florez nel ruolo di Fernand ne La favorite di Gaetano Donizetti, eseguita in forma di concerto presso l’Auditorium Rainier III.
Jacques Lacombe dirige l’Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo con fare romantico, in uno stile che si avvicina di più all’opera italiana dell’Ottocento piuttosto che al belcanto francese, guadagnando vivacità nelle pagine più drammatiche o nelle scene corali, ma perdendo un poco di soavità nei passaggi più lirici e maggiormente dedicati agli struggenti pensieri dei due protagonisti. Purtroppo la rappresentazione è danneggiata da qualche taglio, ma pare che ormai sia una moda che colpisce continuamente le opere più lunghe di alcuni compositori.
È positiva anche la prova del coro diretto da Stefano Visconti, pur non essendo eccellente in tutti i punti, tra cui la prima parte del matrimonio in terzo atto, mentre riesce davvero bene tutto il finale secondo.
Beatrice Uria-Monzon interpreta la parte della protagonista in maniera più che corretta, con una bella vocalità scura e rotonda. Purtroppo è poco omogenea nel passaggio e si sente un cambiamento di colore – lo stesso accade nelle note più basse – che le fa perdere tutta la morbidezza che invece mostra nella zona centrale. Pertanto le pagine più cantabili sembrano talvolta spigolose, mentre la cabaletta è chiaramente migliore, dove il canto si concentra maggiormente sull’uso della tecnica.
Il Fernand di Juan Diego Florez non avrà gli slanci eroici tipici del tenore romantico, ma esce benissimo in ogni parte dell’opera, compresi i grandi concertati ed è in grado di esprimersi in passaggi così pregevoli che è impossibile anche solo pensare che manchi qualcosa dalla sua interpretazione. Già dalla prima aria dimostra di possedere – oltre alla sua consueta intonazione perfetta, alla linea di canto sempre uniforme e agli acuti splendidamente cristallini – una incredibile padronanza dei legati ed esegue delle smorzature davvero emozionanti. Ovviamente è con la cabaletta – arricchita da un paio di variazioni – che preme sull’acceleratore con una facilità impareggiabile: raffinatissimo nel colore, morbidissimo nelle agilità, limpidissimo e saldissimo su tutte le note, dalle più gravi alle più alte, eloquente nel fraseggio. Lodevole è infine la resa di “Ange si pur”, soprattutto per i lunghi fiati e i pianissimi ben timbrati, dopo la quale il pubblico in visibilio richiede un bis, purtroppo non concesso.
Jean-François Lapointe ha una vocalità un poco strana, poiché sembra opaca, pur diventando brillantissima verso la zona acuta. A parte ciò esegue il ruolo di Alphonse in maniera accuratissima, cesellando la parte di colori che riesce a rendere con una omogeneità davvero sorprendente, pure nel transito tra pianissimi e fortissimi. Anch’egli valorizza la cabaletta con un paio di variazioni, ma è il suo forte sta decisamente nel fraseggio del canto spianato e ciò lo si riscontra particolarmente nella seconda aria.
Più che corretta è la prova di Nicolas Cavallier nei panni di Balthazar, anche se sarebbe preferibile assegnare la parte a una vocalità più scura. Infatti in primo e quarto atto, cantando accanto al coro e al tenore, il difetto nel colore non si nota particolarmente, mentre nei concertati di secondo e terzo atto sembra mancare qualcosa.
Julia Novikova è una Ines molto leggera e un po’ metallica, con una zona acuta poco pulita e purtroppo quasi sempre coperta da coro e orchestra. Efficacie è la prova di Alain Gabriel nella parte di Don Gaspar.
Lunghe ovazioni del pubblico al termine dello spettacolo per tutti i protagonisti.

LA TRAVIATA [Lukas Franceschini] Milano, 15 dicembre 2013.
La Stagione d’Opera e Balletto 2013-2014 al Teatro alla Scala è stata inaugurata con La Traviata di Giuseppe Verdi, il titolo operistico più rappresentato al mondo secondo una recente indagine pubblicata su “Il Sole 24 Ore”, concludendo di fatto la stagione VW dedicata al bicentenario della nascita di Verdi e Wagner. È la prima volta nel corso della sua lunga storia che il Teatro alla Scala apre la stagione con il titolo verdiano, fatto alquanto curioso, ma bisogna osservare che l’opera seppur molto rappresentata nella sala del Piermarini fu anche assente per circa ventisei anni dal 1964 al 1990.
L’aspettativa per questa produzione era molto sentita sia per il titolo sia per coloro che l’hanno realizzato a cominciare dal regista e scenografo Dmitri Tcherniakov, il quale ci aveva recentemente incanto con Evgenij Onegin. Le cose non sono andate allo stesso modo per Traviata. In una recente intervista affermava “… non m’interessa il tempo storico originale dell’opera, spesso non lo mantengo ma scelgo l’ambientazione che mi permette di sentire il melodramma nel modo più intenso”. Pertanto ambienta l’opera in una Parigi non ben definita ma sicuramente odierna, scavando sui personaggi e mettendo in luce particolari spesso molto apprezzabili ma non sempre convincenti. Spettacolo forte e in parte coraggioso d’idee, ove si narra di un amore a senso unico ai giorni nostri. Per Tcherniakov l’unica ad amare veramente, dopo l’iniziale titubanza, è Violetta e quanto deve rinunciare a lui nel poco tempo che le rimane a disposizione accelera la fine con pasticche e farmaci da depressa cronica. Violetta è una donna forte e coraggiosa quasi fino all’ultimo ma deve fare i conti con una società ancor oggi perbenista e bigotta sotto molteplici aspetti e su questo il regista ha ragione. Difficile tuttavia accettare tutte le stranezze di questa lettura, e ve ne sono molte. La casa di campagna è bella in stile Ikea, che Alfredo impasti la pizza o quant’altro pure, però sono bizzarrie inutili, ma che si affretti istericamente a tagliare le verdure mentre il padre lo richiama all’ordine con la cabaletta, “Non udrai rimproveri” è grottesco. Nella festa di Flora, la quale portava un ridicolo copricapo da pellerossa, sono completamente eliminati i balletti e in loro luogo il coro ed Alfredo, il quale entra prima del previsto, eseguono una pantomima che chi scrive non ha capito il senso. Non c’è da scandalizzarsi se Violetta muore su una sedia e si copre con il solo piumone rimastole, ha venduto tutto, ma quello che poco convince e non passerà come un grande spettacolo è la manicale ricerca del dettaglio troppo ostentato messo in primo piano. I servitori sono sempre presenti in quasi tutte le scene come una famiglia, il che è poco credibile, più logica la figura di Annina, signora ormai avanti negli anni, la quale potrebbe essere stata a sua volta una cortigiana di lusso in precedenza. A lei Violetta canta la grande aria del primo atto, e lei la segue ovunque, non come cameriera ma come amica. La superficialità di Alfredo è messa in rilievo anche al terzo atto quando arriva dalla protagonista ormai al limite con tanto di fiori e scatola di cioccolatini, potrebbe essere, ma fa ridere. Più efficace il finale nel quale padre e figlio non attendono la morte della poveretta, ma escono prima, non c’è più nulla da fare, la vita continua e hanno evitato un serio problema, Annina li scaccia e resta con l’amica. Al termine non era possibile affermare che non ci sia stata una drammaturgia e una volontà di fare qualcosa di nuovo, ma forse il limite è stato oltrepassato a scapito di una cesellata precisione voluta da Verdi assieme a Piave. I costumi di Yelena Zaytseva non lasciavano traccia, poca eleganza, e molta banalità compresa la biondissima parrucca di Violetta nel II atto, e il servo di Flora che pareva un traviata 2pornoattore. La scena era molto più elegante con saloni e lineari raffinate vedute di ricchi palazzi anni ’20. Azzeccate le luci di Gleb Filshtinsky.
Non convinceva neppure la lettura, integralissima, di Daniele Gatti, così cesellata nei dettagli ma povera di smalto e colore, con tempi sempre troppo lenti e che in generale non trova una drammaturgia sua di tensione, di attesa, di fremito. Questo si è sentito soprattutto nelle grandi scene delle feste, in “Amami Alfredo” e nel finale secondo.
Diana Damrau è soprano musicale e diligente, in difficoltà nel finale primo e in tutto ciò che è brillante, si riscatta in parte nel secondo atto pur non avendo un fraseggio raffinato, e forse convincerebbe ancor più nel terzo ma la parte è lunga e con i tagli riaperti, sente il segno della stanchezza. Avrebbe avuto bisogno di altro direttore e altro regista, il quale la impegnava oltre il dovuto a scapito del canto.
Delude e non poco l’Alfredo di Piotr Beczala, il quale è dotato di voce anche bella e musicale, ma stile, tecnica di canto, fraseggio erano notevolmente imbarazzanti, oltre a qualche stonatura. Ben diverso il suo cantare in scena rispetto al disco. Zeljko Lucic, Germont, non lascia traccia sia di personaggio; sempre uguale ad altre sue performance, sia di cantante, monocorde e monotono, senza colore.
Non svettava neppure il folto gruppo di comprimari rasenti alla routine, tuttavia Mara Zampieri, celebre nome di qualche anno addietro, si esprimeva in una vocalità stridula e sovente stonata. Bizzarrie dell’oggi chiamare ex-cantanti per parti di comprimariato!
Alla terza recita cui ho assistito il pubblico, che gremiva in ogni ordine di posto la Scala, ha decretato un trionfo per la Damrau, qualche mugugno per Beczala e qualche fischio al direttore.

OTELLO [William Fratti] Genova, 29 dicembre 2013.
Il Teatro Carlo Felice di Genova, nell’ambito delle Celebrazioni del Bicentenario Verdiano, onora la memoria del suo invernale concittadino con l’esecuzione di un Otello ben riuscito sotto ogni punto di vista, certamente non senza alti e bassi, ma con una qualità generale così importante da far uscire soddisfatto dalla sala un buon numero di spettatori pignoli e generalmente difficili da accontentare.
Lo spettacolo di Davide Livermore, che sempre di più si sta affermando come uno dei migliori registi d’opera dell’ultimo decennio, creato per il Palau de Les Arts Reina Sofia di Valenza, si avvale di un solo impianto scenico – firmato dallo stesso Livermore e da Giò Forma – composto di cerchi più o meno concentrici che, nel finale primo, portano romanticamente l’immaginario agli anelli di Saturno, come se l’amore tra Otello e Desdemona avvenisse tra – e non sotto – le stelle. Ogni situazione della vicenda, sapientemente coadiuvata da un eccellente impianto luci dello stesso regista, da poche ma efficacissime proiezioni e da qualche piccolo elemento di attrezzeria, è retta da una regia fisica e psicologica puntualissima, mai monotona, bensì sempre attenta al movimento corporeo e mentale dei personaggi. Emblematica è l’Ave Maria di Desdemona, che appare come una piccola bambina indifesa, rannicchiata in posizione fetale nel chiedere aiuto alla Madonna, all’interno di quei cerchi di malvagità che le si sono stretti addosso. Di pregio anche i costumi di Marianna Fracasso e Davide Livermore, nonostante non sia particolarmente comprensibile la scelta delle acconciature femminili, a cresta rosa.
Il quasi sessantenne Gregory Kunde si dimostra nuovamente, oggi, un eccellente esecutore del repertorio lirico spinto e ciò lo si nota subito da “Esultate!”. Contrariamente a qualche piccola difficoltà incontrata negli ultimi ruoli donizettiani interpretati, dove una tessitura più delicata, nonostante fosse eroica, non lo aiutava, con le parti più spinte si trova certamente a suo agio, incarnando alla perfezione ciò che un tempo era definito come fort ténor. L’intonazione è sempre perfetta, la voce sempre in avanti, i piani e i fortissimi sono giustamente al loro posto, come pure gli accenti, nel rispetto dello spartito verdiano. La chiusura del finale primo, con “Venere splende” è davvero emozionante. Buona la resa di secondo atto, ma se possibile ancora migliore è “Dio! Mi potevi scagliar tutti i mali”.
Lo affianca un altrettanto esemplare Maria Agresta nei panni di Desdemona, che appare leggermente in sordina nei primi tre atti, ma la colpa è del compositore. La soprano esegue la parte nel totale rigore della partitura, accentuando i passaggi dolci e quelli forti così com’è scritto. Verdi desiderava porre l’attenzione sulla relazione tra Otello e Jago, ancora meglio sullo sviluppo della gelosia del protagonista. Ecco perché, nel rispetto degli equilibri, la quasi totalità del finale è dedicata a Desdemona e Maria Agresta sa eccellere nella resa della canzone del Salice, ancor più nella preghiera alla Madonna, tenendo così lungo e saldo il la filato da strappare al pubblico un applauso a scena aperta ancor prima che potesse pronunciare “Amen”.

Carlos Alvarez ha la vocalità perfetta per interpretare Jago e si prodiga in un fraseggio molto espressivo, sorretto da una musicalità naturale piacevolissima. Forse è troppo elegante nella resa del personaggio, che tutti vorrebbero vedere cattivo e velenoso, ma giustamente è più realistico e credibile.
Molto buona, limpida e brillante, è la prova di Manuel Pierattelli nel ruolo di Cassio, anche se sembra che la voce indietreggi un poco dopo il passaggio. Andrebbe riascoltato in un cantabile ricco di acuti.
Notevole è anche l’Emilia di Valeria Sepe e sa farsi notare anche il Montano di Claudio Ottino. Adeguati il Roderigo di Naoyuki Okada e il Lodovico di Seung Pil Choi.
Il Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice diretto da Gino Tanasini sa farsi notare. Lo stesso vale per il Coro guidato da Pablo Assante, nonostante l’apertura dell’opera non sia delle più eccellenti.
Un po’ confusionaria è invece la direzione di Andrea Battistoni, che sa portare l’Orchestra alla sua consueta precisione e pulizia di suono solo in quarto atto, pur restando sempre povero di colori.
Ovazioni per tutti gli interpreti al termine dello spettacolo e grande plauso all’Orchestra, che durante la seconda pausa delizia il pubblico con un medley natalizio.