Rubriche 2022

La Messa da Requiem di Verdi

Per addentrarsi nel Requiem di Verdi ritengo utile conoscere le descrizioni della prima esecuzione avvenuta il 22 maggio 1874, venerdì, «mattina grigia e piovosa», alle ore 11 in San Marco a Milano. Orario insolito e obbligato perché avvenuta all’interno di una Messa, che all’epoca non poteva essere celebrata dopo mezzogiorno. L’impostazione della liturgia fu annunciata da La Lombardia: «L’area del tempio rimane divisa in tre parti: quella destinata al clero, quella alla musica, e quella concessa al pubblico. Al clero è riservato il presbiterio in cui sarà celebrato il rito funebre; pontificherà in questa circostanza mons. Giuseppe Calvi, preposto del Capitolo metropolitano. La musica occupa l’intero spazio sotto la cupola, compreso il braccio sinistro della crociera. I musicisti sono quasi per intero collocati a sinistra e dall’opposto lato i cantori, uomini e donne; per queste ultime fu convenuto l’intero vestito nero e il capo coperto da un ampio velo di lutto». Espediente necessario per nascondere alla vista dei fedeli le donne che la disciplina ecclesiastica escludeva dal servizio liturgico e corale. Rito che La nuova Illustrazione universale del 14 giugno 1874 definì «messa secca, cioè senza consacrazione del pane e del vino» (l’attuale Liturgia della Parola) in cui la collocazione degli artisti voluta da Verdi pose al centro l’altare e il celebrante con paramenti liturgici che il critico Edoardo Spagnolo descrisse come «magnifiche vesti» nella recensione pubblicata da La Gazzetta di Milano il 26 maggio 1874. Una immagine imponente che infastidì lo stesso Spagnolo, ateo dichiarato, che preferì recensire il Requiem dopo averlo riascoltato al Teatro alla Scala la sera successiva: «ecco perché non ne ho parlato subito, e parlo invece adesso dopo aver udito la Messa al teatro alla Scala, non più in luogo dove si adora il Salvatore, che soffre per l’umanità e si venerano le sante persone alla cui intercessione si rivolge il fedele; ma tra le profane pareti d’un teatro dove la luce pallida e melanconica dei ceri è surrogata dalla luce brillante delle fiammelle a gas, dove non sento i profumi dell’incenso ma quelli plastici della bellezza che si mostra dai cento palchi; e la mia intelligenza è più libera e i sensi non intorpiditi». Svincolato pertanto da influenze esterne, Edoardo Spagnolo scrisse: «la Messa da Requiem mi rappresenta sempre l’arte posta a servizio d’un principio che non so accettare, ma quelle melodie, frutto di un poderoso ingegno, sono pur sempre la glorificazione, l’apoteosi della fede». Spagnolo desiderava affermare che Verdi era un credente? Non penso. Ritengo, invece, che egli volesse asserire che Verdi indagò in profondità i significati dei testi liturgici e che li seppe sapientemente amplificare con la musica per trasportarli agli ascoltatori. Manzoni, uomo di fede, non poteva ricevere omaggio migliore.

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È utile conoscere anche quanto Verdi scrisse per ottenere una corretta comprensione ed esecuzione del Requiem. Il 26 aprile 1874, durante la preparazione, Verdi scrisse a Ricordi: «Come! Non avete ancora cominciato le prove dei Cori? Ah vi fidate un po’ troppo! Capisco che sarà facile finché vorrete, ma vi sono intendimenti di espressione, e soprattutto di carattere che non sono facili. Voi capirete meglio di me che non bisogna cantare questa Messa come si canta un’opera, e quindi i coloriti che possono essere buoni al Teatro, non mi accontenteranno affatto affatto». A distanza di quasi un anno dalla prima, il 5 marzo 1875 Verdi si raccomandò al mezzosoprano Waldmann per il quale scrisse un nuovo brano sulle parole «Liber scriptus»: «voi sapete che ho scritto un solo per voi. È facile facilissimo come nota e come musica, ma sapete che vi sono sempre delle intenzioni su cui bisogna pensare». È fondamentale, quindi, conoscere i significati dei testi del rito funebre cattolico.

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Nell’iniziale andamento discendente dei violoncelli nel «Requiem» è identificabile il prostrarsi a terra del fedele che riconosce la sua condizione di peccatore preparandosi all’invocazione del riposo eterno per tutti i defunti. Diverse sono le note che questa melodia ha in comune con il corale Aus tiefer Noth schrei’ ich zu dir (salmo 130 De profundis) e, nel coro successivo, è coinvolgente l’elaborazione della melodia «Te decet hymnus» della Messa da Requiem gregoriana: la preparazione personale e la supplica intima sono seguite dal canto collettivo dell’Inno nel rispetto della tradizione cattolica: il coro a cappella. La sofferenza derivante dalla consapevolezza della propria situazione è riscontrabile nel «Kyrie» dalla sovrapposizione dell’andamento ascendente dell’invocazione del perdono dei peccati affidato al coro con il cromatismo discendente affidato agli strumenti gravi dell’orchestra: una moltitudine di anime che anelano in corpi che si consumano.

Il vortice di suoni e i colpi di grancassa che caratterizzano l’inizio del «Dies irae», descrivono la Sequenza che precede il Vangelo. È la morsa di fuoco che divora e fa cadere Babilonia, la città simbolo del male contrapposta alla Gerusalemme celeste. Appartiene a esso anche il suono avvolgente e trionfante delle trombe del «Tuba mirum» che sembra voler condurre gli ascoltatori innanzi al trono del Giudice insieme ai defunti risorti. Il successivo movimento claudicante affidato all’orchestra nel «Mors stupebit» ben concretizza nella mente dell’ascoltatore l’allontanamento definitivo della morte introdotta nel mondo dal diavolo, per invidia (Sapienza 2: 23-24). Nel «Dies irae» mi piace ricordare anche altre situazioni. Nel «Liber scriptus» la ripetizione della parola «Nil», isolata con pause sempre più angosciate, ci ricorda che nessun espediente potrà nascondere le nostre mancanze e che nulla rimarrà impunito. Nel «Lacrimosa» il movimento cadenzato dei violoncelli e contrabbassi amplifica lo stato d’animo dei dannati, ora consapevoli della pena eterna che li attende, mentre le appoggiature del soprano nel registro acuto rievocano il dispiacere degli eletti nell’immaginare le imminenti sofferenze dei peccatori. Anche nel «Dies irae»la presenza del canto gregoriano è affascinante: il frammento musicale che funge da collegamento di alcune sezioni, infatti, deriva dall’elaborazione dell’omonimo brano della Messa da requiem gregoriana.

Trinità di Vincenzo Campi Busseto

Non si dimentichi la divisione del coro in due blocchi e il cromatismo orchestrale nel «Sanctus»che simboleggiano tutti gli elementi del cielo e della terra che uniti lodano il Signore, Dio dell’universo. Organico e procedimento musicale utilizzati più avanti negli anni per il «Te Deum».
Il movimento parallelo in ottava dei solisti nell’«Agnus Dei» esprime il concetto teologico della doppia natura di Gesù, l’Agnello di Dio: quella divina affidata al registro acuto del soprano e quella umana affidata al registro mediano del contralto. Affascinante è la struttura del brano che richiama la disposizione delle immagini nelle tele raffiguranti la crocifissione. Il mio personale pensiero corre al dipinto del 1579 di Vincenzo Campi collocato nell’abside dell’Oratorio della Santissima Trinità di Busseto dove Verdi e Margherita Barezzi si unirono in matrimonio nel 1836. La melodia della doppia natura di Gesù è sviluppata sull’immagine rarefatta della Trinità rappresentata dalle tre sezioni del brano. Nella prima invocazione l’Agnello di Dio è messo in relazione all’eterno Padre, la cui maestosa austerità è rappresentata dal coro e dell’orchestra che eseguono all’unisono la melodia dei solisti. Nella seconda, in Do minore – caratterizzata dai sospiri affidati al flauto e al clarinetto – seguita dalla serena risposta corale in Do maggiore, si avverte la sofferenza provata da Dio nella vita terrena, nelle vesti di Figlio, e il suo ritorno al cielo. Nella terza sezione l’etereo movimento dei tre flauti sovrapposti ai solisti ricorda lo Spirito santo.

Nell’introduzione del «Lux aeterna», l’antifona alla comunione (che nel rito del 22 maggio 1874 non fu distribuita), il tremolo dei violini imita l’instabilità della luce delle candele, la debole luce che l’uomo possedeva per illuminare i riti religiosi, condizione citata anche da Spagnolo nella sua recensione. Il brano è caratterizzato dall’assenza del soprano, voce acuta che abbiamo visto simboleggiare il divino, e dalla presenza nel registro grave del ritmo caratteristico delle marce funebri. Elementi che ricordano la misera condizione umana.

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È quindi cantato il «Libera Me», preghiera per la salvezza personale, in sostituzione de «In paradisum deducant Te Angeli» cantato nella Messa del funerale. Nella parte del soprano solista, una persona che emerge dalla collettività, mi è spontaneo intravedere il Maestro, così come lo avverto nella «Voce sola» nascosta alla vista del pubblico al termine del «Te Deum». Coinvolgente, per coloro che conoscono il Libro dell’Apocalisse, è la ripetizione del «Requiem»iniziale della Messa nella parte centrale di questo brano. La delicatezza della nuova versione a cappella e in una tonalità più alta rispetto alla precedente, richiama alla mente la frase del Supremo Giudice, pronunciata dal suo trono nell’ora del giudizio universale, dopo la condanna dei peccatori al fuoco eterno e la discesa dal cielo della nuova Gerusalemme: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». L’angoscia iniziale è trasfigurata in un’estatica serenità perché nella nuova città «non vi sarà più morte, né lutto, né grido, né pena esisterà più, perché il primo mondo è sparito». Dopo una «lunga pausa», quasi a indicare il ritorno alla realtà, il soprano manifesta nuovamente la sua angoscia provocata dal timore di non avere accesso al paradiso. Le parole finali «Libera me, libera me», pianissimo in unisono con il coro, riconducono il pensiero all’immagine del fedele prostrato a terra, come all’inizio del «Requiem»: là per domandare la salvezza di tutti i defunti, qui per supplicare la propria.

Fra le recensioni che seguirono le prime esecuzioni milanesi, oltre alle già citate parole di Spagnolo «quelle melodie sono pur sempre la glorificazione, l’apoteosi della fede», meritano la menzione due frammenti degli articoli apparsi su La Lombardia e sul Pungolo. Frasi che accostate aiutano a comprendere questa ricerca delle «intenzioni su cui bisogna pensare» all’interno del Requiem: «Queste armoniose melodie di Verdi, senza vestire quel convenzionale carattere che suol darsi alla musica religiosa, sono ben lontane dall’aver senso e forma teatrale», «ecco come si può congiungere la espressione alla scienza, la passione allo studio, ecco come si può elevare la musica sacra, rendendola interprete efficace e potente del sentimento umano».

© Dino Rizzo