Rubriche 2022

Vĕlĕda, Norma: la condizione della donna presso i barbari

Statua di Vĕlĕda al Jardin de Luxembourg di Parigi

La condizione della donna, presso i Galli, specialmente della donna sposata, era di totale dipendenza dal marito il quale aveva diritto di vita e di morte sulla moglie. Parlando dei Germani, nel cap. 21 del VI libro del “ De bello Gallico”, Cesare sottolinea il fatto che presso i Germani, i Druidi in quanto tali non esistevano e non presiedevano al culto degli dei. Esisteva, però, anche presso i Germani, una classe di sacerdoti che “si curano poco dei sacrifici (neque sacrificiis student). I Germani riconoscono come dei solo quelli che vedono e che manifestamente offrono i loro benefici: Sole, Vulcano e Luna; gli altri non li conoscono neanche di fama. Tutta la loro vita trascorre nella caccia e nell’esercizio assiduo delle armi (vita omnis in venationibus atque in studiis rei militaris consistit); fin da piccoli si impegnano in attività dure e faticose”. Segue quindi una annotazione di costume dei giovani che, nella lettura che più di cento anni dopo la scomparsa di Cesare farà Tacito dei Germani, non mancherà di assumere particolare significato: “quanto più un giovane rimane casto, tanto più sale nella considerazione del suo popolo; ritengono che questo aiuti a crescere in statura, ad aumentare le forze e il vigore. Conoscere donne prima dei vent’anni è considerato quanto mai sconveniente…(qui diutissime impuberes permanserunt, maximam inter suos ferunt laudem; hoc ali staturam, ali vires nervosque confirmari putant; intra annum vero vicesimum feminae notitiam habuisse inturpissimis habent rebus…) ”. È sorprendente notare come questa convinzione pagana, che si muoveva tra fisiologia e religiosità, sia stata ereditata e assunta nella catechesi e nella pedagogia cattolica costituendo per tanti confessori del passato il contenuto per esortare alla “purezza e castità” intere generazioni di giovanetti “assediati” dagli impulsi della libido insorgente: nel segreto della confessione al giovanetto “impuro”, dedito alla pratica onanistica, il confessore prospettava improbabili deformazioni scheletriche e perdita delle capacità visive!… Ossessione sessuofobica tutta cattolica?… Nel capitolo ventunesimo, dunque, la notizia sulla assenza dei Druidi presso i Germani assume particolare rilievo per quanto riguarda il nostro discorso: la Norma di Bellini non “reincarna” tout court la Velĕda di Tacito perché figlia di Oroveso gran sacerdote dei druidi, è con i Galli e i druidi che muoverà guerra ai Romani.E tuttavia, come i fratelli germani, Norma la vedremo elevare alla Luna la sua splendida preghiera. Religione naturale, dunque, religione del “Sacro” e misterioso presente in Natura… Religione della dissacrazione quella dell’uomo contemporaneo!

Velĕda sacerdotessa e profetessa

Charles Voillemot, Velléda, 1869.

E qui (8, 2) Tacito racconta di quella Velĕda cui spesso si è fatto cenno e assunta a icona prefigurante la Norma belliniana, donna di stirpe brutterica, che dopo la rivolta dei Batavi contro i romani, (sulla quale si dovrà tornare) che essa stessa aveva fomentato, fu catturata (77-78 d.C.) e forse fu tradotta prigioniera a Roma. Tacito annota: “abbiamo visto durante l’Impero del divo Vespasiano che Velĕda fu a lungo considerata dalla maggior parte (dei Germani) quasi come una dea! (vidimus sub divo Vespasiano Velĕdam diu apud plerosque numinis loco habitam) ma in un tempo precedente hanno venerato anche Aurinia e molte altre (donne), non per adularle e neppure con l’intenzione di divinizzarle” (sed et olim Auriniam et compluris alias venerati sunt, non adulatione nec tamquam facerent deas). Non si esclude con questa considerazione sul rispetto reverenziale nutrito dai “barbari” Germani nei confronti delle donne, che Tacito abbia voluto “alludere sarcasticamente alle ormai troppo numerose deificazioni di donne appartenenti alla famiglia imperiale romana e al culto che era loro dedicato. È una sferzata di sapore moralistico contro un’abitudine divenuta quasi scandalosa, dal momento che tra queste nuove dee erano annoverate figure di più che dubbia levatura morale come Drusilla, sorella di Caligola, e Poppea, moglie di Nerone”! Vedremo come nella tragica figura di Norma non vi sia traccia di divinizzazione; semmai – e questo è proprio dell’ottica Romantica – v’è traccia di un Sublime: la natura di un cuore femminile, materno, di una donna reale che reclama la libertà di amare e liberare e vivere, sia pure nella colpa, la propria sessualità repressa. Ma su questo torneremo quando ci fermeremo sull’analisi del libretto e dell’opera belliniana emblematica di quell’ottica romantica di cui sopra, emblematica di uno spiritualismo metafisico oggi decisamente sepolto e sacrificato sull’altare del contingente e del relativo.

Velĕda nella letteratura e nell’immaginario collettivo

Ritratto di Vincenzo Bellini

Ma cosa ne è stato, nel tempo, di quella sacerdotessa dei Bructeri così onorata e divinizzata? Se può aver avuto una parte nella genesi della Norma belliniana, non ha mancato certamente di tornare ad essere ricordata ed eletta ad emblema di eroismo arcano femminile da poeti come Carducci e Monti suggerendo, peraltro, raffigurazioni marmoree come quella che si trova, neoclassica nella fattura, nel giardino di Luxembourg. Che Carducci e Monti abbiano avvertito, per ragioni di poetica e di estetica neoclassica, il bisogno di “cantare” la profetessa bructera, non fa meraviglia, così come non è ragione di stupore se la successiva sensibilità romantica del primo trentennio dell’ottocento abbia voluto recuperare situazioni e passioni antiche ove fremente apparisse la volontà di lottare per essere liberi da ogni costrizione. Velĕda, come sacerdotessa e combattente, non poteva non apparire affascinante e misteriosa nella sua solitudine di vate e profetessa. Pare che vivesse in un’alta torre, inaccessibile a tutti, se non ad un parente prossimo che le presentava le richieste di responsi da parte dei suoi. Solitaria ed inaccessibile, eppure “presente” fra le tribù che unite e federate tra loro rendevano difficile e tormentata l’invasione romana. Impressiona la “solitudine” di questa creatura nella sua torre ove ricerca gli “arcani” e dove protegge la sua singolarità di donna privilegiata. Sacerdotessa e profetessa è al di sopra dei combattenti, al di sopra e fuori dalla mischia violenta degli uomini armati: altra è la sua forza ed è quella che le deriva dalla consuetudine col divino. Nella solitudine e nell’ombra, o nella notte lunare di Norma, sembra più possibile facilitato il contatto col Mistero: è accaduto negli Eremi o nei Cenobi o nelle celle segrete dei tanti sacerdoti e profetesse che hanno accompagnato gli uomini nella difficile impresa di dar senso all’esistenza terrena. Tante le donne protagoniste e mediatrici di forze arcane! Sembra strano che la donna abbia avuto, nel tempo della Storia, bisogno di lottare per emergere e cercare equiparazione col mondo maschile: è sempre stata, di fatto, un essere, un “animale” superiore, se non altro per quanto di misterioso e fascinoso lo circonda! È quanto si vedrà mirabilmente “inscritto” da Romani e Bellini nella persona di Norma: sacerdotessa, donna, amante, madre, eroina travolta da un coacervo di passioni e situazioni inconciliabili e drammatiche. Velĕda finisce i suoi giorni a Roma? Può essere stato e, se lo è stato, Velĕda, la solitaria della torre, paga e subisce il potere disumano e “virile” della Roma imperiale; Norma, come più volte sottolineato, pagherà sacrificata dal potere disumano, virile e druidico della sua stessa gente. Nella drammaturgia di tutti i tempi, da quella greca a quella romana, a quella, in particolare, dell’ottocento lirico italiano, il sacrificio femminile è ricorrente e costante e quasi sempre la donna-eroina è vittima di un potere maschile che la travolge. Il riscatto dell’uomo, dalla violenza perpetrata, passa poi attraverso le infinite attestazioni di amore per la donna vittimizzata, attraverso il tributo alla donna di infinite opere creative che ne declamano, con inclinazione alla sublimazione, la bellezza “arcana”. Tante sono le contraddizioni del cuore umano e tante le “perversioni” della mente umana incline, suo malgrado, alla violenza. È quanto è riscontrabile nei due poeti cui si è fatto cenno: Carducci e Monti.