2015

Interviste 2015

INTERVISTA A DAVID ALEGRET [William Fratti] Ferrara, febbraio 2015.
Attualmente considerato uno dei migliori specialisti del repertorio rossiniano, David Alegret inizia la sua solida carriera nel 2004 a Klagenfurt ne L’Italiana in Algeri: “per me è sicuramente un onore essere ritenuto un esperto, ma anche una grande responsabilità ogni volta che canto Rossini. Nella mia carriera ho sempre cercato di compiere le scelte migliori per la mia voce e di andare avanti poco a poco, ma senza compiere passi falsi. Questa buona reputazione che mi viene riconosciuta mi incoraggia ad andare avanti e a continuare con il mio percorso nei modi intrapresi fino a questo momento. E poi, ovviamente, per me è una grande allegria cantare Rossini, mi rende felice”.
Già a partire dai suoi esordi il tenore spagnolo ha preso parte a Il viaggio a Reims nei panni del Conte di Libenskof per il Festival Giovane al Rossini Opera Festival 2004, per poi tornare nel 2012 nel ruolo di Florville ne Il signor Bruschino: “certamente Pesaro è stato per me uno degli impegni più emozionanti e importanti della mia carriera. Lo sarebbe stato per qualsiasi cantante rossiniano. Sentivo una responsabilità maggiore perché il pubblico del ROF ha ovviamente molta esperienza ed è un ferrato conoscitore e un grande intenditore del repertorio di questo compositore. Ma la sensazione che più mi è rimasta è davvero di grande euforia. In ogni caso credo che lo studio del personaggio e della musica, lo sforzo che si deve dare in scena e il rispetto per il pubblico devono essere sempre gli stessi in tutti i teatri del mondo, dai più piccoli ai più importanti. Anche se è vero che le emozioni che ho provato a Pesaro resteranno con me per tutta la mia vita e che mi ha dato una grande allegria cantare nella città del compositore che tanto amo, non trovo che la differenza in palcoscenico per me sia abissale. Il mio impegno per dare il massimo a tutti gli spettatori è sempre lo stesso, ovunque io sia”.
La musica di Rossini è universale ed ha una scrittura così attenta che lascia apparentemente poco spazio alle interpretazioni personali: “spesso noi cantanti siamo i nostri migliori critici e riuscire a definire le nostre qualità può sembrare pedante, ma personalmente, oltre ai requisiti tecnici, credo sopratutto che ciò che desidero esprimere attraverso i miei ruoli sia semplicità e onestà. In generale credo che il canto rossiniano sia scritto talmente bene, che prima di tutto all’interprete è richiesto di lasciarsi andare, di lasciarsi trasportare dalla musica. Rossini era un genio e la sua scrittura musicale lo permette perfettamente”.
Dopo due anni di assenza, David Alegret torna in Italia: “qui ho avuto delle bellissime esperienze in passato: oltre a Pesaro con Il viaggio a Reims e Il signor Bruschino, ho cantato anche al Teatro Regio di Torino con Lindoro ne L’Italiana in Algeri, all’Opera di Roma e al Teatro Verdi di Trieste con Don Ramiro ne La Cenerentola e ora Narciso ne Il Turco in Italia al Teatro Comunale di Treviso e al Teatro Comunale di Ferrara. Per me, essere chiamato in Italia per cantare Rossini, è prima di tutto un grande onore. Inoltre adoro questo Paese, ogni volta che torno mi diverto moltissimo. Mi piace la gente, così simpatica; i paesaggi, che sono veramente spettacolari; per non parlare del cibo, o del vino! Insomma, ogni volta mi è permesso non solo di crescere dal punto di vista professionale, ma anche di aggiungere una bella esperienza di vita!”.
Oltre a Rossini, il tenore spagnolo ha in repertorio anche molti ruoli di MozartBellini e Donizetti, comprendendo tutta la corrente del belcanto, dal più classicista fino a quello più romantico e drammatico. “Credo che, nonostante tutte le differenze che ci sono tra MozartRossiniBellini e Donizetti, ci sono anche molte similitudini che in un certo senso si sostengono tra loro. Secondo me si deve e si può imparare qualche cosa di diverso da ciascun compositore ed è molto importante affrontare lo studio nel modo e nel momento giusto. Sono tipologie di canto molto diverse tra loro, eppure è evidente che ci sono delle analogie e dei parallelismi di base che si retro-alimentano, ovvero imparare la tecnica rossiniana influenza il modo in cui si esegue il canto mozartiano e viceversa. Nel momento in cui mi metto a studiare un ruolo di Rossini o di Mozart, che sono due dei compositori che più interpreto, il mio obiettivo è pensare alla naturalezza che deve risultare nel canto e ciò vale per tutti gli autori. Musicalmente entrambi obbligano ad un determinato legato, ma quello che esige Mozart risiede in una linea di canto che permette un’emissione molto delicata, un suono morbido, una certa proiezione della parola, un’interiorizzazione del canto e una chiara fantasia poetica: è qualche cosa che tocca profondamente le emozioni. Invece il legato di Rossini deve essere affrontato in modo diverso, deve essere ovviamente delicato, ma soprattutto richiede all’interprete una certa omogeneità e un controllo della tecnica molto sicuro per poter sostenere in modo saldo tutte le sfide insite nella partitura: il colore della voce deve essere ricco e uniforme, il controllo dell’aria deve permettere facilmente di ridurre o rafforzare i suoni facendo attenzione a non forzare e ovviamente lavorare al meglio per ottenere una coloratura chiara e pulitissima, poiché si devono ascoltare e sentire tutte le note. Alcune di queste tipiche caratteristiche rossiniane si potrebbero applicare anche a Mozart: per questo dico che si retro-alimentano e che quello che si studia con un compositore si può applicare anche in altri, anche se la natura, l’essenza del canto, in sé è diversa. Tecnicamente – prosegue il tenore spagnolo – credo che in questo momento la mia voce si trovi perfettamente a suo agio nel repertorio rossiniano. Ma ci sono anche compositori come Bach, che canto abbastanza spesso, con cui credo di poter dare molto. Ma soprattutto il grande Mozart, che per molti motivi, anche personali, è in assoluto l’autore che più mi emoziona”.
David Alegret ha molti progetti per il futuro: “tra pochi giorni canterò La Creazione di Haydn al Palau de la Musica Catalana, dove ho cantato il mio primo concerto solista a febbraio con un repertorio di Lied. A maggio sarò Ferrando in Cosi fan tutte al Gran Teatre del Liceu della mia città, Barcellona, e in ottobre canterò in Semiramide all’Opéra di Marsiglia. Inoltre nel 2016 interpreterò la prima opera di WagnerDas Liebesverbot, al Teatro Real di Madrid e sarò Almaviva ne Il Barbiere di Siviglia per l’ABAO-OLBE di Bilbao”.
Il sogno nel cassetto del tenore spagnolo è un desiderio dichiarato: “poter vivere di questa professione il più a lungo possibile! È una vita che amo; adoro cantare e spero di poterlo fare tutta la vita. Inoltre più che un sogno ho un obiettivo, ed è superarmi e migliorarmi in ogni recita, ogni concerto, ogni giorno!”.

INTERVISTA A GIAMPAOLO BISANTI [William Fratti] Milano, marzo 2015.
Nelle ultime stagioni le performance di Giampaolo Bisanti hanno attirato l’attenzione della critica e del pubblico. È considerato uno dei migliori direttori d’orchestra della sua generazione, capace di muoversi in un repertorio molto ampio, che abbraccia tutta la musica operistica e i grandi capolavori della sinfonica, con gesto fluido e chiarissimo, attenzione agli organici vocali e orchestrali, memoria sorprendente e tecnica che ricorda la più alta e prestigiosa scuola italiana. “Ci sono dei direttori di enorme talento e di straordinarie doti naturali che hanno iniziato giovanissimi e che stanno sviluppando una grande carriera e si stanno costruendo l’esperienza sul campo senza aver avuto la possibilità di fare una normale gavetta. Sicuramente a me è servita moltissimo, perché forse ho una natura meno immediata che necessitava di essere plasmata nel corso di anni in cui ho frequentato tantissimi podi minori – nel senso di realtà non particolarmente prestigiose – ma quegli anni e ciò che mi hanno dato, non li sostituirei per nulla al mondo. Quindi usare un aggettivo come giovane, nella nostra professione e nel nostro mondo è parziale e relativo. Io mi sento un direttore giovane ogni volta che salgo sul podio, perché cerco di rinnovare sempre il mio entusiasmo e la mia voglia di fare. Poi se a 40 anni si è considerati ancora giovani anagraficamente, lo si dovrebbe chiedere ad altri” (sorride, ndr).
La carriera del direttore milanese lo sta portando in numerosi teatri e auditorium sia italiani sia esteri, spingendolo di fronte alle numerose caratteristiche che accomunano e soprattutto differenziano le varie realtà, dall’Italia all’Europa e al resto del mondo, dalle più piccole alle più grandi. “Io ho sempre lavorato molto bene nel nostro Paese. Trovo che le Orchestre e i Cori dei nostri Teatri d’Opera siano di livello qualitativo molto alto. Siamo di fronte tra l’altro a musicisti italiani, che quindi sentono nel cuore e nella mente il nostro repertorio e lo vivono insieme, suonandolo in una grande partecipazione emotiva e grande feeling. All’estero invece si lavora bene nel senso più organizzativo del termine. Le orchestre, i cori, i cantanti, sono tutti abituati a stare in un meccanismo teatrale che viaggia come una locomotiva. Per cui, se certamente il livello tecnico risulta altissimo, a volte ne paga un po’ quell’aspetto più intimo ed emotivo che non trova grande spazio ed interesse. Naturalmente non si può generalizzare, ma ciò vale per quella che è la mia esperienza”.
Spesso occupato su più fronti, con opere e concerti che si sovrappongono tra loro, Giampaolo Bisanti sale sul podio di ogni orchestra che dirige con la medesima cura. “Gli impegni si accavallano, ma non con nuovi titoli per fortuna! Scelgo sempre con moderazione i miei debutti, perché il tempo per studiare nuove opere è sacro e deve essere assolutamente sufficiente. Di solito chiedo al mio agente di avere almeno un mese e mezzo vuoto prima di iniziare le prove, in modo da stare diverse ore ogni giorno a lavorare sul testo musicale che andrò a dirigere per la prima volta. Invece passare da un teatro all’altro fortunatamente non mi crea problemi. Io amo sempre lavorare con tutti. Sono una persona pacata, mite e cerco di essere sempre sereno e positivo. Credo che questo sia importantissimo nella mia professione. La cosa che più mi piace quando me la dicono è che io dirigo sempre con il sorriso. È vero, io sorrido, perché amo follemente la musica, il mio lavoro, amo i cantanti che in quell’istante sono sul palco ed amo i musicisti che suonano a un metro da me in buca e che in quel momento mi stanno donando un pezzetto del loro cuore e di loro stessi. È una grande emozione e per questo sorrido alla musica e alla vita che mi ha regalato questa grande opportunità”.
Nel repertorio del M° Bisanti i capolavori di Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini occupano una posizione predominante. “Sono universi che collimano e al tempo stesso diversissimi. Amo profondamente entrambe le loro produzioni. Del primo adoro la capacità di cogliere l’aspetto di ogni singolo personaggio, di ogni singola situazione, di ogni singolo stato d’animo; basti pensare alle lacrime del duetto di Aida e Amonasro, al Nilo che scorre nelle battute iniziali del terzo atto; ma anche al duetto di Gilda e Rigoletto del primo atto; oppure al tremendo incipit del Miserere ne Il trovatore; o ancora al feroce incedere della tempesta in Otello; o alle volute demoniache delle streghe in Macbeth: sono tutti esempi di una straordinaria capacità teatrale e descrittiva che rendono le pagine verdiane immediatamente riconducibili a degli stati emotivi dei suoi personaggi. Inoltre Verdi fa un grandissimo uso del coro che diventa, nella sua produzione, un personaggio vivo, partecipe, attivo nella vicenda e per cui scrive musica meravigliosa. Puccini invece, a mio avviso, ha una caratteristica di più ampia visione d’assieme del dramma musicale: le sue partiture sono un susseguirsi di situazioni melodiche, di scelte armoniche e di stilemi teatrali che non puntano all’emozione di una singola scena, ma al nocciolo del dramma più in generale. È una sensazione molto strana; ad esempio dopo tutta la prima parte di Manon Lescaut, dove si gode di musica splendida, la pelle ed il cuore iniziano a vibrare nel terzo atto con la scena dell’appello e poi è un vortice che trascina alla morte della protagonista; in Tosca la pelle vibra con la scena dell’interrogatorio, scena costruita in modo mirabile con diversi piani di azione, che poi porta fino alle terrazze di Castel Sant’Angelo dove si consumerà la beffa del destino con il dramma dei due protagonisti; fino ad arrivare alla scena in cui le lacrime grondano quando Cio-Cio-San mostra il figlio nato durante l’assenza di Pinkerton e da lì si vola alla consumazione del sacrificio di questa fragile creatura, che trova il più grande atto di forza e di emancipazione sociale con la propria morte. Insomma universi diversissimi che si collegano tra loro per la grandezza delle menti che li hanno creati; in alcuni casi si avvicinano per costrutto musicale – appunto la scena a più piani sonori del secondo atto di Tosca è costruita in modo simile al Miserere de Il trovatore dove pure ci sono diversi luoghi che si intersecano in uno stesso momento musicale – ed in modo più generale sono capaci con linguaggi molto diversi di raggiungere lo stesso medesimo risultato di emozionare l’interprete e l’ascoltatore”.
La prossima estate Giampaolo Bisanti sarà impegnato in dieci recite di Madama Butterfly all’Opera di Firenze, mentre l’autunno e l’inverno saranno dedicati a La Bohème, che dirigerà nei teatri del Circuito Lirico Lombardo e con cui debutterà all’Opernhaus di Zurigo, alla Semperoper di Dresda e al Petruzzelli di Bari. “La storia, la musica, l’emozione che mi ha dato la prima volta che ho diretto quest’opera, le tantissime volte con cui ho lavorato insieme ai cantanti, rendono questo titolo, a cui mi avvicino sempre con tanta felicità, la scelta che farei se ne fossi obbligato; non per una preferenza tra i due compositori sopra citati, ma perché è l’opera che mi ha visto debuttare in tantissimi teatri, che mi ha dato tante soddisfazioni e a cui devo molto!”.
Nelle prossime settimane il direttore sarà a Mosca per L’Elisir d’amore, a Seoul per Aida, a Stoccolma per La traviata e a Torino per Il barbiere di Siviglia, felice di portare la sua arte e la sua professionalità in diversi palcoscenici, con realtà e situazioni molto differenti tra loro. “Come ho già sottolineato più volte, io mi trovo sempre bene, perché mi piace molto essere sereno con tutti e molto collaborativo. Negli ultimi anni ho avuto modo di lavorare benissimo con il Carlo Felice di Genova, il Verdi di Trieste, il Regio di Torino, il Maggio Fiorentino, il Lirico di Cagliari, la Fenice di Venezia. Mi si permetta solo una riflessione: ho avuto l’onore di esercitare con tutti i meravigliosi musicisti di queste realtà che, chi più chi meno, si stanno muovendo in un periodo di grandissime difficoltà dovute alla terribile crisi che ha attraversato e che tuttora è presente nel nostro settore. Sono una sorta di eroi, perché – lo assicuro – non è cosa semplice fare musica e quindi produrre emozioni se non si è tranquilli e se si rischia il proprio posto di lavoro. In questo mi sento molto vicino a loro e spero davvero che la situazione possa cambiare e possa presto vedersi una luce in fondo al tunnel!”.
Tra gli altri impegni di Bisanti, il prossimo anno ci saranno i debutti a Berlino con Rigoletto, a Nizza con Il barbiere di Siviglia, a Barcellona con Macbeth e a Tokyo con Lucia di Lammermoor, titoli del grande repertorio, le cui partiture sono spesso oggetto di tagli che vanno a ledere la filologia e la volontà originale del compositore. “Io cerco sempre di approcciare una partitura non prefiggendomi se ne darò una lettura filologica o meno, se la farò integrale o meno. Cerco sempre di capire: che cantanti avrò, come sarà lo spettacolo, quanti intervalli ci saranno e che tipo di caratteristiche artistiche mi troverò di fronte, tra cui il numero dei coristi e degli orchestrali. Da qui scelgo i miei tagli, se ne faccio, e cerco sempre di valutare questa scelta in base alla scorrevolezza teatrale, quindi vedendo come fine ultimo la godibilità che il pubblico può ricavare da una rappresentazione, non il critico musicale presente in sala. Credo sia questo il segreto con cui venivano scritte le opere e i melodrammi nel secolo a noi tanto caro dell’Ottocento, fino alla metà del Novecento. Il senso del Teatro di Donizetti, di Rossini, di Verdi, di Puccini, ma anche di Mascagni o di Giordano era il perno intorno al quale loro componevano la musica meravigliosa che oggi possiamo ascoltare. Io personalmente cerco sempre di lasciare la libertà agli interpreti di potersi esprimere. Lavoro sempre con loro delineando un perimetro oltre il quale non si deve andare, ma al cui interno ci si deve sentire liberi di poter agire nel più personale dei modi. Sicuramente nel belcanto di Bellini e Donizetti lascio molte libertà ai cantanti, sempre discutendo con loro e sempre creando un dialogo con la buca d’orchestra, che in quel repertorio è più da considerarsi una cornice, un tappeto al cui centro si devono aiutare e far stare sereni i cantanti che hanno il compito più difficile. In Verdi, in Puccini e nel Verismo le problematiche sono differenti: è necessario studiare con gli interpreti una vera e propria lettura in sincrono dell’opera; un taglio più drammatico, più evocativo, più sontuoso, o più vicino alla tradizione; insomma un lavoro più di squadra che non del singolo interprete”.
I mestieri dello spettacolo si svolgono sempre sul filo del rasoio, in bilico tra il sentimento artistico e il vero e proprio lavoro. “Uno dei miei sogni professionali è quello che cerco di inseguire ogni volta che salgo sul podio: vorrei essere sempre forte e cercare di avere la capacità e la voglia di emozionare e di emozionarmi, non facendo mai diventare questo lavoro una routine, un mero esercizio di stile o di vanità personale. Credo molto nel valore dell’arte e della musica e credo davvero, con tutto me stesso, di fare il mestiere più bello del mondo; vorrei ricordamelo in ogni momento ed esserne sempre grato alla vita. Invece un mio sogno personale è quello di conservare sempre la capacità che oggi possiedo di fermarmi a godere delle piccole cose. Di emozionarmi per una carezza, di poter essere vicino a coloro che amo, di poter rimanere un punto di riferimento per coloro che credono in me e di non deluderli mai e di non deludere me stesso. Nella mia vita sono molto vicino a persone che non stanno bene, sono vicino a coloro che la società definisce e magari etichetta come gli ultimi; non vorrei mai perdere il contatto con loro, perché mi riempiono il cuore di gioia. Donare il sangue; fare volontariato attivo; essere presente alle cure in ospedale di bambini che soffrono, seguendoli e assistendoli; poter aiutare persone poco abbienti a studiare; queste sono le cose che contano nella vita; queste sono le cose che danno un senso alla nostra esistenza. Altrimenti la bella musica e le emozioni che ci regala non avrebbero una grande importanza. Rimarrebbero lì e non servirebbero a nessuno”.
Nel tempo libero, “quando ne ho e non sono costretto a studiare, la mia grande passione è la moto: sono un Ducatista sfegatato e la mia Lady Dark è sempre lì ad aspettarmi per fare bellissime passeggiate in cima alle montagne o in riva ai laghi. Invece riguardo la sfera privata, è molto complicato trovare il giusto equilibrio per instaurare rapporti affettivi importanti con questo lavoro; è difficile trovare una compagna di vita che comprenda le lunghe assenze da casa o che sia disponibile a seguirmi ovunque io vada. È un momento della mia vita in cui sono sicuramente molto concentrato sulla mia carriera e meno sulle relazioni personali, per cui al momento un’anima gemella, nel senso più romantico del termine, non l’ho ancora trovata”.

INTERVISTA A PAOLO FANALE [William Fratti] 29 marzo 2015.
Già dal suo debutto nel 2007 frequenta i teatri più prestigiosi del mondo, ma l’attenzione del grande pubblico si concentra su Paolo Fanale a partire dall’interpretazione di Roméo et Juliette di Gounod pochi anni dopo. Altri ruoli francesi appartengono al suo repertorio, tra cui Nicias in Thaïs di Massenet, Wilhelm in Mignon di Thomas, Hylas ne Les Troyens di Berlioz e la recente esecuzione di Nadir ne Les pêcheurs de perles di Bizet all’Auditorium Rai di Torino, trasmesso in diretta su Radio3 e in differita su Rai5 il prossimo giovedì 23 aprile alle ore 21.15. “Sento che sono molto a mio agio in questi ruoli e con questo tipo di scrittura, poiché contengono tutto ciò che applico quotidianamente nei miei esercizi di tecnica. Ho studiato molto la linea di canto francese, soprattutto la proiezione del suono per evitare la nasalizzazione, ma il fulcro di questo repertorio risiede nel fraseggio: l’eleganza spiccata e la musicalità sublime insite nella partitura devono essere trasmesse attraverso la voce e per eseguire i suoni richiesti bisogna sapere trattenersi, occorre cesellare ogni singola nota ed evitare di abusare delle mezze voci, dei falsettoni, ma anche delle spinte”.
Il prossimo anno il tenore palermitano sarà impegnato in Francia e Svizzera in altri debutti, tra cui Faust di Gounod, Fernand ne La favorite di Donizetti e Raoul ne Les Huguenots di Meyerbeer, ma quello più imminente e atteso è il ruolo di Pelléas in Pelléas et Mélisande di Debussy all’Opera di Firenze, nel mese di giugno, a conclusione del 78° Festival del Maggio Musicale Fiorentino. “Iniziando a studiare questa opera, musicalmente lontana da tutti i canoni, distante dal repertorio che le sta accanto, ogni giorno mi rendo sempre più conto che il compositore estremizza i passaggi armonici che sembrano cozzare con la partitura, poi invece mi accorgo che collimano perfettamente. È un capolavoro, difficile, quasi impossibile e bisogna assolutamente concentrarsi e prepararsi nota per nota, poiché l’intero rapporto musicale è basato sulla parola, come se si trattasse di una discussione e non di canto, per cui occorre una grande preparazione tecnica, oltre al fatto che la tessitura è medio bassa, quasi da baritenore”.
Prima di vestire i panni di Pelléas, Paolo Fanale salirà sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna nelle vesta di Tamino, personaggio che riprenderà la prossima stagione a Padova e Palermo. “Adoro questo ruolo, prima eroico e poi romantico, dove posso sfoggiare tutta la tecnica del canto francese attraverso il tedesco. In “Dies Bildnis ist bezaubernd schön” si può dimostrare tutto, è un asso nella manica ricco di colori e sfumature. L’ho debuttato a Oslo un po’ di anni fa, ma la mia voce era diversa, io stesso ero diverso, mentre oggi lo vorrei affrontare con maggior impeto e più calore. Talvolta è difficile contrastare le emozioni che si provano nell’interpretare certe meraviglie, ma è importante, per tenere rilassato l’organo vocale ed essere in grado di eseguire tutti i cromatismi possibili per commuovere il pubblico. Mozart è il compositore che mi ha insegnato a cantare, poiché nei suoi spartiti sfocia tutta la tecnica di canto e attraverso le sue arie posso sempre rimettermi in carreggiata. Talvolta l’impeto di alcuni ruoli può portarmi a spingere o a costringere certi suoni, poiché la veemenza dell’interpretazione lo richiede, l’organo risponde e lo si vizia inconsciamente, ma riprendendo Mozart posso tornare alla naturalezza, alla morbidezza, che non deve essere mai preclusa. Con “Dalla sua pace” da Don Giovanni riesco a rilassare la muscolatura, a risanare il punto di congiuntura tra il registro di petto e quello di testa, a riportare l’organo a essere sano e a funzionare perfettamente con la giusta tecnica”.
Il compositore salisburghese resterà una presenza assidua nel futuro del tenore siciliano, con Don Giovanni a Salisburgo e alla Staatsoper di Berlino, Così fan tutte alla Deutsche Oper, sempre a Berlino, nonché il debutto di Lucio Silla a Parigi e Vienna: “quest’opera è una meraviglia. È un Mozart un po’ insolito, per certi versi simile a quello che poi si ritroverà ne La clemenza di Tito. La tessitura del ruolo del protagonista è medio bassa, molto interessante e molto diversa da Don Giovanni e Così fan tutte. Sarebbe bello arrivare ad eseguire tutti i capolavori mozartiani e certamente io li accetterò sempre, poiché per me è come lavorare e studiare al tempo stesso”.
Interprete di “Una furtiva lagrima” e “Che gelida manina” durante la consegna della Laurea magistrale honoris causa in Musica e Spettacolo a Sir Antonio PappanoPaolo Fanale è ancora accanto al celebre direttore nel Magnificat di Johann Sebastian Bach all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e in Gianni Schicchi alla Royal Opera House Covent Garden di Londra. Tra le altre performance future L’Elisir d’amore a Berlino, La traviata a Londra, Falstaff a Vienna e Faust a Losanna, frequentando così il più vasto repertorio del belcanto ad eccezione di Rossini: “forse non c’è mai stata una vera occasione di debuttare un’opera rossiniana, pur avendo eseguito altre parti di agilità, ma mi rendo conto che il focus della voce è differente nel canto del pesarese e ho un po’ paura di spostarlo. In effetti noi cantanti non ci possiamo permettere il lusso di fare tutto e dobbiamo scegliere ciò per cui la nostra voce si presta al meglio. Un tempo tutti cantavano tutto, ma oggi è diverso; non significa che ci si debba specializzare, ma è giusto rispettare certi canoni. Ci sono dei tenori rossiniani fenomenali ed è dunque inutile che io mi metta ad eseguire un Rossini mediocre. Non ha senso aggiungere titoli al repertorio solo per aumentarne il numero, non è una gara. Ma non nascondo che in futuro mi piacerebbe debuttare qualche ruolo del Rossini serio da baritenore”.
La carriera di Paolo Fanale conta meno di un decennio, ma vanta i palcoscenici e i direttori d’orchestra più importanti del mondo. “Non sogno di debuttare un titolo in particolare in un determinato teatro, ma il mio desiderio più profondo è quello di rimanere sempre con una tecnica salda, pulita, omogenea, senza difetti, senza usura, con una voce sempre fresca, senza mai forzare. Spesso mi dicono che vogliono più suono e piacerebbe anche a me, per dare maggior enfasi all’interpretazione, ma non voglio farlo perché la mia muscolatura non è ancora pronta. Credo sia giusto seguire la naturale maturazione dell’organo e dare tempo al tempo. Ogni volta che finisco di cantare, ricomincerei ancora da capo, ciò significa che sto bene, che sono fresco e il repertorio che sto eseguendo è giusto. Purtroppo gli ascoltatori sono stati viziati da alcuni grandi artisti del passato, che cantavano sul fisico, dando l’anima, ma stancandosi profondamente e determinando una certa usura, così oggi si tende ad affidare ruoli a voci sbagliate, come Lucia o Traviata che dovrebbero essere soprani drammatici di agilità, od Otello che non dovrebbe essere così pesante come invece si crede, concentrandosi maggiormente sugli accenti piuttosto che sull’intensità di suono”.
Tra un impegno e l’altro Paolo Fanale non perde l’occasione di ritornare nella sua Sicilia: “adoro stare in mezzo alla natura a casa mia, con mia moglie, mio figlio e un altro in arrivo. Il canto mi dà tantissime soddisfazioni, ma il vero appagamento lo trovo nella famiglia, negli amici e nella quotidianità. Può sembrare retorico, ma credo profondamente nel rispetto per le persone e vedo sincero benessere nella genuinità, nella semplicità, nel sorriso dei bambini. Ed è anche per questo che non voglio abbandonare la mia terra, nonostante possa essere più semplice andarsene, altrimenti mi sentirei un codardo. Sono italiano, sono siciliano e qui resto, l’Italia ha bisogno anche di noi artisti”.

INTERVISTA AD ANDREA CASTELLO [Lukas Franceschini] Vicenza, 10 maggio 2015.
Abbiamo incontrato nella splendida città palladiana Andrea Castello, fondatore dell’Associazione Concetto Armonico, il quale è l’artefice del Festival VicenzainLirica giunto quest’anno alla III edizione.
Sig. Andrea ci vuole parlare dell’Associazione?
L’Associazione Concetto Armonico è nata nel 2011 a Cavarzere, paese natale del grande direttore Tullio Serafin, ed è curata da un direttivo composto da cinque persone, le quali hanno voluto mettere assieme le loro forze, per creare un progetto in sinergia sui temi musicali e lirici. Precedentemente lavoravamo autonomamente, io ad esempio organizzo concerti da molti anni, il nostro obiettivo principale è quello di rivolgere una particolare attenzione ai giovani attraverso masterclass, progetti di operastudio. La presenza di cantanti di fama, ai nostri progetti, sono in funzione dei giovani, essi si rendono disponibili per aiutare le nuove voci, con consigli e corsi specializzati. Il socio onorario dell’Associazione è il soprano Daniela Dessì, la quale fin da subito ha creduto nel nostro proposito ed ha inaugurato la prima manifestazione.
Gli eventi per i giovani come sono finalizzati?
L’edizione 2015 di VicenzainLirica si svolgerà dal 19 giungo a 12 luglio, durante la quale daremo la possibilità di frequentare due masterclass, uno tenuto da Sara Mingardo l’altro da Katia Ricciarelli. Il nostro obiettivo, in seguito, sarà quello di far esibire i cantanti delle masterclass in altri concerti che organizziamo in collaborazione con altri enti. Ad esempio, il prossimo Concerto di Natale a Vienna, in collaborazione con l’Istituto di Cultura e l’Ambasciata Italiana, al Festival di Torre del Lago il 26 luglio terremo un altro concerto in uno scambio nel quale i cantanti dell’Accademia locale saranno presenti ad alcune nostre performance. Infine Spoleto, i vincitori del Concorso del Festival Sperimentale parteciperanno al Teatro Olimpico ad un Galà lirico assieme ad un soprano francese, nella serata, madrina Katia Ricciarelli, sarà consegnato il premio alla carriera al baritono Juan Pons. Realizzeremo al Teatro Olimpico l’opera “Orfeo ed Euridice” di Christoph Willibald Gluck, il cui cast sarà appositamente scelto e seguito in tutte le prove da Sara Mingardo, quale consulente musicale nel perfezionamento e anche un’esecuzione della Petite Messe Solennelle di Rossini oltre ai concerti vocali e ad alcune conferenze.
Per realizzare tutto questo avrete sicuramente un cospicuo budget….
…Non proprio! Anzi! Attualmente il mio principale obiettivo è recuperare sponsor, non certo per arricchirmi, ma per fare in modo che l’Associazione possa investire nel Festival e a favore dei giovani. Attraverso tale sostentamento economico spero in futuro di poter abbassare la retta delle masterclass e dare un’ospitalità a prezzi ragionevoli per le tasche di un giovane che sta ancora formandosi. E’ sovente controverso il concetto nel quale si proclama di aiutare i giovani e salvaguardare la cultura musicale, quando poi si viene a conoscenza che alcuni docenti chiedono prezzi esorbitanti per un’ora di lezione, o corsi di perfezionamento a cifre improponibili. Io posso dirti che non ho grossi sponsor, eppure posso fare in tre settimane quando esposto prima e ritengo non è cosa da poco, tuttavia è fondamentale presentare allo sponsor un prodotto di qualità, solo allora ci sarà la certezza da entrambi le parti della sinergia necessaria per realizzare il progetto.
Gli sponsor dunque non sono coinvolti solo per un festival o un evento?
È appunto quello che voglio far capire, non serve una donazione per un evento, necessitiamo di molti soggetti i quali contribuiscono anche con piccole cifre ma in modo continuativo per mantenere il proseguimento di tutte le nostre produzioni, che vanno oltre il Festival, ed avere la trasparenza di portare a conoscenza come sono utilizzati i fondi.
Encomiabile, ma il progetto come è strutturato?
Vorrei anche far notare che sovente portiamo nomi illustri dell’arte lirica a collaborare con noi a fianco dei giovani, per dare loro modo di apprendere ed avere occasioni per farsi conoscere. E’ palese che se non abbiamo il ricambio generazionale il futuro sarà molto triste e desolato per l’opera lirica.
Per frequentare le masterclass ci sono limiti di età?
Il limite è fissato solo numericamente ad massimo 10 partecipanti per ogni corso, che si svolgeranno dalle ore 10 alle 18. Non ci sono limiti d’età e non ci saranno audizioni preventive. Ritengo importante appellarmi alla consapevolezza e coscienza del cantante, capire se potrà frequentare una masterclass o partecipare come ascoltare, secondo il suo stato di preparazione.
Dunque le lezioni sono libere, vi possono partecipare anche auditori?
Certo! Il pubblico può assistere tutti i giorni alle masterclass, acquistando il biglietto d’ingresso a Palazzo Leoni Montanari, che è un museo, mentre chi vuole un attestato come auditore deve iscriversi avendo poi l’obbligo di frequenza di almeno l’ottanta per cento delle lezioni. Sarebbe anche un sogno quello di poter portare dei giovani in un grande teatro e far loro assistere a tutte le prove di una produzione. Ritengo sarebbe molto utile.
Per la realizzazione della prossima opera oltre alle voci selezionate dalla Signora Mingardo, quali complessi saranno utilizzati?
Abbiamo l’onore della collaborazione della Schola San Rocco del maestro Francesco Erle, un vicentino espertissimo del mondo barocco, un modo anche per coinvolgere altre istituzioni musicali vicentine.
Per tutte le informazioni relative alle iscrizioni ai Masterclass, sia come partecipanti sia come uditori, e per visionare il programma del Festival 2015, ricordando che molti eventi-conferenze sono gratuiti, consultare il sito www.vicenzainlirica.it.

INTERVISTA A GIUSEPPE SABBATINI [Natalia Di Bartolo] Roma, giugno 2015.
Ho incontrato il Maestro Giuseppe Sabbatini (nella foto con Rosa Kraus Ley, figlia di Alfredo Kraus) a Roma, al ritorno dall’ultima sua fatica di direttore d’orchestraal teatro Pérez Galdòs di Las PalmasGran Canaria, dal 21 al 25 aprile 2015. In scena Faust di Gounod, capolavoro dell’arte operistica francese.
N.D.B. – Maestro Sabbatini, dirigere il Faust nella patria di Alfredo Kraus, grande protagonista di quest’opera sulle scene mondiali del passato, ha avuto un ruolo nel concepimento e nella realizzazione di questo ambizioso progetto a Las Palmas?
G.S.
  Dirigere il Faust nella patria di Kraus mi ha dato soltanto un pizzico di responsabilità in più. Si è trattato di un discorso di emozione.
Nei primissimi giorni di aprile, quando sono arrivato a Las Palmas, sono andato a vedere la casa dove è nato… Alla vigilia della prima mi sono recato al cimitero dove è sepolto con la moglie. Per mè è stato un artista straordinario, nonché una persona adorabile, che nei miei confronti si è sempre comportato in modo meraviglioso.
Quindi, appena mi sono trovato davanti all’orchestra, ho pensato di dedicare a lui l’opera lì a Las Palmas.
N.D.B. – Ama dirigere l’Opéra Francais? Ha delle preferenze o ama tutto ciò che dirige allo stesso modo?
G.S. –
 Si, molto anche perché l’ho studiata tanto e metà del mio repertorio di cantante era di musica francese. Quanto alle mie preferenze, vanno ai grandi, a Gounod, Bizet, Massenet…Più di tutti forse a Gounod e soprattutto a Massenet.
N.D.B. – Qual è il ruolo del direttore d’orchestra in un’opera di questa rilevanza? E dunque cosa ha provato nel trovarsi sul podio a rivestire tale ruolo?
G.S.
  Ritengo che rivestire il ruolo di direttore in quest’opera sia lo stesso che per tutte le altre opere. La rilevanza di un direttore sta nel fare sempre il proprio dovere al massimo delle proprie possibilità.
Ciò che ho provato è stata un’emozione esaltante: ho sempre desiderato dirigere e quindi adesso ogni volta che salgo sul podio penso sempre che sia il coronamento di un percorso che è durato tanti anni ed il coronamento, soprattutto, di un sogno. Perciò non posso che essere felicissimo di quello che mi sta accadendo nella vita.
N.D.B. – È la prima volta che ha diretto il Faust? L’ha cantato più volte da protagonista in grandi teatri. È un personaggio a lei congeniale vocalmente e scenicamente? Se sì o no, perché?
G.S.
  Sì, è la prima volta.
L’ho cantato in molti teatri prestigiosi: a Parigi all’Opéra Bastille, al Teatro alla Scala, al Regio di Torino, al San Carlo di Napoli, all’Opera di Roma, che ha visto il mio debutto.
Era un personaggio assolutamente congeniale a me, anche se la mia faccia è molto più mefistofelica che non da Faust…
Anni fa s’era ideato un importante progetto con Samuel Ramey, che ritengo essere il più grande Mephisto con cui ho lavorato, che mi avrebbe dato la possibilità di interpretare almeno una volta Mefistofele, nel Dottor Faustus di Busoni. Avevo poi l’idea di fare il trittico: quindi Faust, la Damnation de Faust e Mefistofele… Ma purtroppo il progetto non si è realizzato.
N.D.B. – Come trova la partitura di Gounod dal punto di vista del direttore?
G.S.
  Molto impegnativa e difficile. Per dirigere il Faust il direttore deve conoscere lo stile, il modo in cui sia stato composto. Questo capolavoro non è stato composto in breve tempo: è stato rivisto, rimaneggiato… Molta musica francese ha avuto questo tipo di percorso: basti guardare I racconti di Hoffmann di Offenbach per rendersi conto di quanto travaglio abbiano avuto i compositori e di quanto si siano messi sempre in discussione: il che è una cosa straordinaria.
N.D.B. – Cosa pensa dei direttori che l’hanno preceduta e di quelli che l’hanno diretta come interprete? Si è ispirato a qualcuno di loro o è andato in piena autonomia interpretativa?
G.S.
  Io nutro un’immensa stima per tutti i direttori. Personalmente ho lavorato, per quanto riguarda l’Opéra francais, con quello che per me è il più grande, il Maestro Michel Plasson; ho eseguito la Damnation de Faust con Osawa; non ho avuto purtroppo il piacere di lavorare con il Maestro Pretre. Ho suonato con lui quando ero in orchestra al contrabbasso, due volte, ma purtroppo non sono mai riuscito a trovare l’occasione per cantare diretto da lui… Riguardo alle scelte interpretative sono molto indipendente, perché cerco di essere quanto più fedele possibile al testo e questo ho fatto anche per il Faust.
N.D.B. – Adesso dirigere quest’opera è per lei è come averla avuta in pugno o ha lasciato libertà agli interpreti? A lei personalmente è stata lasciata “libertà” dai maestri che l’hanno diretta?
G.S. –
 Per quanto riguarda “avere in pugno” l’opera, avendola anche cantata, l’ho studiata molto approfonditamente e quindi ho cercato di “scavarla” quanto più possibile. Per quanto riguarda, invece, la libertà agli interpreti, la mia libertà, quando cantavo, era all’interno della partitura e dunque oggi chiedo questo ai cantanti. In questo Faust specifico, è chiaro che il tenore protagonista, Aquiles Machado, avesse una voce diversa dalla mia e quindi non ho potuto chiedere a lui delle cose (che comunque riesce a fare), delle nuance, delle dolcezze che nel suo strumento devono essere eseguite con una vocalità sicuramente più potente e più pastosa e rotonda della mia…e quindi sarebbe stato sciocco da parte mia andare a ricercare le caratteristiche della mia vocalità nella voce di un mio collega di oggi. Non lo faccio mai, quindi non è accaduto neanche questa volta.
N.D.B. – Qual è stato il rapporto della sua direzione con la regia?
G.S. –
 In una produzione, tutti devono collaborare a che l’arco interpretativo sia portato e teso verso la stessa direzione: a Las Palmas questo si è pienamente verificato. Ho provato ad esaltare gli accenti che la regia di Alfonso Romero mi ha suggerito e qui il regista ha ideato e messo in atto un progetto molto interessante: rispettando assolutamente la partitura, questo Faust è stato ambientato in un’atmosfera senza tempo. Il Faust è un’opera di stereotipi: tutti i temi e i personaggi sono veramente molto stereotipati. In particolare, per quel che riguarda l’innocenza di Margherita, portata alla distruzione totale, c’è stato in palcoscenico uno sviluppo incredibile e devastante di tale personaggio: un grande lavoro per spingersi all’interno del cuore e della psiche, esasperando ancora il carattere dei personaggi, al di là degli stereotipi. Quindi, con i suoni, anch’io ho cercato di renderli meno stereotipati, se non più “umani; quanto meno ho tenuto a fare da colonna sonora a ciò che accadeva in palcoscenico, a colorare con i suoni lo spettacolo visivo in modo particolare. Sono veramente lieto di aver lavorato con Romero.
N.D.B. – Cosa pensa dell’orchestra che ha diretto e quali eventuali difficoltà ha incontrato nel mettere a punto la corretta valenza stilistica?
G.S.
  Purtroppo in questo periodo l’orchestra del teatro di Las Palmas ha avuto dei problemi a livello politico e quindi c’è stato molto nervosismo, al di là di quello che possa avere inculcato io, data la mia richiesta continua e costante di precisione per quanto riguarda il suono, lo stile, la qualità, i ritmi giusti. Ovviamente questa orchestra conosce bene il repertorio che suona da anni con il proprio direttore musicale. E’ un ensemble formato da musicisti provenienti da molti paesi europei (bulgari, rumeni, irlandesi, tedeschi e di altre nazionalità), dunque ha una cultura “variegata” e non gli è richiesta la specializzazione in uno stile specifico: curare questo punto dipende dal direttore d’orchestra di turno e dalle sue richieste. Quindi è palese che a Las Palmas non ci sia mai stato, a monte, un grandissimo percorso di musica francese e, ovviamente, ciò ha comportato più fatica per me, che ho dovuto lavorare molto intensamente sull’impostazione stilistica. Per esempio, nella musica francese ci sono tantissimi “sottotempi” o “tempi secondari” che non sono scritti e quindi la cosa più interessante è andarli a cercare e nel momento in cui li si trova dare loro il vero senso, anche se il testo fa sempre da principale punto di riferimento. Il fatto che i sottotempi di cui sopra non siano scritti nella partitura per gli orchestrali di Las Palmas è stato un problema, che io ho dovuto cercare di risolvere. Lo dico sempre ai miei allievi di canto: noi interpreti d’opera siamo molto più fortunati degli strumentisti che devono eseguire musica pura; noi abbiamo la “parola”…il testo…che pur limitando la fantasia ci aiuta assai nella definizione del significato, delle emozioni, dei sentimenti di ciò che stiamo cantando!
N.D.B. – Sempre a proposito di stile, trova che ci sia tra le dinamiche una differenza legata alla “nazionalità” delle opere?
G.S.
  Per me non c’è una differenza di dinamiche legata alla nazionalità delle opere. La dinamica è formata, purtroppo, da una scala estremamente limitata: dalle cinque “p” (piano) (Verdi arriva a sei, sette), alle quattro, cinque “f” (forte). Certe volte io mi sono spazientito con gli orchestrali di Las Palmas, perché venivano prodotti dei suoni molto sgraziati nei forte. Mi è stato risposto vivacemente che fosse scritto “forte”. Ed io ho replicato che si trattava, in quel caso specifico, per esempio, di un “forte d’amore” e che possono esistere, poi, il “forte violento”, il “forte aggressivo”, il “forte geloso”, il “forte vincitore”… Così come anche un forte nel momento in cui, per esempio, Margherita si sveglia dal torpore nella prigione, non può essere un forte come quello dell’aria del quarto atto. Dunque ritengo indispensabile che il golfo mistico sappia cosa succede in palcoscenico: ho spiegato molto all’orchestra ciò che accadeva sul palco. E’ inutile continuare a pensare che le orchestre debbano solo produrre dei suoni! Invece devono capire lo svolgimento dell’azione e le differenze di cui sopra. Finché le orchestre non capiranno questo, finché culturalmente ed intellettualmente non saranno capaci di discernere ciò che suonano, il lavoro dei direttori sarà penalizzato. A Las Palmas gli strumentisti hanno iniziato a capire, ma le orchestre dovrebbero sapere prepararsi da sole: noi direttori, con le pochissime prove a nostra disposizione non possiamo spiegare passo passo le sfumature di opere che, come il Faust, durano tre ore, tre ore e mezza.
N.D.B. – E il coro di questa produzione? Cosa ne pensa?
G.S.
  Tornando al discorso, preso come esempio, della differenza tra “forte” e “forte”, come cerco di spiegarlo alle orchestre, cerco di spiegarlo anche ai cori, avendolo oltretutto messo in atto durante la mia carriera di cantante. Nel Faust il coro ha un’importanza fon-da-men-ta-le ed ha forse la parte più difficile ed è “il personaggio” più complicato di tutta l’opera. Ci sono infiniti personaggi nel coro: i soldati, gli studenti borghesotti e i viveurs, le “jeune femmes” e le matrone…Poi i diavoli, gli angeli, i contadini e le contadine; poi c’è il coro dell’”orgia” delle “meraviglie diaboliche” e quello dei dannati; e poi alla fine il Paradiso… A Las Palmas il coro è formato da soli 44 elementi, che hanno fatto miracoli, perché si tratta di un coro amatoriale, non professionale, come invece è l’orchestra: i coristi svolgono la propria giornata lavorativa personale fino alle otto di sera e alle otto e trenta iniziano le prove. A volte i tenori sono stati costretti a raddoppiare i baritoni perché sono troppo pochi. Nella scena della chiesa, i baritoni hanno dovuto cantare sia la parte dei demoni che quella del coro dei religiosi…Immaginiamo, quindi, che lavoro titanico, pazzesco abbiano fatto con me questi coristi! E’ stato tutto molto difficile per loro, ma lo hanno affrontato con una simpatia, un amore ed una dedizione assolutamente straordinarie. Ne sono comunque contentissimo. Se anche l’orchestra, purtroppo limitata dalle condizioni di cui ho parlato, avesse avuto lo stesso trasporto, sarebbe stata una produzione stratosferica.
N.D.B. – E il Cast?
G.S.
  L’ho trovato all’altezza del progetto: Faust, Aquiles Machado, si è dimostrato intenso e molto solido vocalmente e Mephisto Rubén Amoretti ha mostrato capacità di ottimo attore, dotato di una voce molto bella e usata con grande maestria; Marguerite, Norah Amsellem, al suo debutto nel ruolo, mi è apparsa perfetta nello sviluppo psicologico del personaggio e ricca di colori, quindi dotata di variegata tavolozza cromatica e di dinamica interessantissima. Valentin, Manuel Lanza, ha sfoggiato una vocalità corposa e al totale servizio del personaggio molto intenso voluto dal regista. Ma delle sue grandi capacità artistiche ero a conoscenza da molto tempo, avendo cantato con lui tante volte durante la mia carriera di tenore e giusto il Faust alla Scala nel ’97, insieme a Samuel Ramey…quindi, oltretutto, mi ha fatto molto piacere averlo incontrato di nuovo e, questa volta, anche diretto.
Cosa pensa del pubblico spagnolo? Ha una grande esperienza anche come tenore nei confronti del pubblico. Come pensa che questo Faust sia stato accolto?
G.S. –
 Io non ho lavorato molto in Spagna come tenore. Ho avuto più contatti con il pubblico di Barcellona che con quello di Madrid, per esempio. Ricordo che a Madrid fui contestato perché ero stato chiamato al posto di un cantante che non era gradito al regista…Io non ne sapevo nulla, perché altrimenti non sarei andato, anche perché non amavo sostituire, soprattutto colleghi che stimavo…dunque ci fu tutta una querelle e purtroppo, quel Rigoletto, per mille motivi non andò bene… Quindi per questo Faust in territorio spagnolo spero che sia stato apprezzato il lavoro fatto, ma non solo il mio, quello di tutti. Abbiamo lavorato con estrema armonia, con estremo amore e sono veramente entusiasta del lavoro che è stato svolto con la partecipazione di tutti. Il pubblico ha risposto con molto calore.
N.D.B. – Prossimi impegni e progetti e un sogno attualmente nel cassetto a proposito di direzione d’orchestra.
G.S.
  Requiem di Verdi a San Pietroburgo, probabilmente La Bohème in Giappone, un concerto con la Filarmonica di Sibiu in Romania. Poi ci sono progetti di opere con un’Organizzazione alla quale tengo in modo particolare. Sogno nel cassetto: quello di dirigere quattro produzioni l’anno, che sono più che sufficienti per poterle “fare come voglio io”.

L’INTENZIONE ROSSINIANA – INTERVISTA A SABRINA AVANTARIO [William Fratti] Pesaro, agosto 2015.
Collaboratore del Rossini Opera Festival di Pesaro dal 1995 e ivi maestro principale e responsabile musicale dal 2005, Sabrina Avantario lavora assiduamente in stretto contatto con Alberto Zedda da diversi anni e può attualmente essere considerata una dei più importanti e specializzati preparatori musicali e vocali nel repertorio rossiniano più autentico, riscoperto, studiato e messo in scena nella città marchigiana a partire dal 1980 nel massimo rispetto del compositore pesarese. “Ciò che si respira a Pesaro è la vera intenzione rossiniana, cioè la ricostruzione del suo pensiero musicale, presentandolo con competenza e cognizione di causa” ha affermato la pianista. “Questo festival è stato ed è una scuola, ha cambiato il volto dell’opera di Rossini e ha creato professionalità specifiche; credo sia il meglio di quanto un festival possa offrire, poiché non si è mai prefisso di essere solamente un cartellone di intrattenimento musicale; anzi ha forgiato persino le maestranze: i tecnici del ROF sono rinomati ovunque per la loro bravura. È un festival che ha una solidità sotto tutti i punti di vista, perché è stato creato sulla base di un’idea assolutamente artigianale, nel senso più alto del termine, quindi della trasmissione del sapere da uno a un altro e poi a un altro ancora, ma anche della cura certosina del dettaglio: chi ha avuto la fortuna di lavorare a Pesaro non ha solo lavorato, ma soprattutto ha imparato, si è formato, ha capito delle cose importanti ed è stato messo in condizione a sua volta di poterle trasmettere ad altri; il Rossini Opera Festival è basato sulla trasmissione di un sapere. In realtà ci passiamo proprio le consegne: mi ricordo quando iniziai, venti anni fa, quando il maestro collaboratore responsabile, cioè colui che ricopriva la mia posizione di oggi, ci trattava un po’ come una mamma chioccia e noi imparavamo da lui, dai suoi racconti, dai suoi insegnamenti, dalla sua professionalità – era stato un collaboratore dei tempi della Caballé e della Horne. Ha passato le consegne, le ha passate a me ed io le passerò a mia volta, umilmente. Quindi la capacità di applicare l’intenzione rossiniana risiede prima di tutto nel capire a quale punto di distanza ci si deve mettere rispetto al testo musicale, un po’ come di fronte a un quadro si cerca la distanza ideale per poterlo vedere al meglio; questo è il problema che ci si deve porre. Rossini ha scritto una musica che è una commistione di astratto e pregnante, quindi non ci si può tuffare dentro, ovviamente, come nella musica di un secolo dopo, poiché non si presta a questo. Si deve agire con cautela. L’intenzione dunque cambia, a seconda che sia un’opera buffa, comica – perché c’è una differenza tra il buffo e il comico – semiseria, o seria, e quindi va sempre calibrata, anche perché Rossini usa un linguaggio fatto di stilemi costanti e si può – si deve – far capire che appartengono a un genere o a un altro dando quel carattere, appunto quell’intenzione specifica, interpretandoli alla luce dello spirito dell’opera, e ciò deve governare la scelta dei tempi, dei pesi, anche fonici, la scelta del fraseggio, delle agilità, la scelta delle agilità stesse. Posto che la medesima aria vada a finire in un’opera comica o un’opera seria, non si possono usare le stesse variazioni dall’una all’altra, perché in realtà proprio in Rossini è più che mai importante farsi carico del testo. Sembra paradossale se facciamo un confronto, ad esempio, con la parola scenica verdiana. In Verdi il testo è ben più carico, ma è anche più evidente, mentre in Rossini non c’è nessuna ovvietà, quindi per metterlo in luce occorre giocare sulla scelta delle cadenze, delle variazioni, del fraseggio, sull’intenzione stessa: sbagliando l’intenzione, improvvisamente un’aria di un’opera seria sembra buffa e tutto scade nel ridicolo, cioè tutto si banalizza, da cui appunto il pregiudizio pre-ROF che Rossini fosse un autore noioso e ripetitivo. Non applicando queste distinzioni, è chiaro che allora tutto si fa uguale”.
Considerata un’esperta di MozartRossini e del repertorio italiano in genere, Sabrina Avantario non è solo richiesta come maestro al pianoforte, al fortepiano e al cembalo, ma soprattutto come preparatore vocale e linguistico a livello internazionale. “Quando si porta Rossini fuori da Pesaro dopo essersene imbevuti – una persona che lavora a Pesaro per tanti anni si imbeve, entra in un meccanismo che va da sé, sa benissimo come deve fraseggiare certi passi, sa come si devono realizzare certi passaggi – si resta anche un po’ stupiti di quanto tutto questo sia poco conosciuto. Ed è proprio qui che il passaggio delle consegne che si fa al ROF diventa fondamentale, poiché si deve andare ovunque a portare questa conoscenza, a insegnare semplicemente un mestiere. Generalmente mi chiamano per preparare cast composti da artisti non italiani, per renderli il più italiano (ed eventualmente rossiniano) possibile. Ognuno arriva con un suo retaggio: ad esempio un cantante tedesco, fosse anche mozartiano, o un russo, che arriva dal suo repertorio, è tutt’altro che immediato convertirli a Rossini; devo riuscire a capire come da lì, da tutte queste direzioni, arrivarci il più possibile vicino, in tempo breve, proprio con il senso di scuola, di artigianato, che si passa con tanta pazienza e dedizione. Il mio lavoro all’estero è proprio questo: cercare di curare, nelle varie produzioni, il repertorio italiano nella lingua, nello stile, nella vocalità all’italiana, come portare la voce avanti con la parola, perché non è così ovvio: in Italia non ci si deve lavorare, mentre in altri Paesi si trovano altre tecniche, che sono magari più adatte ad altri repertori, ma quando si affronta una partitura italiana si deve cercare di avvicinarsi un pochino, di dare omogeneità al cast. Sono tutte cose molto utopiche, che nel giro di un mese non si possono veramente cambiare, però lavorando molto sul testo, non arrendendosi mai, si ottengono delle volte dei risultati molto soddisfacenti. Una delle esperienze più belle della mia vita è stata una Bohème ad Atene con Graham Vick, nel 2007 con ripresa nel 2008, dove ho svolto questo tipo di lavoro con un cast soprattutto di greci: un lungo processo, sei settimane di prove, lavorando come ama lavorare Vick e come amo lavorare anche io, sul dettaglio fino alla morte. Il testo di Bohème si presta a fare di tutto: è ricco di sfumature, di significati, di possibilità tutte da cogliere e con un doppio cast – e doppio lavoro – dopo queste sei settimane di prove arrivammo a un ottimo risultato, addirittura con un secondo cast ancora più entusiasmante del primo. Fu qualcosa di spettacolare: quello che era la comprensione, il taglio di quel testo nel profondo, come i cantanti sono arrivati a porgerlo e a viverlo è stato un lavoro meraviglioso. Dunque all’estero vengo richiesta da registi con cui ho già lavorato, che non essendo italiani mi usano ad esempio molto spesso per la costruzione dei recitativi, poiché chi non ha la conoscenza e l’esperienza dell’italiano qualche volta ama avvalersi di qualcuno che è in grado di portare e combinare un’idea registica di base con uno scavo del testo, ma questo discorso non vale per Vick, che conosce l’italiano tanto bene quanto me. Oppure vengo chiamata da direttori d’orchestra, per preparare un cast, curarli tutti quanti e portarli in un direzione musicale e stilistica di un certo tipo”.
Sabrina Avantario attualmente vive ad Anversa, ricopre il ruolo di professore ospite al Conservatorio Reale e collabora con l’Opera delle Fiandre, dove presto ci sarà una nuova produzione di Armida con Alberto Zedda, “il maestro da cui si impara a Pesaro. Se non ci fosse Zedda, non sarebbe lo stesso Festival. Ho imparato molto su Rossini andando all’Accademia rossiniana e sentendo le sue lezioni; così ho cominciato a capire chi fosse questo compositore e come fosse concepita la sua musica. Nessuno lo conosce meglio di lui e sono proprio le sue lezioni che creano l’humus di Pesaro, è lui in ultima istanza la terra in cui tutti noi abbiamo messo le nostre radici, il mare in cui tutti noi abbiamo pescato. Tutto questo è molto importante, poiché dai precedenti maestri collaboratori ho imparato la professionalità, il rigore, il mestiere, ma il contenuto rossiniano l’ho assimilato da Zedda. Fortunatamente oggi c’è un’intera generazione di responsabili musicali che hanno imparato tutto questo, che sono in grado di trasmetterlo – penso a BarkerFabbriniSantoroZappa e anche a me – tutte persone che sanno come si gestisce Rossini e su cui poggia una certa continuità stilistica del festival. Tutto parte da Zedda nel 1980, quando ha iniziato ad insegnarci che bisogna quanto più possibile conoscere le fonti, conoscere la vita del compositore, capirne la psiche, comprendere le vicende e le circostanze, senza mai limitarsi solo alla lettura della partitura, e anche nella partitura imparare a leggere il segno scritto, che è sempre limitato, mai esaustivo, specialmente nell’epoca di cui parliamo. Le prove di sala di Zedda sono delle epifanie di senso che non si possono neppure immaginare e nelle prove d’orchestra lo si vede insegnare come trattare certi passi, perché non vanno da sé, ma vanno spiegati, con entusiasmo sempre nuovo, come se fosse la prima volta che dice queste cose. Ogni volta che qui a Pesaro viene a una prova, anche solo per un giretto, abbiamo sempre una domanda per lui, una chiarificazione, un confronto e quando apre bocca tiene una lezione che cava il fiato, che illumina: è questo che contraddistingue il ROF, è basato sulla conoscenza e la diffusione della conoscenza. Alberto Zedda ha riscoperto un autore e lo ha capito a fondo. Ci vorrebbero altri festival in cui si scopre una partitura, si fa lo studio critico, si pubblica l’edizione critica e la si porta in scena, facendo sentire come suona, lavorandoci seriamente per farne sentire le bellezze, ripulendola dalle incrostazioni storiche che sono figlie di altre epoche, perché noi rischiamo di essere filologici con i resti di altri periodi storici e non ce n’è nessun bisogno, soprattutto con compositori molto rappresentati, come ad esempio Verdi. Comunque sia, ogni lettura deve potersi rifare all’epoca in cui il testo venne scritto. Non possiamo seguire la tradizione esecutiva del passato, perché così andiamo a rispettare la cultura dei tempi di quell’interpretazione, ma non necessariamente l’intenzione dell’autore. Bisogna essere liberi da tutto questo e per essere liberi bisogna il più possibile rifarsi al testo, per reinterpretarlo, perché reinterpretare l’interpretazione significa andare nella meta interpretazione: è tutto un altro discorso, allora facciamo la storia delle interpretazioni e non più di Verdi o Donizetti o chicchessia, seppure visti attraverso la lente del nostro gusto e sentire attuale. La tradizione deve avere anche un limite. Un auspicio di Alberto Savinio, tanto tempo fa, era poter sentire un Rigoletto a tempo, che è poi ciò che ha fatto Muti: lo ha ripulito da troppe libertà, anche ritmiche, da troppe incrostazioni, lo ha snellito; insomma il suo Verdi è un’altra cosa”.
L’Opera di Anversa, dove spesso collabora Sabrina Avantario, diversamente da molti teatri italiani ed europei, propone spesso titoli rossiniani tra i meno conosciuti. “Se un direttore artistico non frequenta Pesaro per sentire che cosa tira fuori il festival, chiaramente non può conoscere i titoli più inconsueti e non li può proporre. Ad esempio il direttore artistico di Anversa assiste tutti gli anni a tutte le produzioni, compreso Il viaggio a Reims e non solo pesca nuovi talenti per il suo teatro, ma ha una conoscenza rossiniana e propone un Rossini non banale sul suo palcoscenico”.
Per oltre un secolo il compositore pesarese è stato considerato solo come autore di opere comiche e buffe, senza mai soffermarsi veramente sul suo linguaggio, che invece emerge da tutti i suoi lavori, soprattutto gli ultimi, fino all’apice del Guillaume Tell, potendosi considerare musica d’avanguardia. “C’è del vero in questa affermazione. Considerando l’alfa e l’omega di Rossini, cioè partendo proprio dall’inizio e poi guardando alla fine (doppia fine, se si pensa prima alla fine dell’attività come operista e poi alla fine della sua attività compositiva tout-court) non si può che vedere una creatività rivoluzionaria. Già a partire dalle sue prime farse aveva voltato pagina nella storia della musica. Era molto bella quell’operazione che si faceva anni fa a Pesaro di mettere in scena le farse degli autori coevi. Così ci si rendeva conto immediatamente di che cosa aveva significato l’arrivo di Rossini: è stato un ciclone, ha spazzato via tutto. Tutti i compositori del tempo lo avevano capito, pensando che li avrebbe mandati in pensione, ed è stato proprio così. Già nei primi anni di carriera è stato uno spartiacque. Poi ha aperto le porte ai musicisti successivi. Un altro merito enorme del ROF, che ha tolto Rossini dalla banalità di quelle poche opere che erano rimaste in repertorio, è stato quello di fare capire come si fosse arrivati appunto al giovane Verdi, a Bellini, a Donizetti, a Mercadante, da dove fossero venuti fuori certi profili melodici, certe figurazioni drammatiche, orchestrali. Prima del ROF questi autori sembravano spuntati come Atena dalla testa di Zeus, mentre Bellini aveva passato del tempo a Napoli e si era sentito le opere serie di RossiniDonizetti aveva avuto una lunga amicizia con Rossini. Ascoltando una melodia belliniana, che riposa su un certo accompagnamento, ci si rende conto che, fermo restando il genio melodico belliniano, si è abbeverato al Rossini serio; come pure Mercadante, autore importante e spesso dimenticato, che fa da ponte fra Donizetti e Verdi. Nulla nasce dal niente. Tutta la generazione romantica ha fatto i conti con Rossini. Più difficile è però rintracciare le origini degli stilemi che Rossini ha creato, del suo linguaggio così originale, di quello che Glenn Gould chiamava quoziente di estro e che sicuramente è presente in misura enorme in lui. Eppure quel tasso di unicità così elevato non rompe mai con la tradizione, non le getta mai contro un guanto di sfida. Rossini sembra semplicemente essere cresciuto organicamente dalle sue radici, sempre seguendo – io penso – una sua istanza musicale interiore, fino ad arrivare al Guglielmo Tell, dove si dice che lui stesso si sia ritratto, poiché il suo linguaggio era andato oltre lui stesso. Insomma lui non si sentì di andare in quella direzione, che poi era il romanticismo. Però ha chiuso con l’epoca precedente e ha aperto la successiva. A quel punto ha alzato le mani e smesso di fare opera. Rossini era un conservatore che è diventato un rivoluzionario per caso. Ma qui ritorno alla domanda iniziale, all’idea di Rossini come innovatore. L’ultima produzione compositiva rossiniana, ed eccoci all’omega, è di nuovo rivoluzionaria: coi Péchés de vieillesse apre le porte a Satie, al Novecento e al non-sense musicale. Dunque di nuovo Rossini apre una strada, ma non è facile rintracciare da dove lui stesso abbia preso le mosse. Io penso che bisognerebbe andare a scavare nella musica di uno dei suoi primi maestri, Giuseppe Malerbi di Lugo. Un uomo che aveva proprio quello spirito, che scriveva dei pezzi esilaranti, ironicissimi, con cui intratteneva gli amici. Musica che oggigiorno nessuno conosce, ma che Rossini conosceva bene e cui si è ricollegato alla fine della vita, sviluppandone le premesse e aprendo le porte addirittura al Novecento”.
Sabrina Avantario è anche impegnata con il Dipartimento di Educazione dell’Opera delle Fiandre per cui concepisce, esegue e prende parte a numerosi progetti al fine di far avvicinare i bambini più piccoli al mondo dell’opera lirica; progetti che fanno di questo dipartimento uno dei più interessanti sull’intera scena europea.