Alcina
Nel grande canto di Ludovico Ariosto fatto da “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese” nel canto sesto dell’Orlando furioso, fa la sua possente comparsa la maga Alcina, evocata con queste parole:
“E come la via nostra e il duro e fello/distin ci trasse, uscimmo una matina/sopra la bella spiaggia, ove un castello/siede sul mar, de la possente Alcina./Trovammo lei ch’uscita era di quello,/e stava sola in ripa alla marina;/e senza rete e senza amo traea/tutti li pesci al lito, che volea.”
Una donna che appare bellissima e potente grazie alla magia che ne nasconde il vero aspetto:
“Pallido, crespo e macilente avea/Alcina il viso, il crin raro e canuto:/sua statura a sei palmi non giungea:/ogni dente di bocca era caduto;” (Settimo canto).
Un personaggio che ricorda la Circe omerica, un archetipo, il cui fascino trapassa i secoli e dal Cinquecento del Tasso arriva al Settecento di Händel, grazie anche alla mediazione dell’anonimo poeta che rielabora il libretto de “L’isola di Alcina” di Riccardo Broschi. Un mito arcano e misterioso che trova un perfetto habitat nella musica barocca di Händel. Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino decide di mettere in scena questa impegnativa opera per la prima volta nella sua storia e si affida all’allestimento firmato da Damiano Michieletto e già visto a Salisburgo tre anni fa. Uno spettacolo bello, lontano da quella esplosione barocca che ci si potrebbe attendere e che cerca una dimensione più intima e delicata. Una scena semplicissima, a cura di Paolo Fantin, creata attorno ad una grande superficie rotante, uno specchio che divide il mondo delle ombre e della magia dalla realtà. Una illusione ingannevole perché, come sosteneva il Marchese de Sade “Anche l’uomo deforme trova specchi che lo rendono bello”. Una regia curata con precisione millimetrica, che non lascia nulla al caso e che regala costantemente scorci fotografici di poetico minimalismo, anche grazie alle perfette luci di Alessandro Carletti. Essenziali, come lo spettacolo, i costumi di Agostino Cavalca, abiti per lo più contemporanei. Riusciti gli inserti video di Rocafilm-Roland Horvath giocati su tinte chiare e proiettati sul grande specchio. Una grande macchina barocca, perfettamente funzionante, ma spogliata dagli orpelli per dare voce alla musica, al canto e ai suoi grandi protagonisti. Inutile negarlo, lo spettacolo è costruito sulla grande protagonista-incantatrice: Cecilia Bartoli che, dopo avere cantato alla prima, ha dovuto saltare due recite a causa di una brutta laringite. Grande quindi l’attesa e il clima di festa al teatro del Maggio, con un perenne tutto esaurito.
A Firenze l’artista era già ritornata per un concerto nel 2020, ma non cantava in un‘opera dal Barbiere alla Pergola del 1991. Nella recita del 24, da noi vista, la Bartoli dimostra di essersi pienamente ripresa e ci offre un’interpretazione ricca di sfumature vocali e di sfaccettature psicologiche. Con il suo virtuosismo ci restituisce in pienezza le atmosfere del barocco, in quest’occasione più meditativo eppur spettacolare, e dà forma ad un personaggio lacerato e contemporaneo. Adopera un fraseggio scolpito ed articolato ed ha un’emissione controllatissima e sicura. In tutta questa magnificenza interpretativa, a voler essere pignoli, visto il calibro della cantante, e per non dirne soltanto tutto il bene che merita, la portata della voce risulta talora non troppo consistente e l’estensione un pochino ridotta. La presenza scenica è però magnetica ed ogni movimento preciso e cadenzato, musicale, come se trasferisse anche al gesto le indicazioni della partitura.
Fin dalla prima aria “Di’, cor mio, quanto t’amai”, mostra l’ambivalenza di Alcina, che è sì maga potente e Circe fatale, ma anche e forse soprattutto donna fragile e innamorata, sensuale e bisognosa d’amore. La vocalità oscilla tra seduzione ed inquietudine e rende morbidamente l’incrinarsi della melodia, rimando alle pene d’amore e alla dissoluzione della bellezza.
Con la medesima attitudine interpreta “Sì, son quella, non più bella”, ma con maggiore struggimento e malinconia, passando con disinvoltura da un registro all’altro e alternando pienezza a mezze voci.
Tocca il vertice dell’espressività in “Ah, mio cor! Schernito sei!”, dove delinea una vasta gamma di affetti, dalla disperazione al desiderio di vendetta. Il canto, sempre più ampio e screziato, si fa strumento di introspezione, sorta di coltello via via più affilato che indaga i sentimenti.
Di grande effetto drammatico il recitativo senza orchestra che precede ”Ombre pallide”, monologo realizzato con un abilissimo impiego delle pause. Nell’aria poi, che è ora lenta ora scattosa, ha vocalizzi agili e definiti, con acuti proiettati con forza nella sezione intermedia.
Esegue “Ma quando tornerai” con spiccati contrasti d’intensità ed imitando il serpente con la lingua; ancora falsa e melliflua, ha accenti marcati nel Terzetto con Ruggero e Bradamante.
Infine, divenuta maschera tragica, straziante ed intrisa di dolcezza, intona “Mi restano le lagrime”. Nella ripresa il lamento procede più adagio ed il ritmo si fa sincopato, a singhiozzi, a rendere l’affievolirsi dell’anima vitale.
Come anticipato, nelle date del 20 e 22 la parte della protagonista è sostenuta dal soprano Marie Lys, cui spetta il compito, davvero ingrato, di sostituire un grande nome come quello di Cecilia Bartoli. Dopo un ingresso in scena alquanto sulla difensiva – chi non sarebbe emozionato nel dover affrontare un pubblico che non aspettava altro che la Bartoli? – la prova della Lys prende quota sino a trionfare nel complesso finale secondo e commuovere nella scena della morte dell’ultimo atto. Il soprano possiede una linea musicale limpida e ben timbrata, che sale con sicurezza in acuto e che mostra una certa duttilità nel canto d’agilità. Nelle arie patetiche sfoggia un canto sul fiato che si fa impalpabile nelle lunghe arcate melodiche, sempre ben sorrette, mentre in quelle di furore sfodera un ottimo dominio delle colorature esibite con grande forza espressiva. Sotto il profilo interpretativo convince su tutti i fronti: prima di tutto per un fraseggio partecipe e sfumato e, in secondo luogo, per la disinvoltura con cui si muove sulla scena (da notare, per altro, la figura aggraziata del soprano), risultato encomiabile se si pensa alla perfetta aderenza ad uno spettacolo tanto complesso senza aver sostenuto prova alcuna.
Magistrale la prova di Carlo Vistoli nel ruolo di Ruggiero. Il giovane controtenore possiede un mezzo che colpisce per ampiezza e ricchezza di armonici. La sua vocalità, passa con invidiabile souplesse dalle pagine più delicate, dove viene esibito un canto morbidissimo, a quelle più infuocate e di furore dove la linea melodica si destreggia con mirabile agilità nelle spire vorticose del canto acrobatico significando, per altro, un assoluto controllo del fiato. Ad un esecutore tanto encomiabile, corrisponde anche un interprete di grande statura, sempre accorato ed appassionato, struggente e coraggioso nell’affrontare il suo destino e combattere per salvare la sua amata e porre fine alla prigionia incantata di Alcina.
Kristina Hammarström, con il suo timbro screziato e corposo, incarna una Bradamante palpitante e determinata a salvare il suo Ruggiero, vittima dell’inganno seduttivo della maga Alcina. Una prova riuscitissima grazie ad un mezzo di qualità, sonoro e ben tornito, naturalmente espressivo e stilisticamente appropriato. Perfetta è, poi, l’immedesimazione nel personaggio, riuscitissimo tanto nei panni “en travesti” di Ricciardo, quanto in quelli femminili di Bradamante. Incisivo del pari il fraseggio, impreziosito da una certa intensità nell’accento.
Molto brava è, poi, Lucia Martin-Cárton che con eleganza e leggiadria veste i panni di Morgana. La voce è chiara e squillante, svettante nel registro superiore e ben educata nelle agilità. Con grande musicalità affronta la celeberrima “Tornami a vagheggiar” quanto “Credete al mio dolor” esaltata da lunghe messe di voce che conferiscono al brano una malinconica mestizia. Ottima, inoltre, la presenza scenica dell’artista, la cui femminilità viene esaltata dal suo abbigliamento quasi da segretaria.
Note positive anche per Petr Nekoranec che, oltre all’aitante fisicità che valorizza la disinvolta presenza sulla scena, brilla per una linea vocale brunita e dalla buona proiezione nel registro superiore.
Altrettanto bravo è Riccardo Novaro che, con voce di vero velluto, infonde al personaggio di Melisso la giusta ieraticità. Sempre ispirata la sua interpretazione, che si carica di solennità allorquando il personaggio assume le sembianze di Atlante per donare allo smarrito Ruggiero l’anello che lo risveglierà dall’incantesimo.
Il cast si completa con il piccolo Stephan, giovane cantore dei dei Wiltener Sangerknaben di Innsbruck (preparato da Johannes Stecher), qui chiamato ad interpretare il personaggio di Oronte. Bravissimo, considerato il cimento che lo chiama all’esecuzione di un’aria per ogni atto, l’ultima delle quali fitta di agilità, si disimpegna con onore sia sotto il lato vocale che interpretativamente dove fa leva su di una grande immedesimazione scenica.
Se la parte vocale è di assoluta eccellenza anche la direzione musicale rasenta la perfezione.
Merito del Maestro Gianluca Capuano che plasma la partitura esaltandone la magnificenza e la grande modernità. Nella lettura di Capuano ogni singolo passaggio assume un colore differente, una intensità e una dinamica che sanno rappresentare al meglio l’evolversi della vicenda della maga Alcina e dei personaggi che popolano il suo mondo incantato. Nulla è lasciato al caso, il gesto del direttore sa essere ora delicatissimo, ora dolente o, ancora, drammatico e furente rifuggendo ogni compiacimento virtuosistico fine a se stesso e risultando in perfetta simbiosi con quanto accade, di volta in volta, sul palcoscenico. Capuano dimostra così, anche in questa occasione, di essere non solo un ottimo esecutore di questo repertorio, ma di conoscerlo e amarlo profondamente, tanto è lo scavo interpretativo nella frase musicale. Ogni aria, e in questa opera ce ne sono davvero tante, (una più bella dell’altra), viene cesellata come una gemma preziosa incastonata in una atmosfera sonora sospesa nel tempo e nello spazio. L’amore del direttore per il repertorio barocco si traduce anche in un rispetto assoluto per le voci: gli accompagnamenti musicali si fondono mirabilmente con il colore e la timbrica dei singoli interpreti e creano un tappeto sonoro di grande suggestione; un plauso particolare va riconosciuto, tra l’altro, per la scelta delle variazioni nelle riprese delle arie stesse, stilisticamente pertinenti e di grande eleganza.
Sotto la guida di un così grande direttore, rifulge la prova dei complessi de Les Musiciens du Prince-Monaco, che mostrano una compattezza e politezza sonora che non capita di poter ascoltare così di frequente soprattutto se pensiamo che l’esecuzione è avvenuta con strumenti antichi.
Usciamo dalla sala ancora immersi nell’incanto di Alcina, come i suoi prigionieri ci liberiamo dal suo dolce inganno; ma, tra cascate di applausi, già abbiamo nostalgia di quell’universo sonoro che è natura ed artificio: ci manca, perché invero agli umani il mondo non basta.
Marco Faverzani | Giorgio Panigati | Andrea Poli
ALCINA
Dramma per musica in tre atti anonimo,
da L’isola di Alcina musicata da Riccardo Broschi (Roma 1728)
Musica di Georg Friedrich Händel
Alcina Marie Lys (22.10) Cecilia Bartoli (24.10)
Ruggiero Carlo Vistoli
Morgana Lucìa Martìn-Carton
Bradamante Kristina Hammarström
Oronte Petr Nekoranec
Melisso Riccardo Novaro
Oberto Solista dei Wiltener Sangerknaben / Innsbruck
preparati da Johannes Stecher
Les Musiciens du Prince – Monaco
Direttore Gianluca Capuano
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Agostino Cavalca
Luci Alessandro Carletti
Coreografia Thomas Wilhelm
Video Rocafilm/Roland Horvath
Foto: Michele Monasta-Maggio Musicale Fiorentino