2013

Concerti 2013

ANDREA DE FRANCESCO, MIHAELA COSTEA, GIUSEPPE AFFILIASTRO [William Fratti] Parma, 25 gennaio 2013.
Il Concerto per oboe e orchestra in do maggiore K. 314 su cui ruota il programma della serata, è opera sublime del Mozart ventenne, che all’epoca aveva già composto alcuni dei suoi migliori concerti per violino.
La Filarmonica Arturo Toscanini, guidata dalla spalla Mihaela Costea, si dimostra essere sempre un’eccellente interprete di questo tipo di repertorio, costantemente attenta alla purezza del suono e alla precisione dell’esecuzione.
Il solista Andrea De Francesco sa richiamare in maniera brillante il carattere francese della composizione, soprattutto nel primo e nel terzo movimento. Contrariamente l’Adagio non troppo centrale è quasi eccessivamente patetico e più che esprimere un atteggiamento interiore riflessivo, tende maggiormente ad un rilassamento un poco abbondante.
Al termine del Concerto per oboe e orchestra Andrea De Francesco e Mihaela Costea regalano al pubblico dell’Auditorium Paganini due chicche davvero interessanti: un paio di pezzi per oboe e violino tratti dal duetto tra Papageno e Papagena e dalla seconda aria della Regina della notte da Die Zauberflöte. Interpretati eccellentemente.
Anche l’ouverture di Don Giovanni, scelta per l’apertura della serata, è sapientemente eseguita, anche se la concertatrice porta la Filarmonica verso un’espressività più classicista che drammatica.
È invece incomprensibile la scelta, nella seconda parte del programma, di eseguire Kleine Dreigroschenmusik di Kurt Weill. Solo l’atteggiamento sociale e umanistico può in qualche modo accomunare i due compositori d’oltralpe, ma gli oltre duecento anni di differenza si fanno sentire, anche fin troppo fastidiosamente. È indubbio che un vero artista lavori principalmente per esprimere se stesso, ma non è possibile trascendere dal fatto che Mozart componeva per le corti austriache nel Settecento, mentre Weill scriveva nel pieno della crisi economica di inizio Novecento. Pertanto non è possibile apprezzare appieno il carattere popolare dell’Opera da tre soldi avendo prima assistito all’eleganza ineguagliabile del musicista salisburghese. Ciononostante non va certo denigrata l’esecuzione della Filarmonica Arturo Toscanini concertata da Giuseppe Affiliastro, che sa prodigarsi nella giusta varietà stilistica raccolta nella Suite di Weill.

DANIELE RUSTIONI, PAVEL BERMAN [Marco Benetti] Cremona, 7 febbraio 2013.
L’antico nella modernità e la modernità nell’antico: questo è stato il filo rosso che ha caratterizzato il programma scelto da Daniele Rustioni alla testa dell’Orchestra della Svizzera Italiana nel concerto svoltosi a Cremona giovedì 7 febbraio presso il Teatro Ponchielli.
“Credo che se Haydn avesse vissuto fino ad oggi, avrebbe mantenuto la sua scrittura arricchendola però di alcune novità”: con queste parole celebri Prokof’ev nell’Autobiografia parla della sua Sinfonia n. 1 in re maggiore op. 25, soprannominata Classica, un pezzo che guarda alla tradizione nella forma e nel linguaggio (con le dovute “novità”) prescelto dal giovane compositore russo che si ritrova a scrivere questo lavoro alle soglie della Rivoluzione di Ottobre. Rustioni dirige l’orchestra con gesti ampi, forse retorici a volte, ma marcati e precisi da cui fuoriesce un suono non sempre così deciso come ci si aspetterebbe. Gavotta e Finale vengono suonati con una disinvoltura accattivante, forse anche dovuta al tempo preso (con qualche tacca di metronomo in più rispetto al solito).
La prima parte prosegue con un’altra opera del russo, il Concerto per violino e orchestra n. 2 in sol minore op. 63, solista Pavel Berman, che imbraccia lo Stradivari “Conte De Fontana” 1702 ex David Oistrach. Il virtuosismo della composizione viene retto molto bene dal violinista, non sempre aiutato dal suo mirabile strumento la cui accordatura (soprattutto nell’Allegro ben marcato finale) poco reggeva all’incalzare della scrittura spinta funambolicamente nel registro acuto e sovracuto. Anche qui il duo Rustioni/ Orchestra funziona, rispondendo positivamente agli impulsi del solista. Al termine dell’esecuzione Berman concede due bis: Bach ed Ysaye (Sonata n. 3, Ballade) che mandano in visibilio il pubblico.
La seconda parte del concerto viene interamente occupata dalla Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36 di Beethoven. “Ma che umiliazione quando qualcuno accanto a me udiva di lontano il suono di un flauto e io nulla, o qualcuno udiva un pastore cantare e io sempre nulla; questi fatti mi portavano al limite della disperazione e poco ci mancò che non mi togliessi la vita”. L’ascoltatore inesperto o il neofita si aspetterebbe leggendo queste righe vergate ad Heiligenstad durante la composizione dell’opera, una musica inquieta e tormentata (caratteristiche proprie dell’indole del compositore di Bonn). Si tratta invece di un’isola beata, un felice anello di congiunzione nel corpus beethoveniano in cui la forma (come in Prokof’ev) guarda alla tradizione ma il linguaggio si rinnova, lasciando a tratti intravedere Monsalvat (avvolta nella dovuta nebbia), mahleriani temi popolari, qualche esplosione sinfonica straussiana. Della performance spicca il secondo tempo, Larghetto: di per se un gioiello, Rustioni riesce forse a farne vibrare la componente più lirica in quella successione di temi suggestionati dal ricordo di un certo Bach.
Un bis solo dell’orchestra: Rossini, Overture da L’italiana in Algeri.

GIANPAOLO BISANTI, SILVIA DALLA BENETTA [William Fratti] Vicenza, 26 maggio 2013.
Il recital per soprano e orchestra “Verdi primadonna” conclude la XXI edizione della rassegna musicale il Suono dell’Olimpico, omaggiando così, anche in terra vicentina, il celebre compositore di cui ricorre il bicentenario della nascita.
Silvia Dalla Benetta si mette in gioco, dimostrando in maniera indiscutibile la sua maturazione vocale, attraverso un programma davvero massacrante, non solo per la lunghezza, ma soprattutto per la difficoltà, passando da pagine scritte per vocalità liriche, fino al lirico spinto e dal drammatico al drammatico di agilità. La sua tecnica vocale è indubbiamente perfetta: volume ed emissione sono potenti e ben sostenuti; appoggio ed intonazione sono saldissimi ed impeccabili; i suoni sono cristallini e ben incanalati; i fiati sono egregiamente controllati; i pianissimi sono raffinati; gli accenti e il fraseggio sono così espressivi che riesce a fare rivivere ben dieci diverse eroine verdiane in una sola serata.
Inizialmente la concentrazione sul canto è tale che l’interpretazione sembra lasciata in secondo piano, ma ciò è dato soprattutto dalle parole introspettive di Leonora (Oberto, Conte di San Bonifacio) e da quelle sognanti di Elvira (Ernani). La resa dei personaggi passa poi attraverso la struggente Medora (Il corsaro), l’implorante Luisa Miller, che pare inginocchiata ai piedi di Wurm, e l’istrionica Violetta Valery, che sogna il suo amore per Alfredo dall’alto delle gradinate del Teatro Olimpico. In questa prima parte del concerto, Silvia Dalla Benetta colpisce per la corposità dei centri, per la pienezza delle note basse, dove l’emissione di petto è sapientemente usata in modo misto, che lasciano presto spazio alle agilità ben costruite e agli acuti ben innalzati delle cabalette e della temibile La traviata.
La seconda parte comincia con il lirico Il trovatore, per poi gettarsi a piedi pari nella drammaticità de La forza del destino, Don Carlo e Aida, in cui l’artista, attraverso la propria voce, la propria consapevolezza tecnica e le proprie doti interpretative, riesce a trasmettere pienamente il concetto di accento verdiano. Forse non tutti i filati sono così sottili come quando è concentrata su di un unico ruolo – a tale proposito si ricordino le recenti Violette di Torino, Firenze e Torre del Lago; le Lucie di Berna e Fermo; la Liù di Pisa – ma sarebbe materialmente impossibile in un concerto che assembla diverse vocalità così mastodontiche. E mancano anche i sovracuti che tradizionalmente inserisce nei da capo e nelle cadenze, sempre tralasciati per il medesimo motivo. Ma le qualità già citate, a cui vanno aggiunte un’innata eleganza e un’affascinante capacità di legare i suoni, sono il segno indiscutibile di una professionista che è in grado di interpretare il giovane Verdi, fino a I vespri siciliani, e il Donizetti serio come poche altre possono fare in questo periodo della storia della lirica.
In effetti un’altra grande prova di preparazione è data dalla concessione del bis: dopo il peso di “Pace, pace, mio Dio”, “Tu che le vanità” e “Ritorna vincitor” dimostra di saper alleggerire e di non aver perso l’elasticità necessaria per rendere al meglio “Mercé, dilette amiche”.
Il direttore artistico e musicale dell’Orchestra del Teatro Olimpico dirige con sapienza e fermezza di polso, esprimendosi al meglio pur non avendo a disposizione l’organico perfetto per il repertorio verdiano, che necessiterebbe di un maggior numero di archi, altrimenti in disequilibrio rispetto agli ottoni e alle percussioni. Detto questo, Gianpaolo Bisanti va lodato per la sua guida energica, che si riconosce particolarmente nelle sinfonie di Oberto, Conte di San Bonifacio, Giovanna d’Arco e I vespri siciliani, anche se il volume ridotto di violini primi e secondi non permette di cogliere al meglio la precisione di tutti i suoni. Meno fluente e fin troppo accentuata è l’ouverture di Luisa Miller. Maggiormente chiara è l’eleganza trasmessa attraverso i preludi di Macbeth, La traviata, ma soprattutto dell’ultimo atto di Don Carlo – davvero affascinante e così suggestivo da far immaginare di essere all’interno del chiostro di San Giusto – e di Aida.
Infine è da considerarsi eccellente l’accompagnamento della voce di Silvia Dalla Benetta, alla quale lascia lo spazio necessario per fraseggiare e sostenendola adeguatamente nell’incalzare delle cabalette. Sono pochi i direttori d’orchestra a non voler primeggiare, obbligando gli interpreti a seguire i loro tempi, mentre Gianpaolo Bisanti dimostra di saper guidare e arginare il flusso senza volerlo restringere o allargare artificiosamente; e con ciò rende un incomparabile servizio alla musica, alla cultura e all’arte dell’opera lirica.
Ovazioni per i due artisti e per la valida Orchestra del Teatro Olimpico al termine di una lunga ed impegnativa serata.

CHRISTIAN THIELEMANN, JOHAN BOTHA [Lukas Franceschini] Venezia, 30 maggio 2013.
Al Teatro La Fenice un concerto straordinario che senza dubbio po’ definirsi eccezionale perché ha ospitato l’unica tappa italiana della tournée europea della Staatskapelle Dresden diretta da uno dei più carismatici direttori odierni: Christian Thielemann. Il programma celebra il bicentenario della nascita di Richard Wagner e Venezia è una delle città più significative nella biografia artistica del compositore.
Il programma traccia musicalmente il rapporto particolare che Wagner ebbe con Dresda, con il suo teatro e con la sua orchestra, di cui fu dal 1843 al 1848 direttore con il titolo di Königlich-Sächsischen Kapellmeister, non dimentichiamo che Dresda ospitò, infatti, i primi successi operistici di Wagner, dopo sarebbero venute Monaco di Baviera e Bayreuth.
Si sono eseguite cinque ouverture e tre grandi scene per tenore tratte dalle opere wagneriane che ebbero la loro prima rappresentazione a Dresda, peculiare occasione d’ascolto è stato il “Racconto del Gral” da Lohengrin eseguita la versione originale, completa della seconda strofa che Wagner tagliò in occasione della prima assoluta di Weimar.
In programma anche il tributo a Hans Werner Henze, compositore cui la Staatskapelle è particolarmente legata, il quale è scomparso il 27 ottobre scorso pochi mesi dopo essere stato nominato “Capell-Compositeur” dell’orchestra per la stagione 2012-2013. Henze stava lavorando per Dresda a un nuovo brano intitolato Isoldes Tod, che sarebbe dovuto essere eseguito per i 200 anni dalla nascita di Wagner. In alternativa l’orchestra ha eseguito in prima italiana, in memoria anche di Henze, Fraternité air pour l’orchestre, un brano che fu commissionato al compositore dalla New York Philharmonic Orchestra nel 1999 e Kurt Masur come messaggio musicale per il nuovo millennio, sottotitolata un’opera tranquilla e serena, in cui tutti gli strumenti dell’orchestra sono come uno solo e cantano in lode dell’armonia e della pace.
La Staatskapelle Dresden è una delle migliori orchestre del mondo, fu fondata nel 1548 dal principe Maurizio di Sassonia. Fulgida tradizione e sterminata radicazione musicale sono gli elementi che hanno contraddistinto l’orchestra, la quale ha ospitato il gotha della bacchetta internazionale, citarli tutti sarebbe prolisso, e compositori di primo piano come Heinrich Schütz, Johann Adolf Hasse, Carl Maria von Weber e Richard Wagner, che chiamava la formazione la sua “arpa miracolosa”. Dalla stagione 2012-2013 Christian Thielemann ne è direttore principale e Myung-Whun Chung primo direttore ospite, mentre il compianto Sir Colin Davis ne è stato direttore onorario dal 1990 fino alla sua morte Rilevane il rapporto con il compositore Richard Strauss del quale eseguì molte opere in prima assoluta.
Christian Thielemann è una delle bacchette più importanti nel panorama odierno, soprattutto nel repertorio tedesco. Originario di Berlino, inizia la carriera professionale nel 1978 come maestro di sala alla Deutsche Oper di Berlino, è stato in Italia direttore ospite del Teatro Comunale di Bologna negli anni ’90 poi la sua carriera è proseguita prevalentemente in Germania, a Bayreuth è di casa, diventando uno dei maggiori direttori wagneriani.
Nel concerto veneziano già dall’overture iniziale, Olandese Volante, si è percepito l’eccezionalità dell’orchestra: timbrata, compatta dal suono cristallino e uno stile di riferimento. Thielemann da parte sua imprime una personalità che rasenta il superlativo per rigore stilistico, aderenza interpretativa. E’ difficile ascoltare oggigiorno una lettura così entusiasmante dell’ overture, ma anche la dirompente pagina iniziale del giovanile Rienzi. Identiche qualità espresse sia nel Tannhäuser e anche nell’elegiaca pagina “Faust-Overture” dove precisione e purezza di suono sono encomiabili. Il cambio di rotta con Henze non prende in contropiede sia direttore sia orchestra, anche se rispetto a Wagner il clima è certamente meno entusiasmante. Johan Botha è uno dei tenori specializzati in Wagner e ha trovato il suo momento migliore nel Racconto di Roma da Tannhäuser per emblematica precisione e fraseggio eloquente. Le pagine precedenti erano più problematiche, nell’aria di Rienzi aveva parecchi problemi d’intonazione, in Lohengrin il settore acuto dimostrava sbavature. Finale travolgente con l’esecuzione dell’overture dei Maestri Cantori e pubblico osannante direttore e d orchestra.

FABRIZIO CASSI, THOMAS HAMPSON, LUCA PISARONI [William Fratti] Busseto, 16 giugno 2013.
Dopo quasi un lungo decennio in cui la precedente Amministrazione Comunale non è stata in grado di salvaguardare il nome di Verdi, i luoghi del Maestro e l’Opera a Busseto, perdendo tutto ciò che era stato faticosamente costruito negli anni attorno al Centenario del 2001, finalmente il Comune della città che ha dato i natali al celebre compositore ritorna ad essere protagonista indiscussa delle celebrazioni del 2013, con la speranza che questa volta perduri nel tempo.
La lirica torna nella piazza sorvegliata dal monumento del Cigno, teatro all’aperto dotato di acustica naturale e per cui non si rende necessaria alcuna amplificazione, con l’attesa partecipazione di due artisti bussetani – il direttore Fabrizio Cassi e il basso-baritono Luca Pisaroni – e un blasonato artista internazionale – il baritono statunitense Thomas Hampson.
Fabrizio Cassi, sul podio dell’ottima Filarmonica Arturo Toscanini, dirige con la consueta brillantezza, decisamente a suo agio nei crescendo e negli sviluppi fugati. È inoltre accompagnatore accorto e preciso, mai desideroso di primeggiare, ma sempre attento a seguire l’interpretazione vocale senza mai sovrastarla.
Luca Pisaroni, da oltre dieci anni apprezzato sui più importanti palcoscenici internazionali, è evidentemente emozionato nell’esibirsi – occasione più che rara, purtroppo – dove è nato e cresciuto, ma lo fa con l’usuale eleganza, raffinatezza e musicalità, eccellendo nel belcanto, mostrando buona elasticità (“Sorgete… Duce di tanti eroi” da Maometto II di Rossini), registro acuto luminoso e ben posizionato ed affrontando in maniera molto intelligente anche un repertorio (“Restate” da Don Carlo di Verdi) che ancora non è il suo. Sarebbe molto interessante riascoltarlo presto in una produzione operistica italiana, possibilmente locale, senza dover attraversare almeno mezzo continente per assistere ad una sua esibizione.
Accanto alla freschezza del canto di Luca Pisaroni è l’esperienza inconfutabile del celebre Thomas Hampson, ma le enormi aspettative del pubblico sono purtroppo in parte disattese. Che il baritono statunitense abbia un modo di cantare non italiano, questo è un dato di fatto, ma in questa occasione, forse a causa di stanchezza o indisposizione, è anche povero di fraseggio e tale mancanza si nota soprattutto nel recitativo, che appare piatto e noioso. Risulta nettamente migliore il canto spianato, inconfondibilmente elegante (“Vision fugitive” da Hérodiade di Massenet), ma solo la zona centrale sembra corretta: molte note basse sono prive di corpo e volume (il duetto da Don Carlo) e diversi acuti sono stirati o urlati (“Vanne… Credo in un Dio crudel” da Otello di Verdi e “Il rival salvar… Suoni la tromba” da I puritani di Bellini). Infine l’uso della parola, tanto caro a Verdi, subisce pronuncia e dizione poco chiari. Ci si augura una sua ripresa veloce, soprattutto in vista dei numerosi impegni internazionali nel repertorio verdiano e wagneriano.
La vera chicca della serata è l’esecuzione, per la prima volta dopo 175 anni, della Sinfonia in Do (edizione critica di Dino Rizzo), composta dal giovane Verdi tra il 1837 e il 1838 e rappresentata al Teatro di Busseto il 27 febbraio 1838.
Applausi e calorosi consensi per tutti gli interpreti e la Filarmonica Arturo Toscanini al termine della serata, primo appuntamento delle Celebrazioni Verdiane Bussetane del Bicentenario, buon auspicio per il proseguimento di un ricco cartellone estivo.

PREMIO GIUSEPPE LUGO [Lukas Franceschini] Custoza, 2 luglio 2013.
Si è svolto, come di consueto, nella splendida cornice di Villa Vento sulle colline dell’omonima località veronese il tradizionale concerto per il conferimento del Premio Giuseppe Lugo giunto alla XX edizione.
Il premio intitolato al celebre ed indimenticato tenore veronese è stato istituito dal Comm. Giuseppe Pezzini, attuale proprietario della Villa e d’omonimo Ristorante, un tempo collaboratore di Lugo, Magda Olivero è il presidente Onorario, Adriana Lazzarini madrina del Comitato. L’evento si svolge in collaborazione con la Fondazione Arena di Verona, l’Accademia Filarmonica di Verona, la Regione Veneto, la Provincia di Verona, il Comune di Sommacampagna e la Proloco di Custoza. E’ doveroso rilevare quanto il Comm. Pezzini nel corso di questi anni ha organizzato le serate del premio, attribuito nel corso delle edizioni a prestigiosi tenori che si sono esibiti in concerto con altri colleghi, diventando, di fatto, un “mecenate” nella piccola realtà delle colline veronesi, proponendosi come caso unico nel ricordo del tenore Giuseppe Lugo, ma attento ed incoraggiando nuove voci della lirica, le quali hanno avuto occasione di esibirsi nelle serate, che hanno avuto l’onore di esibirsi a fianco di altrettanti colleghi di fama.
Il comitato ha deciso di premiare per l’edizione 2013 il tenore spagnolo Celso Albelo, cantante affermato sulla scena internazionale. Assieme a lui si sono esibiti in concerto il soprano Linda Campanella, il mezzosoprano Rossana Rinaldi, basso Romano Dal Zovo, e partecipazione straordinaria anche il baritono Bruno De Simone, accompagnati al piano dall’eccellente Patrizia Quarta.
È stata una bellissima serata sviluppata in un programma canoro di pregio di arie molti duetti. Ha aperto il concerto Linda Campanella eseguendo il celebre Fruhlingsstimmen di J. Strauss, poi è stata la volta di Rossana Rinaldi con l’aria della seduzione da Samson et Dalila di Camille Saint-Saens, per proseguire con il bravissimo Bruno De Simone in Sia qualunque delle figlie da La Cenerentola di Gioachino Rossini, grande interpretazione da cantante buffo. Ritorna la Campanella prima in una buona esecuzione della Barcarola da Les Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach assieme alla Rinaldi, poi in un frizzante duetto con De Simone dal Don Pasquale di Gaetano Donizetti Signorina, in tanta fretta. Infine, il premiato che si è presentato al pubblico in un ruolo che ha avuto molto peso nella sua carriera: il duca di Mantova dal Rigoletto di Giuseppe Verdi eseguendo La donna è mobile.
Nella seconda parte lo stesso tenore ha cantato un altro suo ruolo congeniale il Nemorino da L’Elisir d’amore di Donizetti esibendosi in due duetti molto ispirati, prima con la Campanella in Una parola Adina, in seguito con De Simone nello spassosissimo Dottore, perdonate. Il basso Romano Dal Zovo è un giovane cantante con ottimo materiale ma ancora da raffinare che si distinto in due arie verdiane, Vieni o Levita da Nabucco e Il lacerato spirto da Simon Boccanegra. Rossana Rinaldi si è distinta nella grande aria da La Favorita di Donizetti O mio Fernando, eseguendo anche la temibile cabaletta Scritto in ciel e particolarmente apprezzato il duetto La ci darem la mano dal Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart assieme a Dal Zovo. Ha chiuso il concerto, l’intensa Linda Campanella nella scena della pazzia da Lucia di Lammermoor di Donizetti. Il premiato Celso Albelo ha offerto il bis di tradizione cantando la celebre canzone portata al successo da Lugo: La mia canzone al vento di Bixio e Cherubini. Il pubblico accorso numerosissimo anche dalle provincie limitrofe ha tributato sentiti e convinti applausi a tutti i cantanti e un particolare plauso e simpatia al premiato.

CONCORSO INTERNAZIONALE VOCI VERDIANE [William Fratti] Busseto, 6 luglio 2013.
È il bussetano Vittorio Testa, conduttore della celebre trasmissione televisiva Loggione, a presentare il Concerto dei finalisti del 51° Concorso Internazionale Voci Verdiane Città di Busseto, ed apre la serata ricordando il Gr. Uff. Gianfranco Stefanini, il sindaco di Busseto che più di tutti ha cercato di imporre il culto verdiano nel paese, sfruttando culturalmente, ma anche economicamente, “il filone aurifero che i bussetani hanno avuto, forse immeritatamente, in regalo”. Purtroppo, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, si è cercato di fare numerosi tentativi in tal senso, ma mai si è riusciti a farli perdurare, né mai si è riusciti a fare di Busseto una seconda Bayreuth, o una seconda Salisburgo, o una seconda Pesaro.
Un altro concittadino, il M° Fabrizio Cassi, è alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini, e a lui va non solo il merito di avere diretto una serata ricca di bella musica ben eseguita, ma anche il ringraziamento, come poi ha ricordato il sindaco Maria Giovanna Gambazza, per aver affrontato in prima persona le problematiche e gli ostacoli che, una volta superati almeno in parte, hanno permesso di riportare il Concorso in seno al Comune, il ritorno a Busseto di artisti di fama mondiale e il recupero, da parte della città che ha dato i natali al compositore più popolare del mondo, di quel minimo di dignità culturale che l’amministrazione precedente aveva miserabilmente calpestato.
Al termine dalla kermesse dei finalisti Vittorio Testa presenta al pubblico i giovani cantanti selezionati per l’esecuzione di Luisa Miller – il prossimo 27 luglio, cui seguiranno le rappresentazioni autunnali presso i teatri di Piacenza, Ferrara e Ravenna – partecipanti al Corso d’alto perfezionamento per interpreti del Canto Verdiano, in collaborazione con ATER Formazione, il cui docente principale è il celebre Leo Nucci. Ed è il baritono bolognese, presidente della giuria del Concorso, a nominare i vincitori.
Il terzo premio ex aequo è assegnato a Hong JuYoung (soprano, Corea del Sud), dotata di bella voce calda e vigorosa, oltre che di buona tecnica, col solo neo, durante la romanza “Pace, pace, mio Dio!” da La forza del destino, di usare l’emissione di petto per le note più basse; e a Na Gunyong (baritono, Corea del Sud), che con l’aria da Macbeth “Pietà, rispetto, amore”, che dimostra di avere una bella vocalità cantabile e di saper usare i colori.
Il secondo ex aequo è conferito a Hrachuhi Bassenz Khumaryan (soprano, Armenia), che si presenta con una vocalità particolarmente scura con “Ernani! Ernani involami”, una delle arie più difficili del catalogo verdiano, in cui devono convivere do sovracuti – non perfettamente incanalati – e si sotto il rigo – eseguiti con emissione mista, senza snaturare la voce, ma con perdita di volume – oltre a legati nel cantabile – piacevoli, ma non così delicati – e staccati lungo le agilità della cabaletta; e Oreste Cosimo (tenore, Italia), che rende molto bene “Ah, la paterna mano” da Macbeth, con voce limpida, passaggio omogeneo, belle sfumature e piacevoli accenti.
Tra i finalisti non vincitori, una menzione particolare va a Renata Campanella, soprano italiano con già alle spalle una carriera pluriennale, avendo iniziato giovanissima. Si presenta con l’ardua “Arrigo! Ah! Parli a un core” e lo fa con bel fraseggio e i colori di un’esperta, eseguendo molto bene anche la terribile cadenza. È un peccato che non si sia aggiudicata un posto nel podio.
Il primo premio non viene assegnato e la motivazione risiede nel non aver individuato una vocalità particolarmente indicata al repertorio verdiano. A tale proposito Leo Nucci, su invito di Vittorio Testa, spiega cosa significa il canto verdiano, che non deve includere soltanto Nabucco, Macbeth e Otello, ma anche Un giorno di regno, Rigoletto e La traviata. È la parola scenica, l’accento, il fraseggio, a identificare la voce verdiana, idealmente riconosciuta nella maniera di Carlo Bergonzi. Il celebre baritono conclude dicendo: “l’opera non è il do della pira, credetemi!”.
Grazie Maestro Nucci!

DANIEL OREN, HE HUI, MARCO BERTI [William Fratti] Busseto, 28 luglio 2013.
“È un immenso onore – commenta il Sindaco di Salerno e Vice Ministro per le Infrastrutture e Trasporti Vincenzo De Luca – partecipare con il Teatro Municipale Giuseppe Verdi di Salerno alle celebrazioni del giubileo verdiano. Insieme all’omaggio a Giuseppe Verdi lo intendiamo anche come omaggio alle generose genti emiliane con le quali condividiamo tanti valori. Siamo convinti che la grande musica sia un enorme patrimonio italiano da tutelare e valorizzare per la crescita della qualità di vita delle nostre comunità, come occasione di promozione del nostro Paese nel mondo, come strumento per esaltare il talento creativo dei nostri artisti. Giuseppe Verdi con la sua arte ha contributo a far diventare grande l’Italia. Ispirati dalla sua missione e dalla sua eredità artistica e morale rinnoviamo il nostro impegno per l’Unità Nazionale che sola può aiutarci a superare le tremende difficoltà del momento presente”.
Purtroppo è un teatro semi deserto che accoglie questo dono prezioso, che vede protagonista Daniel Oren alla guida dell’Orchestra Filarmonica Salernitana Giuseppe Verdi, con la partecipazione del soprano He Hui e del tenore Marco Berti, in sostituzione dell’indisposto Fabio Sartori. Molto probabilmente se un concerto del genere fosse stato eseguito altrove, avrebbe registrato il tutto esaurito.
Il Maestro Oren dirige con il consueto accento verdiano, sorretto dall’abituale impeto. Colori e sfumature sono sempre interessanti, forse non eccessivamente eleganti, ma sicuramente carichi d’intensità emotiva. L’ouverture de La forza del destino si contraddistingue per l’energia e il vigore; la sinfonia di Luisa Miller emerge per i cromatismi e la purezza del suono; mentre con Nabucco esce l’anima verdiana del direttore.
He Hui torna a Busseto dopo la vittoria dell’edizione del 2002 del Concorso Internazionale Voci Verdiane e l’interpretazione di Odabella in Attila nel 2005. Con “Pace, pace, mio Dio!” si esprime con un fraseggio, un uso della parola e del suono, una morbidezza ed una omogeneità di linea di canto ineguagliabili. Seguono i sui cavalli di battaglia, prima “Ritorna vincitor!” poi il duetto “Pur ti riveggo” con cui dimostra ancora una volta di essere attualmente la miglior interprete di Aida, eccellendo nell’accento drammatico e nei raffinatissimi filati. Conclude la sua performance con “Morrò, ma prima in grazia” in un tripudio di colori e sfumature eleganti.
Marco Berti esegue “Celeste Aida” e “Ma se m’è forza perderti” e purtroppo non si presenta in forma smagliante. La potenza vocale e lo squillo ci sono sempre, ma le mezze tinte sono abbastanza carenti e in alcuni punti si percepiscono alcune note non perfettamente intonate.
Calorosi e scroscianti applausi accolgono gli artisti al termine della serata, che ringraziano con il consueto brindisi da La traviata.

FRANCESCO NICOLOSI, MARIANO RIGILLO [Simone Ricci] Ravello, 29 agosto 2013.
Il Ravello Festival ha celebrato il bicentenario dei due compositori con una serata all’insegna dell’unione tra musica e poesia.
È bello immaginare tre geni dell’arte come Verdi, Wagner e D’Annunzio mentre assistono dall’alto alla serata a loro dedicata dal Ravello Festival: lo scenario incontaminato ed emozionante di Villa Rufolo ha ospitato uno degli eventi più attesi dell’edizione 2013, la celebrazione del bicentenario dalla nascita dei “cigni” di Busseto e Bayreuth. Fortunatamente, il festival campano è riuscito a non banalizzare un appuntamento tanto importante, proponendo uno spunto fresco e innovativo e puntando su qualcosa di poco conosciuto al pubblico. La serata del 29 agosto si intitolava per la precisione “Via Margutta, 54: Verdi, Wagner, D’Annunzio e il Circolo Internazionale” e ha avuto come protagonisti assoluti il pianista Francesco Nicolosi e l’attore e doppiatore Mariano Rigillo.
Lo spunto è nato da un fatto poco noto. Nel lontano 1858, infatti, il marchese Francesco Patrizi sfruttò alcuni suoi edifici per dar vita a degli studi artistici a Roma, in Via Margutta. Due decenni dopo si aggiunse un nuovo appartamento e fu possibile creare il Circolo Artistico Internazionale. È proprio qui che passarono Verdi, Wagner e D’Annunzio, per non parlare di Franz Liszt e tanti altri. Ecco perché con questa celebrazione degli anniversari si è scelto di ritornare indietro nel tempo e vivere le stesse atmosfere musicali di tanti anni fa. Il concerto è stato equamente diviso tra Verdi e Wagner, sfruttando le trascrizioni e la parafrasi delle loro opere più celebri ad opera del già citato Liszt e del compositore austriaco Sigismond Thalberg.
D’Annunzio ha dato molto all’opera lirica (basta ricordare i numerosi libretti) e non è un caso che le parole della sua letteratura si sposino così bene con la musica verdiana e wagneriana. La serata è cominciata con la Parafrasi sul Rigoletto (S.434) di Liszt, elegante composizione in cui emergono con dolcezza e passione le note del quartetto Bella figlia dell’amore, uno dei pezzi più celebri del lavoro di Verdi. L’Elettra di D’Annunzio, poi, ha accompagnato nella maniera più azzeccata un’altra trascrizione di Liszt, vale a dire quella dell’Aida (S.436): si è trattato della danza sacra del primo atto e del duetto finale dell’opera. Immenso Phtà è un coro misterioso, soffuso e delicato, come anche lo è O terra addio, il duetto che unisce per l’ultima volta le voci di Radames e Aida.
Proprio questa atmosfera mistica e appassionata è stata esaltata da Liszt, un accostamento particolarmente apprezzato dal pubblico. La prima parte, dedicata a Verdi, si è conclusa con il Souvenir di “Un ballo in maschera” (opera 81) di Thalberg: si riconoscevano perfettamente le arie più celebri dell’opera, come ad esempio È scherzo, il ballo finale e il quintetto finale del secondo atto, composizione fluida e frizzante, oltre che sintesi molto interessante che consente di fruire in pochi minuti dei momenti migliori del Ballo. Unire Wagner e D’Annunzio è stato altrettanto semplice, vista soprattutto la sconfinata ammirazione del Vate nei confronti del musicista tedesco.
In questo caso le trascrizioni ascoltate sono state quelle di Liszt (suocero di Wagner), ovvero L’anello del Nibelungo, Parsifal e Tristano e Isotta: Il fuoco di D’Annunzio, opera che racconta proprio della morte di Wagner non poteva che accompagnarsi a questa musica, per non parlare de Il trionfo della morte. La solennità sinfonica delle note è emersa in maniera netta e ogni singola parola recitata aveva ancora più efficacia. Nicolosi ha avuto il giusto tocco per esaltare i due compositori: il sottoscritto ha apprezzato soprattutto il fatto che ci sia stata una ricerca molto accurata per arrivare a un concerto del genere, uno studio in grado di non far dimenticare nessuno dei grandi personaggi a cui la serata era dedicata.
La voce di Mariano Rigillo, inoltre, era calda e piacevole, proprio quello che ci voleva per coccolare il pubblico sia nei momenti musicali più tranquilli che in quelli appassionati e pieni di verve. Il programma è stato piacevolmente ampliato da due aggiunte: lo stesso Rigillo ha recitato la poesia La pioggia nel pineto di D’Annunzio, in modo da apprezzare versi immortali nel silenzio più assoluto di Villa Rufolo. In conclusione, poi, Nicolosi ha voluto eseguire il famoso Valzer in Fa maggiore di Giuseppe Verdi, quello che tutti sono abituati ad associare al film Il Gattopardo, musica che senza dubbio non sarà mancata nelle esecuzioni del Circolo Artistico Internazionale di Via Margutta.

GEROGE BENJAMIN, PIERRE- LAURENT AIMARD [Marco Benetti] Milano, 16 settembre 2013.
Come ogni anno il Festival MiTo dedica alcuni concerti alla presentazione di musica d’oggi, concentrandosi su due personalità interessanti e di rilievo. La scelta del direttore artistico Enzo Restagno, che ha deciso di focalizzare l’attenzione sulla musica inglese, ha visto come protagonisti il più importante compositore del ‘900 inglese Benjamin Britten (1913- 1976) e affiancato al “giovane” George Benjamin (1960), il quale in veste di direttore presso il Teatro Dal Verme di Milano alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai ha proposto nell’ultimo appuntamento di “Focus contemporaneo” un programma con musiche sue e del suo grande connazionale.
La prima parte del concerto è interamente dedicata alla musica di Benjamin e in particolare a composizioni caratterizzate da un organico mobile. Palimpsest, composizione scritta tra il 1998 (I parte) e il 2002 (II parte) e dedicata a Pierre Boulez, comprende quattro flauti, quattro clarinetti, ottoni in gran quantità, percussioni, due arpe, pianoforte e una sezione di archi ridotta (niente violoncelli). Il termine palinsesto viene preso a prestito dall’autore dalla terminologia filologica: si definisce infatti palinsesto “un antico manoscritto su cui sono stati redatti in successione due o più testi e nel quale l’originale sopravvive soltanto in stato frammentario” (dal libretto di sala a cura di Cesare Fertonani). I due palinsesti vengono caratterizzati ognuno da un differente gesto strumentale, che dopo essere stato presentato viene trasferito nello sfondo su cui si innesca la narrazione, per riaffiorare ogni tanto dalla superficie ben riconoscibile e ogni volta sempre più prorompente. Nel primo palimpsest tutto ruota attorno alla “delicata canzone polifonica dei clarinetti” (G. Benjamin), mentre nel secondo, di più ampie dimensioni rispetto al primo, troviamo gli scuri accordi degli ottoni, misti alle trame sonore dei legni e ai colpi di cogas.
Il secondo brano, Duet per pianoforte e orchestra (2008), che vede esecutore al pianoforte il dedicatario del pezzo, il pianista francese Pierre- Laurent Aimard, si caratterizza per l’assenza dei violini (al loro posto viene posizionato il pianoforte) e la massiccia presenza di percussioni. Scopo del brano è generare un incontro/ confronto fra le due entità in gioco, pianoforte e compagine orchestrale appunto, molto diverse fra loro ma nello stesso tempo con affinità elettive che le accomunano. Benjamin organizza le altezze del pianoforte in registri ben determinati accomunando ad essi un determinato timbro orchestrale. A proposito della scrittura di “simpatia e giocosità” parla un ascoltatore seduto accanto a me (Bruno Canino). In effetti la composizione nasce dall’accostamento di pannelli molto diverse tra di loro, in cui il pianoforte diventa solista e domina sull’orchestra o si mescola con l’orchestra ora in sezioni percussione e concentrate sul grave ora in slanci lirici (molto francesi).
L’orchestra regge molto bene questa prima parte, seguendo il gesto necessariamente secco di Benjamin (un gesto bouleziano per alcuni aspetti), senza sbavature, mantenendo il suono giusto nonostante l’acustica del Teatro Dal Verme non sia delle migliori. Straordinario anche il solista, Pierre- Laurent Aimard che riesce a far brillare letteralmente il pianoforte nella splendida scrittura pianistica dell’amico inglese.
Dopo la pausa il concerto riprende con l’orchestra al completo. Apre questa seconda parte una delle pagine più celebri composte da Benjamin Britten, Four Sea Interludes from Peter Grimes op. 33b (1945), quattro dei sei interludi che hanno nell’opera originale funzione di cambi di scena, che l’autore stesso ridusse a suite sinfonica per favorire la diffusione della sua musica. Dalla storia del violento e tormentato marinaio Peter Grimes vengono selezionati Dawn, Sunday morning, Moonlight e Storm. Il risultato dell’esecuzione non è dei migliori: sembrano infatti scoloriti i vividi colori dell’orchestrazione britteniana, i pezzi risultano stanchi, tenui, seccati da una specie di stanchezza di certo non aiutata dall’inclemente già citata acustica del teatro.
L’ultimo brano scelto per la serata è una composizione giovanile di Benjamin, Ringed by the Flat Horizon (1979- 1980) composto dall’autore nel periodo di studi a Cambridge. Esso si potrebbe definire una composizione a programma, dal momento che a determinare la concezione dell’opera e della forma narrativa sono stati una fotografia di una tempesta in New Mexico e alcuni versi da The Waste Land di T. S. Eliot. Come altre composizioni giovanili (cfr. At first light) l’orchestrazione, la concezione del timbro, del tempo tradiscono la formazione e potremmo dire la scuola da cui Benjamin proveniva, soprattutto l’apprendistato sotto la guida di Olivier Maessiaen a Parigi (a cui il brano è dedicato) e l’incontro della musica spettrale di Grisey e di Murail. Ricopre anche qui, come in altri lavori dello stesso periodo, un ruolo importante la tromba, alternata alla tromba piccola (un apprezzabile Roberto Rossi) che emerge dal tessuto orchestrale con veri slanci solistici e che è al centro di una ricerca timbrica costante con l’utilizzo di diverse sordine.
L’esecuzione appare anche qui distratta, attacchi all’unisono che risultano sporcati, qualche problema di intonazione nei fiati, una performance un po’ sottotono.
Ma il pubblico reagisce con molto entusiasmo: alla fine di ogni brano si levano applausi e ovazioni (quasi) che rivelano un apprezzamento molto deciso per la musica di Benjamin (in particolare i due pezzi d’apertura; tre chiamate dopo Duet sia per l’autore che per il solista).

CEM MANSUR, SHLOMO MINTZ [Lukas Franceschini] Verona, 17 settembre 2013.
Una peculiarità della stagione 2013 dell’Accademia Filarmonica è ospitare giovani ensemble di chiara fama.
Uno di questi la Young Turkish National Philharmonic Orchestra, fondata recentemente dal direttore Cem Mansur, e fiore all’occhiello di un paese che sta uscendo da una stantia ed isolata vita culturale musicale avviandosi sempre più verso schemi europei. La compagine strumentale è formata da giovani dai diciotto ai venticinque anni, predominante la presenza femminile, che svolge un’intensa attività di studio e da poco tempo anche di tournée concertistica, raccogliendo unanimi conensi. Ne è la prova il concerto veronese che con un programma molto variegato, impegnativo, atto a rendere evidente i vari settori dell’orchestra, si presenta quale complesso di tutto rispetto in considerazione della giovane “età”.
Le capacità di quest’orchestra sono comprovate anche dalla presenza di autorevoli solisti che collaborano con essa e uno di questi è Sholomo Mintz, che nella serata ha presentato il Concerto per Violino e orchestra di Ludwig van Beethoven.
La performance si è aperta con una Leonore 3 d’indicativa irruenza ed asprezza, ma molto ispirata, cui è seguito appunto il magnifico concerto con Mintz, il quale si esibisce forgiando un colore pseudo-romantico estraneo al barocco ma dal bel fraseggio combinato con un virtuosismo ed un’espressione musicale di rango, tale al nome.
Interessante nella seconda parte la valida esecuzione della celebre overture rossiniana da “Guillaume Tell” non infuocata nel finale, ma di elegante energia comunicativa. Una vera rarità ascoltare “Esintiler Suite” di Ferit Tuzun, autore turco, che si raffronta con una composizione tipica delle produzioni tra le due guerre planetarie con brio e gusto colorito del folklore locale. Terminano il concerto “Le danze di Galanta” di Zoltan Kodaly vibranti ed impegnative sotto il profilo tecnico, cui l’orchestra non manca puntualmente. Il direttore Mansur è molto rigoroso, probabilmente più attento alla formazione dei giovani musicisti che all’interpretazione peculiare dei brani, ma gli va riconosciuto il merito di essere l’artefice di un progetto che avrà sicuramente futuro luminoso. Esaltante e sbalorditivo il bis finale, le danze parigine dal “Macbeth” di Verdi, esecuzione brillante e calibrata.

RENAUD CAPUÇON, JÉRÔME DUCROS [Marco Benetti] Cremona, 28 settembre 2013.
Per la stagione del neonato Auditorium Giovanni Arvedi, inaugurato il 14 settembre, lo scorso sabato si sono esibiti nel gioiello di ingegneria acustica ideato da Yasuhisa Toyota (una sala che si potrebbe definire un’ onda con al centro il palcoscenico) il violinista Renaud Capuçon e il pianista Jérôme Ducros in un concerto, che ha coinciso con la seconda giornata della fiera annuale MondoMusica, con in programma musiche di Mozart, Beethoven e Strauss.
Un concerto impegnativo, per entrambi gli interpreti.
Dai pezzi un filo rosso è riconoscibile nel delineare una mini- storia della sonata per violino e pianoforte dalla fine del ‘700 con la Sonata Kv 301 di Mozart composta nella primavera del 1778 a Parigi, fino alla fine dell’800 con l’Op. 18 di Strauss, opera giovanile dell’autore di Monaco scritta nel 1887- 88, passando per Beethoven e la sonata n. 5 op. 24 “La Primavera” (1800- 1801).
La composizione mozartiana in due tempi che apre il concerto rivela tutta la delicatezza della scrittura del salisburghese con un dialogo costante tra violino e pianoforte in cui Capuçon con il suo Guarnieri del Gesù “Panette” (1737) scambia le cellule tematiche dell’Allegro con spirito col pianoforte Fazioli di Ducros con una comunità di intenti impareggiabile. Molto grazioso il secondo tempo Allegro, un Rondò in cui ogni ripresa del tema principale appare variata: un concentrato di francesismo, temi freschi e spensierati che fanno pensare ad Haydn.
Di più ampio respiro è invece la Sonata n. 5 di Beethoven. Il primo lungo movimento, Allegro, vede per la prima volta (nella storia della musica) il tema principale esposto dal violino, ripreso poi dal pianoforte, con una liricità davvero travolgente. L’Adagio molto espressivo e lo Scherzo. Allegro molto, di lunghezza inferiore al primo tempo, mettono in risalto le prodezze melodiche e ritmiche adottate da Beethoven che vengono proposte da duo con un atteggiamento molto apprezzabile e molto novecentesco. L’ultimo movimento, Rondò. Allegro ma non troppo, raggiunge punti drammatici che cantano bene nelle corde nel Guarnieri di Capuçon.
La seconda parte del concerto è stata occupata da un unico brano, la Sonata op. 18 di Richard Strauss. Il brano si colloca nella produzione giovanile del monacense, divisa in tre movimenti essa rappresenta un sunto di virtuosismo sia per il violini che per il pianoforte (la cui scintillante scrittura ricorda molto altri brani straussiani per questo strumento come la Burleske) che un tentativo di confrontarsi con la tradizione della sonata per violino (da Beethoven a Brahms).
Il movimento di apertura, Allegro, ma non troppo, vede il violino di Capuçon librarsi in frasi ampie e liriche accompagnate da rapidi arpeggi del pianoforte che non si perde in un mero accompagnamento ma sostiene tutto l’arco della composizione dialogando col violino. Il misterioso Improvisation, Andante cantabile vede alternarsi momenti di lirismo a vere e proprie improvvisazioni che spiazzano l’ascoltatore per la loro audacia: anche qui il dialogo tra i due solisti è strabiliante, rivela una comprensione del testo musicale davvero stupefacente. E nel Finale. Andante- Allgro, dove il virtuosismo esplode, i due si tengono testa strappando gli applausi del pubblico.
Il duo ha concesso all’uditorio ben due bis: la celebre Meditation dall’opera Thais di J. Massenet e Liebeslied di Kreisler. Degna conclusione di un concerto davvero straordinario.

L’AUGELLINO BELVERDE [Marco Benetti] Cremona, 30 settembre 2013.
L’Augellino Belverde, dramma in tre parti per la radio su testo di Vittorio Sermonti (da Carlo Gozzi) con musiche di Bruno Maderna, fu trasmesso per la prima volta dalla RAI di Milano nel 1958. Da allora, a parte alcune repliche negli anni ’60 sempre alla radio, non era più stato ripreso. In occasione della pubblicazione per le Edizioni Suvini Zerboni a cura della Prof.ssa Angela Ida De Benedictis, docente presso il Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia (Sede di Cremona) dell’edizione critica del testo e delle musiche, la neonata Associazione degli Studenti di Musicologia e Beni Culturali ha voluto rappresentare in forma semiscenica questo lavoro, che ha visto la sua prima esecuzione dal vivo presso Palazzo Cittanova a Cremona.
Il progetto è nato dalla collaborazione di diversi enti culturali: l’Associazione degli studenti del  Dipartimento come accennato sopra, il Conservatorio “L. Marenzio” di Brescia, il Liceo musicale “A. Stradivari” di Cremona, le Edizioni Suvini Zerboni, il Centro Musicale “Il Cascinetto” e il Comune di Cremona.
La necessità di riscoprire questi lavori radiofonici ci viene spiegato dalla Prof.ssa De Benedictis: i radiodrammi costituiscono la costola di un organismo, che è quello dell’opera stessa dei compositori che si trovano a lavorarci, e portano anch’essi l’impronta evolutiva dell’arte dei loro autori, senza trascurare il fatto che la giacenza inerte delle bobine nei magazzini RAI rischia di far perdere questo immenso patrimonio sonoro.
La messa in scena del lavoro porta a galla una serie di domande e di problematiche che riguardano sia l’approccio alla musica che soprattutto alla regia, dal momento che ci troviamo davanti ad un’opera non pensata per la scena.
Ma andiamo con ordine: di cosa parla l’Augellino Belverde? Il tenore della fiaba filosofica magistralmente riadattata da Sermonti partendo dall’originale di Gozzi resta intatto: è un viaggio alla scoperta del vero significato dell’idea di “amor proprio” attraverso personaggi cavati dalla commedia dell’arte e altri simbolici. “Questa fola”, come la definisce Gozzi, risulta essere estremamente complessa sia nella struttura dell’intreccio, che nell’efficace tessitura dell’azione scenica, sia nella realizzazione dei personaggi. Vediamo quindi la vecchia regina Tartagliona, assistita nelle sue malefatte dallo “Strologo Poeta” Brighella, ordinare a Pantalone di uccidere i nipotini appena nati Renzo e Barbarina, figli di Tartaglia, re di Monterotondo, di ritorno dalla guerra e di Ninetta, che viene creduta morta ma che è in realtà stata rinchiusa “nel buso della scaffa” (il buco del lavandino). La pietà di Pantalone affida, invece che alla morte, alla corrente d’un fiume i due innocenti. Essi vengono trovati ed allevati da Truffaldino e Smeraldina, salsicciai. Qui si “alza il sipario”: i due gemelli diciottenni vengono cacciati di casa da Truffaldino (per motivi economici). Essi intraprendono così un lungo viaggio affrontando ostacoli che mettono a dura prova il corpo e lo spirito, guidati dalla saggezza della statua Calmon (Re di tutte le statue del mondo). Ninetta morirebbe se l’Augellin Belverde, deus ex machina dell’opera, che in realtà è un principe vittima dell’ incantesimo di un perfido Orco, non andasse a confortarla e a portarle del cibo. Il lieto fine restituirà la vera identità a ciascuno e distribuirà con giustizia premi e castighi. La narrazione viene gestita con la presenza di un Narratore che interviene nei dialoghi e introduce tutte le parti didascaliche necessarie a dar vita alla scena invisibile.
La musica composta da Maderna si discosta vistosamente dall’immagine di avanguardia, luogo comune fin troppo abusato. Il risultato è un dialogo a distanza con Mozart (citato esplicitamente solo dall’elettronica con il Rondò K 617), un vero e proprio gioco con il genere del Singspiel in cui ogni nota rimanda ad uno spirito mozartiano senza mai cadere nella vera citazione, creando una situazione musicale di stampo classicheggiante. Si è posto tuttavia un problema di confronto tra le partiture e le registrazioni che, ci ha spiegato il M° Giovanni Cestino, direttore dell’ensemble “Musici che sonano”, rivela delle discrepanze quasi che la partitura sia stata pensata come un canovaccio su cui costruire poi il prodotto finito: da qui la necessità di reinventare nuove soluzioni (come la parte elettronica affidata al compositore Michele Epifani e al tecnico del suono Vittorio Soana).
La regia di Chiara Colm si pone in diretto rapporto con i programmi radio degli anni ’50: il palco di Palazzo Cittanova appare diviso in due parti con a sinistra gli attori vestiti di nero davanti ai loro microfoni e dall’altra l’ensemble. E’ come essere in uno studio in cui avviene la diretta con il pubblico in sala chiamato ad intervenire quando richiesto (con il simpatico cartello “Applausi”).
La performance si divide tra la recitazione del testo e interventi musicali del solo ensemble, composto da studenti del Dipartimento di Musicologia, del Conservatorio di Brescia e del Liceo musicale di Cremona, o con parti cantate dagli stessi attori e da cantanti non recitanti.
Tra gli attori/ cantanti si distinguono sicuramente Armando Ianniello nel ruolo di Tartaglia davvero bravo nel far risaltare i difetti di pronuncia, caratteristica del re di Monterotondo, dovuti alle balbuzie; Gabriele Rizzotto nella duplice veste di uno straordinario Pantalone (parte recitata in dialetto veneto, operazione facilitata dall’origine veneta dell’attore) e di Renzo, uno dei due gemelli, ruolo che gli da la possibilità di dar prova delle capacità canore molto lodevoli da tenore con un timbro molto brillante e chiaro adatto alla limpidezza del canto pseudomozartiano; Margherita Bellini nei panni della perfida madre Tartagliona, mezzosoprano, che rivela sia doti attoriali molto espressive e comiche che una voce adatta al ruolo con un’estensione ampia, note gravi piene, acuti leggeri e posati; Sandro Gugliermetto, basso, nel ruolo di Calmon e di uno dei tre Pomi che cantano, oltre alla buona resa della parte scritta fra il comico e il serio (è con i suoi consigli che i gemelli protagonisti si “salvano”) si distingue per una padronanza perfetta della voce.
Lodevole anche l’intervento degli altri due pomi, il tenore Daniele Palma e la soprano Anna Piroli, studentessa del Conservatorio di Milano che rivela un’agilità e un’espressione canore non affatto comuni.
Una parte rilevante nell’ensemble, diretto magistralmente e con un’attenzione quasi maniacale dal M° Giovanni Cestino, l’hanno senz’altro ricoperta Giordano Calvi con la sua tromba e Jennifer Passamani, flautista, che più volte è stata la rappresentante musicale della voce dell’Augellino stesso.
Uno spettacolo davvero d’eccezione che ha visto la partecipazione di studenti, professionisti e studiosi, tutti rigorosamente giovani. Alla fine della rappresentazione il pubblico si dilunga in applausi ben meritati che proseguono anche alla consegna di fiori e presenti al direttore e alla regista. Lo spettacolo sarà ripreso a Brescia in primavera.

BELLINI D’ORO [Natalia Di Bartolo] Catania, 4 ottobre 2013.
La splendida musica di Bellini nel magnifico teatro a lui intitolato, nella sua città: una sublimazione unica. Il 4 ottobre 2013, al Teatro Massimo “Vincenzo Bellini” di Catania, lo spettatore si è sentito in comunione con questo insieme d’arte immortale e ne ha subito positivamente il fascino. Merito delle note del Cigno catanese e di coloro che le hanno eseguite: il soprano Patrizia Ciofi e il tenore Gregory Kunde, due star internazionali, che quest’anno sono state insignite del prestigioso premio “Bellini d’Oro” e che nella suddetta serata si sono anche esibiti in concerto.
Il premio, promosso e organizzato dalla SCAM, Società Catanese Amici della Musica, oggi sotto la presidenza autorevole del giovane musicologo Giuseppe Montemagno, è giunto nel 2013 alla sua XXVII edizione ed ha visto negli anni trascorsi illustri premiati, tra cui Montserrat Caballé e Joan Sutherland, Renata Scotto ed Edita Gruberova, June Anderson e Cecilia Bartoli, Alfredo Kraus e Luciano Pavarotti, Vittorio Gui e Riccardo Muti.
La serata è stata condotta dal Presidente Montemagno affiancato dalla giornalista Caterina Andò, con un intervento del Direttore Artistico della SCAM Marco Impallomeni.
Anche quest’anno le motivazioni dei premi sono state azzeccate e coerenti con lo spirito del premio e con gli interpreti premiati, avendo sia la Ciofi che il Kunde vocalità aderenti ai canoni belliniani ed avendo praticato e praticando il repertorio del genio catanese anche nelle sue parti meno conosciute e rappresentate. Da ricordare, in particolare, l’interpretazione di Gregory Kunde in una storica edizione di “Bianca e Fernando” proprio al Bellini, nel 1991.
I due grandi interpreti, accompagnati al pianoforte dal M° Giuseppe Cinà, hanno spaziato nel repertorio belliniano, tra “Norma” e “La Sonnambula”, toccando anche due splendide arie da camera da parte della Ciofi e concludendo la serata con un ardimentoso addentrarsi insieme nel celebre duetto finale da “I Puritani”.
Patrizia Ciofi, di origine senese, impegnata in questi giorni a Parigi in una applaudita messa in scena di “Lucia di Lammermoor” di Donizetti, suo cavallo di battaglia anche nella raffinatissima e poco conosciuta edizione in francese, ha dimostrato finezza di timbro vocale e abile cura della tecnica dell’emissione nelle agilità.
Gregory Kunde, statunitense, in carriera da molti anni, non ha perso il suo smalto, soprattutto nei sovracuti leggendari, che ancora mantiene ed esibisce, con una maturità vocale che non li ha offuscati. Impegnato adesso anche nel ruolo verdiano di Otello, da lui prediletto insieme a quello omonimo rossiniano, ha catturato gli spettatori anche con la propria simpatia e sorridente spontaneità, non scevra da un certo spirito tecnologico d’oltreoceano, che lo porta a non utilizzare più gli spartiti cartacei, ma un bel tablet da poggiare sul leggio.
Scroscianti applausi hanno sottolineato anche la cerimonia di premiazione ed i due cantanti sono stati poi con molta spontaneità avvicinati e festeggiati dal pubblico, a mani protese e saluti da palcoscenico a platea e viceversa, in una sorridente fusione che può avvenire soprattutto in nome ed in onore dell’Arte della grande Musica.

MESSA DA REQUIEM [Margherita Panarelli] Torino, 10 ottobre 2013.
L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai in grande spolvero ha chiamato quattro solisti d’eccezione e un coro prestigioso per questa inaugurazione. Si è scelto di aprire la stagione con un Requiem di Verdi brillantemente eseguito in omaggio al bicentenario della nascita del Cigno di Busseto.
Juraj Valčuha dirige con precisione e sentimento. Non manca di sostenere i solisti e l’amalgama sonora è sempre calibrata sul testo: tanto il “Dies Irae” esplode con la forza distruttrice degli elementi naturali aizzati contro l’uomo durante l’Apocalisse quanto l’ “Ingemisco” è infuso di umano reverenziale timore per la morte. L’aspetto della partitura verdiana che più emerge in questa esecuzione è l’impotenza e la fragilità dell’uomo di fronte alla morte e l’eloquenza della scrittura musicale trova piena espressione in ogni singolo esecutore.
Hui He, soprano cinese, grande interprete verdiana, possiede uno strumento dal timbro non esattamente affascinante ma dalla notevole capacità espressiva. Le note oltre il passaggio sono risultate, questa sera, non esattamente agevoli alla cantante che ha comunque offerto una pregevole interpretazione.
Timbro luminoso, grande agilità, perfetta proiezione del suono, soavi pianissimi e acuti vigorosi. Queste solo alcune delle caratteristiche della voce di Francesco Meli, oramai accreditato come uno dei migliori tenori verdiani in circolazione. A partire da “Kyrie eleison” attraverso “Ingemisco” Meli cesella un’interpretazione magistrale per bellezza e correttezza vocale. Non una nota o un accento fuori posto.
Marianna Pizzolato nonostante la sua natura di cantante rossiniana si trova a suo agio con la partitura verdiana e con la forza dell’orchestra. La sua è voce corposa e calda,  naturalmente ricca di armonici. Suggestivo il suo “Liber scriptus proferetur” e nei duetti con il soprano come “Recordare Jesu pie” o “Agnus Dei” la sua voce sembra l’elemento amalgamante del tutto.
Ottima presenza fisica e vocale il basso ucraino Aleksandr Tsymbalyuk in ascesa nella carriera internazionale, e meritatamente. Basso corposo e agile, omogeneo nei vari registri, infatti non sembrano creargli problemi le parti più acute della tessitura richiesta da questa parte. Eccellenti “Mors stupebit et natura” e “Confutatis maledictis”.
Le sezioni d’insieme sono curatissime e precise, con un’attenzione al fraseggio da parte di tutti i solisti che le rende pregevolissime.
Eccellente esecuzione anche da parte del Coro Filarmonico Céco di Brno che contribuisce ad una serata di notevole bellezza.

FUOCO DI GIOIA [William Fratti] Parma, 29 ottobre 2013.
È nel giorno del decennale della scomparsa di Franco Corelli che il Gruppo di Appassionati Verdiani Club dei 27 ha deciso di festeggiare i duecento anni del Maestro delle Roncole, onorando la sua memoria con una serata benefica a favore della sua opera più bella: “Delle mie opere, quella che mi piace di più è la Casa che ho fatto costruire a Milano per accogliervi i vecchi artisti di canto non favoriti dalla fortuna, o che non possedettero da giovani la virtù del risparmio. Poveri e cari compagni della mia vita! Credimi, amico, quella Casa è veramente l’opera mia più bella”.
L’amichevole partecipazione di artisti di fama, che hanno regalato al numeroso pubblico intervenuto dei momenti davvero emozionanti, è stata nutrita dalla consegna di ben tre Cavalierati, la più alta onorificenza del Club, a Fiorenza Cossotto, Pier Luigi Pizzi e Donato Renzetti, accompagnati dal Cavaliere Renata Scotto e da una toccante lettera del Cavaliere Carlo Bergonzi. La serata, egregiamente presentata da Falstaff, alias Paolo Zoppi, si è sviluppata attraverso tutto il percorso compositivo verdiano.
Roberto Aronica, reduce dal grande successo ne I masnadieri, si cimenta con la difficile cavatina di sortita di Ernani dopo il coro “Evviva! Beviam” e, nella seconda parte, con il “duettone” de La forza del destino, con voce intensa e squillante.
Dimitra Theodossiou esegue “La luce langue” da Macbeth con fraseggio eloquente, sostituisce l’indisposta Anna Pirozzi nel duetto di quarto atto de Il trovatore e conclude la kermesse con la canzone del salice, anche se il loggione di Parma continua a preferirla in ruoli più sanguigni.
Giuseppe Altomare porta in scena la sua musicalità e la sua capacità di fraseggiare con “Pietà, rispetto, amore” da Macbeth, poi accompagna Aronica in “Solenne in quest’ora”.
Désirée Rancatore si mette alla prova con una delle più belle romanze del catalogo verdiano: “Non so le tetre immagini” da Il corsaro. Erano molti anni che il pubblico di Parma, nonostante l’opera fosse stata allestita in più di un’occasione, non aveva la fortuna di assistere ad un’esecuzione tanto perfetta, con i pianissimi, i filati e i legati, tutti al loro posto, facendo venire alla memoria le edizioni di oltre vent’anni fa, trasmettendo sentimenti davvero trascinanti. Rancatore esegue poi la cavatina di primo atto de La traviata e l’accoglienza del pubblico è giustamente così calorosa da farla commuovere.
Dopo il coro delle incudini Elisabetta Fiorillo sostituisce Rossana Rinaldi, costretta a non poter abbandonar una produzione in Germania, in “Stride la vampa” e nella seconda parte esegue il suo cavallo di battaglia da Un ballo in maschera, con le sue consuete note di petto, profonde e brunite.
Vladimir Stoyanov, accanto a Theodossiou, interpreta il Conte di Luna in “Udiste? Come albeggi” e poi Renato con “Eri tu” con fraseggio particolarmente espressivo.
Marco Spotti, a conclusione della la lunga lista degli artisti venuti a festeggiare 200 anni di passione verdiana con il Club dei 27, esegue in maniera davvero eccellente di “Il lacerato spirito” da Simon Boccanegra.
Bravissima la Corale Giuseppe Verdi di Parma guidata da Fabrizio Cassi e la Filarmonica Arturo Toscanini diretta da Donato Renzetti.