2018

Concerti 2018

RECITAL DI BEATRICE RANA [Mirko Gragnato] Verona, 15 gennaio 2018, agli Amici della Musica di Verona il recital di Beatrice Rana, la giovanissima pianista che oramai si è imposta nei cartelloni dei teatri mondiali al fianco di grandi direttori e orchestre. Un teatro Ristori gremitissimo per questo concerto degli Amici della Musica, oltre ogni previsione se si pensa che è un lunedì sera, ma in cartellone Beatrice Rana, giovane artista ma di grande calibro.
Un programma che nella prima parte si vede tutto dedicato a Schumann, si apre con i Blumenstueck (tradotto il pezzo dei fiori o fiorito ndr) una parentesi graziosa nella produzione Schumaniana tra Kreisleriana e Phantasie.
Un tocco garbato quello di Beatrice Rana che inizia il programma di questo concerto con un pezzo breve ma perfetto per creare la giusta atmosfera, una sorta di prologo agli Etudes Symphoniques.
Pezzo corposo e ricchissimo di una dicotomia totalmente similare alla mente di Robert Schumann; il legatissimo del thema iniziale, arpeggiato in un piano quasi incantato che raccoglie l’atmosfera dei blumenstueck si sviluppa in un via vai di variazioni, che culminina in stacchatissimi ribattutti sino ai “fortissimo” degli accordi finali.
Beatrice Rana riesce magistralmente in questo alternare pianisticamente molteplici stati d’animo, molteplici personalità, l’accordo che va a chiudere gli etudes symphoniques viene calanto con un’energia e una forza tale che le corde gravi del piano emettono quasi un sibilo nell’accompagnare le note, uno sforzo immane non solo per la pianista ma anche per lo strumento stesso.
Gli applausi non mancano a fine di questa prima parte che chiude la parentesi Schumaniana del programma.
Nella seconda parta Miroirs di Ravel, sfodera altre sonorità, i ribattuti risuonanti e suoni ovattati della partitura raveliana, rivelano il senso effimero e sfuggente dei riflessi.
A chiudere l’incanto di questa diafana manifestazione la trascrizione per piano dell’Uccello di Fuoco, e qui ritornano gli inesorabili forti e accenti a sorpresa che si muovono agilissimi su e giù per i tasti.
Beatrice Rana nella sua gentile delicatezza nasconde una forza profonda, la sua è una lettura molto attenta e approfondita della parte che nel turbine prima schumanniano e del pezzo di Stravinsky ci mostra il suo lato più combattivo e passionale.
Un’artista di rara bravura Beatrice, che nonostnate abbia solcato grandi palcoscenici mantiene il suo carattere affabile e gentile, la classica ragazza della porta accanto che però ha vinto il “Gramophone Award” come “Young Artist of the Year” per il disco da lei registrato per Warner Classic delle Variazioni Goldberg. Giovane e brava, una stella neonata dalla quale ci possiamo aspettare ancora molto, continueremo a seguirla lungo il suo viaggio nel firmamento delle stelle del pianismo internazionale.

CONCERTO SWINGLE SINGERS [Gianni Villani] Verona, 19 gennaio 2018. Un gruppo d’eccezione per una serata di ritmi trascinanti: e per il Ristori un nuovo sold out. E’ successo l’altra sera quando è salito sul palcoscenico il gettonatissimo complesso inglese dei Swingle Singers, una delle formazioni più agguerrite e collaudate che oggi possano affrontare, con piena cognizione di causa, qualsiasi genere vocale. 
E ben oltre quello strettamente classico, rivisto nel loro personalissimo stile, che oggi non è paragonabile a nessun altro.
La loro alta professionalità si è fatta sentire fin dalle prime battute, sia traducendo vocalmente il Concerto grosso per la Notte di Natale di Corelli, sia l’Air sulla quarta corda dalla Terza Suite in re maggiore e la Fuga per organo di Bach, sia ancora il Se mi amate di Tallis. Ma la bravura dei Swingle è andata a svelarsi, in una continua progressione, anche sul resto del programma, attraverso una serie di ammalianti ritmi -annunciati solo in parte, prima dell’esecuzione e in qualche occasione pure improvvisati- mettendo in mostra un affiatamento assoluto. Un solo strumento vocale mosso con una simultaneità impressionante e che ha guadagnato col passare dei brani, sempre più animazione espressiva. Un’animazione indotta certo anche dalla varietà dei testi, dove si è distinto il folklore (questo era anche il titolo della serata) con le canzoni popolari Desiderio Lovers’ afgana, Bucimis bulgaro-indiana, Hard Times come Again no more, americana. 
I sette cantanti (tre donne e quattro uomini) vanno elogiati in blocco, anche se Joanna Goldsmith-Eterson -impostasi con le sue personali variazioni Narnia e Paese delle meraviglie- e Oliver Griffiths col suo Forgotten (ha fatto simpaticamente intervenire il pubblico) andrebbero posti al primo posto di una ipotetica graduatoria. Meritatissimi i consensi che hanno pure premiato Clare Wheeler, ammaliante vocalità con la sua acutissima Aria dalla Lucia di Donizetti, Sara Brimer per la sua invenzione di Sina Taydennat Minut e Edward Randell per il suo Fardello.
Un’esecuzione intensa, che ha toccato persino vertici assoluti, di grande reazione emotiva, senza mai rivelare fra le voci la più piccola delle incertezze. Il complesso inglese è una macchina musicale formidabile, che procede imperturbabile riscuotendo favori da una fascia di pubblico diversissimo per età e gusti e che ha firmato una nuova memorabile serata per il totale dominio della materia vocale in cui è stata protagonista anche la stupefacente amplificazione fonica del Ristori. L’esecuzione dei sette ha goduto di una continua varietà e freschezza, di situazione in situazione, per un procedere difforme nell’andamento e nella dinamica che alla lunga hanno reso mirabilmente sbalzati e caratterizzati altri brani come Tempo di volare di Gomito/Carvey, America di Simon, Biglietto per la corsa di Lennon/Mc Cartney, Dopo la tempesta di Mumford, Libertango di Piazzolla. Un successo senza pari, salutato ripetutamente da intensissime ovazioni del pubblico, conclusosi col meritato bis Merlo di Lennon/Mc Cartney.

1° CONCERTO VERONALIRICA [Lukas Franceschini] Verona, 28 gennaio 2018. Il primo concerto del 2018 dell’Associazione VeronaLirica si è svolto al Teatro Filarmonico con la partecipazione di quattro solisti e la Banda Musicale di San Martino Buon Albergo (Verona). 
All’inizio della serata il nuovo sovrintendente della Fondazione Arena, Cecilia Gasdia, ha rivolto un saluto al numerosissimo pubblico facendo anche una breve panoramica della situazione della Fondazione, la quale sta per risalire la china dopo un periodo buio. Molti auguri e vive attese.
Il quartetto di solisti, come di consueto accompagnati al pianoforte dal M.o Patrizia Quarta, era composto dal soprano Karina Flores, dal mezzosoprano Silvia Beltrami, dal tenore Giuseppe Tommaso e dal baritono Giuseppe Altomare.
La Banda di San Martino, diretta dal M.o Massimo Longhi, ha aperto le esecuzioni musicali con la celeberrima marcia n. 1 “Pomp and Circumstance” Op. 39 di Edward Elgar, proseguendo con un’altra rarissima marcia di Gioachino Rossini composta per l’imperatore francese Napoleone III e denominata appunto “Marcia dell’Imperatore”. Il 27 gennaio era l’anniversario della morte di Giuseppe Verdi e il complesso bandistico ha voluto rendergli omaggio con l’esecuzione di “Verdiana” di Michele Manzi, clarinetto solista Stefano Conzatti, un pot-pourri dalle opere del compositore di Busseto. E’ doveroso porre l’accento che il complesso ha dimostrato una mirabile professionalità, ottima uniformità timbrica e rilevante prassi esecutiva, considerando anche oltre la metà degli elementi sono di giovanissima età.
Il baritono Giuseppe Altomare si è esibito nel ruolo di Severo da “Poliuto” di Gaetano Donizetti cantando l’aria e cabaletta “Di tua beltade immagine” con dolente partecipazione. Molto ispirata e rifinita l’esecuzione de “Il balen del suo sorriso” da Il Trovatore di Giuseppe Verdi e assolutamente esemplare “Nemico della patria” da Andrea Chénier di Umberto Giordano per stile e forbito fraseggio.
Silvia Beltrami ha cantato “Stella del marinar” da La Gioconda di Amilcare Ponchielli, seguita da un’intensa esecuzione di “Acerba voluttà” da Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, finendo con professionalità in “Voi lo sapete o mamma” da Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni.
Le sorprese più clamorose sono arrivate dalla performance di soprano e tenore, poiché chi scrive, era la prima volta ascoltava le loro voci.
Karina Flores si è esibita in una toccante interpretazione, soprattutto per un sapiente uso del fraseggio, dell’aria di Lisa da “Pikovaija Dama” di Piotr Ilic Cajkovskij, passando poi a Verdi con “Pace mio Dio” da La Forza del destino, eseguita con spiccate doti tecniche-interpretative e mirabile uso di colori vocali.
Giuseppe Tommaso è un cantante lirico d’indubbie qualità, messe in luce nell’aria del Duca di Mantova “Ella mi fu rapita… Parmi veder le lagrime”. Non meno indicativa, anzi più forbita nei colori e nell’accento, l’esecuzione di “Tombe degli avi miei” da Lucia di Lammermoor di Donizetti. Anche nella romanza da salotto non sono mancate qualità che possono far sperare in una luminosa carriera, infatti, in “Rondine al nido” di De Crescenzo ha dimostrato buone qualità stilistiche e misurata espressione.
L’unico duetto è stato “Ciel! Mio padre” da Aida di Verdi eseguito da Flores e Altomare, i quali hanno dimostrato ottime capacità sia vocali sia interpretative Il concerto è terminato con una strabiliante esecuzione della sinfonia di “Guillaume Tell” di Gioachino Rossini nella trascrizione per banda.
Successo vivissimo al termine e numerosi e continuati applausi.

5°CONCERTO VERONALIRICA [Lukas Franceschini] Verona, 25 febbraio 2018. Il 5° Concerto dell’Associazione Verona Lirica si è svolto al Teatro Filarmonico meno gremito del consueto causa le rigidissime temperature del ciclone siberiano. 
La serata ha avuto un vibrante successo e riservato anche piacevoli sorprese.
Patrizia Quarta accompagnava al pianoforte un quartetto di solisti che ha saputo scaldare gli animi degli spettatori, al quale si è aggiunta la preziosa presenza dell’arpista David Burani.
Il baritono Sergio Vitale ha saputo primeggiare quale raffinato interprete e valido fraseggiatore ad onta di un limitato volume, ma il colore vocale è molto ragguardevole. Personaggi come Nabucco, “Dio di Giuda” e Jack Rance, “Minnie dalla mia casa”, da La Fanciulla del West hanno avuto un’ottima esecuzione.
Il tenore Eduardo Aladren ha messo in evidenza una voce molto bella e una preziosa scansione di accenti, anche se talvolta la zona di passaggio non è del tutto precisa. “Sento avvampar nell’anima” da Simon Boccanegra era davvero molto ispirata, e morbida e rifinita anche l’esecuzione di “Recondita armonia” da Tosca di Puccini.
Una vera sorpresa il giovane mezzosoprano croato Ivana Srbljan. La voce ha uno smalto accattivante ed è rifinita in tutti i registri, peculiarità che le permettono di emergere sia in ruoli sia più voluttuosi come la splendida pagina “Ah, Tanya, Tanya” da Evegnj Onegin di Caikovskij, alla più veemente e sanguigna Carmen di cui ha eseguito la celebre Habanera.
Rosa Feola, un soprano sempre più in ascesa, della quale ricordiamo il recente successo ne “La gazza ladra” alla Scala nel quale teatro ritornerà prossimamente per “Don Pasquale” , si è ritagliata un vivo successo personale. La cantante ha messo in evidenza una naturale predisposizione per il belcanto, cesellato con splendide colorature e una linea di canto molto rarefatta. Arie come “Quel guardo il cavaliere” da Don Pasquale e la sortita di Amina, “Come per me sereno” con cabaletta, da La Sonnambula di Bellini hanno confermato le ottime qualità del soprano. Tuttavia non è stato da meno, anzi forse il vertice della sua esibizione, il duetto “Appressati Lucia” da Lucia di Lammermoor, eseguito con il baritono Vitale, nel quale oltre ad un canto di ottima raffinatezza si somma un gusto espressivo e un preciso uso degli accenti.
Non sono mancate pregiate esecuzioni di duetti che hanno fornito più lustro al già interessante programma. Vitale ed Aladren si sono esibiti ne La Boheme, “In un coupé”, con spontanea liricità, Feola e Srbljan nella celebre Barcarola da “Les Contes d’Hoffmann”, brano eseguito con apprezzabile delicatezza, e ancora il mezzosoprano e il tenore nel finale di Carmen, “C’est toi! C’est moi”, tragico duetto cantato con grande senso teatrale e gusto interpretativo.
Non meno apprezzata e validissima l’esibizione di Davide Buriani, il quale ha espresso una tecnica rilevante e un virtuosismo esemplare attraverso brani di raro ascolto: “Variazioni sulla Norma” di Giovanni Caramiello, una propria elaborazione del celebre valzer di Musetta da “La Boheme” e “Baroque Flamenco” di Doborah Henson Conant, una moderna rielaborazione di un Minuetto di Jean-Jacques Rousseau.
Un concerto molto riuscito che si è concluso con un nostalgico duetto “Tu che m’hai preso il cor” da Il paese del sorriso di Franz Lehar eseguito da Rosa Feola ed Eduardo Aladren.
Applausi scroscianti al termine.

CONCERTO DUO VIVID [Lukas Franceschini] Verona, 11 marzo 2018. Confessiamo di non aver mai nutrito eccessive simpatie per quei musicisti provenienti dall’estremo oriente che si affacciano di continuo in Europa per portare esecuzioni stilisticamente ben eseguite, ma lontane da un modo di sentire la musica occidentale che appartiene solo all’occidente.  
Eravamo preparati su questa lunghezza d’onda anche per il concerto che il Duo Vivid coreano -i coniugi Chiharu Aizawa e Chong Park hanno studiato in Italia- aveva in programma nella stagione de I Virtuosi Italiani in Sala Maffeiana, ma abbiamo dovuto (in parte) ricrederci perché alla resa dei conti la loro ottima e ispirata prestazione non si è prestata a dubbi e incertezze.
Lo diciamo specialmente per i Dieci Pezzi dal “Romeo e Giulietta” di Prokofiev, che Chong Park ha trascritto per pianoforte a quattro mani, dove la versione mantiene viva la questione poetica, fondamentale per delineare il grande capolavoro ballettistico russo. Chong Park infatti lavora molto attorno ai meravigliosi leitmotiv, ora dolci, ora malinconici, ora drammatici che delineano la psicologia e l’indole dei personaggi con mirabile precisione. E lo fa intelligentemente senza eccedere e senza scalfire quel nuovo modo di cantabile che Prokofiev inventa, più limpido, più romantico, più nostalgico, rispetto ad altri suoi balletti.
Park e consorte si sono cimentati anche col celebre “Bolero” di Ravel, nella versione per quattro mani scritta nel 1928 dallo stesso autore. Una pagina che si fonda sull’idea curiosa, quanto “banale” nella sua elementare essenza: un ostinato ritmico che viene incessantemente ripetuto per l’intera durata della spumeggiante partitura. E la svolgono disinvoltamente, con una certa e insolita fantasia.
Sul piano timbrico le trascrizioni funzionano bene anche perché i due interpreti esibiscono fraseggi sciolti e sonorità adeguate mostrando di avere un’ottima intesa. Una trascrizione è anche un modo per osservare un’opera da un diverso punto di vista, aprendo nuove prospettive interpretative. Il Duo Vivid ce ne dà però un’interpretazione parziale, come se lo spostamento di prospettiva sia solo laterale: nulla di più di un’operazione curiosa e ben realizzata.
La seconda parte del concerto ha visto all’opera anche I Virtuosi Italiani con una “Elegia per orchestra” di Ciajkovsky molto curata e ben suonata. E soprattutto con la novità del “Secondo Concerto, Romantique” di Chong Park, per pianoforte a quattro mani e orchestra dedicato a loro, proposto in prima esecuzione assoluta. Una partitura che punta molto sulla tonalità evocando suggestioni diverse, con spunti interessanti, non sprovvista di quella pregnanza tematica (per nulla il sottotitolo romantique) che potrebbe costituire una carta vincente nel variegato mondo sinfonico odierno. Da riascoltare. Applausi molto convinti della sala e bis di O Sole in chiave jazz.

6° CONCERTO VERONALIRICA [Lukas Franceschini] Verona, 25 marzo 2018. Il consueto mensile Concerto dell’Associazione Musicale “Verona Lirica”, svoltosi al Teatro Filamonico, ha avuto la presenza del soprano Rossella Ragatzu, del mezzosoprano Veronika Koval, del tenore Kristian Benedikt, e del baritono Christian Senn, accompagnati al pianoforte dal M.o Patrizia Quarta, e con la partecipazione straordinaria del Quintetto a Fiati “Silente”
La classe di Christian Senn, comprovata da lunghi anni di carriera e successi, si riconferma con una raffinata e stilizzata esecuzione dell’aria “Hai già vinto la causa… Vedrò mentr’io sospirò” da Le nozze di Figaro. Elegante interprete anche in ruoli più romantici, l’aria e cabaletta di Enrico da Lucia di Lammermoor è stato un esempio di canto morbido e rifinito negli accenti.
Kristian Benedikt ha dato voce al protagonista di “Pikovaja Dama”, Hermann, con una partecipata esecuzione della difficile aria del III atto.
Rossella Ragatzu, cantante oggi molto attiva in Germania, si è distinta per una vocalità duttile attraverso arie particolarmente impegnative come “Non più di fiori” da La Clemenza di Tito di Mozart, nella quale gusto e cambi di registro erano rilevanti su uno stile impeccabile. Passando poi all’intimistica e passionale aria “Poveri fiori” da Adriana Lecouvreur, interpretata con accenti toccanti.
Veronika Koval è cantante dotata di un materiale vocale ragguardevole per intensità e volume e ha saputo commuovere con l’aria “Addio foresta” da La pulzella d’Orleans di Piotr Ilic Cajkovskij, brano nostalgico e poetico. Mentre la felina interprete ha dominato nel ruolo della principessa di Bouillon da Adriana Lecouvreur.
Non sono mancati i duetti, a cominciare dal brano d’esordio “Crudel perché finora” da Le nozze di Figaro di Mozart, deliziosamente cantato da Ragatzu e Senn, impeccabili; e ancora il rarissimo, in sede concertistica, duetto finale atto II da Samson et Dalida nel quale ha trionfato la superba vocalità di Veronika Koval, sensuale interprete assieme al corretto Benedikt. Ancora Benedikt e la dolcissima Ragatzu hanno dato vita ai personaggi di Otello e Desdemona nel duetto finale atto I, nel quale il soprano ha meritato un vibrante applauso.
La parte strumentale eseguita dal Quintetto ” Silenti” , composto da giovanissimi ragazzi veronesi, ha avuto una rilevante esecuzione nella Carmen -Fantasy di Bill Holcombe, autore americano famoso per la creazione di colonne sonore di serial televisivi, e la più ricercata Suite n. 1 op. 12 per fiati di Jacques Lefebvre. entrambe eseguite con classe e stile da plauso. Il giovane quintetto, composto da Alessio Preosti (flauto), Annabruna Atzeni (clarinetto), Federico Verzelletti (oboe), Silvia Festa (corno), Teodora Mancabelli (fagotto), ha concluso la performance con un omaggio a Nino Rota con il quintetto “Omaggio musicale” dedicato ad Alfredo Casella.
Successo trionfale al termine con la consueta premiazione degli interpreti.

PASSIONE SECONDO SAN GIOVANNI [Lukas Franceschini] Verona, 27 marzo 2018. Sta tutto in quell’intimo dialogo tra la voce e la viola, il senso più profondo della “Passione secondo San Giovanni” di Bach, specie nella lettura che ne ha dato Ton Koopman, artista amatissimo dal pubblico veronese, che al Teatro Ristori gli ha tributato prolungati e affettuosissimi applausi. 
Una Passione che è un lungo cullarsi nella vertigine del dolore, quasi come una berceuse, che però la fede conforta e giustifica. D’altronde il carattere intimo e raccolto della versione giovannea si adatta molto bene alle sonorità dei complessi dell’Amsterdam, con un coro intonatissimo, elegante, preciso negli intrecci contrappuntistici che non vengono esibiti sfacciatamente ed una orchestra forse un po’ troppo omogenea nelle dinamiche, ma ancora una volta dal suono dorato, morbido, molto diverso dalla brillantezza talora un po’ gelida di molti altri ensemble che usano strumenti d’epoca.
Colpisce nella lettura di Koopman, il contrasto tra uno stacco piuttosto aspro dei tempi -corali e recitativi dell’Evangelista- e l’atmosfera riflessiva, serena delle arie. Ci restituisce tutto il racconto vivido della Passione di Cristo, la cui forza, intensità emotiva, drammaticità umana e spirituale, unisce e ingloba in sé anche le numerose parti di commento e di riflessione. Crediamo che il segreto di Koopman stia tutto qui: ossia nel fare del racconto la vera e propria ossatura portante dell’intero polittico, assorbendo in essa anche le parti del commento. Di rimarchevole c’è poi la sua continua ricerca di equilibrio che non andrebbe ovviamente da nessuna parte se non avesse davanti a sé un gruppo strumentale e vocale che costituiscono una sua diretta emanazione. Non parliamo solo dell’orchestra, ma anche dei diciassette componenti del coro e di un quartetto di solisti davvero ammirevole.
Fra loro come sempre, l’inappuntabile tenore Tilman Lichdi, un Evangelista che si sobbarca la maggior parte degli interventi solistici, con una voce chiara e ricca in ogni ambito della tessitura, anche nella difficile aria “Ach, mein Sinn”. E il basso Klaus Mertens -collabora con Koopman ormai da anni- voce piena e rotonda dove l’affiatamento è palese negli accenti umani, quasi bonari del suo Cristo, specie del “Betrachte, meine Seel, mit ängstlichem Vergnügen”.
Nelle parti minori, il controtenore Maarten Engeltjes ci è parso invece impari per una voce anodina, poco proiettata nell’aspra “Von den Stricken”, mentre il soprano cubano Yetzabel Arias Fernandez (ha studiato molto in Italia) dal fraseggio elegante, impegnato nel “Zerflisse, mein Herze” ha risolto la sua parte in perfetta armonia con gli interventi strumentali incorniciati dai suoi compagni di ventura.
Successo entusiastico della serata da un Ristori esaurito di pubblico, mentre in città si svolgevano contemporaneamente altre pagine sacre per le imminenti festività pasquali.

7° CONCERTO VERONALIRICA [Lukas Franceschini] Verona, 22 aprile 2018. In un caldissimo pomeriggio primaverile il pubblico, che solitamente affolla il teatro Filarmonico per i Concerti di Verona Lirica, non ha voluto mancare all’appuntamento al chiuso considerato l’eccezionalità degli artisti in locandina. 
Oltre a cantanti di fama mondiale, come il soprano Elena Mosuc, il tenore Leonardo Cortellazzi e il baritono Ambrogio Maestri, la serata ha avuto un gradito ritorno nella partecipazione straordinaria del violinista Giovanni Andrea Zanon.
Ambrogio Maestri, venuto a Verona negli intervalli delle recite di Don Pasquale alla Scala, ove ha conseguito un caloroso successo, ha esibito una robusta e rifinita vocalità, affrontando ruoli diversi come Carlo Gérard da Andrea Chénier nel quale eleganza e ricercatezza di colori erano punto di forza, mentre fraseggio e scansione della parola hanno contraddistinto l’ottima esecuzione di “Credo in un Dio crudel” da Otello. Il vasto repertorio del cantante pavese è costituito da molti ruoli buffi, ne ha fornita prova eccelsa nell’aria di Dulcamara, “Udite o rustici”, da L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti, nella quale hanno prevalso una sfaccettata misura comica e un sillabato lodevole.
Leonardo Cortellazzi è ormai certezza nel panorama della lirica e anche in quest’occasione non ha reso evidente la duttilità della voce passando da una stilizzata esecuzione dell’aria di Tamino, alla raffinata e intensa aria “Pourquoi me réveiller” da Werther, eseguita con accento sognante. Occasionalmente qualche cantante si cimenta anche nel repertorio della romanza italiana da salotto, che dovrebbe essere più eseguito, e in questo caso il bravo Cortellazzi ci ha deliziato con un’esecuzione molto squisita di un classico: “Non ti scordar di me” di De Curtis.
Elena Mosuc, reduce dal recente debutto a Belgrado né Il Trovatore, ha proposto le due arie di Leonora nelle quali è emersa la professionalità della brava esecutrice, ma terreno a lei più praticabile e fiorito resta il belcanto, infatti, sia in “Come innocente e giovane” sia in “Al dolce guidami”, sortita e finale di Anna Bolena di Donizetti, lei incarna ed esprime un significato rilevante sia nell’accento sia nelle difficoltà, che entrambe le arie contengono.
In programma un solo duetto, “Voglio dire…lo stupendo” da L’elisir d’amore, mattatori Maestri e Cortellazzi che oltre un canto brillante hanno esibito una spassosissima recitazione.
Infine, ma non certo per ultimo, la strabiliante performance del giovane violinista Giovanni Andrea Zanon. L’artista dopo anni di studio con Pinchas Zukerman in residenza a New York, ora frequenta corsi di perfezionamento a Berlino. Enfant prodigue dell’archetto si è già esibito in numerose sedi istituzionali, e a Verona è assidua presenza. Accompagnato al pianoforte da Patrizia Quarta ha eseguito il Cantabile Op. 17 di Niccolò Paganini, nel quale la delicatezza del gesto e l’espressione virtuosa erano coniugate con grande maestria. Anche nel rarissimo “Bel rosmarino” del celeberrimo Fritz Kreisler abbiano ascoltato un saggio di tecnica impressionante, per non parlare del brano conclusivo il Capriccio n. 5 in la dai 24 capricci di Paganini per violino solo, composizione di carattere estremamente virtuosistica per la cui esecuzione il solista necessita di una grande varietà di tecnica, la quale non manca a Zanon che ha sfoderato tutto il suo talento emozionando il pubblico in sala.
Come di consueto il pubblico era molto numeroso e ha tributato calorosi applausi a tutti gli interpreti e anche qualche richiesta di bis (non concessa) ma le ovazioni maggiori sono andate al violinista Giovanni Andrea Zanon.

OMAGGIO A PALLADIO [Lukas Franceschini] Vicenza, 29 aprile 2019. Il concerto conclusivo della XXI edizione del Festival “Omaggio a Palladio” 2018, ideata dal pianista e direttore András Schiff e dalla Società del Quartetto di Vicenza, si è tenuto al Teatro Olimpico, tutto esaurito in ogni ordine di posto. 
Programma molto originale: l’Overture Suite n. 4 in Re Magg. BWV 1069 di Johann Sebastian Bach, la Sonata per pianoforte in Sol Magg. Op. 78 “Fantasie” D 894 di Franz Schubert e la Sinfonia n. 2 in Re Maggiore. Op. 73 di Johannes Brahms.
Il cosiddetto “fil rouge” di questa edizione sono le quattro Overture-Suite di Bach, le quali sono state eseguite come brano d’apertura di ogni concerto. E’ incerta l’epoca in cui furono composte ma si ritiene che le prime due siano state scritte a Cothe intorno al 1721 e le altre a Lipsia. Formalmente si tratta di una serie di pezzi di danza, sul modello dei compositori francesi e italiani del sei-settecento. Bach peraltro vi prepone un preludio a carattere grave, quasi a evidenziare che non si tratta dell’usuale musica di danza ma di una forma d’arte ormai autonoma e indipendente di carattere proprio.
La n. 4, che è la meno popolare, presenta, assieme a pagine più deboli, momenti del miglior Bach. L’inizio ha una struttura pomposa ma è magistrale il segmento successivo che si conclude in un tempo lento.
Secondo brano proposto, la Sonata di Franz Schubert, la quale è una delle più lunghe composte dal musicista austriaco. Essa è pervasa da un’atmosfera intimista e di soave meditazione, anche se per la sua “semplicità” è sovente ignorata dagli esecutori pianistici, e quasi da considerare come sonata “a uso famigliare”, infatti, fu eseguita la prima volta in casa privata.
La Sinfonia n. 2 Brahms è il pezzo di commiato di questo Festival. La composizione, stranamente, fu rapida e spontanea. Possiede un clima pastorale, e le atmosfere evocate hanno proprio questa tinta. Brahms non tralascia un’interiore tensione lirica che rende vibrante i temi anche nella quieta visione naturalistica, da sempre fu considerata una delle creazioni più fiorenti del compositore.
L’esecuzione della suite coinvolge la Cappella Andrea Barca in un’espressione musicale e interpretativa di altissimo livello, immedesimandosi nell’intrattenimento bachiano, la cui bacchetta di Schiff segna un passo interpretativo di assoluto rilevo. Mirabile i solisti, oboi, fagotto e cembalo che segano l’intero brano con una miracolosa precisione e una dinamica di suono assai stilizzato.
András Schiff, solo al pianoforte, nella sonata schubertiana impressiona per il tocco raffinato della tastiera, e ci accompagna in viaggio onirico, quasi in disparte. I tempi, la scioltezza sulla tastiera, e la linea interpretativa, si collocano nell’apice del talento del solista.
Il filo conduttore che da Schubert porta a Brahms è rappresentativo nel carattere musicale del direttore il quale complice un’orchestra di raffinata esecuzione, coglie appieno tutte le delicatezze che caratterizzano il brano. Tempi sostenuti, ma di preziosa sensibilità, che colma nel terzo movimento aggraziato e cesellato, cui segue un finale frizzante ma mai debordante. Nell’esecuzione Schiff trova tutti i caratteri del sinfonismo di Brahms, che è romantico e cerca un’evasione da mondo.
Teatro affollato oltre ogni possibilità, e trionfo di applausi, meritatissimi, al termine.

VESPRO DELLA BEATA VERGINE [Emiliano Mazza] Cremona, 12 maggio 2018. Come ormai da tradizione, anche l’edizione 2018 del Festival Monteverdi ha dedicato una serata all’opera sacra più importante del compositore cremonese.
Il Vespro della Beata Vergine, dato alle stampe nel 1610 insieme alla Messa “in Illo tempore”, rappresenta in effetti un’opera straordinariamente complessa nell’intera storia della musica per struttura e stile compositivo. L’edizione cremonese di quest’anno vedeva come luogo d’esecuzione la centralissima Chiesa di San Marcellino, cronologicamente coeva all’opera eseguita, ed era affidata alle cure dell’ensemble l’Arpeggiata e della sua fondatrice, l’austriaca Christina Pluhar. Come nell’incisione discografica del 2011, anche in quest’occasione la Pluhar ha optato per un’esecuzione a parti reali, dunque senza cori e con tutti i dieci cantanti solisti, concorrendo a creare un’esecuzione di respiro cameristico. Scelta probabilmente vincente dato che l’elevato tempo di riverbero di S. Marcellino non permetteva, almeno da dove sedeva chi scrive, una distinzione sempre netta degli intrecci vocali. È probabile, del resto, che con masse vocali e strumentali ampie l’intellegibilità sarebbe stata ancora minore. Venendo all’esecuzione vera e propria, si può dire che l’affiatamento tra i musicisti sia cresciuto progressivamente durante la serata. Se mancava nei primi numeri una totale comunanza d’intenti, gli ultimi brani hanno offerto invece momenti davvero memorabili per espressività e nitore. Valga a titolo esemplificativo la resa da pelle d’oca dell’inizio del Magnificat. Sul piano vocale, particolarmente apprezzato il gruppo di tenori, tra cui si distingueva Jan Van Elsacker. Nell’Audi coelum egli ha dato sfoggio di bel timbro e di un fraseggio impeccabile in tutti i registri. Era poi evidente, anche attraverso un contenuto accenno attoriale, lo scavo profondo su ogni parola del testo. Ricercato anche il canto di Mathias Vidal cui purtroppo difettano parzialmente le note più gravi. In un ambiente così risonante per le frequenze acute, le agilità previste ad esempio nel Nigra Sum si traducevano in crescendi e diminuendi sproporzionati che un canto più misurato avrebbe forse potuto contenere. Sul versante femminile, bene il soprano belga Céline Scheen, dalla vocalità molto rispettosa dello stile del periodo, a volte fin troppo controllata nell’espressività. I componenti dell’Arpeggiata si sono dimostrati, qualora ci fosse bisogno di ulteriori conferme, grandi specialisti del repertorio monteverdiano. Sempre a servizio del canto, hanno dato sfoggio di perfetta intonazione (encomiabili cornetti e tromboni) e abilità nella Sonata sopra Sancta Maria. Ben distinguibile comunque l’impronta della Pluhar che, con gesto non bello ma chiarissimo, ha saputo tenere le redini di un’opera che conosce a menadito e di cui rappresenta un’interprete di riferimento. I grandi applausi di tutto il pubblico al termine della manifestazione sono chiaro segno che il pubblico italiano si sta riappropriando di una figura di riferimento della musica occidentale quali il Divin Claudio. Ben vengano dunque iniziative quali il Festival Monteverdi che contribuiscono fra l’altro a tenere alti i riflettori internazionali su luoghi ora fuori dai maggiori circuiti economici e turistici, ma in passato centri primari di sperimentazione artistica e tecnica.

XXVII SETTEMBRE DELL’ACCADEMIA [Gianni Villani] Verona, 6 settembre 2018. Il XXVII Settembre dell’Accademia di Verona parte sotto i migliori auspici grazie ad un acclamato concerto della Staatskapelle Dresden -fra le più prestigiose e antiche orchestre europee- diretta dall’americano Alan Gilbert e con la partecipazione della celebre violinista Lisa Bathiashvili
In programma il non agevole Concerto per violino e orchestra n. 2 di Sergej Prokofiev, affrontato con sicuro nerbo dalla solista (e da poco inciso), dove mostra subito un forte legame con la tradizione interpretativa russa. Quella che fa capo soprattutto a David Oistrakh, grazie agli studi in Germania con Mark Lubotsky, uno degli allievi più dotati e più fedeli della scuola di Oistrakh.
Nella pagina di Prokofiev, la Bathiashveli conserva una capacità non comune di saper plasmare la frase melodica con lunghe arcate di grande intensità musicale che si screziano con accentuazioni calcolate in semifrasi per evitare qualsiasi tipo di staticità al procedere del discorso musicale. Rispetto ad Oistrakh la giovane violinista evidenzia una maggiore varietà nell’uso del vibrato ed una capacità di variare il colore del suono per adattarlo meglio all’espressione della frase musicale. Colpisce di lei l’approccio particolarmente mesto con cui caratterizza il tema di esordio del Secondo Concerto di Prokofiev, dall’intonazione tipicamente russa, nel quale il lungo assolo del violino viene realizzato in un unico respiro musicale, esattamente all’opposto della classica versione usata da altri colleghi europei. Il suo rapporto con il direttore Gilbert è poi molto ben studiato. Lo si percepisce distintamente in momenti come l’Allegro moderato: la compostezza con cui i due si muovono nei frequenti cambi di tempo realizza al meglio l’iridescente orchestrazione composta da Prokofiev. Ai frenetici applausi del pubblico la Bathishveli ha proposto come bis le Danze dei Cavalieri da Romeo e Giulietta di Prokofiev.
La ripresa della serata ha riservato poi la Sinfonia n.1 “Titano” di Gistav Mahler, con cui Alan Gilbert fa risaltare una grande maturità, il sicuro talento tecnico in grado di accordare la lucidità dell’analisi alla coerenza dell’arco complessivo, con una tensione che non conosce un solo attimo di cedimento. Nella sua direzione si apprezza il capillare lavoro di definizione dei dettagli –come in alcune declinazioni espressive nell’introduzione del primo tempo- invece di un arido atteggiamento dimostrativo, configurato con un senso complessivo di maggiore classicità e naturalezza. La ricerca di una tradizione interpretativa riconducibile a Mahler lo porta a prosciugare la sua lettura della sinfonia da qualsiasi effetto gratuito, per puntare ad una essenzialità interamente rivolta ad enucleare il cuore poetico dell’opera. Il concorso della Dresden è davvero impagabile, con cento strumentisti a disposizione (oltre quanto è previsto in partitura) che danno l’immagine fin troppo sontuosa di una sinfonia dove Mahler mostra come pochi altri di saper creare atmosfere piene di suggestione e di trattare come pochi altri l’orchestra con una padronanza suprema. Gilbert, salutato con i suoi con grandi ovazioni, ha concesso un bis: il Preludio atto III da Lohengrin di Richard Wagner.

RECITAL DI MARTHA ARGERICH [Gianni Villani] Verona, 12 settembre 2018. Trepida attesa al Teatro Filarmonico di Verona, per assistere al debutto veronese di una eccezionale interprete come Martha Argerich.
La pianista argentina era accompagnata dalla giovane formazione brasiliana della Youth Orchestra of Bahia, diretta da Ricardo Castro: orchestra fatta nascere fra i giovani sottratti dalle favelas del Nord Brasile attraverso il metodo Abreu già sperimentato felicemente in Venezuela. Serata quindi carica di suggestioni diverse e anche per chi non conosceva Martha Argerich, non può non essere stato conquistato dalla sua straordinaria istintività, sorretta da una tecnica leonina, che mai si era vista prima in una donna.
In Martha Argerich è poi sempre avvertibile quell’ansia del comunicare anche se qualche musicologo ne indica spesso un certo disordine e approssimazione del suono. Nonostante questo la celebre concertista continua a folgorare nel repertorio per pianoforte e orchestra perché su questo terreno del confronto, la sua natura impulsiva, la sua tecnica strabiliante, il suo amore per l’azzardo, la naturale tendenza ad accelerare le frasi, trovano una dimensione ideale.
Da qui è nato anche il magnetismo nell’interpretare un vecchio cavallo di battaglia come il Concerto per pianoforte e orchestra in la min. Op. 54 di Robert Schumann eseguito al Filarmonico. Oggi a 77 anni la pianista argentina ha forse perso un po’ di smalto tecnico, tuttavia nella sua esecuzione riesce a mettere finalmente ordine al già sentito, alle convenzioni, a quello che facilmente diventa terra di nessuno. E’ stata l’ennesima esecuzione della celeberrima pagina schumanniana, ma con lei si è usciti finalmente dal pezzo di bravura o da un generico romanticismo, per sviluppare –partendo da un rapporto di natura cameristica con l’orchestra- un vissuto musicale attraverso i più diversificati atteggiamenti: da quelli più poetici e contemplativi, come nella cadenza del primo movimento, l’unico passo veramente solistico, all’approfondimento delle funzioni armoniche, alle diverse articolazioni, all’insistenza su un fraseggio sempre nettamente definito.
Con lei la presenza del pianoforte diventa illuminante in quanto chiave di volta di snodi linguistici e dialettici, che mostra la partitura di una rinnovata nudità, dove la scelta oculata dei tempi è meditata e protesa a discriminare la chiarezza delle strutture e delle tessiture, in una stupenda messa a fuoco dei dettagli. Ancora grandissimo il suo pianoforte, che il pubblico ha continuato ad acclamare poi nel tenero bis di Maurice Ravel a quattro mani con Ricardo Castro.
L’inizio del concerto e tutta la sua seconda parte, sono stati poi appannaggio della fresca compagine brasiliana propostasi nel Preludio dall’atto I da Die Meistersinger von Nurnberg di Richard Wagner e in pagine di Bernstein (Overture da West Side Story), Ginastera, Wellington Gomes (Sonhos Percutidos), George Gershwin (Cuban Overture), Arturo Màrquez (Danton n. 2). Un’ orchestra dall’organico sterminato (oltre 110 i suoi componenti), ma molto impegnata strumentalmente e ben distribuita nei diversi settori, chiaramente ancora in divenire, che tuttavia Ricardo Castro ha coordinato con sapienza e slancio in una materia vigorosa e insieme doviziosa di sottigliezze. Ne è stato un chiaro esempio su tutte, la bella esecuzione della Suite Estancia dell’argentino Alberto Ginastera: brano per un balletto nazionale, articolato su scene della vita rurale argentina nella pampa, che eseguita dapprima in forma orchestrale, ha contribuito notevolmente ad accrescere la fama del compositore. Successo della serata, che dopo i due spettacolari bis latinoamericani, Aquarela do Brasil di Ary Barroso e Cucaracha canto tradizionale, suonati (e ballati) senza direttore, è diventata anche un tripudio inarrestabile di consensi.

3°CONCERTO SETTEMBRE DELL’ACCADEMIA [Gianni Villani] Verona, 17 settembre 2018. Un “Tutto Beethoven” ha caratterizzato il terzo concerto del Settembre dell’Accademia con la prestigiosa presenza dell’Orchestra Filarmonica della Scala, diretta dal coreano Myung-Whun Chung.
Per l’occasione erano in programma la Sinfonia n. 6 in Fa Magg. Op. 68 “Pastorale” e la Sinfonia n. 7 in La Magg. Op. 92 del genio di Bonn che hanno visto schierata una compagine compatta nei fiati -strumentini per primi- e splendente negli archi. Chung l’ha diretta con mano sicura, da interprete altamente espressivo e sensibile, in forza anche della sua ventennale pratica dei nostri palcoscenici. Un direttore “collaudato”, molto applaudito al termine, che oggi si può considerare a tutti gli effetti un testimone privilegiato della vita musicale italiana degli ultimi decenni. Per questo forse la Filarmonica della Scala e il Teatro La Fenice di Venezia continuano ad annoverarlo fra i principali attori della loro vita artistica.
Le esecuzioni delle sinfonie beethoveniane -almeno negli ultimi vent’anni e su per giù nelle linee generali- sono riconducibili all’impostazione espressa agli inizi di questo secolo dall’indimenticabile bacchetta di Claudio Abbado, tesa a conciliare la consapevolezza di un approccio filologico con le risorse delle orchestre moderne. Di qui un Beethoven agile e trasparente, contrassegnato da tempi abbastanza spediti, spesso in ossequio ai metronomi originali e da affilati contrasti dinamici.
Nell’esecuzione di Chung l’insieme dei tempi si orienta invece in una comoda scorrevolezza, accompagnata da una discreta energia ritmica, che nell’insieme conferisce a questo Beethoven un’immagine meno impaziente, atletica e muscolare di quanto siamo oggi abituati ad ascoltare. Le doti di rigore e saggezza del direttore non mancano di farsi apprezzare nella sovrana eleganza del modo di porgere e nella notevole qualità del suono, secondo l’immagine di una classicità quasi sottratta ad una specifica connotazione temporale.
Un Beethoven olimpico e sereno, senza tensioni ed eccessive ruvidezze, quanto estraneo a forzature soggettive e virtuosistiche che permette alla gloriosa orchestra scaligera di suonare con tutta la disinvoltura possibile. La ricerca costante di equilibrio e di compostezza spinge Chung a non allentare eccessivamente il tempo dei primi due movimenti della Pastorale, come a non trasformare il Temporale in un cataclisma tellurico nella dolorosa tonalità di fa minore, privilegiando ancora una volta la fluidità del discorso più dell’accentuazione dei contrasti.
Pur lontana dalla frenesia aerea e dall’eccitazione di altre celebri esecuzioni, andate pure incise, la Settima Sinfonia mostra poi una freschezza ed una vitalità che certo non la fanno sembrare diretta da un asiatico e la sua saggia amministrazione di tempi e dinamiche permette di coniugare lo spirito della danza con l’esaltazione dei valori del canto. Un nuovo, chiaro successo per questo XXVII Settembre dell’Accademia, coronato poi col bis del Galop finale dall’Ouverture di Guglielmo Tell di Gioachino Rossini salutato con la grande ovazione di un Filarmonico nuovamente esaurito.

4° CONCERTO SETTEMBRE DELL’ACCADEMIA [Gianni Villani] Verona, 22 settembre 2018. Ecco un’altra spettacolare serata per questo Settembre dell’Accademia: quella di ieri sera al Filarmonico con la Phihlarmonia Orchestra di Londra guidata dal finlandese Esa-Pekka Salonen.
Un felice ritorno, a distanza di un anno, di un incomparabile complesso e di un musicista geniale che ne rispecchia gli orientamenti di repertorio e le scelte interpretative. Le tappe significative della carriera di Salonen sono note: allievo dell’Accademia Sibelius di Helsinki, di Panula (direzione) e di Rautavara (composizione), perfezionatosi a Darmstadt e in Italia con Castiglioni e col veronese Donatoni, diventa per caso direttore nel 1983 sostituendo un collega ammalato. Da lì una carriera in continua ascesa: undici anni con l’Orchestra della Radio svedese e poi dal 1985 alla Philharmonia, con una parentesi di diciassette anni anche alla Los Angeles.
Le scelte dei capisaldi del Novecentesco sono una chiara dimostrazione della sua predilezione, quasi esclusiva per la musica moderna, che si riflettono anche nella serata al Filarmonico con la Verklaerte Nacht OP. 4 di Arnold Schoenberg e la Sinfonia n. 7 in Mi Bem. Magg. di Anton Bruckner. La lettura della prima è di una bellezza voluttuosa, contraddistinta da una flessibilità di fraseggio ed una tensione espressiva, sensazionali. Ne esaspera lo spasimo espressivo e la tensione armonica generata dal raggiungimento dei confini estremi connessi con le leggi tonali, con piani sonori levigatissimi, dove la Phliharmonia Orchestra mostra eleganza estrema, morbidezza fra gli archi, sinuosità negli spunti melodici, naturalezza nel flusso musicale.
Fin qui il repertorio novecentesco di Salonen, pur con alcune significative eccezioni, sembra grosso modo coincidere con quello di Boulez e Abbado. Il direttore finlandese appartiene però ad una generazione disposta senza preclusioni moralistiche a saggiare la molteplicità dei linguaggi moderni e affrancata ormai dalle rigide chiusure di un tempo nei confronti di un altro Novecento o addirittura di altri generi. Nella sua direzione vi si può riconoscere il gelo finlandese e il dinamismo americano, all’interno di un linguaggio solo apparentemente onnivoro e disorientante. In realtà è guidata da una lucida e appassionata coerenza che lo ha accompagnato fin dai primi passi e reso uno dei maggiori direttori del nostro tempo.
In Bruckner ci consegna poi una sinfonia di magnifica saldezza formale e travolgente tenuta drammatica, paradigmatica nei suoi equilibri di concertazione con un rapporto di grande equilibrio tra archi, ottoni e legni. Una lettura che forse non si iscrive nella tradizione dei grandi interpreti di un tempo, ma dove l’eloquenza del fraseggio è però maestosa come l’ampiezza del canto. La profonda comprensione del mondo poetico di Bruckner -sicuramente uno fra i suoi tanti vanti- si rivela nella sensibile flessibilità agogica all’interno dei movimenti e nella capacità di trascorrere con naturalezza da una sezione all’altra, conciliando la varietà del discorso con la continuità dell’arco narrativo. Indicativa sotto questo aspetto è soprattutto la restituzione coesa del complesso Finale dove non ricorre alle impazienti accelerazioni con cui interpreti meno esperti si sforzano di sopperire a certe apparenti cadute di tensione. Successo straordinario della serata… ma c’era da aspettarselo.

4° CONCERTO SETTEMBRE DELL’ACCADEMIA [Mirko Gragnato] Verona, 22 settembre 2018. La Philarmonia Orchestra diretta da Esa-Pekka Salonen ritorna al Settembre dell’Accademia, un programma fitto e raro da sentire nei cartelloni veronesi: la Sinfonia n. 7 in Mi Bem. Magg. di Anton Bruckner e Verklarte Nacht Op. 4 di Arnold Schoenberg.
E’ la notte trasfigurata ad aprire il concerto, quasi una dichiarazione d’intenti; perché un concerto della Philarmonia Orchestra ci imprime un qualcosa di speciale, già l’anno scorso con la sinfonia eroica di Beethoven e la sesta sinfonia di Sibelius ci aveva toccato, creando un legame del pubblico con questa orchestra e facendo si che vi fosse un’aspettativa di qualcosa di speciale anche con questo concerto di ritorno.
Un’attesa che si è colta nel silenzio della sala, il pubblico raramente è ben disposto all’ascolto, il settembre è anche un evento mondano ed è raro sentire un silenzio quasi reverenziale in altri concerti, come invece capita con la Philarmonia Orchestra.
Nella Verklarte Nacht il pubblico si è fatto guidare da Salonen in questo percorso che si snoda in armonie dai sentieri tortuosi e alle volte un po’ foschi, da un inizio molto semplice e lineare che a poco a poco, da un semplice semi tono, riesce a creare quell’intensità data dall’instabilità di accordi sospesi, dove l’ascoltatore si perde senza trovare un flusso unico, come in preda ai flutti di molte correnti.
Un brano che approfondisce l’oscurità dei suoni gravi e cupi dei violoncelli uniti al colore caldo delle viole.
La guida di Salonen ci ha trasportato in questo insieme di flutti dai colori alternanti, nell’intreccio che dal suono grave porta alla brillante voce dei violini quasi guizzanti.
Un ciclone che poi si trasforma in sciabordio e che poi si assottiglia tra i bicordi leggeri in pianissimo che ci lasciano sospesi in una corona.
Un colore e un senso di qualcosa di impalpabile che ci porta direttamente all’inizio della settima sinfonia di Bruckner, altro pezzo di un programma speciale, grande pagina della letteratura sinfonica.
Un senso della melodia infinita che ci porta quasi nei mondi fantastici creati da Wagner, questa insostenibilità, mancanza di una gravitas nel pieno di un continuum che nella bacchetta di Esa-Pekka Salonen trova un flusso elegante e d’intensità nel gesto.
Il suono della Philarmonia Orchestra, pieno, nel forte legame delle varie sezioni, che però non risultano prevaricanti o troppo azzardate; la guida di Salonen ci permette infatti di apprezzare le singole voci degli strumenti anche nei passaggi più fitti. Un lavoro di equilibri fatto con cura anche se, forse, una sezione d’archi più corposa avrebbe dato la meglio alla sezione degli ottoni, la quale, alle volte, risulta un po’ invadente.
Dopo l’Adagio, quasi un commiato all’amato Wagner, compositore amatissimo da Bruckner che muore proprio nell’anno della stesura.
Dopo questo movimento pregno la sinfonia si lancia con lo scherzo e finale ; un ritmo incalzante e dal sapore un po’ rustico abbandona i grumi emotivi dell’intenso adagio e ci porta ad conclusione ritmata e incalzante, più rapidamente di quel che si potrebbe pensare.
Un’orchestra visibilmente stremata da un programma tutt’altro che leggero, nonostante i molti e sonori applausi infatti il maestro Salonen e l’orchestra hanno ringraziato per la devozione con profondissimi inchini ma alleggeriti di molte energie salutano il pubblico del filarmonico e di questo settembre dopo un concerto formidabile.

5° CONCERTO SETTEMBRE DELL’ACCADEMIA [Gianni Villani] Verona, 30 settembre 2018. Dopo tanti complessi dotati di poderosi organici, ecco il ritorno di un complesso di minore consistenza strumentale, ma tuttavia di fama internazionale e molto gradito al pubblico del Filarmonico: la Mahler Chamber Orchestra, che l’altra sera si è nuovamente proposta al Settembre dell’Accademia. 
Nel suo programma, guidato dal violino concertatore Matthew Truscott, sono emersi in particolare, per ovvi motivi di difficoltà esecutiva: la Sinfonia Concertante per violino e viola in Mi Bem. Magg. K 362 di Wolfgang Amadeus Mozart e la Sinfonia da camera in do min. Op. 110a di Dmitrij Shostakovic. Due “scogli” che hanno permesso di verificare, nel primo caso, le qualità solistiche della violinista Alexandra Conunova e della violista Béatrice Muthelet. E nel secondo caso di valutare la prestazione della giovane orchestra col suo complesso di pregevoli archi.
La Conunova -si era già presentata qualche anno fa in Sala Maffeiana accompagnata da I Virtuosi Italiani- disegna un Mozart capace di sorprendere per la ricchezza delle sfumature, l’impiego del chiaroscuro raffinato, incisivo, privo di forzature e realmente drammatico. Un Mozart vitale, colto in pieno e continuo movimento, capace di unire con coerenza e naturalezza, tratti di una spontaneità giovanile -palpitante è la freschezza delle articolazioni- ad una vena di matura, lucida profondità. Béatrice Muthelet è in grado poi di convivere in piena pariteticità con la collega e le risponde da par suo, assecondandone tutti gli intenti, costantemente stimolata com’è dall’ininterrotto scambio di idee che le suggerisce la partitura.
Si passa poi con la ripresa della serata, alla Sinfonia da camera di Schostakovic, nella nota trascrizione di Barshai dall’8° Quartetto. Una pagina molto amara, espressionistica, carica di angoscia, articolata in cinque movimenti senza soluzione di continuità, col suo culmine drammatico nel lacerante Allegro molto del secondo tempo. L’esecuzione della Mahler sembra non temere confronti sotto il profilo della qualità tecnica e mostra di tenere testa ai migliori complessi orchestrali sotto quello interpretativo. E’ molto credibile, infatti, nel restituirci la timbrica caratteristica del sinfonismo di Shostakovic, cogliendone l’intonazione cupa e tormentata, gli effetti di penombra in una dimensione asciutta ed oggettiva, ma provvista egualmente di uno sbalzo drammatico vigoroso col suo snodarsi in una consequenzialità narrativa ed in una convinzione, avvincenti.
Nella serata era prevista, oltre all’inziale Adagio e Fuga in do min. K 546 di Mozart, pure la Cantata per basso, oboe, archi e continuo in do min. BWV 82 di Johann Sebastian Bach, dove molto stretto -anzi osmotico- appare il rapporto tra la voce e gli strumenti, anche in quelli evidenziati da solisti, come l’oboe dal malinconico impasto che fa da controcanto alla voce. Qui il basso Peter Harvey (un vero specialista nel campo) si dimostra voce vibrante persino nei recitativi, ottimamente dotato nei passi virtuosistici, attento al colore ed all’emissione. Un bel battesimo veronese per il prestante cantante, molto applaudito con i colleghi, che si impongono doverosamente all’attenzione ed all’ascolto.

6° CONCERTO SETTEMBRE DELL’ACCADEMIA [Mirko Gragnato] Verona, 6 ottobre 2018. Al settembre dell’Accademia il recital al Teatro Filarmonico di Rafal Blechacz, musicista assurto al pantheon dei pianisti dopo la vittoria del premio Chopin di Varsavia ci trasporta in un viaggio musicale da Mozart a per l’appunto Chopin. 
Un programma che sembra un viaggio nella storia della musica: da Mozart, a Beethoven, a Schumann sino al famigerato Chopin. Una tavolozza di stili, la mano di Rafal Blechacz si affonda nella tastiera in vari stili dove il tocco delle dita mostra i molti approcci nel dialogare con la letteratura pianistica.
Un contratto in esclusiva con Deutsche Grammophon e una fama internazionale, nata proprio a Varsavia, a soli 20 anni ha imposto ancora giovane il pianista nel panorama del pianismo mondiale ricevendo inviti dalle più prestigiose orchestre e festival, prima volta a Verona e grazie all’Accademia Filarmonica.
Nella sonata k 310 di Wolfgang Amadeus Mozart, il tocco e delicato, in un gradevole pianissimo, si tendono le orecchie e purtroppo l’autunno inoltrato con i colpi di tosse non ha favorito una lettura di un Mozart più intimistico a cui fa da preludio il rondò k511, calato veramente con una leggerezza di rara bellezza nel tocco.
In Beethoven i colori iniziano a farsi sentire ma è soprattutto nel Langsam und sehnsuchtsvoll ( adagio ma non troppo, con affetto) si inizia a pregustare un romanticismo ancora acerbo forse ma al quale Belchacz da quel languore che ci prepara al finale come dice Steven Osborne descrivendola “la calma del cielo in una notte placida prima che dei fuochi d’artificio inizino a guizzare per rivaleggiare con le stelle”.
In Schumann finalmente Blechacz non contiene più il romanticismo che ora scivola fuori dalle dita nella sonata n 2 op.22 dove il tema di apertura è affidato al basso dopo un accordo sforzato di apertura. Uno Schumann dal sapore più intimo che esplicito ma dove le dita si muovono sulla tastiera con un certo spessore. In fine dopo questo viaggio si giunge alle mazurche di Chopin dell’opera 24, estrose e ballabili, un colpo gioioso prima del patetismo della polacca op.53 detta “eroica”. Di sicuro una delle produzioni più note della letteratura pianistica. Uno Chopin magistrale, coinvolto, i colpi di tosse infatti si zittiscono perché ora la delicatezza lascia spazio ad una lettura ampiamente emotiva, coinvolta, le mani saltano e compiono ampi volteggi sulla tastiera. E’ un po’ come con i nuotatori, la tecnica impone di conoscere tutti gli stili per approcciarsi all’acqua, qui Blechacz dopo aver mostrato una maestria dei vari stili ci sorprende andando oltre le aspettative di un recital pianistico di cui il resto del programma diviene un preludio, un’introduzione all’esecuzione chopiniana di chi ha vinto il Varsavia e dopo 13 anni non ha perso certo il tocco anzi.
Fragorosi applausi tributano a Blechacz un meritato successo che dopo le numerose entrate ci concede un fuori programma che in effetti mancava nel viaggio di questa timeline musicale: è il dolce intermezzo op.118 n. 2 di Johann Brahms il commiato da questo recital pianistico davvero speciale

6° CONCERTO SETTEMBRE DELL’ACCADEMIA [Gianni Villani] Verona, 6 ottobre 2018. C’era l’applauditissimo pianista polacco Rafal Blechacz l’altra sera al Filarmonico -un Premio Chopin molto celebrato per la sua clamorosa vittoria del 2005- chiamato a sostenere l’unico concerto solistico di questo 27° Settembre dell’Accademia. Un evento molto atteso dal pubblico, vista la fama che circonda l’esecutore e l’intenso programma da lui proposto, che dopo l’iniziale Rondò K 511 e l’Ottava Sonata “Parigina” di Wolfgang Amadeus Mozart, ambedue in la minore, proseguiva con le Sonate n. 28 di Ludwig van Beethoven e n. 2 di Robert Schumann per finire col ricco programma chopiniano delle Quattro Mazurke op. 24 e della travolgente Polacca Eroica op. 53.
Blechacz se l’è cavata sostanzialmente bene, in tutti gli autori, a partire dall’op. 101 di Beethoven, composizione con cui il compositore sembra voltare definitivamente le spalle al passato. E con la successiva op. 22 di Schumann: una pagina che intende quasi gareggiare con sé stessa e con tutte le sue peculiarità, dove il ritmo -soprattutto- diviene il codice portante dell’intera struttura, con tempi scatenati, ansie continue di accelerazione, figurazioni rapide e accentuate, come nel luminoso Rondò finale su rutilanti ottave spezzate che portano ad una esuberante conclusione.
Prove superate con brillantezza perché Blechacz si conferma un interprete raffinato e misurato. Il suo Beethoven, per esempio, contraddistinto da un nobile classicismo e da una cantabilità serena, è immerso in una quieta malinconia, senza cedimenti e macerazioni interiori di sapore decadente. Un’interpretazione di grande scioltezza, con una libertà di rubato ed un’eloquenza discorsiva peculiari, senza pretese metafisiche con cui riesce a far parlare il suo strumento, come fosse in una immediata confessione “da cuore a cuore”, di freschezza narrativa molto rara ai giorni nostri.
A volte tende a sottolineare in maniera un po’ostentata i passaggi più espressivi, ma lo fa sempre con una qualità del suono ed una persuasività di fraseggio, davvero speciali. Il suo pregio maggiore è di non annoiare l’ascoltatore e metterlo di fronte a paesaggi sonori continuamente imprevedibili e cangianti, grazie ad una particolare sapienza nella gestione delle dinamiche e dei timbri, nonché ad un uso intelligente e parco del pedale, non offuscando mai la variegata vividezza delle articolazioni suggerite dal compositore.
Una sua grande qualità sta infine nel saper creare numerosi piani sonori -specie quando è alle prese con Chopin- istituendo un’attenta gerarchia delle voci, senza togliere però spontaneità al discorso, dove eccellono nella parte conclusiva del suo concerto, la grande Polacca op. 53 Eroica con le quattro Mazurke dell’op. 24. Un’Eroica piena di slancio, talora di febbrile concitazione, dove il dominio è assoluto con un lasciarsi andare alla passione che nei pianisti di oggi si ascolta raramente. Successo straordinario per lui.

SERATE MUSICALI DI MILANO [Emiliano Mazza] Milano, 26 ottobre 2018. Repertorio decisamente inusuale quello intavolato l’altra sera dalle Serate Musicali di Milano in collaborazione con AB Harmoniae Onlus presso la Sala Verdi del conservatorio: a due “saggi” di concorso dei giovani Gabriel Fauré e Claude Debussy si accompagnava l’atto unico L’incantesimo del veronese Italo Montemezzi.
Del Cantique de Jean Racine, composto da un Fauré ventenne, veniva presentata in apertura una versione orchestrata: pezzo in parte ancora acerbo ma già profondamente francese nel gusto. A sostenere la parte vocale con discreti risultati vi era il coro Camerata di Cremona ben accompagnato dall’Orchestra Filarmonica Italiana diretta da Marco Fracassi
Queste stesse formazioni si sono poi dedicate ai due pezzi più corposi della serata. De L’enfant prodigue di Debussy (versi di Edouard Guinand) sono più note le vicende che la musica. Si tratta infatti del brano che nel 1884 consentì al giovane ventiduenne la vittoria all’ambito Prix de Rome. Originariamente per voci e pianoforte, l’autore ne realizzò una versione orchestrale tra il 1907 e il 1908, dotandola del consueto ricercatissimo colore strumentale. L’ascolto attento mostra tuttavia i limiti di una partitura che, a prescindere dalla presentazione in forma di concerto o scenica, difetta di un testo con scarso senso teatrale. Il susseguirsi degli episodi cantati, inizialmente solo monologhi, risolve in una rivisitazione alquanto statica della vicenda del figliol prodigo. Non molto invero faceva il direttore Fracassi per condurre con fantasia e senso narrativo la partitura: se le sonorità e gli impasti sonori risultavano correttamente realizzati, meno è pervenuto delle numerose indicazione agogiche e dinamiche di cui il testo musicale è disseminato. Venendo ai solisti, di Denia Mazzola Gavazzeni nei panni della madre Lia si può ancora apprezzare una notevole solidità vocale nei registri centrale e grave nonché una certa pertinenza di stile. Il baritono Armando Likaj conferiva al personaggio del padre Siméon una certa maestosità con un canto però piuttosto parco nelle dinamiche. Completava il trio il tenore Giuseppe Veneziano come figlio Azaël: pur in presenza di doti vocali non straordinarie per ampiezza di volume, egli si è sforzato di fraseggiare con buoni risultati una parte essenzialmente di registro centrale.
Seconda parte del programma dedicata al compositore di Vigasio Italo Montemezzi di cui veniva rappresentato, come già anticipato, l’opera in un atto L’incantesimo, una storia di magia e amore ambientata in un immaginifico medioevo italiano. È curioso osservare come questo compositore classe 1875 abbia avuto sia in patria che all’estero una fortuna critica discontinua. Così l’opera più nota L’amore dei tre re (1913), a dispetto di una prima esecuzione al Teatro alla Scala, trovò un più affezionato palcoscenico per alcuni decenni al Metropolitan di New York per poi allontanarsi di nuovo dal grande pubblico. La nave (1918), dalla tragedia di D’Annunzio, fu accolta tiepidamente sia in Italia che oltreoceano; La notte di Zoraima (1931), presentata direttamente nella Grande Mela, fu stroncata nonostante Rosa Ponselle (The opera is poor as a libretto and as a composition scrisse Olin Downes sul New York Times). L’incantesimo invece, iniziata nel 1933 in Italia e completata in una decina di anni, venne eseguita e trasmessa via radio dalla NBC Orchestra nel 1943, rappresentando per il veronese un secondo nuovo successo. La musica di Montemezzi del 1943 non si presenta molto distante dai risultati raggiunti con i primi successi e coniuga, per semplificare, un’armonia e una strumentazione di derivazione straussiana con apporti più o meno evidenti da Debussy. Il tutto calato nel contesto del melodramma italiano di inizio secolo che, se dal verismo traeva alcune tipicità vocali, dall’altro se ne era discostato profondamente nei soggetti. L’ascolto dal vivo conferma nella musica e nel bel libretto di Sem Benelli un senso di scorrevolezza non comune e una riuscita evocazione di atmosfere fantastiche. Più a loro agio sono parsi anche gli interpreti. Fracassi ha guidato con maggiore varietà le compagini orchestrali e corali; non sempre attento però a bilanciare i volumi sonori quando cantavano i solisti. Per questi ultimi valgono sostanzialmente le considerazioni già espresse su pregi e difetti. Corretti nelle proprie onerose parti Veneziano (Rinaldo) e Likaj (Folco), si segnala un palpabile lavoro di scavo sul testo da parte della Mazzola Gavazzeni (Giselda). Discreto infine Fulvio Ottelli come Salomone. 
Il concerto si colloca in una più ampia tendenza degli ultimi anni di riscoperta del repertorio italiano novecentesco. Se infatti si può dire che per le tendenze italiane novecentesche delle arti figurative non ci sia mai stato un reale calo di attenzione da parte della critica, altrettanto non vale per la musica scritta da fine Ottocento al secondo dopoguerra. Sarebbe troppo lungo parlare delle motivazioni di una vera e propria damnatio memoriae subita dopo il ’68 dai compositori della Giovine Scuola e della Generazione dell’Ottanta. Rei talvolta semplicemente di non aver avuto atteggiamenti apertamente critici verso il regime fascista, gli operisti del gruppo sono stati accusati in particolare di arretratezza e provincialismo musicale. Tale accusa non è del tutto fuori luogo se si ricercano in Montemezzi, in Zandonai o nell’ultimo Mascagni le innovazioni della Seconda Scuola di Vienna o qualsiasi influenza stravinskiana. Il canale che permette di coglierne il valore è semplicemente quello di calarle in un tentativo profondamente italiano di rinnovo del melodramma ottocentesco. Si tratta di opere con una componente vocale preponderante e che oggettivamente poco guardano alla cultura europea ma sono attentissime a quella del belpaese. Falso è dunque il luogo comune che le vede come una stanca ripetizione di modelli veristi perché un’evoluzione nei soggetti e nello stile musicale e dei libretti è assolutamente presente. Non colpisce allora che tra i librettisti del periodo figurino sì Sem Benelli e Giovacchino Forzano ma anche un certo Gabriele D’Annunzio. Chi sta scrivendo ha un certo interesse per questo repertorio dimenticato ma è anche ben conscio delle difficoltà di riproposizione oggi, non tanto legate a questioni ideologiche ormai superate, quanto ad alcune caratteristiche che lo rendono inattuale. Le opere del primo Novecento italiano portano con sé non solo il fascino polveroso del passato ma anche retorica nella parola e nella musica. Non sono poi di immediata fruizione: necessitano piuttosto di un ascolto consapevole e di adeguata preparazione a monte. Questo tipo di comprensione appare poco calzante ai ritmi istantanei di oggi che si riflettono anche nell’attitudine del pubblico all’ascolto e ne influenzano il gusto per l’approfondimento. Resta poi il fatto che i repertori dei teatri vivono in un certo senso la globalizzazione nell’allinearsi alle tendenze internazionali: quale può essere la capacità dei non italofoni di immergersi in una cultura profondamente latina e influenzata dal mondo classico? In ultimo la scrittura vocale, sovente di grande respiro e gravosa, non perdona chi vi si approccia con una tecnica imperfetta. Si vedrà dunque nei prossimi anni se proposte come quella oggetto di recensione o come quelle della Scala (La Cena delle Beffe di Giordano nel 2015 e Francesca da Rimini di Zandonai nel 2018) riusciranno a ridare uno spazio ad autori oggettivamente trascurati. Una riproposizione dei più importanti lavori del periodo è comunque meritoria e doverosa, anche per non dover valutare un filone musicale solo da vecchie registrazioni e dagli spartiti, oltretutto di non facile reperimento.

2° CONCERTO VERONALIRICA 2018/2019 [Lukas Franceschini] Verona, 16 novembre 2018. Il secondo concerto dell’Associazione ha avuto la partecipazione del grande basso Giacomo Prestia che capeggiava un quintetto composto da Simone PiazzolaValentina BoiAnnunziata Vestri e Diego Cavazzin, al pianoforte l’insostituibile M.o Patrizia Quarta. 
In questa stagione il programma artistico è stato volutamente variato con l’esecuzione di arie e scene non consuete, e questo è fattore di plauso oltre che di crescita.
In tale prospettiva sono stati rilevanti i due interventi congiunti di Piazzola e Prestia, i quali si sono esibiti nella scena fulcro del Prologo di Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi aria di Fiesco e successivo duetto Simone-Fiesco, nel quale è emerso uno stile appropriato e un fraseggio stilizzato da parte di entrambi i cantanti.
Valenti Boi e Diego Cavazzin erano validi interpreti del sognante duetto “Già nella notte densa” finale atto I do Otello di Verdi. Altro momento di grande musica il duetto Manrico-Azucena da Il Trovatore “Condotta ell’era in ceppi… Mal reggendo all’aspro assalto” nel quale Annunziata Vestri e Cavazzin hanno dimostrato uno stile rifinito e peculiare veemenza soprattutto il mezzosoprano.
Il quale assieme alla Boi, non hanno mancato accenti struggenti e passionali nel duetto Adia-Amneris “Fu la sorte “ da Aida.
Nelle parti solistiche la Boi ha interpretato una struggente Amelia nell’aria “Morrò ma prima in grazia” da Un ballo in maschera, e la Vestri una ricercata dolcezza in “Voce di donna” da La Gioconda di Amilcare Ponchielli.
Simone Piazzola ha confermato una particolare predisposizione per i ruoli verdiani, infatti, l’esecuzione dell’aria di “O de’ verd’anni miei” da Ernani ha dimostrato la nobiltà del cantante, mentre in “Dagli immortali vertici” da Attila ha messo in luce un impetuoso stile, soprattutto nella cabaletta.
Altrettanto felici i due interventi solisti di Diego Cavazzin, in “ O tu che in seno agli angeli” da La forza del destino, è emerso uno stile e una valida linea di canto, infamando la platea per slancio e spavalderia in “Nessun dorma” da Turandot di Giacomo Puccini.
Ha chiuso il concerto il toccante duetto Filippo II-Rodrigo di Posa “Restate! Presso la mia persona” da Don Carlo di Verdi, nel quale Prestia era un imponente e regale re con voce luminosa e pastosa, mentre il giovane Piazzola era un sognante e rifinito nobile artista.
Successo trionfale, con numerose chiamate e applausi convinti per il quintetto di cantanti assieme alla bravissima accompagnatrice.

Arte sella [Mirko Gragnato] Malga Costa, 29 dicembre 2018. Fucina Bianca, a due mesi dalla tromba d’aria che ha devastato il Nord‐Est e la Val di Sella, Arte Sella celebra la forza della natura e la necessità della ricostruzione con un concerto straordinario, in cui la musica del nostro tempo si coniuga con la tradizione dei canti di montagna.Il Coro Valsella dialoga con le reinterpretazioni di Gabriele Mirabassi e la voce di Cristina Renzetti, accompagnata dalla chitarra di Roberto Taufic e dal violoncello Maggini di Mario Brunello.
Lo scorso 29 ottobre un uragano di inaudita violenza si è abbattuto su tutto il Nord-est, sradicando e spezzando alberi, e lasciando dietro di sé panorami di distruzione che ricordano le devastazioni dei conflitti bellici. Anche Arte Sella è stata colpita dalla violenza di questo evento di portata eccezionale: il Percorso ArteNatura è stato completamente distrutto, così come il giardino di Villa Strobele con i suoi alberi secolari. Moltissime opere sono andate perdute. Come molte altre zone colpite dal maltempo, anche l’Area di Malga Costa ha subìto a sua volta la perdita di alcune opere tra le più suggestive. Il lavoro di ricostruzione, per mettere in sicurezza le opere e recuperare quanto possibile, è iniziato subito, con grande fervore e partecipazione. Grazie all’interesse di molti privati e di molte aziende è stato aperto un conto corrente dedicato alla raccolta fondi, e il pubblico, in alcune occasioni, ha già potuto partecipare in forma attiva, dando il proprio contributo. Sebbene la strada per arrivare alla riapertura totale sia ancora lunga, lo scorso 2 dicembre l’Area di Malga Costa è stata riaperta al pubblico.
La Fucina Bianca di Arte Sella si riveste così – quest’anno – di un significato nuovo:l’appuntamento annuale e intimo con la fine dell’anno solare si fa celebrazione del riposo che segue la furia del vento, riflessione sulla potenza che la Natura, fonte di creazione, sa scatenare all’improvviso, quasi a voler ricordare di poter essere anche fonte di distruzione.
Gabriele Mirabassi non si definisce “alpestre”, alpino è una parola troppo ricca di significati per poter essere usata nell’autodefinirsi; sebbene dalla sua Umbria, cuore d’Italia, lo spirito montanaro non manchi certo.
Lui abile musicista al clarinetto, uno degli strumenti che per timbro ed estensione si avvicina alla voce umana, si fa ispirare dai canti tradizionali cantati dal coro Valsella, con quello spirito di folklore e tradizione tipica della comunità di montagna. I canti tradizionali scivolano su nuove armonie, su quella dimensione verticale come il paesaggio delle montagne, che sposta e rimaneggia accordi, rendendoli più solidi, sguscianti; dalle sonorità ingannevoli e instabili sino alla stasi, “la quiete dopo la tempesta”.
I canti di montagna dal dialetto trentino e veneto si intrecciano con i canti abruzzesi o in dialetto sardo, ecco che tra i monti arriva anche il suono del mare, che sospira nel clarinetto di Mirabassi e i glissati della chitarra di tafucic.
Cento anni dalla grande guerra; cento anni da quella pace tanto agognata e desiderata che aveva lasciato paesaggi e paesi disfatti, lo scenario dei boschi della val sella è quello di un post conflitto bellico. Non sono le bombe la causa, ma la violenta forza di una natura evocatrice d’arte ma anche latrice di distruzione.
In questa atmosfera drammatica i canti degli alpini assumono un valore più che evocativo, nel quale si calano le parole di “Gorizia tu sia maledetta” un canto che nel 1964 fece scalpore tanto da valere agli esecutori una querela per vilipendio delle forze armate. Ecco che a questa rabbia di chi è vittima innocente si affiancano le parole di chi abbandona una terra infranta alla ricerca di fortuna come “Merica, Merica”. Quell’immigrazione che in un’Italia di dialetti divisi unisce al di là del mare in un mondo dove la merica non è una ma ben due, “cosa saralo sta merica? Un mazzolin di fior”.
A chi parte si unisce chi invece “torna, torna par sempre” della Bénia Calastoria, e le parole “Vardè, ma vardè, ma vardè la valle, vardè le montagne dove gera le contrà” risuonano forti nel paesaggio circostante e nel dialogo tra la voce dal sapore più mediterraneo di Cristina Renzetti nell’intreccio con il coro maschile Valsella. In un mondo fatto di montagne, di rocce, e di alberi, che oggi giacciono atterrati lungo in sentieri e le strade, si innesta il violoncello Maggini di Mario Brunello. Mirabassi suona con lui una trascrizione strumentale del canto “Manacore” di Gianmaria Testa. Dal nero clarinetto brillano le chiavi d’oro dei tasti che diventano sibili, sussurri di un vento di mare che assieme agli armonici e flautati del violoncello ci danno quel brivido che anche le bellezze naturali sanno dare; un concerto che unisce professionisti di diverse provenienze: classiche, jazz, folk, agli amatori del coro di montagna. Come il momento in cui tutti, indipendente dal loro stato e dalla loro estrazione, senza differenze si uniscono per ricostruire perché tutti colpiti dalla distruzione .
Il concerto si conclude con la voce di Cristina Renzetti che intona “Somewhere over the rainbow” ricordando l’uragano e la magia che dal grigio Kansas portarono Dorothy e il suo cagnolino nel magico paese di Oz “Toto ho l’impressione che non siamo più nel Kansas”. Un viaggio che ha il colore della città di smeraldo come verdi sono le foreste delle montagne, il colore della speranza che ci porta ad aver fiducia in un mondo nuovo, come il nuovo anno: il 2019 anno anche di un importante anniversario legato a Judy Garland, la Dorothy di Oz, e arte sella ancora una volta anticipa i tempi e lo fa dalle vette delle montagne.
Malga Costa guarda avanti e punta a ricostruire quel mondo magico e fantastico, che dalla natura porta all’arte con stupore e meraviglia, come un concerto che finisce e riparte attorno a un falò in mezzo alla neve con la voce della montagna allo scoppiettare del fuoco, perché la vera magia di Arte Sella nasce dalla visione delle persone che l’hanno resa quella che è e che ci credono ogni giorno, senza lasciarsi ammutolire dalla furia di un ciclone e rispondendo con voci e musica al silenzio lasciato da una tempesta passata.
Per chi volesse sostenere arte sella è partita la campagna 
“AIUTACI A SOSTENERE LA RICOSTRUZIONE DI ARTE SELLA”
A seguito dell’evento calamitoso che ha colpito la Val di Sella distruggendo gran parte di Arte Sella, puoi aiutarci nella ricostruzione. Donando con paypal o con bonifico bancario: IBAN IT36W0810234401000041050846