2018

Interviste 2018

INTERVISTA A MARIA JOSÉ SIRI [Natalia Di Bartolo] Milano 27 aprile 2018.
Incontro la signora Maria José Siri in occasione del suo debutto al Teatro alla Scala nella Francesca da Rimini di Zandonai, in scena dal 15 aprile 2018 con sul podio il maestro Fabio Luisi.
N.D.B.: Signora Siri, è un piacere incontrarci nuovamente dopo la nostra conoscenza a Vienna nel 2015. Lei sostituì all’ultimo minuto Martina Serafin nel ruolo di Tosca per un incidente in scena alla prima e cantò tutte le altre recite. Una gran bella Tosca, la sua, spettacolo che ebbi il piacere di recensire. Cosa ricorda di quella occasione che la portò a Vienna?
M.J.S.: 
Mi è capitato un paio di volte, a Vienna, di dover fare una sostituzione; non è mai bello dover sostituire una collega, particolarmente questa volta in cui ho sostituito chi si era rotta una gamba saltando giù da Castel Sant’Angelo. Ho avuto comunque l’opportunità di fare una recita particolare perché era in diretta TV e quindi vista da milioni di persone, e di cantare con un bravissimo collega, Roberto Alagna. Per quanto riguarda Vienna, è un teatro con cui ho un ottimo rapporto e ogni volta torno più che volentieri a cantare in Austria.
N.D.B.: Io non l’avevo mai ascoltata prima dal vivo e la stimai fin da allora come una gran voce, dal timbro particolarmente scuro eppure capace di splendidi acuti e raffinatissimi filati; la paragonai in cuor mio ad una Fedora Barbieri soprano… Cosa ci dice della sua formazione artistica e tecnica?
M.J.S.: 
L’insegnante che mi ha insegnato la tecnica, che si è accorta che non fossi un lirico leggero e che quindi mi ha stravolto positivamente la vita non è stata Raina Kabaivanska, come molti pensano, ma Ileana Cotrubas; quando studiavo con lei, abitava in Francia, adesso abita a Vienna. Per sue questioni di salute e di tempo, quindi, non studio più con lei e da un paio di anni mi appoggio alla signora Kabaivanska: con lei si tratta di una continuazione della tecnica e dell’interpretazione, perché è una tecnica con cui mi trovo bene, ma la grande insegnante della mia vita, quella che ha cambiato il percorso della mia carriera, è stata Ileana Cotrubas.
Mi sento molto spesso al telefono con entrambe e vedo occasionalmente la signora Kabaivanska; non la vedo spessissimo, non sono una di quelle cantanti che incontra l’insegnante molto spesso. Rispetto moltissimo chi lo fa, e penso che un cantante debba avere un punto di appoggio per un consiglio, perché quello che viene fuori non è mai quello che sentiamo: viviamo in un mondo che non ci appartiene, non vediamo l’apparato vocale, utilizziamo sensazioni fisiche. E dobbiamo avere anche tanta immaginazione per far sì che la tecnica faccia del nostro strumento tutto quello che gli chiediamo, ma in fin dei conti credo che sia molto salutare che noi stessi siamo i nostri professori. Anche se – ripeto – abbiamo anche bisogno di qualcuno all’esterno che ci dia un segnale di come stiano andando le cose.
N.D.B.: Le piace la sua vocalità o le sarebbe piaciuto essere un soprano leggero, una coloratura o scendere ancora e toccare i gravi del mezzosoprano?
M.J.S.: 
A me piace la mia vocalità. All’inizio ero un soprano leggero, e mi piaceva esser un soprano leggero; non ho avuto problemi ad accettare il mio strumento che sta maturando, e ogni volta posso dire che lo amo di più. All’inizio non lo trattavo tanto bene, perché non avevo la consapevolezza tecnica che ho adesso. Mi sono sempre accettata; lavoro sempre partendo dal principio che io ho lo strumento che ho e non lo posso cambiare, però so benissimo che tipo di suono cerco, so benissimo che tipo di voce e che tipo di canto mi piace e a tal fine mi applico molto e soprattutto non mi piace esser simile a nessuno. Non voglio esser “snob” o “diversa”, ma partendo dalla base dell’accettazione di quello che è la mia voce, cerco di ottenere un suono più onesto possibile, più sincero; e perseguo la continua ricerca della bellezza, sempre.
N.D.B.: Chi preferisce cantare tra Puccini e Verdi?
M.J.S.: Una domanda molto difficile, scegliere tra Puccini e Verdi. Quando sto interpretando Puccini amo più Puccini, e lo stesso accade quando canto Verdi. Tutti e due questi autori hanno scritto ruoli davvero adatti alla mia voce e non credo nella classificazione di sola “voce verdiana”. Entrambi i compositori, affrontati nel loro stile, quando si ha la fortuna di avere un bravissimo direttore d’orchestra, sono due gioielli dell’opera italiana che non moriranno mai.
N.D.B.: Le sue capacità vocali sono indiscusse, ma quali sono comunque i ruoli che trova più difficili, sia per una questione di voce che d’interpretazione? Quali ruoli sente, invece, a sé più vicini o comunque più sentiti nell’interpretazione e quale personaggio su tutti sente di più e ama di più cantare?
M.J.S.: 
Anche questa domanda non è facile. Tutti i ruoli sono ardui, perché il mio non è un repertorio semplice. Quando ho studiato la mia prima Tosca pensavo che fosse il ruolo più difficile; poi per Suor Angelica ho penato l’impossibile perché non riuscivo a smettere di piangere e la mia sensibilità non mi permetteva di riuscire a finire l’aria “Senza mamma”, per non parlare del finale…Quindi ogni ruolo è molto difficile nel mio repertorio . Non so quale sia il più difficile da interpretare: sicuramente Francesca è molto complesso, bisogna studiare tanto, avere le idee molto chiare anche registicamente per disegnare un personaggio facile da capire da parte del pubblico. Nessun ruolo mi è particolarmente congeniale caratterialmente: per esempio, Tosca è troppo gelosa e io non lo sono; quanto a Norma, non arriverei mai minimamente al pensiero di uccidere i figli solo perché sono molto arrabbiata con il padre: dunque sono tutti ruoli che toccano sempre solo qualche fibra che è in me e da cui prendo spunto per sviluppare una sensibilità dentro al personaggio. In tutti i ruoli trovo qualcosa, ma non mi identifico in uno più che in un altro; diciamo che quelli che amo più cantare sono Norma e Maddalena in Andrea Chénier.
N.D.B.: Adesso sta affrontando il ruolo del titolo nella Francesca da Rimini. E’ un ruolo che richiede anche grande presenza scenica. Le piace questo personaggio che per noi italiani è stato di Dante prima che di Zandonai? Cosa ne pensa?
M.J.S.: 
Mi piace molto il personaggio di Francesca: è stata una grandissima sorpresa, mi sono innamorata di lei e penso che dovrebbe esser parte del grande repertorio. Forse non va cantata all’inizio della carriera perché bisogna avere un po’ d’esperienza per cantarla, ma sicuramente rimane uno di quei personaggi che insegnano a cantare, a stare in scena, insegnano l’economia della voce, l’energia fisica: è un ruolo meraviglioso.
N.D.B.: Come cura la sua voce? Ha dei sistemi di esercizio fisico? L’abbiamo vista sui social immergersi in una piscina d’acqua bollente nella neve…
M.J.S.: 
Riguardo alla mia voce faccio le cose più semplici del mondo: un’alimentazione corretta, cercare di riposare la voce, non parlare troppo al telefono nei giorni immediatamente precedenti alla prima, ma la vita va vissuta, senza fare follie; in particolare quella d’immergersi nell’acqua bollente perché fuori fa molto freddo è un’arte antica che mi piace.
N.D.B.: Sappiamo che ha una bella figlia adolescente: come concilia il lavoro con il suo ruolo di donna e di mamma?
M.J.S.: 
Conciliare il lavoro con la maternità qualcosa che ho dovuto imparare sin dall’inizio, da quando sono diventata mamma, quindi fa parte della mia vita. Ho iniziato la mia carriera proprio quando è nata mia figlia; con gli anni il lavoro si è raddoppiato, triplicato, moltiplicato. Non è stato facile, ma sicuramente non sono stata la prima donna che ha dovuto gestire una carriera da sola con un figlio.
N.D.B.: Lei è molto attiva sui social, ne abbiamo accennato. Trova questo mezzo di moderna comunicazione importante nella cura della sua immagine? Come gestisce il suo rapporto col pubblico e cosa pensa, in particolare, del pubblico italiano?
M.J.S.: 
Sono attiva sui social perché da buona immigrante ho lasciato nell’altro continente molti amici e parenti e a volte non è possibile parlare al telefono o su Skype e rimanere sempre in contatto; quindi trovo i social una cosa utile per stare vicino alle persone. Riguardo al pubblico sono molto grata soprattutto a quello italiano perché è il paese in cui ho scelto di vivere, il paese che mi ha accolto dodici anni fa, anche dopo alcune vicissitudini della mia vita privata. Avrei potuto scegliere qualsiasi paese della Comunità Europea, ma ho scelto l’Italia, che mi ha dato moltissimo, compresi gli applausi del pubblico.
N.D.B.: Quali sono i suoi programmi per il futuro?
M.J.S.: 
DopoFrancesca canterò Don Carlo a Bologna, poi un concerto di arie verdiane al Théâtre des Champs Élisées a Parigi. Dopo inizierò la stagione successiva con Attila al Festival Verdi al Teatro Regio di Parma; quindi riprenderò il ruolo di Elisabetta che ho sostenuto a Valencia pochi mesi fa, e poi ancora Odabella, che ho cantato alcuni anni fa e che mi ha dato molte soddisfazioni.
N.D.B.: Grazie signora Siri per la sua disponibilità e soprattutto per le emozioni che ci offre con la sua voce.

UN GIORNO DI REGNO – INTERVISTA A FRANCESCO IZZO E ANNA MARIA MEO [William Fratti] Parma, 6 settembre 2018.
Seconda opera del Cigno di Busseto e secondo titolo nel cartellone del Festival Verdi 2018, Un giorno di regno è uno dei lavori più sfortunati del compositore e uno dei meno rappresentati, ma a Parma si tratta della terza messinscena in meno di due decenni. Quali differenze si ascolteranno con l’edizione critica rispetto alle due precedenti esecuzioni?
“Innanzitutto vi sono alcuni interventi della censura milanese che l’edizione critica corregge per la prima volta – ha detto Francesco Izzo, direttore del comitato scientifico per il Festival Verdi. Un esempio notevole è nell’aria della Marchesa nel primo atto, dove le autorità nel 1840 soppressero un riferimento poco lusinghiero ai “principi” e al “soglio”. Queste sono le cose che anche l’orecchio meno avvezzo a cogliere differenze musicali può notare e apprezzare; un testo verbale accuratamente ripulito da interventi esterni risulta quasi sempre più efficace dal punto di vista drammatico. Musicalmente poi la partitura presenta migliaia di interventi che correggono distorsioni di copisti frettolosi o sbadati, i quali nell’Ottocento, spesso lavorando a ritmi vertiginosi, tralasciavano o travisavano molti dettagli della notazione verdiana. Dunque accenti venivano scambiati per segni di diminuendo; legature venivano arbitrariamente estese o troncate; segni di dinamica alterati od omessi e così via. L’edizione critica in questo senso è un po’ come il restauro di un’opera pittorica, in cui si rimuovono le tracce del tempo, dai fumi dei lumi ad olio che incupiscono i colori alle forme aggiunte per scrupolo morale o per mutate esigenze estetiche”.
Quanto Rossini c’è dentro a questo lavoro?
“Poco, tutto sommato. È inteso che l’influenza dell’opera buffa rossiniana, in via indiretta, si faccia sentire, per esempio nei duetti per i due bassi buffi. Ma i modelli cui Verdi fa riferimento sono soprattutto quelli dell’opera buffa post-rossiniana, della quale nei suoi anni di studio a Milano aveva sviluppato una conoscenza profonda. Dunque Donizetti, naturalmente, ma anche Luigi Ricci e altri compositori oggi dimenticati, le cui opere si eseguivano alla Scala e negli altri teatri milanesi”.
Per anni si è speculato in merito alle vocalità dei protagonisti: Belfiore ed Edoardo sono già baritono e tenore verdiano? Oppure sono più assimilabili a RossiniBellini e Donizetti? La Marchesa e Giulietta sono soprani o mezzosoprani? In tal senso quanto contano le variazioni per meglio adattare la parte ai cantanti?
“Ottima domanda. All’epoca i tipi vocali non erano così definiti; i compositori, Verdi compreso, lavoravano pragmaticamente con interpreti specifici, scrivendone le parti in un certo senso “su misura”. Edoardo è tenore forse più donizettiano che verdiano e Belfiore non è Macbeth, né il Don Carlo di Ernani. Ma dobbiamo rifuggire dai luoghi comuni e dalle categorizzazioni a priori. Vi sono momenti in cui la “voce” verdiana emerge con chiarezza. Per quanto riguarda le due prime donne, la parte di Giulietta è più “bassa”, ma anche più lirica; nel 1840 fu affidata a un’interprete giovane. La parte della Marchesa, come si addice al ruolo di una nobildonna, è più audace e ambiziosa e può essere affrontata da un soprano con un registro grave importante, o da un mezzosoprano con dei buoni acuti. In tutti i casi le variazioni sono non solo auspicabili, ma necessarie per far vivere questa musica e per far sì che gli interpreti possano dare il massimo impadronendosi della musica che cantano”.
Qual è il vero valore aggiunto delle edizioni critiche? Cosa comportano e come si svolge il lavoro?
“Esistono edizioni critiche che seguono un metodo più capillare, come quelle delle opere di BelliniRossini e Verdi; altre più pragmatiche, come quelle di Donizetti e Puccini, il cui apparato critico è più snello. Ma il proposito è sempre quello di rettificare errori evidenti, spesso madornali, causati da interventi esterni e non correlati alla volontà del compositore; e di rendere disponibili eventuali lezioni alternative, pezzi sostitutivi e versioni differenti. La preparazione di un’edizione critica è sempre un lavoro di squadra; ogni volume ha un suo curatore, il cui lavoro è comunque supervisionato dal direttore responsabile e da altri curatori e redattori. Nel caso di Un giorno di regno, quando cominciai a lavorare alla partitura il direttore responsabile era il compianto Philip Gossett; lo affiancava Roberta Montemorra Marvin come “associate general editor” ed entrambi controllarono la prima stesura della partitura e mi diedero una miriade di indicazioni e suggerimenti. In caso di dubbi o problemi c’è un comitato scientifico nutrito, costituito da studiosi che hanno già al loro attivo edizioni critiche di opere di uno o più compositori. Anche adesso, che dell’edizione critica delle opere di Giuseppe Verdi sono direttore responsabile, per la mia edizione di Un giorno di regno faccio comunque riferimento a Fabrizio Della Seta, che ha revisionato tutta la partitura in vista della sua pubblicazione. E c’è un redattore eccellente alla University of Chicago Press, Marta Tonegutti, che rivede tutto anche per far sì che le norme editoriali siano applicate uniformemente a tutto il progetto. Un’edizione critica è sempre un lavoro di squadra – conclude il Prof. Izzo – non esistono solipsismi e ciascun curatore è sempre non solo “controllato”, ma partecipe di quel lavoro”.
Dove si colloca, in tutto questo, la città che ha dato i natali al Cigno?
“Nella struttura del Festival Verdi che abbiamo immaginato e che è andata delineandosi in questi ultimi anni – ha detto Anna Maria Meo, Direttore Generale del Teatro Regio di Parma – se il Teatro Regio ospita gli allestimenti più legati alla tradizione e il Teatro Farnese è deputato alla sperimentazione, Busseto col suo splendido teatro è il luogo dei giovani e per i giovani. D’altra parte, proprio tra le mura di Casa Barezzi, a due passi dal teatro che ospita le produzioni del Festival, un giovanissimo Verdi muoveva i primi passi della sua gloriosa carriera. Ci è sembrato quindi naturale affidare le opere in scena nella sua città natale a giovani artisti e team creativi, offrendo loro la preziosa occasione di misurarsi con una platea esigente e preparata, proveniente da tutto il mondo.
Altrettando naturale ci è sembrato instaurare una stretta relazione con il Concorso Internazionale Voci Verdiane Città di Busseto, di cui il Teatro Regio ha assunto la direzione per il triennio 2017-2019: già dallo scorso anno, infatti, alcuni dei ruoli dell’opera bussetana sono affidati ai partecipanti al Concorso, dando così maggiore peso alla competizione che oltre ad assegnare premi in denaro offre l’opportunità concreta di salire su un palcoscenico di grande prestigio.
Quello legato ai giovani è un tema imprescindibile per un festival internazionale e per un teatro d’Opera in generale, tema su cui il Regio investe molto – anche in termini di formazione, con l’Accademia Verdiana – e che non manca di regalare grandi soddisfazioni: penso alla candidatura di Isabella Lee, vincitrice del Concorso Voci Verdiane e Violetta nella Traviata del 2017, come miglior giovane cantante agli International Opera Awards, e al grande successo dell’allestimento firmato da Andrea Bernard, il cui progetto fu selezionato tra oltre 70 all’International Opera-directing Prize, organizzato da Camerata Nuova in collaborazione con Opera Europa.
Investire sui giovani è dunque non solo un dovere – conclude il Direttore Meo – ma anche una grande opportunità e ci piace considerare Busseto un luogo privilegiato, una fucina in cui formare una nuova generazione di interpreti verdiani che da qui possa dare il via a una carriera che ci auguriamo lunga e prestigiosa”.

MACBETH 1847 – INTERVISTA A PHILIPPE AUGUIN [William Fratti] Parma, 13 settembre 2018.
Negli ultimi decenni si è potuto assistere a più di una messinscena di Macbeth 1847, in primis Firenze nel 2013, in occasione del Bicentenario Verdiano, sempre Luca Salsi protagonista. In quell’occasione è stata utilizzata la revisione sullo spartito di Lawton, ora pubblicata in edizione critica. Si tratta dello stesso lavoro oppure c’è qualche differenza?
“Per la produzione in scena al Festival Verdi abbiamo scelto l’edizione critica curata da David Lawton (The University of Chicago Press e Casa Ricordi, Milano) – ha detto il M° Philippe Auguin. In alcuni limitatissimi punti, le nostre considerazioni filologiche ci hanno portato a completare elementi che ovviamente erano omessi nelle fonti storiche: per esempio il fatto che la scena del sonnambulismo, nonostante sia esattamente identica nelle versioni 1847 e 1865, manca della parte dell’arpa – andata persa – nel materiale orchestrale della prima versione. Tutta l’orchestrazione di Verdi – e in particolare di questa scena che evoca un angoscioso incubo, affidata al corno inglese, clarinetto, fagotto e corno avvolti delle sonorità vellutate e misteriose degli archi – è l’essenza stessa della visione di Verdi, indissociabile dell’utilizzo dell’arpa, strumento che usa nel coro “Ondine e silfidi” per creare l’atmosfera fiabesca, nella stesso modo con cui Berlioz la usa nel 1846 per La Damnation de Faust. Ci sono ancora alcuni punti dell’edizione critica che, perfettamente nelle spirito deontologico dell’approccio alla partitura, lascia dei margini di libertà, come nel caso delle pagine identiche alla versione 1865 che non presentano dinamiche. C’è sempre l’eterno dibattito sulla notazione del gruppo delle percussioni per il Preludio. L’analogia può essere una cattiva consigliera. Però in questo caso è necessario mettere a confronto le diverse notazioni per le percussioni nella produzione verdiana: è difficile immaginare che Verdi, durante gli anni in cui hanno visto la luce NabuccoI LombardiErnaniI due FoscariGiovanna d’ArcoAlziraAttilaIl corsaroLa battaglia di Legnano, non abbia usato i piatti per il Preludio di Macbeth. Ancora più strano se si vede come le usa nella cabaletta di Macbeth “Vada in fiamme”. Si può immaginare con buona coscienza che nel Preludio del 1847 Verdi non abbia usato la gran cassa da sola, per cui l’uso caratteristico dei piatti è non solamente giustificato, ma giusto”.
All’ascolto, in molti ci si è resi conto che più che apportare migliorie, la versione 1865 semplicemente ne cambia la forma, meglio adattandosi alla moda del luogo e del momento. Da che parte sta la verità?
“Non ci troviamo di fronte allo stesso percorso e sviluppo che per esempio si ha avuto nel Don Carlo – prosegue il direttore – dove Verdi ha approfondito il suo lavoro, prendendo spunto dalle diverse versioni di Parigi, Napoli, Milano, Modena. Per Macbeth Verdi ha completamente modificato il suo punto di vista fra il 1847 e il 1865. La versione iniziale di Macbeth è incentrata sulla psicologia della Lady e ancora di più su quella del re. Nella versione del 1847 Macbeth muore, al centro del palcoscenico, dieci secondi prima dell’accordo finale dell’opera. L’ultima tonalità scelta da Verdi per concludere e dare la sua visione della totalità dei quattro atti è il Fa minore, quella della melodia grandiosa e straziante della mente oscurata della regina. Il Macbeth di Verdi del 1847 è veramente The Tragedy of Macbeth shakespeariano. È stupendo rendersi conto di come Verdi abbia interiorizzato la reale visione di Shakespeare, come se avesse vivisezionato, analizzato nei minimi dettagli la psicologia della coppia: lei che crede di essere forte nell’istigare all’omicidio, ma che rimane tradita dal suo crollo psicologico; lui che capisce subito che il sangue della battaglia non è lo stesso che quello dell’assassinio. Nella versione del 1865 il popolo sofferente e finalmente trionfante diventa protagonista nell’atto quarto. Dopo la sua aria “Pietà, rispetto, amore” Macbeth cessa di essere la preoccupazione primaria di Verdi. Non si tratta di un semplice “happy end”. Il nuovo re Malcolm rimane, come nel 1847, un elemento necessario per la conclusione della storia, ma per Verdi il coro, incarnazione della nazione, è il vero attore del suo destino”.
Le più grandi differenze stanno nel duetto Macbeth / Lady del primo atto; l’aria di Lady nel secondo; il ballabile e il finale nel terzo; il coro, la morte di Macbeth e il finale nel quarto; forse davvero il duetto e il coro sono delle migliorie, come pure altri interventi più modesti lungo la partitura, ma le arie e i finali d’atto sembrano proprio prendere due direzioni diverse. Quale è il suo punto di vista in tal senso? E soprattutto cosa farebbe se potesse decidere autonomamente quale musica eseguire?
È chiaro che l’aria “La luce langue” di Lady Macbeth è un gioiello che Verdi ha vestito di colori meravigliosi. Si vede con quale cura e amore Verdi abbia levigato le nuove pagine che ha incluso nella versione del 1865. Il secondo coro “Patria oppressa” rimane uno dei più belli mai scritti, ma la stessa cura e amore sono presenti anche nella versione del 1847. Verdi ha cambiato certe pagine, non per perfezionarle, non ci aveva trovato dei difetti, le cambia perché è cambiato il suo punto di vista drammatico. Le cabalette della regina e del re sono fra le più efficaci e provocatorie di tutto il repertorio operistico, ma poi Verdi non ne ha più visto la loro necessità drammatica. Nel 1847 Verdi non poteva sapere che 18 anni dopo avrebbe avuto l’opportunità di mettere di nuovo in musica le sublimi parole del Coro dei Profughi Scozzesi. Quella prima versione si rivolge alla Patria come a un madre che si vuole far tornare in vita: un monumento d’ispirazione verdiana, la grandezza del tuono di Beethoven trasfigurata dall’umanismo italiano di Verdi. Un inno, un “Va pensiero” in minore di profonda bellezza, di anima profondissima, di speranza sublime, la “Patria oppressa” del 1847”.
In termini di vocalità, eseguendo la partitura del 1847, è forse meglio volgere lo sguardo al drammatico belcantista?
La parte di Macbeth, d’un peso immenso nella prima versione, è praticamente il doppio della seconda. Nel 1847 gli interventi del re di fronte al fantasma di Banco sono veri ariosi eroici. Cosa si potrebbe poi dire della scena delle apparizioni? Le ripetute esplosioni di furia o di disperazione di Macbeth sono arie a tutti gli effetti. La cabaletta e la morte non sono concessioni allo spirito del tempo, ma sono il quadro, la forma musicale usata in quel periodo attraverso la quale si esprimevano in musica questi sentimenti e situazioni. “Al cielo, al mondo in ira, muoio… al cielo… al mondo in ira, vil corona! vil corona! e sol per te!” Non ci vedo nulla di belcantista né nel discorso né nel trattamento musicale. La Lady è più vicina ad Abigaille nel 1847 che nel 1865? Questo è ovvio. Ma questo non ne fa un ruolo belcantista”.
Lo scopo di un festival, a lungo termine, è anche quello di recuperare il più possibile ogni intervento autografo dell’autore. Pertanto potrebbe avere senso, in futuro, proporre la versione 1865 in francese?
“Lo spirito, la vocazione, la missione del Festival Verdi del Teatro Regio di Parma sono unici al mondo – conclude il M° Auguin. Nemmeno il Festival di Bayreuth mostra le prime opere di Wagner. È vero che, a decenni di distanza, Il Vascello Fantasma è stato presentato nelle due differenti versioni strumentali e Tannhäuser nelle versioni di Dresda e di Parigi. Il fatto che il Festival Verdi si sia dedicato alla totalità delle opere dal Maestro di Busseto offre a tutti l’opportunità, per la prima volta nella storia, di scoprire e venire a contatto con l’immensità del genio verdiano, in qualunque lingua questo si esprima”.