Spettacoli

Salome – Teatro alla Scala, Milano

Salome, il capolavoro in un atto di Richard Strauss, secondo la visione di Damiano Michieletto, debutta finalmente alla Scala, dopo un fugace passaggio televisivo in epoca covid.

Il racconto di Salomè si perde nella leggenda, la figura storica è probabilmente esistita nel I secolo d.C. ma la testimonianza più diretta, per noi, è quella dei Vangeli (Marco (6,17-28) e Matteo (14,3-11), qui la giovane principessa seduce la corte con una danza sensualissima e ottiene, per compiacere la madre, giustamente accusata di adulterio, la testa del Battista, l’asceta, suo accusatore. 

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Vida Miknevičiūtė e Michael Volle

Questo racconto ha affascinato artisti e pittori, anche grazie al macabro elemento della testa mozzata che si traduce spesso in un banco di prova di abilità pittorica. Vi invitiamo ad ammirare, su questo soggetto, le tele di Tiziano, di Reni, di Preti e soprattutto di Gustave Moreau, come vedremo centrali in questo allestimento. Il racconto di sensualità e morte è diventato, nel 1891, una tragedia in atto unico di Oscar Wilde, pensata e scritta per la divina Sarah Bernhardt che, in realtà, però, non la interpretò mai. Pochi anni dopo, siamo nel 1905 a Dresda, Richard Strauss va in scena con la sua Salome, il cui libretto è sostanzialmente l’adattamento tedesco del libretto di Wilde. 

Fino a qui, la Salome come la conosciamo ma, alla Scala di Milano, ne è andata in scena una nuova lettura psicanalitica e simbolista nata dalla mente del regista Damiano Michieletto. Lo spettacolo si apre su un grande spazio bianco, accecante, contornato da quinte nere, e si gioca interamente su questi due colori simbolici e contrapposti, metafora di luce e tenebra. Al centro della scena (a cura di Paolo Fantin) un grosso cerchio che scopriremo poi essere la cisterna dove è rinchiuso Jochanaan (il Battista), per avere divulgato l’adulterio di Erodiade e Eroda Antipa. Uno spazio che si apre mostrando un profondo buco nero, da cui emerge poi l’eremita, insieme alla terra che progressivamente sporca il bianco della scena. Il presupposto del regista, dedotto da una frase del dramma di Wilde, è che in quella stessa cisterna in precedenza sia stato imprigionato e abbia trovato la morte il vero padre di Salome: Erode Filippo. La giovane viene così ad assumere su di sé anche gli archetipi di Elettra e Otello, perdendo quell’alone di oscura sensualità, a cui i Vangeli la condannano, per assumere invece il ruolo di vittima, degli eventi e degli uomini che l’hanno usata e stuprata. Ispiratissima la famosa danza dei sette veli dove la principessa è sostanzialmente spostata e usata come una bambola dai ballerini, come un corpo morto, in balia della volontà altrui. Tanti i momenti memorabili dell’allestimento, come quando una grande lucida luna nera discende sul palco. Segue una scena in cui la protagonista cerca di distruggere, con questo simbolo del suo male interiore, tutto ciò che la circonda. Uno spettacolo che racconta la nevrosi ed il male di una creatura che ha vissuto e sofferto ed è diventata una sorta di Angelo della morte, simile a quelli che costantemente riempiono la scena. Un allestimento visivamente riuscitissimo, elegante e viscerale al tempo stesso, una messa in scena che parla anche delle nostre nevrosi, del dolore che trasforma le persone e le rende mostri. Certo si potrebbe obbiettare che lo spettacolo viaggia verso luoghi e temi non previsti nel libretto, una sorta di sovrastruttura registica, ma l’arte è e deve essere libertà e come diceva Gustave Moreau: ”Prega il cielo di non avere successo, almeno il più a lungo possibile. Solo così potrai esprimerti completamente, e senza alcuna restrizione”. E proprio alla fine, dalla cisterna-prigione, emerge la testa del Battista circondata da raggi d’oro, elemento strappato dai quadri di Moreau e tanto caro al simbolista francese. Si chiude così questo magnifico gioco di simboli, di rimandi, di emozioni, un cerchio perfetto, come quello di fuoco che si accende attorno a Jochanaan all’inizio dello spettacolo. Tutto torna in quella cisterna, pozzo del nostro male, segno grafico che tutto assorbe, così come la protagonista che in un ultimo gesto disperato si uccide buttandosi nella oscurità. Fondamentali, per la complessa resa visiva, le meravigliose luci di Alessandro Carletti che evocano spazi ultraterreni e abissi di buio. Semplici ma molto funzionali ed azzeccati i costumi di Carla Teti. Enigmatiche ed ispirate le coreografie di Thomas Wilhelm riprese qui da Erika Rombaldon

Il versante musicale risulta in sintonia con questo progetto registico.

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Vida Miknevičiūtė

Il Maestro Axel Kober, dal podio, offre una lettura lucida e coinvolgente del capolavoro di Strauss. Sin dai primi accordi veniamo trasportati in un mondo irreale ed angosciante, a tratti onirico e spaventoso, popolato di presenze inquietanti che agiscono alla corte perversa di Erode. Sembra quasi prevalere, in questo contesto, la dimensione di analisi psicoanalitica del racconto musicale, a dispetto di una certa sensualità che rimane in superficie e quasi abbozzata. La stessa “danza dei sette veli”, pur condotta con il giusto piglio energico, sottolinea con efficacia quel racconto di abusi che ci viene presentato sulla scena. Da evidenziare, inoltre, l’ottimo equilibrio tra buca e palcoscenico, tra pesi orchestrali e timbri dei solisti sulla scena.

L’Orchestra del Teatro alla Scala appare in una forma superlativa e, nel confermare nuovamente una inusuale compattezza timbrica e sonora, riesce a sviluppare inflessioni e sfumature di grande suggestione, valorizzando al meglio i singoli passaggi dello spartito.

Il ruolo di Salome rientra tra quelli impossibili per difficoltà vocali e per lunghezza, un vero e proprio tour de force per tutta la durata dello spettacolo. Il soprano Vida Miknevičiūtė, per la prima volta al Piermarini, offre una prova notevole esibendo una vocalità solida e poderosa, che si piega con facilità a tutte le altezze senza mai perdere omogeneità. La scrittura viene affrontata con slancio e convince senza riserve nei centri, ben torniti e rifiniti, nei gravi, naturali e timbrati, e anche negli acuti, espugnati con vigore ed intensità. La linea, poi, caratterizzata da uno stretto vibrato, si ammanta di naturale espressività così da garantire la totale immedesimazione nel personaggio. Superlativa, inoltre, l’aderenza scenica della Miknevičiūtė al disegno registico di Michieletto: presenza minuta ed aggraziata, movenze naturali e disinvolte, gestualità misurata ed accuratissima. Non un momento dello spettacolo rischia di passare inosservato, ma viene, al contrario, valorizzato, da una partecipazione assoluta e travolgente. Meritatissima, dunque, l’ovazione con cui il soprano viene accolto al termine della recita.

Michael Volle dona a Jochanaan il fascino di una linea ampia e sonora, impressionante per volume e compattezza, suggestiva per il caratteristico colore brunito. Di alto rango l’interprete che unisce alla possanza di una presenza scenica granitica, il fulgore di un accento scolpito e ieratico con cui pronuncia profezie e tremende maledizioni.

Convince l’Herodes di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke che con vocalità puntuta e graffiante sa rendere alla perfezione le inquietudini e le folli suggestioni di un sovrano lascivo e collerico. Notevole lo scavo nel personaggio attraverso un fraseggio insinuante e quantomai sfumato.

Al suo fianco la Herodias di Linda Watson, la cui vocalità sontuosa e rigogliosa conferisce al ruolo quella imperiosità, pur volutamente sopra le righe, propria di questa sovrana lussuriosa e crudele.

Sebastian Kohlhepp regala una prestazione di altissimo livello interpretando un Narraboth nevrotico e problematico, ossessionato da Salome al punto da togliersi la vita nel momento in cui realizza che le attenzioni della principessa sono tutte per Jochanaan. Notevole la resa vocale in ragione della luminosità e lo squillo del mezzo.

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Salome, Teatro alla Scala, 2023

Degna di nota la prova di Lioba Braun cui spetta il compito di impersonare un Paggio di Herodias, che, secondo la visione di Michieletto, altri non è se non la bambinaia di Salome. Il velluto e la morbidezza della linea vocale sembrano ideali per la scrittura straussiana così come totalitaria appare l’immedesimazione sulla scena.

Vocalmente precisi e puntuali i cinque Giudei interpretati da Matthäus Schmidlechner, Matthias Stier, Patrick Vogel, Patrik Reiter e Horst Lamnek.

Incisivi ed efficaci, per vocalità e partecipazione scenica, i due Nazareni di Jiří Rajniš e Sung-Hwan Damien Park.

Alexander Milev e Bastian Thomas Kohl, due soldati, offrono una prova solida e ben rifinita.

Completano la locandina, con la giusta sicurezza vocale e interpretativa, Hyun-Seo Davide Park, uno schiavo, e Matías Moncada, un uomo della Cappadocia.

Grande, meritatissimo, successo al termine da parte di un pubblico che di fatto esauriva la magnifica sala del Piermarini e che riserva accoglienze festose specialmente alla protagonista e al direttore.

SALOME
Dramma in un atto dall’omonimo poema di Oscar Wilde
nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann
Musica di Richard Strauss

Herodes Wolfgang Ablinger-Sperrhacke
Herodias Linda Watson
Salome Vida Miknevičiūtė
Jochanaan Michael Volle
Narraboth Sebastian Kohlhepp
Ein Page der Herodias Lioba Braun
Fünf Juden Matthäus Schmidlechner, Matthias Stier,
Patrick Vogel, Patrik Reiter, Horst Lamnek

Zwei Nazarener Jiří Rajniš, Sung-Hwan Damien Park
Zwei Soldaten Alexander Milev, Bastian Thomas Kohl
Ein Kappadozier Matías Moncada
Ein Sklave Hyun-Seo Davide Park

Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Axel Kober
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Coreografia Thomas Wilhelm ripresa da Erika Rombaldoni

Foto: Brescia-Amisano – Teatro alla Scala