2015

Spettacoli 2015

DAS LIEBESVERBOT [Lukas Franceschini] Trieste, 2 gennaio 2015.
Sfizioso, ma si potrebbe affermare coraggioso, il titolo scelto dalla Fondazione Teatro Lirico “G. Verdi” per l’apertura della stagione: Das Liebesverbot (Il divieto d’amare) di Richard Wagner.
Salvo errori di chi scrive l’opera, la seconda in ordine cronologico del catalogo wagneriano, in Italia è stata rappresentata solo una volta a Palermo nel 1991. In effetti, lo spartito fu ripudiato dallo stesso compositore e mai rappresentato durante la sua vita, in seguito salvo sporadiche occasioni più che per curiosità, come nel 1983, centenario della morte, che fu proposto da Wolfgang Sawallisch.
Richard Wagner dopo aver intrapreso in modo discontinuo gli studi musicali, nel 1830 si dedica seriamente a questa disciplina a Lipsia.
In seguito ad alcuni lavori giovanili (fra cui una sinfonia), ottiene la nomina a direttore del coro del teatro di Würzburg, nel 1833, che gli offre la possibilità di ricoprire saltuariamente diverse cariche teatrali tra cui anche il direttore d’orchestra. E’ qui che compone la sua prima opera Die Feen dall’impianto melodico e armonico poco definito, con forti influenze dello stile di Weber. Si sposta in seguito a Magdeburgo, dove svolge l’attività di direttore musicale ed è qui che nel biennio 1834-36 compone l’opera in oggetto che fu rappresentata nel teatro locale il 29 marzo 1936. Fu un fiasco clamoroso: la platea era quasi vuota, il protagonista si dimenticò la parte e dovette improvvisare. Ancora più assurda fu la seconda rappresentazione, interrotta ancor prima che salisse il sipario a causa di una rissa scoppiata dietro le quinte fra un cantante e il marito della primadonna per motivi di gelosia. Già ad un primo ascolto si evince che trattasi di un lavoro giovanile, tesi valida per molti altri compositori, con tutti i limiti del caso, la musica appare ricalcata su modelli noti, von Weber e Beethoven, e fuori dall’ambito tedesco ad Auber, Meyerbeer e il prediletto Bellini. Siamo dunque ben lontani dal concetto con il quale è riconosciuto Wagner: un romantico riformista del teatro ove il pensiero musicale è sintesi delle arti poetiche, visuali, musicali e drammatiche.
Das Liebesverbot è una grande opera comica in due atti tratta da Measure for Measure di William Shakespeare, il cui tema centrale è l’ideale di un eros libero, non soppresso dentro una rigida moralità e un acceso bigottismo, tema tra l’altro utilizzato anche in seguito da Wagner. In Liebesverbot, essendo commedia, il finale è lieto e l’espressione della frenetica sessualità ha il dominio nel carnevale orgiastico cui si abbandonano tutti i protagonisti, nella contrapposizione iniziale tra la rigidità quasi teutonica di Federico e l’appassionata spontaneità dei concittadini ispirata a convenzioni all’italianità. E’ sicuramente un Wagner “atipico” rispetto al più conosciuto, ma mostra una buona melodia, verve ed impulso ritmico che saranno abbandonati presto.
Il regista Aron Stiehl, a Trieste ripreso da Philipp M.Krenn, considerata la strampalata drammaturgia risolve la sua lettura in chiave ironica individuando la doppia posizione degli individui nella controversa ambiguità tra lussuria e moralismo, eccessi forse sfrenati e un autoritarismo ferreo. Ecco dunque la scena, di Jurgen Kirner, suddivisa in due da una bianca parete movibile: da una parte il mondo degli eccessi, dall’altra quello austero composto di una serie di cassettoni i quali sembrano veri e propri loculi cinerari. Con questi presupposti la marcia avviata è quella del grottesco e del surreale, che in varie occasioni è anche divertente in molte altre, è poco chiaro e banale. Anche il costumista Sven Bindseil si diverte a sfoggiare sia abiti austeri sia eccentrici costumi stile figli dei fiori anni ’70 con tanto di una parodia di Conchita Wurst. Oltre quel limite ma nel complesso non disturba e spesso fa sorride, anche se trattasi di una tipica regia “alla tedesca”, la quale non convince pienamente ma non si colloca nella sezione astrusa spesso programmata oltralpe.
Sul versante musicale abbiamo avuto in Oliver von Dohnanyi un concertatore solido e di buon mestiere capace di estrarre dall’orchestra locale un buon suono e un’appropriata melodia seppur con mano robusta e sovente un po’ pesante. Encomio al Coro, istruito da Paolo Vero, che ha fornito prova di ottima professionalità e capacità sceniche rilevanti, tanto era impegnato nel contesto registico.
Eguale merito va elargito a tutta la compagnia, anche se da punto di vista vocale necessitano i doverosi distinguo. La migliore del cast era il soprano Lydia Easley, Isabella, soprano dotata di voce importante e piena ma anche drammatica, capace di piegare il prezioso mezzo in acuti fulgidi, accenti di rilievo, e una sicurezza interpretativa di gusto plauso. Assieme a lei anche l’altro soprano, Anna Shoeck, di brillante e precisa vocalità.
Meno incisivo il Friedrich di Tuomas Pursio, che pur senza sfigurare non ha sufficiente musicalità e spessore insinuante. Le parti deboli del cast erano rappresentate dai due tenori: Mark Adler, Luzio, e Mikheil Sheshaberidze, Claudio. Il primo pur con voce chiara aveva difficoltà di tenuta nel dosaggio dei fiati, risultando spesso in affanno; il secondo era molto limitato nel registro acuto la zona centrale era piuttosto monocorde.
Reinhard Dorn era un simpatico e frizzante Brighella di ottima resa canora. Bravissima scenicamente Francesca Micarelli, Dorella, e puntuale vocalmente anche se non dotata di timbro seducente. Completavano il cast con ottime prestazioni: Gianfranco Montresor (Angelo), Cristiano Olivieri (Antonio), Piero Toscano (Danieli) e Federico Lepre (Ponzio Pilato).
Teatro non esaurito, la recita era nel mezzo delle feste, ma piuttosto gremito da un pubblico anche giovane che al termine ha tributato un caloroso successo a tutta la compagnia.

LES CONTES D’HOFFMANN [William Fratti] Piacenza, 9 gennaio 2015.
Per la prima volta nel corso della sua lunga e tormentata storia, la celebre opéra-fantastique di Jacques Offenbach approda sul palcoscenico del Teatro Municipale di Piacenza, in uno spettacolo essenziale, pulito e filologico; senza alcun coup de théâtre o idea originale – molti sono i richiami a rinomate regie storiche – ma non è una colpa, poiché è mai noioso e mantiene viva l’attenzione per tutta la durata del lungo avvicendarsi dei vari racconti.
Il lavoro di Nicola Berloffa è migliorato rispetto alla precedente La vedova allegra, soprattutto nei movimenti, negli ingressi e nelle uscite delle masse artistiche, che in questa produzione appaiono ben più fluidi. Anche l’uso di alcune controscene ha contribuito a rendere maggior animazione. Restano da migliorare alcune piccolezze – come i pezzi nudi della bambola che escono dal sacco di Coppélius, mentre potrebbero essere vestiti con gli abiti di Olympia; od un eccessivo ed inopportuno utilizzo del grande caminetto come porta di accesso, conveniente a La Muse/Nicklausse, forse ai personaggi demoniaci, ma poi troppo ed inutilmente inflazionato – ciononostante è da notarsi un certo impegno complessivo, che merita gli applausi ricevuti. Piacevolissima, anche se proveniente da un’idea già usata in passato, la scenografia pressoché unica nella taverna di Luther disegnata da Fabio Cherstich, che si veste con gli attributi dei luoghi di Olympia, Antonia e Giulietta, proprio come se Hoffmann stesse sognando i propri racconti, addormentato in quella stanza. Efficacissimi, pur anch’essi non troppo originali, i costumi di Valeria Donata Bettella. Buono il progetto luci di Luca Antolini.
Giorgio Berrugi esegue il mastodontico ruolo di Hoffmann in maniera decisamente corretta. Forse non sarà un interprete di riferimento e non avrà una voce né uno slancio in grado di appassionare i cuori dei tenormelomani, ma canta con musicalità ed intonazione tutta l’opera – si registra qualche piccolo intoppo solo nella canzone di Kleinzach – gli acuti – pur non svettanti – sono sempre limpidi ed in avanti e va notato che in questo temibile personaggio risulta migliore di colleghi ben più blasonati. Molto ben riuscito è il terzetto con Crespel e Miracle.
Simone Alberghini veste i panni dei quattro personaggi demoniaci senza alcun difetto vocale, con buon accento ed efficacia interpretativa, pur non essendo particolarmente coinvolgente, anche se convincente.
Bravo il giovane tenore Florian Cafiero nel quadruplice ruolo di Andrès, Spalanzani, Frantz e Pitichinaccio, dotato di voce piena e sonora, ben centrata nella parte del padre di Olympia, forse un poco affaticata nell’aria del domestico del padre di Antonia “Jour et nuit” ma sicuramente un cantante da riascoltare e soprattutto da tenere d’occhio.
Altrettanto valente è il debuttante Olivier Dejan, che sa farsi notare sia in Maître Luther, sia in Crespel, in possesso di vocalità intensa e tonante. Anch’egli è cantante da seguire e riudire.
Molto efficaci anche Oreste Cosimo nei panni di Nathanaël e Cochenille, nonché Aline Martin in quelli della madre di Antonia. Adeguati anche Josef Skarka nei ruoli di Hermann e Peter Schlemil e i solisti del coro Andrea Bianchi, Alessio Verna e Ruggiero Lopopolo.
Riguardo ai personaggi femminili, innanzitutto è da notarsi che i quattro ruoli principali scritti per una sola interprete sono stati qui eseguiti da due diverse soprano. La tradizione, che per oltre un secolo ha portato in palcoscenico Les contes d’Hoffmann in una decina di versioni più o meno lontane dall’originale voluto dal compositore, ha sempre indotto a proporre l’opera con artiste differenti, soffermandosi su caratteristiche ad effetto strappapplausi piuttosto che autentiche. Negli anni Settanta la prima a ripristinare la giusta leggerezza per Antonia e Giulietta è stata Joan Sutherland, pur non essendo ancora stato riscoperto l’autografo dell’atto quarto. In tempi più o meno recenti, anche grazie agli ultimi ritrovamenti, altri tentativi sono stati fatti da altre soprano, tra cui Patrizia Ciofi e Silvia Dalla Benetta, dimostrando chiaramente che non sussiste differenza tra le quattro diverse vocalità. Per oltre un secolo si è stati abituati ad un’Olympia stracolma di sovracuti, ad un’Antonia puramente lirica e ad una Giulietta ancor più corposa, ma una lettura attenta dello spartito autografo, se si escludono le variazioni, porta a pensare ad una sola interprete. E questa è chiaramente un’occasione persa, poiché lo si poteva fare anche a Piacenza.
Al Municipale a vestire i panni della bambola è stata Elisa Cenni, restando nel solco della tradizione del soprano leggero di coloratura e sembra prendere spunto dalla storica interpretazione di Natalie Dessay. La voce è morbida, l’intonazione è buona, gli acuti sono ben tenuti, i sovracuti non sempre limpidi ma talvolta striduli, talaltra appena accennati. Nel complesso la resa è molto buona, ma volendo essere precisi, non tutti gli staccati previsti dalla partitura sono eseguiti correttamente, ma risultano un po’ troppo legati.
Invece Maria Katzarava, pur possedendo una voce molto importante e naturalmente bella, è cantante inelegante e grossolana, dedita all’urlo che tanto piace al pubblico medio, che applaude non appena sente i decibel andare oltre un certo livello, indipendentemente dall’intonazione, dall’appoggio e dalla qualità dal suono. L’aria di Antonia “Elle a fui, la tourterelle” dovrebbe essere delicata e raffinata, mentre è volgare nel canto e nel gesto, così come tutto l’atto. Ancor peggiore è Giulietta, che invece di saper ammaliare e sedurre con eleganza e ricercatezza, grida note pasticciate, soprattutto nel rondò – che in pochi conoscono e probabilmente non ne capiscono il pastrocchio – e si sbraccia come uno scaricatore di porto. A nulla serve la strillante uscita di Stella. Il giovane soprano messicano ha un curriculum di tutto rispetto, quindi si potrebbe pensare ad un’indisposizione, o più maliziosamente al forte potere del suo agente.
Violette Polchi è più soprano corto che non mezzosoprano e la sua interpretazione de La Muse e Nicklausse è abbastanza limitata, soprattutto nei fiati troppo corti e nelle note basse ben poco salde.
Concludendo con Christopher Franklin, bravo direttore che sa reggere i tempi e soprattutto le masse, anche nelle pagine più difficili della partitura, ha come unico neo quello di non lasciarsi mai troppo andare nei caratteri maestosi che invece sarebbero richiesti in alcuni passaggi: lo stile di Offenbach è inconfutabile, intriso della raffinatezza francese in ogni singola nota, sa però arrivare con somma eleganza all’estremo della grandeur parisienne. Da notare che forse tale imperfezione è causata anche dall’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, che si prodiga in un suono sì pulito, ma un poco svogliato, povero di trilli e di ritmo scintillante.
Molto buona la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, diretto da Corrado Casati.
Infine va segnalato che è stata diffusa l’informazione che l’opera sarebbe stata eseguita, per la prima volta in Italia, sulla base dell’ultima edizione critica curata da Kaye e Keck, i quali hanno potuto accedere ad una quantità di musica e di documenti originali mai resi pubblici in precedenza. Purtroppo tale versione è stata solo la base di partenza della produzione, poiché sono state mantenute diverse pagine apocrife o mutuate da altri lavori, come vuole la tradizione. Inoltre, dei nuovi ritrovamenti, sono stati proposti solo alcuni pezzi, restando molto lontani da una versione integrale. Franklinha voluto rimarcare che “la nostra produzione, però cerca di rimanere nei parametri di uno spettacolo di tre ore per un pubblico di oggi. Per motivi di eccessiva quantità di musica abbiamo dovuto in un certo senso snellire la partitura per potervela proporre per la prima volta qui al Municipale”. La vera ragione di questa scelta non è molto chiara. Direzione svogliata? Pubblico svogliato? Probabilmente no. Probabilmente, come già frequentemente accaduto in altri teatri negli ultimi anni, mancanza di risorse economiche sufficienti a coprire le impossibili richieste sindacali di alcuni lavoratori dello spettacolo. E chi continua a pagarne il prezzo è la cultura.

UN BALLO IN MASCHERA [Lukas Franceschini] Bologna, 11 gennaio 2014.
La Stagione del Teatro Comunale di Bologna è stata inaugurata con l’opera Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, nell’allestimento curato da Damiano Michieletto e coprodotto con il Teatro alla Scala di Milano.
Oggi l’opera è da considerarsi come il primo effettivo traguardo della maturità più acclarata del compositore. Il percorso stilistico è raffinato e di eccelsa drammaticità, anche se non mancano citazioni e situazioni di belcantistica vocalità rappresentata sia da personaggi sia in situazioni che strappano il mezzo sorriso e trasportano dalla truce realtà della vicenda. E’ altrettanto indicativo come Verdi ha scolpito i personaggi, complice anche il bravo librettista, preferendo il lato privato delle debolezze umane e quelle del Ballo ottocentesco, ma di memoria precedente, non sono per niente diverse da quelle di oggi: amore, potere, vendetta, soprusi, magie.
Prendendo spunto da tale concetto il regista Damiano Michieletto trasposta l’azione ai giorni nostri, Riccardo è il governatore di Boston in piena campagna elettorale per la rielezione. Lo spettacolo visto già al Teatro alla Scala, e recensito su queste pagine, non mi convinse del tutto allora e neppure oggi. L’idea è anche pertinente e tutto ciò che vediamo nell’opera sappiamo può essere di piena attualità. Tuttavia, quello che manca a questa regia è la magia teatrale, troppo freddo, troppo distaccato in una cornice, moderna ma banale, poco incisiva e sovente dozzinale, in questo caso la splendida mano di Paolo Fantin non è così efficace come in altre occasioni. L’ufficio elettorale della prima scena è la stessa abitazione privata di Renato ed Amelia, la brutta scalinata sulla quale siede il pubblico per la maga televisiva, una vota girata diventa un postribolo di periferia di scarsa atmosfera. L’abuso di luci e led, peraltro non del tutto pertinenti, trasformano scene che dovrebbero essere grandiose in avanspettacolo di terza categoria. Sulla recitazione dei singoli non c’è stata una minuziosa precisione e debita sfaccettatura, sovente lasciati al caso in continuo movimento senza logica, soprattutto nel secondo atto ove ci si sarebbe aspetto maggior tensione quasi da thriller. Il regista avrebbe potuto anche esimersi dal simulare guarigioni improvvise di persone affette da gravi problemi di handicap, Ulrica è una maga non in questo senso, e l’idea della ciarlatana televisiva si era già vista. Nell’insime uno spettacolo che anche alla seconda visione ha deluso, ci sono stati dei ritocchi rispetto l’originale (le prostitute del secondo atto ridotte ad una, era più pertinente) ma è lecito pensare, pur nel rispetto delle idee creative altrui, che non tutte le opere liriche debbano e possano per forza essere attualizzate, e non aiutavano i modernissimi e comuni costumi di Carla Teti, seppur in linea con la regia.
Michele Mariotti debuttava come concertatore sullo spartito. Non abbiamo avuto gli stessi risultati del recente Tell, ma siamo sempre alla presenza di un giovane direttore in continua ascesa. Perfetto calibratore dell’insieme, accurato suggeritore di meticolosa precisione nelle parti d’orchestra trascina il tutto con buona professionalità, ma non trova la chiave dei momenti drammatici, non crea quella tensione nel colore orchestrale che risponde soprattutto al secondo atto, ove prevale un accompagnamento di ruotine senza nervo e frenesia. Anche in altre occasioni si adagia in quest’abitudine, mentre in altre prevale un ritmo più appropriato. Bellissimo invece il pianissimo, poi in crescendo, del concertato finale dell’opera. E’ prevedibile che una maggior frequenza dello spartito porterà a risultati migliori.
Non entusiasmane il cast proposto per l’edizione bolognese. Gregory Kunde, Riccardo, è un cantante che in questa seconda fase della sua carriera ha potuto osare titoli un tempo impensabili, ma questo non significa che tutto sia lecito e tutto sia opportuno. Nella performance di Bologna abbiamo avuto un tenore preciso, ancora con ottimi fiati, sicuro nell’acuto e discreto fraseggiatore, il che non è poco considerando i tempi. Quello che mancava era lo smalto vocale, uno smalto che avrebbe dovuto essere seducente ed armonioso, purtroppo non oggi presente nel carniere del tenore sia per vocalità propria sia per anni di carriera. A questo va aggiunto un colore vocale monotono che l’hanno penalizzato soprattutto nel grande duetto del secondo atto.
Maria José Siri, Amelia, deve invece fare i conti con una tecnica e un registro acuto non precisi, pertanto molte note sono arrivate al limite, se non omesse, ma il personaggio emergeva per capacità scenica e una sostanziale aderenza all’accento. Luca Salsi, Renato, ci ha regalato una prova ben superiore a quella estiva all’arena di Verona. Dotato di voce importante e piena, si prodiga in un canto manierato e abbastanza preciso, avesse dalla sua anche un colore più variegato e non sempre truce, sarebbe su altri piedistalli.
Delude l’Ulrica di Elena Manistina perché è un soprano travestito da contralto, che utilizza eccessivamente la zona “di petto” nella sezione grave ma il medium è chiaro e per nulla suggestivo. Poco frizzante e con voce aspra l’Oscar di Beatriz Diaz. Bene i due congiurati Samuel e Tom, Frabizio Beggi e Simon Lim, musicali e precisi. Completavano la locandina con buona professionalità Paolo Orecchia (Silvano), Bruno Lazzaretti (un giudice) e Luca Visani (servo d’Amelia).
Pubblico numerosissimo e in gran soirée per quest’apertura di stagione, poco partecipe d’applausi durante l’esecuzione ma al termine ha decretato un autentico successo a tutta la compagnia, tranne due isolati “buu” algli artefici dell’allestimento.

I CAPULETI E I MONTECCHI [Lukas Franceschini] Venezia, 14 gennaio 2015.
Alla Fenice è andata in scena la settima opera del breve catalogo di Vincenzo Bellini: I Capuleti e i Montecchi, nell’allestimento di Arnaud Bernard coprodotto con l’Arena di Verona, ove è andato in scena lo scorso anno.
Bellini utilizzerà per Capuleti molto materiale composto per Zaira, che andata in scena a Parma nel 1829 non ebbe grande successo. Pur non arrivando ai vertici di Sonnambula, Norma e Puritani, l’opera è sicuramente un punto di affermazione del giovane compositore, il quale trova maggiore vena creativa nella patetica effusione amorosa dei protagonisti e nella melanconica impostazione generale. Peculiare è il ruolo di Romeo en travesti (scritto per Giuditta Grisi), singolare invenzione che avvicina il destino degli amanti nel somigliante per non dire “unico” timbro e registro, così da accomunare in una candida vocalità la tragica passione adolescenziale in particolar modo negli splendidi duetti. Le due voci “bianche” hanno estremo rilievo nel finale, in un cromatismo armonico splendido, idealmente realizzato in quel mondo felice, ove entrambe vorrebbero ritrovarsi e vivere il loro sentimento. Il dramma lirico, su libretto di Felice Romani, s’ispira alla celebre tragedia di Shakespeare, del Bardello e altre fonti italiane, tralasciando molti personaggi e dettagli e concentrandosi principalmente sulla lotta tra le famiglie e l’amore dei due giovani. Lo spettacolo creato da Arnaud Bernard è decisamente poco accattivante e di strampalata drammaturgia. Come in occasione delle recite veronesi dobbiamo riconfermare che l’idea, non nuova, di ambientare la vicenda in un museo ove i personaggi escono dai quadri è realizzata banalmente, e il continuo andirivieni di personale delle pulizie e facchini rende noioso, irritante, oltre che assurdo il linguaggio registico. L’utilizzo dei tableaux vivants poteva essere reso in maniera migliore e più fantasioso, funziona solo il finale, ma è davvero poco. Alessandro Camera realizza scene anche di fattura ma che non sono utilizzate in un ambiente romantico e pertanto poco apportano alla visione, i costumi, chissà perché cinquecenteschi, di Carla Ricotti non sfigurano. Poco efficaci le luci.
Delusione anche sotto l’aspetto musicale, a cominciare dalla concertazione di Omer Meir Wellber che si conferma direttore discontinuo. Dopo un’overture tumultuosa e sfasata si passa alla lentezza dei duetti e ad una generale alterazione timbrica. È impossibile capire la cifra interpretativa e la linea conduttiva di tale operazione tanta era la confusione e la mancanza descrittiva orchestrale dimostrata.
Sonia Ganassi non proponeva il suo Romeo belcantistico di anni or sono. Il volume e lo squillo sono notevolmente ridimensionati, la voce non più omogena nei registri, mantiene tuttavia un certo piglio interpretativo. Jessica Pratt, Giulietta, offriva la sua bella voce, ma meno duttile ultimamente e con talune difficoltà nei fiati cui si somma un’interpretazione gelida e monotona. Delude il Tebaldo di Shalva Mukeria, il quale a parte una sommaria correttezza non si distingue per timbro seducente e si registra una limitata proiezione vocale. Completavano la locandina il corretto e severo Lorenzo di Luca Dall’Amico e l’incisivo Capellio di Ruben Amoretti. Buona la prova del Coro istruito da Claudio Marino Moretti.
Pubblico molto freddo durante l’esecuzione e pochi applausi al termine.

GOYESCAS – SUOR ANGELICA [William Fratti] Torino, 25 gennaio 2015.
Per la prima volta assoluta Goyescas di Enrique Granados è rappresentata al Teatro Regio di Torino, in accostamento alla celebre Suor Angelica di Giacomo Puccini.
L’opera di Granados fu commissionata dalla Legion d’Onore nel 1914, richiedendo che fosse tratta dalla omonima suite pianistica ispirata ai dipinti di Francisco Goya. Il risultato, seppur piacevole da un punto di vista musicale, funziona malamente nella drammaturgia, soprattutto per la mancanza di recitativi, venendo meno un legame assolutamente necessario al teatro tra un tableau e l’altro.
In occasione di questa première Andrea De Rosa compie un lavoro magistrale, poiché riesce a catturare l’attenzione dello spettatore nel seguire una vicenda assolutamente bidimensionale e priva di narrazione. Lo spettacolo che ne risulta è lineare, fluido, sempre in movimento, coadiuvato da un progetto luci suggestivo, firmato da Pasquale Mari, nonché da una coreografia accattivante ideata da Michela Lucenti. Buona la resa “goyesca” dei costumi di Alessandro Ciammarughi.
Giuseppina Piunti è Rosario e riesce a centrare il personaggio, seppur con le difficoltà insite nel libretto stesso. La vocalità è particolarmente morbida nei centri, ma tutta la zona acuta risulta stridula e fastidiosa.
Andeka Gorrotxategui è Fernando e trova in questa partitura una scrittura particolarmente consona alla sua voce e riesce a farsi notare per le belle frasi liriche e lo squillo luminoso.
Meno interessante e abbastanza opaco è il Paquiro di Fabian Veloz.
Ottima la resa sonora della Pepa di Anna Maria Chiuri.
Se con Goyescas Andrea De Rosa ha compiuto un’operazione eccellente nel creare una sorta di drammaturgia laddove ben celata, con l’atto unico di Puccini è riuscito a dare vita, assieme a tutti gli artisti coinvolti sul palcoscenico e dietro le quinte, ad uno spettacolo di fortissimo impatto emotivo, attraverso una trasposizione spaziale e temporale riuscitissima, ma soprattutto sentita dai professionisti che l’hanno fatta loro e che di conseguenza l’hanno trasmessa al pubblico. Il monastero diventa un manicomio del dopoguerra e Angelica un’espiante rinchiusa con la forza, non certo per lavare la vergogna votandosi a Dio. E dopo il suicidio non accade alcun miracolo, né alcuna grazia. Solo la morte e il nulla. Il tema trattato, così trasposto, è molto più vicino alla nostra realtà quotidiana o del passato recente, più di quanto crediamo. Anche la letteratura e il cinema – Philomena – e la televisione – American Horror Story: Asylum – hanno cercato di portare in luce un problema umano davvero straziante. Le interpreti e le ballerine, guidate dalla regia di De Rosa e dalla coreografia di Michela Lucenti, hanno svolto un compito difficile ma riuscitissimo, davvero sentito e sinceramente toccante.
Amarilli Nizza si riconferma per l’ennesima volta una delle migliori Angeliche della storia dell’opera. Fraseggio e recitazione di un’espressività ineguagliabile. Voce salda e sicura su tutta la linea di canto, morbida e suadente nei passaggi lirici, eccezionalmente drammatica nelle pagine più tragiche, sempre con suoni puliti, poiché la bravissima soprano sa “sporcare” fuori dal canto per cercare l’effetto. La sua interpretazione fa sgorgare lacrime dagli occhi più di una volta durante il corso della breve vicenda.
La affianca l’altrettanto eccellente Anna Maria Chiuri nei panni di una Zia Principessa che, inaspettatamente e in maniera molto commovente, si lascia scappare un singhiozzo. Il suo fare algido, ma che lascia intravedere un piccolo spiraglio di umanità, accompagnato da una vocalità piena e profonda, nonché da una musicalità invidiabile, fanno della sua interpretazione un modello da seguire.
Il lungo stuolo dei ruoli comprimari è capitanato dalla bravissima Silvia Beltrami nei panni della suora zelatrice. Hanno saputo farsi notare anche la valente suor Genovieffa di Damiana Mizzi e l’efficace suora infermiera di Valeria Tornatore. Completano il cast Claudia Marchi, Maria Di Mauro, Nicoletta Baù, Maria de Lourdes Martins, Samantha Korbey, Daniela Valdenassi, Sabrina Amè, Roberta Garelli, Eugenia Braynova, Paola Isabella Lopopolo, Cristina Cordero, Raffaella Riello.
Eccellente la prova del Coro del Teatro Regio, del Coro voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio Giuseppe Verdi, guidati da Claudio Fenoglio.
Bravissimi i membri di Balletto Civile.
Ottima anche la prova dell’Orchestra del Teatro Regio diretta da un ispirato Donato Renzetti che, sia in Granados sia in Puccini, sa fraseggiare con colori e cromatismi, attraverso passaggi morbidi e puliti, ottenendo un suono ben amalgamato e che respira oltre la buca, tanto in sala quanto in palcoscenico.

WERTHER [Simone Ricci] Roma, 25 gennaio 2015.
L’eroe romantico per eccellenza di Goethe e la musica di Jules Massenet: dopo una lunga assenza il “Werther” è tornato nella Capitale con un allestimento dell’Opera di Francoforte.
In lotta con la solitudine. Si può riassumere in questa maniera la sensazione suscitata dal “Werther” allestito dal Teatro dell’Opera di Roma per la stagione 2014-2015: questa recensione si riferisce alla terza delle cinque recite previste, la serata finale è prevista il prossimo 29 gennaio. È un peccato che ci si dimentichi troppo spesso di un’opera come quella di Jules Massenet, un dramma lirico che vanta tra i suoi principali interpreti un grande tenore come Tito Schipa. Erano ben otto anni che questo titolo mancava dal cartellone del Costanzi. In quella occasione ci si affidò a un direttore d’orchestra francese esperto come Alain Lombard, mentre stavolta si è puntato su un nuovo allestimento dell’Opera di Francoforte con la regia del tedesco Willy Decker.
La scena è stata sempre la stessa, una stanza angusta che voleva rappresentare il piccolo mondo in cui vive Charlotte e in cui era impossibile non notare il ritratto della madre defunta, ancora ben presente nei pensieri e nelle azioni della protagonista femminile. Il fondale in salita e con casupole squadrate, invece, faceva pensare al cinema espressionista de “Il gabinetto del dottor Caligari”, dalle forme zigzaganti e curiose. I riflettori non potevano che essere puntati sul ruolo del tenore, assegnato in questo caso a Francesco Meli, cantante che ha dato sempre il meglio di sé sul palcoscenico principale della Capitale.
Meli ha ricalcato fedelmente la grande tradizione francese, mettendo a disposizione un fraseggio in grado di dare significato alla parola. Inoltre, la voce si è caratterizzata per una brunitura calda e morbida nei centri, senza tralasciare però l’incisività degli acuti, all’occorrenza molto lucenti. Il pubblico romano ha apprezzato anche la capacità di sfumare i suoni e di scolpire le frasi con accenti e sfumature mai leziose né compiaciute: parecchi applausi gli sono stati tributati al termine di una delle pagine più fresche del “Werther”, Pourquoi me reveiller. Nel terzo atto, in particolare, il suo Werther ha dato sfogo all’angoscia e alla lacerazione interiore del personaggio, grazie a una voce elastica ed omogena nell’emissione.
Veronica Simeoni ha pennellato una Charlotte dagli accenti vigorosi e dalla voce avvolgente. A voler cercare il classico pelo nell’uovo, si potrebbe dire che mancava qualche abbandono patetico, ma ogni volta che la temperatura drammatica si è fatta più accesa e alla malinconia si è sostituita la disperazione, il mezzosoprano romano è riuscito a vibrare acuti carichi di commozione e di pathos. Ekaterina Sadovnikova era una Sophie perfetta: i tratti stilistici erano deliziosamente adatti alla sorella minore di Charlotte, al punto che le note sono state sfumate con delicatezza e stile. Signorile e di bella presenza, poi, l’Albert di Jean-Luc Ballestra non sfigurava nel cast vocale.
A completare quest’ultimo ci hanno pensato l’ordinario ma comunque puntuale Le Bailli di Marc Barrard, gli affiatati Schmidt e Johann impersonati rispettivamente da Pietro Picone e Alessandro Spina, oltre alla Käthchen di Claudia Farneti e al Brühlmann di Michael Alfonsi. Il direttore spagnolo Jesús López-Cobos ha puntato soprattutto sulla pulizia dei suoni e sul languore malinconico dello spartito, non disdegnando comunque l’importante drammaticità di un romanticismo accorato e suggestivo. In poche parole una bacchetta che ha guidato senza troppi fronzoli l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma.
La partecipazione del Coro di Voci Bianche dello stesso Costanzi, diretto da José Maria Sciutto, ha garantito il giusto apporto che serve in quest’opera, l’innocenza e ingenuità fanciullesca che attende e vive il Natale, una gioia che stride con il dramma che si consuma nella vita di Werther e Charlotte. Non è un caso che durante gli applausi finali i cantanti e l’intero coro si siano uniti per raccogliere le meritate accoglienze trionfali, il pubblico ha seguito con attenzione e trepidazione il susseguirsi degli eventi, nonostante qualche assenza di troppo nel loggione.
Rimangono ora altre due recite per quel che riguarda questo titolo, quella di domani sera e quella conclusiva di giovedì prossimo. Gli spunti per una ripresa del “Werther” in tempi non troppo lontani ci sono tutti: in fondo si sta parlando del teatro che ha ascoltato per primo un capolavoro come la “Tosca” di Giacomo Puccini e il romanticismo delle due opere non è poi molto differente. Tra l’altro, non va dimenticato che il dramma di Massenet venne rappresentato per la prima volta a Roma nel dicembre del 1899, sette anni dopo la prèmiere di Vienna, con un tenore importante e affermato quale Fernando De Lucia. Werther ha perso la sua lotta contro la solitudine, ma i romani hanno fatto di tutto per essergli vicini.

WERTHER [Natalia Di Bartolo] Bilbao, 26 gennaio 2015.
[Following French and English translation (excerpts)] Bilbao avvolta dalla bruma di un gennaio piovoso mantiene tutta la bellezza originale e colorata di una città che appare al viaggiatore come un quadro astratto, in cui muoversi in itinerari pieni di sorprese…Lungo uno di questi, il Palacio Euskalduna è una meta irrinunciabile.
Splendido di legni all’interno, sotto un soffitto stellato, il teatro spagnolo ha visto svolgersi sul suo modernissimo palcoscenico uno spettacolo che era annunciato come un evento e che come tale davvero si è dimostrato al pubblico della città basca, nell’ambito della Stagione lirica 2014-2015 di Abao Olbe: Werther, capolavoro di Jules Massenet.
Il Werther non è opera di ascolto facile né di facile esecuzione. L’immensa sala del teatro di Bilbao, colma all’inverosimile, ha accolto con immediato calore sul podio il grande Maestro Michel Plasson, alla guida della poderosa Bilbao Orkestra Sinfonikoa.
E’ un direttore dotato di misteriosi poteri, il Maestro Plasson…Le orchestre sotto la sua bacchetta sembrano diventare una morbida creta da modellare. Splendida duttilità ha dimostrato quella di Abao Olbe, che si è lasciata plasmare secondo le dinamiche inflessibili di uno degli ultimi depositari della Tradition Francais in campo operistico.
Capace di chiaroscuri acquerellati, di sovrapposizioni di coloriti quasi Fauve, di increspature sonore su superfici cristalline, così come di frustate improvvise all’anima o stilettate ben mirate ed a segno, la direzione di Plasson si è come sempre dimostrata una tavolozza colma di tinte, sfumature, cangianti espressioni. Ogni suo sobrio movimento ha fatto scaturire inverosimili quanto celesti emozioni sonore, ogni accento è stato colto in pieno, ogni sottolineatura è divenuta una pennellata. La sua sensibilità e, nello stesso tempo, il suo rigore hanno fatto sì che il capolavoro prendesse corpo e si snodasse, con la fluidità studiata dal grande direttore e con i tempi calibrati dall’intenditore raffinatissimo.
Tutto ciò che Plasson sa ottenere da un’orchestra è stato ottenuto a Bilbao e porto all’ascoltatore come su un piatto d’argento: la più pura lettura filologica si è unita ad un’espressività variegata di sentimenti che sono arrivati a travolgere l’ascoltatore, in particolare nel quarto atto, dove i moti più profondi dell’animo umano, espressi e pretesi dal capolavoro di Massenet, hanno toccato vertici soprannaturali. La staffilata che conclude l’opera, poi, ha colto in pieno lo spettatore, con la forza violenta e la potenza che il compositore in persona avrebbe voluto. Un Werther ben diretto si può giudicare anche solo dalla battuta finale. E qui la perfezione, fin dalla prima battuta, l’ha fatta da padrona.
Se a tutto questo si unisce la presenza sul palcoscenico di un Maestro del canto francese come il tenore Roberto Alagna, allora veramente si toccano vertici da antologia. L’abbinamento Plasson-Alagna è vincente, lo è sempre stato, ma la maturità sembra unire i due grandi musicisti in un legame sempre più stretto, in risultati sempre più esaltanti.
I due Maestri s’intendono anche solo con lo sguardo e vedere dirigere Plasson è uno spettacolo, come lo è vedere e sentire cantare Alagna da lui diretto: il sostegno dato agli interpreti, protagonista per primo, dal Direttore è quanto di più sentito e vigile che chi scrive abbia mai rilevato. Insieme hanno fatto il capolavoro.
Roberto Alagna è stato a Bilbao un Werther fiero, mai troppo dolce, risoluto e quasi eroico; esacerbato nella sua tragica sottomissione ad un dovere estraneo, addirittura violento, suo malgrado, nell’espressione dei propri sentimenti nei confronti di Charlotte. Ma nello stesso tempo indifeso e solo, di una solitudine disperata, che si avvertiva tangibile e trovava il proprio culmine nella meditazione assorta del gesto estremo, di spalle, di fronte alla vetrata, davanti ad una tormenta di neve.
Roberto Alagna ha fatto proprio questo Werther spagnolo con la potenza volitiva dell’esperienza e con la maturità scenica che si ottiene solo dopo avere calcato le tavole del palcoscenico in trent’anni di carriera. Un Werther, quello di Alagna, capace oggi di donare al personaggio l’esperienza di vita di un cinquantenne e, dunque, tutte le sfumature di cui si può essere capaci nella piena maturità, non solo vocale, ma soprattutto di vita vissuta: lo stesso che gli accade ancora nel ruolo di Roméo di Gounod: è straordinario come la sua voce sia ora e sempre perfetta tali per ruoli.
La sua interiorizzazione dei personaggi, inoltre, è divenuta talmente profonda, che cantare il Werther sempre più gli costa turbamenti dell’animo e notti insonni. Ciò è proprio della sensibilità dei grandi Artisti, che arrivano ad essere addirittura ipersensibili e nei quali l’espressività vocale e la sua trasmissione all’ascoltatore, che ne resta affascinato, arrivano a toccare misteriosi vertici metafisici. Una volta incarnato Werther, poi, come dice il Maestro Plasson, si resta Werther per sempre…
Quanto ai dati tecnici, il fraseggio del tenore siculo francese, la sua dizione, il suo legato si sono dimostrati da manuale. Non una sbavatura, né un accento fuori posto; non una incrinatura: un cristallo di voce, potente, capace di proiettarsi fino al fondo dell’infinita platea spagnola e di dar vita ad un’emissione talmente calibrata da consentire di ascoltare i pianissimo dall’ultima fila. Sbalorditiva la freschezza della sua vocalità, da sempre perfettamente adatta alla parte, la quale richiede uno sforzo interpretativo in crescendo, fin dal primo atto, il più agevole.
Eppure, già lì, “Je ne sais si je veille…O Nature…”, a freddo e ricca di sfumature, non è certo facile. Ma, proseguendo il percorso della partitura massenetiana, il cammino vocale si fa più irto, le difficoltà aumentano, si giunge al terzo atto al virtuosismo di una delle arie più difficili dell’Opera di tutti i tempi, ma anche una delle più celebri e amate: “Traduire… -Porquoi me reveiller…” Le insondabili profondità dell’animo umano, sono venute fuori in questo brano con una forza arcana ed una potenza sconvolgente ad Abao Olbe. Oltretutto, certamente nelle orecchie del pubblico spagnolo non potevano non riecheggiare le sonorità espressive di altri celebri Werther. Alagna non le ha fatte rimpiangere, anzi…il suo essere di lingua francese gli ha dato l’asso nella manica, l’essere diretto da un grande la possibilità di dare il massimo della propria grandezza..
Così è stato e, alla fine del celeberrimo brano, le richieste entusiastiche di bis e gli applausi interminabili, troncati solo dall’inarrestabile Plasson, hanno dimostrato tutto il gradimento e l’apprezzamento del pubblico. Al quarto atto, con la magistrale scena del suicidio, l’apoteosi.
Un protagonista di questo calibro aveva bisogno di un’adeguata Charlotte…
E l’ha trovata nella sottile, flessuosa Elena Zhidkova. Una Charlotte altezzosa e mai dolce, scenicamente duttile e generosa, vocalmente foriera di sorprendenti espressioni emozionali e di elegante fraseggio. Da sottolineare la sua correttezza nell’emissione e la sua ragguardevole proiezione, in particolare nella sentita aria delle lettere, nonche il complessivo, ammirevole coordinamento con il partner protagonista nei duetti.
Altrettanto interessante la performance dell’esperiente baritono spagnolo Manuel Lanza, che, incarnando un Albert espressivo e sentito, ha dato vita efficace e credibile ad un personaggio che di suo non gode di doti di particolare simpatia.
Gradevoli e corretti tutti gli altri interpreti, tra cui la graziosa Sophie di Elena de la Merced, il ben caratterizzato le Bailli di Stefano Palatchi e i due notevoli e ben coordinati Schmidt e Johann di Jon Plazaola e Fernando Latorre.
Delicati e ben diretti da Julia Foruria i piccoli cantori del Gaudeamus Korala, che hanno intonato con particolare calore il celeberrimo canto di Natale.
Tutto un gruppo d’interpreti che ha dimostrato, quindi, altissime coesione e professionalità, sotto la guida registica di David Alagna, raffinatissimo stage director, oltre che ottimo compositore, fratello di Roberto, il quale ha curato una regia di grande suggestione, possedendo anche la non comune capacità di collocare ciascun personaggio a favore d’acustica verso la sterminata sala di Bilbao.
Suggestiva la sua lettura del Werther” puro”, anima bambina, vestito di bianco, all’inizio, che scambia la propria purezza, un candido velo, con l’apparenza e la convenzione , il cappello donato a se stesso. Egli torna puro al terzo e quarto atto, nella lotta per l’amore, ritornando vestito di bianco anche da adulto, ma soprattutto ritrovando alla fine quel velo e trasfigurandosi poi nella morte tragica, ma non mai colpevole: un Werther credibile, ma nello stesso tempo fascinosamente romanzato.
Elegantissima l’ambientazione scenica sempre di David Alagna, che è stata capace di riecheggiare certi tempi d’oro dell’Opera…Ovvero, quando sul palcoscenico si vedevano ancora gli oggetti.
E perfino gli oggetti a Bilbao hanno fatto non solo le scene, ma anche la regia. I bicchieri e le bottiglie sul tavolo scaraventati via da Werther al secondo atto; il tappeto sulla scrivania del protagonista che diventa sua coperta e sudario nel finale…tutto studiato nei minimi particolari, nei decori e nella presenza delle suppellettili. Un revival che davvero ha riportato gli spettatori ammirati alle glorie passate dei palcoscenici anni ’50.
Il tutto contenuto in una scenografia sontuosa, monumentale, anch’essa curatissima, abilmente illuminata dalle luci di Aldo Solbiati ed arricchita dagli eleganti e coloristicamente simbolici costumi ottocentesci di Louis Desiré, nonché animata anche da numerose comparse e da carrozza e cavallo, come su un set cinematografico. La produzione di David Alagna, già al Regio di Torino nel 2005, ha ritrovato così rinnovato e rimarchevole splendore, come si era visto dal teatro italiano nel DVD recentemente uscito per la Deutsche Grammophon, sempre Roberto Alagna protagonista.
In crescendo esponenziale nel corso della serata l’entusiasmo del già caloroso pubblico spagnolo dell’Euskalduna, che ha riconosciuto, con un’ovazione finale impressionante per potenza e durata, nel direttore e nel protagonista, uniti come sempre in un simbolico abbraccio che ha stretto l’intera platea, i due garanti dell’Arte dell’Opera Francaise dei nostri giorni ed in loro ed in tutti gli altri interpreti ed artefici la valenza qualitativa offerta da un teatro di livello internazionale come Abao Olbe a Bilbao.

LA TRAVIATA [Lukas Franceschini] Verona, 27 gennaio 2015.
Uno spettacolo storico, La Traviata di Giuseppe Verdi, con la regia di Henning Brockhaus e le scenografie di Josef Svoboda approda per la prima volta a Verona al Teatro Filarmonico per la Stagione d’opera 2014-2015.
Quest’allestimento nacque nel 1992 allo Sferisterio di Macerata, ripreso anche in seguito, poi rimpicciolito ed adattato per i palcoscenici dei teatri al chiuso dalla Fondazione Teatro Pergolesi di Jesi. Fece scalpore all’epoca e fu uno degli spettacoli più innovativi e fantasiosi, il quale accomunò consensi sia di pubblico sia di critica. Rivederlo dopo tanti anni non può che confermare tale opinione. Fu denominata la Traviata degli specchi, infatti, sul fondo scena troneggia uno specchio inclinato che riflette degli immensi drappi posati sul palcoscenico, magnifici ed ideati dal compianto Svoboda, i quali sono tolti a vista e creano di volta in volta una nuova scena. Tale impianto scenografico potrebbe avere anche l’ambiguità di sdoppiare la drammaturgia, ponendo l’accento sulla doppia vita dei nobili e ricchi borghesi che frequentano case bordello di lusso. L’effetto visivo è indubbiamente emozionante e i colori sfarzosi delle due scene di festa erano pienamente azzeccati. Ancor più efficace il finale, nel quale lo specchio si alza e riflette il teatro intero con pubblico e luci accese, immergendo lo spettatore nella vicenda e invitando questi a farsi anche delle domande, per chi è disposto a porsele. La regia di Brockhaus è sostanzialmente uguale con solo qualche piccolo aggiustamento, ma imprime il giusto effetto teatrale che merita il dramma, altra cosa sarebbe la questione d’interpreti circa attendibili, nel caso veronese la recitazione era notevolmente scadente.
Bellissimi i costumi di Giancarlo Colis, sfarzosi, cromatici, eleganti e raffinati. Unico appunto sarebbe di usare abiti scollati e con spacchi vertiginosi qualora l’interprete li possa indossare senza dare “scandalo” visivo per abbondanza fisica. Efficaci e ben tracciate le coreografie di Valentina Escobar.
La parte musicale ha deluso e molto, salvo l’eccezione del baritono Simone Piazzola. Il giovane baritono che ho ascoltato nello stesso ruolo alla Fenice e nel recente Simon Boccanegra, conferma doti canore non comuni: voce bella rotonda e piena ben amministrata attraverso un colore musicale e un fraseggio di rango. Certamente fuori ruolo Jessica Nuccio quale Violetta, per carenze sia tecniche (nel primo atto) sia per spessore vocale (nel secondo e terzo) ove non riesce a trovare un accento appropriato, talvolta non intonata, e scivolando in una grottesca interpretazione. Scelta discutibile anche quella del tenore Hoyoon Chung, acerbo, limitato vocalmente e in difficoltà con la partitura tutt’altro che facile, azzarda un’improbabile cabaletta ma non tiene il passo con il personaggio anche meschino di Alfredo.
Poco efficaci l’Annina gutturale di Alice Marini e la sfocata Flora di Elena Serra. Molto meglio le altre parti: il Gastone di Antonello Ceron, Il barone di Nicolò Ceriani, il marchese di Dario Giorgelè, il dottor Grenvil di Francesco Breda. Completavano la locandina Francesco Pittari (Giuseppe) e il bravo Romano Dal Zovo (nel doppio ruolo di domestico e commissionario).
Sul podio c’era Marco Boemi che ha convinto poco e ha intrapreso scelte di lettura del tutto personali che hanno portato ad un’evidente sfasatura tra buca e palcoscenico. In generale mancava di emotività e colore, preferendo adagiarsi sull’accompagnamento lento e di ruotine senza anima e colore. Il coro era affidato alla direzione di Vito Lombardi, altra carta da provare per la direzione stabile, e non ha sfigurato meritando un plauso convinto.
Teatro quasi esaurito, anche per la convenzione con gli istituti scolastici cittadini, che al termine ha tributato un felice successo a tutta la compagnia.

IL TURCO IN ITALIA [Lukas Franceschini] Treviso, 28 gennaio 2015.
Talvolta accade, ma è raro, di andare a teatro in provincia ed imbattersi in spettacoli e produzioni così ben realizzate nel suo insieme, da far concorrenza ai teatri più blasonati. Probabilmente la considerazione perché reduce dalla deludente Traviata veronese È il caso del recente Il turco in Italia di Gioachino Rossini andato in scena al Teatro Comunale “Mario Del Monaco” di Treviso.
E’ in parte inspiegabile come il pubblico del Teatro alla Scala non abbia compreso in quel 1814 la pungente ironia di Rossini e del librettista, Felice Romani, sulle vicende partenopee anche scanzonate, infarcite dalla presenza di uno straniero, il turco, con usi e costumi totalmente diversi. Non voleva essere una copia invertita della trionfale Italiana in Algeri veneziana dell’anno precedente, ma una nuova opera “una turcheria” originalissima e assai più ricercata. Il ruolo del poeta è centrale, e fa il verso al Don Alfonso mozartiano, egli è beffardo, smaliziato e in disparte, osserva e conduce le vicende che lo intrigano e saranno ispiratrici per il suo nuovo dramma, si potrebbe ipotizzare anche un alter ego del compositore stesso. Contraddistingue l’opera quest’appartenenza borghese alle vicende locali di una donna capricciosa, un marito poco scaltro, un presunto amante vanesio e un turco incallito seduttore. Quanto di meglio per Rossini di costruire personaggi diversi nel labirinto delle passioni e delle umane debolezze.
Questo nuovo allestimento, in coproduzione con Ferrara, Piacenza e Metz, ha avuto in Federico Bertolani, alla regia, un efficace direttore che ha trovato soluzioni davvero originali nel raccontare la vicenda. Ispirandosi alla napoletanità dell’opera, ove personaggi e vicende rimandano al gioco della commedia, non mancando di fare il verso alla commedia all’italiana degli anni d’oro del cinema e individuando anche stereotipi nei protagonisti di quel tempo e oltre. Il regista ha colto appieno il senso dell’opera in parte dramma buffo, che ha suggerito duetti e scene briosi e divertenti, in parte commedia moralistica, ove abbiamo avuto equilibrati momenti seriosi ma sempre giocati sul filo brillante pertinente senza scendere nell’abusato comico da avanspettacolo ma risolvendo l’intrigo della vicenda sulla scia della teatrale e cinematografica attraverso i vicoli napoletani. Per la realizzazione dell’allestimento Bertolani ha collaborato con la Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Giulia Zucchetta disegna delle simpatiche quinte mobili ove era riprodotta la mappa di Napoli, gli stessi vicoli ove i nostri protagonisti si trovano, si perdono e si ritrovano. Qualche cassa di legno a simboleggiare l’estrazione marinara della città, graziosi costumi, di Federica Miani, e con mano sapiente il regista ha mosso i fili dell’intricata vicenda, sempre divertente e spassosa. Azzeccata la macchina per scrivere del poeta che gironzolava telecomandata sul palcoscenico, di “Scoliana” memoria il duetto Geronio-Fiorilla mentre piegano le lenzuola e l’allampanato Narciso che faceva il verso a tanti film di Totò. Una prova ben riuscita con trovate eccellenti, che hanno rallegrato e divertito. Buone le luci di Roberto Gritti anche se nella scena della festa del II atto avremo preferito maggior ricercatezza. Merito di questo successo anche dell’ottima prova fornita dal direttore e concertatore Francesco Omassini, che con Rossini ha particolare dimestichezza. Innanzitutto, ha eseguito lo spartito integrale, cosa assai rara fuori da festival specializzati, e ci ha offerto una concertazione brillante e molto ispirata, assieme alla discreta Orchestra di Ferrara che lo stesso ha saputo coinvolgere con gesto attento e un variegato senso narrativo musicale. Il coro Lirico Amadeus, istruito da Giuliano Fracasso, ha fornito buona prova, anche se non sempre preciso.
La compagnia di canto ha riservato belle sorprese oltre a fornire un cast molto omogeneo.
Marko Mimica, Selim, è un giovane basso con voce bella, ben proiettata ed affine un tutti i registri, a suo agio nella coloratura ha sfoderato inoltre una notevole presenza scenica, istrionica e brillante. Da seguire nel prossimo futuro. Cinzia Forte non sarebbe stata, per estrazione vocale più leggera, l’interprete ideale per Fiorilla, tuttavia grazie ad un’innata professionalità, la risoluzione nel registro acuto con garbata coerenza stilistica, un fraseggio eloquente, accumunata ad senso teatrale disinvolto ha prodotto una prova oltre le attese, resa ancor più simpatica poiché faceva il “verso” ad Edwige Fenech di memoria collettiva.
Corretto e molto disinvolto scenicamente il Geronio di Giulio Mastrototaro, che colma con accenti e vis scenica il complesso personaggio. Impagabile Lorenzo Regazzo nel ruolo del Poeta, istrionico, e teatralmente grandioso, cui si somma una vocalità che si distingue per garbato accento e precisione.
David Alegret era un Narciso anche preciso, ma la voce è talvolta acerba e di colore non particolarmente affascinante ma riesce a trovare momenti molto azzeccati. Bravissima Cecilia Molinari, Zaida, dal canto brunito e con ottimo fraseggio. Una menzione particolare al giovane tenore catanese Pietro Adaini, Albazar, che ha eseguito la sua difficile aria con particolare mordente e uno squillo nel registro acuto di assoluto rilievo, oltre a possedere una voce di ottima fattura e bel colore. Altro elemento da seguire, speriamo a breve in futuro.
Al termine applausi convinti e meritati a tutta la compagnia da parte del numeroso pubblico che gremiva il Teatro.

DIE SOLDATEN [Lukas Franceschini] Milano, 31 gennaio 2015.
Prima esecuzione al Teatro alla Scala dell’opera Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann, nel cinquantesimo anniversario della prima rappresentazione, la quale avvenne a Colonia alla Städische Bühnen il 15 febbraio 1965.
E’ la seconda volta che l’opera è rappresentata in Italia, la prima a Firenze negli anni ’70. Die Soldaten è una delle più importanti partiture contemporanee, o meglio della seconda metà del Novecento, ed ebbe una gestazione complessa, lunga e travagliata. Iniziata nel 1957 fu completata dopo rielaborazioni, ripensamenti e scrittura musicale alterna solo nel 1964. Commissionata dall’Opera di Colonia nel 1958 e programmata nel 1960, nel momento dell’eventuale esecuzione i responsabili del teatro, il sovrintendente e il direttore musicale Wolfgang Sawallisch, decretarono che quanto composto era incompleto ed impossibile da eseguire. In seguito Zimmermann completò la partitura sottoponendola ad un processo di revisione ma anche completamento e approntò una sorta di suite “Sinfonia Vocale” (con lo stesso titolo) per dimostrare che la musica da lui composta era perfettamente eseguibile. La prima fu diretta da Michael Gielen con la regia di Hans Neugebauer, proposta poi in Europa e oltre oceano, in particola negli Stati Uniti, sfatando il concetto dell’impossible realizzazione scenica e musicale, la quale tuttavia è contraddistinta da un numero elevato d’interpreti, attori, ballerini, la monumentale orchestra e la strumentazione multimediale ed elettronica necessaria. Il testo, adattato dallo stesso compositore, è tratto dal dramma omonimo del 1776 di Jakob Michael Lenz, uno dei lavori più singolari del teatro settecentesco. Il dramma, dopo le varie modifiche apportate da Zimmermann, si trasforma in una dimensione universale, con un’introspettiva analisi dei personaggi colpevoli o meno ed ispirazioni della seconda guerra mondiale con gli orrori del nazismo. Molti musicologi hanno rilevato quanto la concezione dell’opera trae spunti dal teatro di Alban Berg, da Wozzeck (numericamente uguali le scene, quindici) e Lulu (per il profilo psicologico della protagonista e per la scrittura vocale, estrema), non tralasciando che Buchner trasse ispirazione dal dramma di Lenz per il suo Woyzeck.
Dal punto di vista musicale Zimmermann adotta la tecnica seriale dodecafonica, assieme a citazioni stilistiche che spaziano dal jazz, alla musica popolare, utilizzando anche la polifonia medievale e le variazioni barocche ispirate da Bach. Zimmermann è attratto dal soggetto in considerazione che i personaggi, di ogni epoca, non sono condizionati dal destino, quanto invece dalle classi sociali dalle circostanze e dai caratteri, che li sottomette ad avvenimenti ai quali non possono sfuggire.
E’ il caso espressivo della bella e giovane Marie, promessa sposa al commerciante Stolzius è poi sedotta da un ufficiale, subisce violenza da un altro uomo fino a diventare la prostituta dei soldati. Ridotta e umiliata si arrabatta nella cruda e violenta periferia ad elemosinare non riconosciuta dal padre. Zimmermann punta l’indice anche contro il militarismo, molto segnato dalla sua esperienza bellica.
Lo spettacolo curato da Alvis Hermanis, proveniva da Salisburgo (2012), ora a Milano diversificato per disponibilità di palcoscenico diversa. Trattasi di una lettura molto avvincente e di estrema drammaturgia scenica. Il regista punta prevalentemente sui caratteri dei singoli e di una società cruda e borghese, talvolta cinica altrimenti insensibile. Il sesso è creato con gusto senza trascendere in grossolane e scontate trovate, le prurigini dei soldati, spesso a torso nudo o con pantaloni abbassati, sono crude ma reali senza voler trovare volgarità eccessive, l’opera esprime anche questo. La scena in stile “bordello”, dello stesso Hermanis e Uta Gruber-Ballehr è fissa ma di forte impatto visivo, le vicende della sfortunata ma debole Marie sono uno sfondo beffardo e crudele, ove anche un padre appare talvolta indifferente. Uno spettacolo che pur nella vicenda umana feroce è elegante e realizza un finale straordinario con la caduta, ma qui ascendete (quasi mitizzata) della protagonista posta come martire degli eventi, rafforzata ovviamente da una musica incisiva e debordante. Riuscitissimi i costumi di Eva Dessecker e le luci di Gleb Filishtinsky.
Artefice fondamentale della riuscitissima operazione è il direttore Ingo Metzmacher, il quale ha concertato in maniera eccellente la difficilissima partitura, realizzando ampie e riuscitissime sonorità ed un incisivo linguaggio drammatico, riuscendo in maniera perfetta a calibrare tutte le parti dell’orchestra soprattutto le percussioni che in tale contesto hanno ruolo importante. L’orchestra del Teatro alla Scala, non abituata a tale repertorio, l’ha seguito doviziosamente e con esiti emblematici.
Caratteristica di molte opere contemporanee è il folto elenco d’interpreti, talvolta anche superfluo. In Die Soldaten sono addirittura ventisette! Bravissima sia scenicamente sia vocalmente la Marie di Laura Aikin, impeccabile nel registro acuto. A lei si aggiungo il sadico Desportes di Daniel Brenna, il vendicativo Stolzius di Thomas E. Bauer, e la straordinaria, seppur non più fresca, Contessa de la Roche di Gabriela Benackova. Impossibile citare tutti gli altri, ma meritano una menzione Alfred Muff (Wesener), Cornelia Kallisch (vecchia madre di Wesener), Matthias Klink (giovane Conte) e i diciotto ufficiali dell’Ensemble Il Canto di Orfeo.
Teatro gremito, cosa rara per una partitura moderna, attento e partecipe, al termine ovazioni prolungate a tutta la compagnia.

I PURITANI [Renata Fantoni e William Fratti] Firenze, 5 febbraio 2015.
Da molto tempo non si assisteva ad uno spettacolo coprodotto da rinomati teatri italiani – Firenze e Torino nel caso specifico – col volere intelligente di spartire i costi, ma restituendo al pubblico un allestimento di buon gusto, come si faceva un decennio o un ventennio fa, in un bilico costruttivo tra tradizione e modernità, portando in scena idee e concetti che hanno a che fare con la vicenda da raccontare e col conoscere la lingua fino al punto di analizzare le stesse parole dei personaggi e non – fortunatamente – col volere usare l’opera solo per far colpo, per far scandalo o per mostrare al mondo le proprie turbe psichiche credendosi degli artisti maledetti.
Da un punto di vista visivo e narrativo I puritani andati in scena all’Opera di Firenze sono davvero belli, piacevoli da seguire, affascinanti da osservare, il tutto grazie ad una squadra creativa che ha saputo amalgamare e miscelare le proprie singole capacità alla ricerca di un più elevato risultato comune. Innanzitutto la splendida scenografia di Tiziano Santi, pur non presentando una novità, è un graditissimo ritorno. La prospettiva della cattedrale capovolta è costruita benissimo e il suo lento sgretolarsi è assolutamente indicativo del messaggio voluto dal regista. Altrettanto positivi sono i magnifici costumi fiabeschi di Giuseppe Palella che, colpiti dall’eccellente lavoro alle luci di Marco Filibeck, assumono ancor più connotati suggestivi, a cavallo tra racconti noir e gotici alla Tim Burton e favole classiche immaginate da adulti disincantati piuttosto che da bambini sognanti. Moltissimi sono i rimandi e gli accenni – voluti o meno – alla televisione, al cinema, alla lirica genuina dello scorso ventennio e ciò aiuta lo spettatore ad immedesimarsi senza riconoscersi, facendo arrivare il messaggio più in profondità, poiché emotivamente non vengono innalzate difese. Le tecniche del flashback e del flashforward tanto care all’arte cinematografica qui si inseriscono perfettamente, proprio nelle parole del libretto – come fa notare Fabio Ceresa – e sul palcoscenico l’idea è ben prodotta, eccezion fatta per il duetto finale tra Elvira ed Arturo, dove non è assolutamente chiaro il loro atteggiamento discosto: anche se fossero un umano ed un fantasma, essendo innamorati, dovrebbero comunque cercare un contatto fisico. Pure il costume ultimo della protagonista è poco azzeccato, comunque non al livello dei precedenti, poiché più che ridotto a brandelli sembra sia stato preso in prestito da una zingara. Inutile svelare altri dettagli: lo spettacolo è da vedere e sarà al Regio di Torino ad aprile.
Matteo Beltrami è sul podio dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e non pare particolarmente adatto a questo repertorio, poiché spesso risulta grossolano e assordante, nonché abbastanza privo di colori e sfumature. Anche il gruppo orchestrale non lavora con la consueta precisione e pulizia di suoni, soprattutto la parte dei corni.
Jessica Pratt, protagonista indiscussa e giustamente acclamatissima, torna al suo amatissimo Bellini e trova in Elvira – come del resto in Amina – la tessitura vocale che maggiormente si confà alla sua linea di canto dolce e raffinata. Non eccelle nel duetto con Giorgio, ma con “Son vergin vezzosa” tira fuori tutte le sue abilità di coloratura e agilità di forza, tuttavia la parte più interessante è indubbiamente il finale primo, dove si prodiga in un canto patetico sinceramente toccante in “Ah vieni al tempio”. Ciò accade anche nella successiva “Qui la voce sua soave” dove la sua musicalità, sorretta da fiati lunghi e sostenuti, la porta ad esprimere cromatismi di sicuro effetto con filati naturali efficacissimi ed emozionanti. Perfette le agilità della cabaletta, anche se non tutti i suoni sono propriamente puliti. In effetti, in merito all’uso dei sopracuti di tradizione, va evidenziato che pur essendo correttamente intonati, non le riescono cristallini come in altre occasioni – eccezion fatta per i picchiettati delle cabalette – ma forse complice di ciò è un’orchestrazione pesante e ben poco belcantista.
Antonino Siragusa affronta il difficilissimo ruolo di Arturo con la consueta disinvoltura e musicalità. La sortita con “A te, o cara” è limpida e luminosa, ma col difetto di disomogeneità nel passaggio. Durante tutto il corso dell’opera accade che resti morbido e lineare se le frasi arrivano fino alle prime note acute, ma se la tessitura lo deve portare oltre, lo si sente spingere. Ciò è accaduto di recente anche in altre occasioni e potrebbe diventare un difetto tecnico molto pericoloso se non sistemato per tempo. Certamente non perde di smalto, anzi la sua generosità deve essere premiata, soprattutto nell’interminabile terzo atto quando deve attingere a tutte le sue energie e dove si prodiga in un cantabile intenso e d’effetto, con belle frasi dolci e delicate.
Massimo Cavalletti è il baritono brillante e musicale che conosciamo, ma non sembra trovarsi completamente a suo agio nel ruolo di Riccardo, poiché certi passaggi gli sono ostici e di conseguenza perde morbidezza ed omogeneità. Buono è il fraseggio del duetto con Giorgio, anche se la successiva cabaletta non è così precisa. Tra l’altro è un sincero peccato che la coreografia da eseguirsi nel momento conclusivo dell’atto non sia riuscita come si deve, poiché sembrava essere interessante.
Gianluca Buratto sa distinguersi per l’espressività dell’interpretazione, soprattutto in “Cinta di fiori”, ma qualche nota un po’ calante, la voce tendente all’opaco – seppur pastosa ed importante – e la dizione un poco farfugliata non ne fanno un’eccellente Giorgio.
Rossana Rinaldi è un’Enrichetta che spicca per il timbro, il colore e l’autorevolezza, anche se l’appoggio è talvolta un poco precario.
Molto buona la prova di Gianluca Margheri nei panni di Valton, soprattutto vocalmente, un po’ meno nella gestualità leggermente fissa, anche se equilibrata nella resa complessiva. Sufficiente il Roberton di Saverio Fiore. Validissimo il Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Lorenzo Fratini. Bravissimi mimi e figuranti.

TURANDOT [Margherita Panarelli] Novara, 8 febbraio 2015.
Il forfait di Daniela Dessì non ferma la nuova produzione di Turandot del Teatro Coccia di Novara forte di un cast solido e di una regia lineare e sobria di Mercedes Martini.
Maria Billeri nel ruolo del titolo conferma la sua bravura e i risultati sono decisamente buoni sia dal punto di vista vocale che attoriale. “In questa reggia” non colpisce particolarmente pur non deludendo ma la recita è in crescendo ed il finale ottimamente reso. Una Turandot particolarmente fragile ed umana quella di Maria Billeri il che non dispiace.
Buona la prova di Walter Fraccaro che infiamma l’intero teatro al punto da concedere un bis di “Nessun Dorma”. Il suo principe ignoto è stentoreo ed eroico come l’autentico protagonista di una fiaba. Entusiasmante la Liù di Francesca Sassu, tragica ed emozionante come le eroine pucciniane sanno essere. Voce avvolgente quella del Soprano sassarese, ottimo squillo e proiezione uniti ad un impeto interpretativo particolarmente trascinante hanno reso facile empatizzare con il suo personaggio.
Ottima prova quella di Nicola Pisaniello nei panni dell’Imperatore Altoum e molto bravo anche Elia Todisco in quelli del vecchio Timur.
Senza guizzi ma corretto il Ping di Bruno Praticò, bene il Pong di Matteo Falcier, molto bene il Pang di Saverio Pugliese. Bravo anche Daniele Cusari nei panni del Mandarino.
Dirige con verve Matteo Beltrami al suo debutto alla direzione di Turandot, a volte dimenticando l’essenziale unità tra buca e palcoscenico ma sempre con attenzione alle atmosfere ed alla drammaturgia, ben seguito dall’Orchestra Filarmonica Pucciniana e dal coro San Gregorio Magno e dal coro delle voci bianche dell’Accademia Langhi. Il finale scelto è il finale di Alfano tradizionalmente eseguito.
Molto belli i costumi di Elena Bianchini, semplici ma efficaci, come la regia di Mercedes Martini che ambienta l’azione in uno spazio scevro di fronzoli dove ognuno dei sudditi della Crudele è intento a lavorare per lei. Turandot non tocca terra fino al momento della risoluzione degli enigmi. Tutti gli altri sono seduti al suolo. Le donne tessono il suo purpureo abito da sposa, lei lo disfa. Gli uomini affilano la scure lei la fa manovrare dal boia. Sarà infine lei stessa ad indossare l’abito rosso negli ultimi istanti dell’opera.
Una recita di buon livello in un teatro che si fa notare per le ottime scelte di questi anni.

L’INCORONAZIONE DI POPPEA [William Fratti] Milano, 10 febbraio 2015.
Mettere in scena ed in musica L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi – in parte attribuita a Francesco Cavalli – non è cosa facile, innanzitutto per le confuse e le dubbie provenienze dello spartito. Rinaldo Alessandrini, esperto conoscitore del compositore cremonese, compie – come scritto in locandina e spiegato nel programma di sala – una collazione acritica, revisione, completamento ed edizione dei manoscritti cosiddetti di Venezia e di Napoli e ciò che ne scaturisce è un’esecuzione di alto livello musicale, precisa, accorta e di gran classe, soprattutto rispettosa dello stile originario dell’epoca di composizione. Lavoro eccellente, sapientemente seguito dai quindici musicisti presenti in buca.
Lo spettacolo interamente firmato da Robert Wilson, che rimanda evidentemente al teatro elisabettiano, è un tripudio di raffinatezza ed eleganza. La suggestiva scenografia, realizzata con la collaborazione di Annick Lavallée-Benny, allude all’antica Roma, mentre i bellissimi costumi di Jacques Reynaud si rifanno al tempo di Monteverdi, dunque al primo Seicento italiano. La regia di Wilson, coadiuvato da Tilman Heckner, da Fani Sarantari nei movimenti coreografici e da Ellen Hammer alla drammaturgia, è di gusto ricercato e finissimo, interamente concentrata sulla gestualità e la mimica. Il palcoscenico è pressoché vuoto e freddo, in modo tale che la concentrazione dello spettatore non si sposti mai dai singoli personaggi, dunque dalle bellissime parole del libretto di Giovan Francesco Busanello.
Miah Persson è una brava e corretta Poppea, ma non spicca né per il canto, né per l’interpretazione e altrettanto buona è la prova del Nerone di Leonardo Cortellazzi, soprattutto nel delicatissimo duetto con Lucano; ma per entrambi è abbastanza udibile il fatto che non siano specializzati in questo tipo di repertorio.
Entusiasmante, soprattutto sotto il profilo drammaturgico, l’Ottavia di Monica Bacelli, che mostra anche una certa naturalezza e morbidezza nella linea di canto, omogenea e pulita. “Disprezzata regina” è elettrizzante. Altrettanto eccellente è l’Ottone di Sara Mingardo, che in alcuni passaggi esegue dei suoni davvero bellissimi. Ottimi i pianissimi. È toccante in “Otton, torna in te stesso!”.
Bravo Andrea Concetti nei panni di Seneca, anche se si sarebbe preferita una voce più scura. Molto buona la resa vocale della Drusilla di Maria Celeng, come pure quella dell’Arnalta di Adriana Di Paola, che si distingue soprattutto per il gusto baroccheggiante. Bravissimo il Mercurio di Luigi De Donato, piacevole il Lucano di Luca Dordolo, efficacie l’Amore di Silvia Frigato. Adeguata è anche la nutrice di Giuseppe de Vittorio, pur con qualche passaggio non troppo pulito.
Concludono il cast Furio Zanasi, Mirko Guadagnini, Andrea Arrivabene e Monica Piccinini.
Lunghi e meritati applausi per tutti gli interpreti – soprattutto per Mingardo e Bacelli – al termine di una impercettibilmente lunga, elegantissima serata.

L’INCORONAZIONE DI POPPEA [Lukas Franceschini] Milano, 13 febbraio 2015.
Con la rappresentazione al Teatro alla Scala de L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi, nell’allestimento curato da Robert Wilson, si conclude la trilogia del compositore cremonese iniziata nel 2008.
Le opere di Monteverdi, solo tre, sono basate sul frutto di esperienze anche precedenti che riguardano la tecnica del madrigale e la musica sacra, generi nei quali egli raggiunse risultati ineguagliabili. Il fulcro dell’esperienza teatrale riguardano due epoche distinte, quella mantovana agli inizi e quella veneziana verso la parte conclusiva della sua produzione. L’incoronazione appartiene alla seconda e sono evidenti le svariate trasformazioni stilistiche del melodramma all’italiana, frutto anche dell’ispirazione “della fioritura della scuola romana”, e i relativi mezzi espressivi sono evidenti e sviluppati in una gamma drammatica molto ampia ed articolata. Notevolmente ridotto il peso corale sarà il recitativo e l’arioso a predominare in maniera funzionale dando luogo a sviluppi nel dialogo poetico teatrale. Nella storia musicale le opere tracciano le basi su cui si ergerà il monumentale melodramma italiano.
Emilio Sala, in un breve saggio inserito nel programma di sala, pone l’accento sul grande enigma della partitura. L’opera fu rappresentata per la prima volta a Venezia, Teatro di SS. Giovanni e Paolo stagione di Carnevale 1643, della quale rappresentazione non abbiamo nessuna fonte scritta di partitura, tranne un breve riassunto della trama che non indica il nome del compositore (pubblicato nello “Scenario dell’opera La coronatione di Poppea”). Anche nell’edizione ufficiale del libretto pubblicata da Giovanni Francesco Busenello (1656) non compare il nome di Monteverdi e neppure sulle due partiture manoscritte, conservate una a Venezia l’altra a Napoli, ciò induce molti musicologi a legittimi dubbi sulla paternità integrale dell’opera al compositore cremonese. Si aggiunga che il duetto finale non compare nello Scenario e neppure nel libretto pubblicato da Busenello. La sinfonia introduttiva corrisponde ad una composizione di Francesco Cavalli per Doriclea, opera andata in scena dopo la morte di Monteverdi. Dal punto di vista filologico e testuale L’incoronaizone di Poppea è zeppa di problemi ancora irrisolti. Rinaldo Alessandrini, autore dell’edizione critica utilizzata per questo spettacolo scaligero, specifica che è impossibile sovrapporre una stesura che comprenda le due versioni di Napoli e Venezia, aggiungendo che un altro manoscritto intermedio è andato perduto. Si può con certezza attribuire a Monteverdi il 60% della musica oggi restata, con inserimenti per alcune riprese di altri compositori in primis Cavalli. La versione eseguita riflette pertanto scelte personali dello stesso Alessandrini, sommo studioso di musica barocca, Monteverdi in particolare, ed è frutto da riflessioni anche su altri spartiti, e non volendo affermare una soluzione definitiva, impossibile, egli ha cercato una fedeltà stilistica nel teatro seicentesco, considerando le successive manipolazioni della partitura come un’esigenza connessa alla vibrante quotidianità del teatro di tale secolo, trovando una soluzione drammaturgica e musicale più completa possibile.
Robert Wilson prosegue l’impianto teatrale giù utilizzato per le precedenti opere allestite. Si tratta di un mondo visivo teatrale astratto, dove la recitazione è scandita da passi e movenze lente e mimica gestuale ricercata è di estrema eleganza, un teatro che potremo definire arcaico in uno stile puramente seicentesco. Di tal epoca anche i bellissimi costumi (sempre di Wilson) ispirati ad un’ipotetica quanto immaginaria prima rappresentazione veneziana. Le scene, ancora del maestro americano, s’ispirano ad un’antichità romana tuttora esistente quale reperto storico nella Roma del XXI secolo. Trattasi di uno spettacolo emozionante di ampi spazi, i pochi elementi con cambio rapido ci portano nelle molteplici e complicate trame per il potere. Genio assoluto del teatro sperimentale, Wilson realizza una drammaturgia e una visione che catalizza lo spettatore, nella bellezza dei colori pastello e delle forme scultorie messi in evidenza da uno splendido impianto luminoso. Il tema portante è il trionfo dell’amore sul male che seduce ed è probabilmente più immediato e conosciuto. Tuttavia si deve rilevare che questo tipo di teatro seppur affascinante sia abbastanza ripetitivo in Wilson, basti citare il Macbeth bolognese o la sua visione di Madama Butterfly, ma in Monteverdi funziona alla perfezione, un po’ fastidiosa invece la luce fissa al neon a livello di palcoscenico. Quest’operazione funziona ed affascina anche per la straordinaria prova di un cast che ha saputo recitare e disimpegnarsi sul palcoscenico in maniera superba.
Sopra di tutti c’era la straordinaria mano direttoriale di Rinaldo Alessandrini, musicista e musicologo che in questo repertorio non credo abbia rivali. Era la seconda volta che assistevo alla sua concertazione del capolavoro monteverdiano, e per l’aderenza stilistica, il pathos, la variegata ricerca di accenti e colori non si trovano aggettivi efficaci per esprimere la bellezza e la competenza di tale operazione. Un plauso particolare ai membri dell’orchestra della Scala che hanno partecipato a tale operazione, e all’eccezionale basso continuo realizzato dal Concerto Italiano.
Il cast era molto omogeneo, e si è adoperato in maniera espressiva nella complessa operazione musicale e teatrale, anche se con qualche distinguo.
Miah Parsson era una corretta Poppea, ma poco espressiva, Leonardo Cortellazzi un Nerone limitato e con registro acuto da raffinare (ammetto che preferisco una voce femminile nel ruolo). Delude in parte l’Ottone di Sara Mingardo, che credo sia stata in serata non felice, per un suono molto ovattato e spento, ma il fraseggio era esemplare, mentre Monica Bacelli, Ottavia, era leggermente sopra le righe stilisticamente. Andrea Concetti era un solido Seneca, Maria Celeng una precisa e simpatica Drusilla, Adriana Di Paola e Silvia Frigato s’impegnavano con onore nel ruolo di Arnalta e Amore. Nel reparto maschile convincevano Furio Zanasi, nel triplice ruolo Liberto-soldato-tribuno, Luca Dordolo, e il bravo Mirko Guadagnini che impersonava un preciso valletto, mentre Giuseppe Di Vittorio era una Nutrice troppo caricata. Si aggiungono correttamente per dovere di cronaca anche gli altri interpreti: Luigi De Donato, Monica Piccinini e Andrea Arrivabene.
In teatro, stranamente, si registravano molti vuoti, la recita cui ho assistito era addirittura in abbonamento. Per coloro che non sono accorsi un’occasione mancata per ascoltare un capolavoro musicale e in generale ben eseguito, i presenti hanno invece tributato al termine un convinto applauso a tutta la compagnia.

MADAMA BUTTERFLY [Lukas Franceschini] Bologna, 14 febbraio 2015.
La rappresentazione di Madama Butterfly di Giacomo Puccini al Teatro Comunale di Bologna, pur riscuotendo un caloroso successo di pubblico, ha destato qualche perplessità nella repentina sostituzione della protagonista.
Lo spettacolo era una produzione del 2009, ora riallestita da altra regista Valentina Brunetti. Allestimento minimale ma molto funzionale nella sua classicità, fondale colorato, pochi oggetti che denotano un mondo americano e uno giapponese, niente orpelli superflui, ed è un pregio, una regia improntata sulle movenze e sui sentimenti dei singoli personaggi, la docile ed illusa protagonista, il vigoroso ed insensibile Pinkerton, la saggia Suzuki, il razionale Sharpless. La regista di quest’occasione si prende qualche libertà originali nel ricreare quello che fu uno spettacolo nato per la Scuola dell’Opera di Bologna. All’inizio dell’opera vediamo un ragazzo ormai grande, Dolore, che ritorna in Giappone ed incontra una vecchia donna locale, Suzuki, facendosi riconoscere da un modellino di barchetta che la stessa gli regalò quando fu portato in America. La vicenda nasce pertanto come un racconto in flashback, su cosa avvenne molto tempo prima. La prima scena si svolge nello studio occidentale di Pinkerton ove Goro con tanto di pianta descrive la casa che ha trovato quale dimora per il prossimo matrimonio. Sono piccoli dettagli, ma non ledono la drammaturgia dell’opera, anzi sono coerenti e funzionano grazie all’intelligenza e al modo singolare della messa in scena. In seguito, la vicenda ha una lettura del tutto classica, quello che lo spettatore vuole e in parte si aspetta, ma è giusto rilevare come Valentina Brunetti ha preteso dai cantanti, una recitazione molto precisa senza retorica e di bella visione. L’iconografica casa del primo atto, faceva da contraltare ai cespugli di canne, verniciati di rosso, che delimitavano la stessa vista da altra prospettiva per il secondo atto; mentre il terzo era una struggente palafitta ormai spoglia anche dei pochi arredi ove si copie l’estremo gesto di Cio-Cio-San, tutto realizzato con mano elegante da Giada Abiendi, mentre Massimo Carlotto disegnava costumi molto belli.
Sul podio abbiamo trovato il maestro Hirofumi Yoshida, che ha dimostrato più la sua natura sinfonica che operista della sua mano alle prese con la partitura. Ha condotto la buona Orchestra del Comunale con professionalità, ma senza riuscire a scavare nelle note pucciniane quei piccoli camei d’indiscutibile meraviglia. In particolare la sua lettura mancava di comunicazione, fraseggio e variegati colori durante il canto, mentre ha prevalso una sonorità accesa e anche pertinente nei momenti solo musicali. L’opera è stata eseguita con due intervalli, spezzando il filo drammatico che lega il secondo al terzo atto.
Protagonista era il soprano Mina Yamazaki, prevista come secondo cast, che all’ultimo minuto ha sostituito la titolare Olga Busuioc. Preciso che non conoscevo nessuna delle due soprano, tuttavia nella signora Yamazaki era riscontrabile il grosso problema di questa Butterfly. Molto limitata nel registro acuto e nel canto di conversazione per colore e fraseggio, la sua Butterfly reggeva il passo solo nella parte drammatica, ma con esiti molto limitati anche se l’impegno era ragguardevole ma molto deficitario per limiti propri. Aspetti che erano del tutto convincenti in Luciano Ganci, un Pinkerton molto misurato ma capace di ritagliarsi un personaggio ben rifinito. Filippo Polinelli era uno statico Sharpless ma corretto e anche molto sensibile quando si rende conto della tragedia cui è involontariamente compartecipe. Brava Antonella Colaianni nel ruolo di Suzuki, precisa vocalmente e molto partecipe teatralmente, efficace il Goro di Saverio
Bravi e molto professionali gli altri artisti che completavano la lunga locandina: Alessandro Busi (Yamadori), Nicolò Ceriani (Bonzo), Enrico Picinni Leopardi (Yakusidé), Luca Gallo (Commissario Imperiale) e Mauro Marchetto (ufficiale del registro).
Al termine applausi convinti a tutti gli interpreti.

LE NOZZE DI FIGARO [Margherita Panarelli] Torino,15 Febbraio 2015.
Con un nuovo delizioso allestimento de Le Nozze di Figaro prosegue l’ottima stagione del Teatro Regio di Torino. Un cast eccellente, una regia originale ed una direzione elegante rendono queste “Nozze di Figaro” un evento da non perdere.
Mirco Palazzi è un protagonista vivace senza arrivare a rendere il personaggio una macchietta. La condotta di tutti è infatti influenzata dalla gravitas che questa regia (di Elena Barbalich) ha conferito alla messa in scena. L’intera impostazione scelta dalla regia, graziosissime le scene e i costumi di Tommaso Lagattolla, è un omaggio al teatro classico, nelle scenografie, ed al gusto Rococò, nei costumi. Il palco è diviso durante tutta la durata della rappresentazione in tre sezioni da alcuni pannelli grigi, nessuno dei quali però è fisso.I pannelli scorrono creando diversi ambienti.Una scalinata che collega la stanza di Figaro e Susanna alla stanza della Contessa durante la prima scena scorre verso il fondo e tornerà nell’ultima scena: sarà infatti da lì che i rei usciranno sfidando le ire del Conte.
I movimenti dei pannelli, che formavano muri e colonne , consentivano cambi scena snelli e veloci. Non solo i pannelli fanno parte della scenografia. Tavoli, sedie, ed un magnifico candelabro che compare per il tanto sospirato sposalizio ne erano parte integrante insieme ad alcune comparse (varie figure di servitori e tre adorabili bambini) che trasmettono la sensazione di trovarsi veramente nella casa dei coniugi Almaviva.
Tornando alle voci: Mirco Palazzi interpreta Figaro a pennello con destrezza e maestria. Il timbro è vellutato e l’accento sempre corretto,il fraseggio accurato ed elegante.
La Susanna di Ekaterina Bakanova non sfigura accanto al collega nonostante il timbro a tratti acidulo, anzi risulta al suo stesso livello, e la coppia si rivela gradevolissima nei duetti come nelle arie solistiche.
Carmela Remigio, nel ruolo della Contessa, si conferma una delle interpreti di riferimento del momento per il repertorio Mozartiano. La voce riempe e scalda il teatro, vibra di emozioni palpitanti e veritiere e il gesto d’attrice si fonde con il gesto del personaggio in una armonia che è lecito definire sublime. Molto interessanti il tempo scelto e alcune variazioni inserite dal soprano durante ” Dove sono i bei momenti”.
Eccellente il Conte di Vito Priante dal legato aggraziato e dal timbro attraente, come i colleghi tratteggia egregiamente il personaggio.Il finale del secondo atto è una delle vette della rappresentazione proprio a partire dalla discussione tra Conte e Contessa.
Fascinoso,scoppiettante, elegante il Cherubino di Paola Gardina. Emissione morbida e accenti appassionati in entrambe ” Non so più cosa son cosa faccio” e ” Voi che sapete” ma riesce a distinguersi anche nei momenti d’assieme. Plauso particolare per le movenze sempre pertinenti al ruolo.
Imponente nel volume e nella presenza scenica di Abramo Rosalen è egregiamente fraseggiato il suo Bartolo. Applausi calorosi accolgono “La vendetta, sì la vendetta”. 
Molto bravi Bruno Lazzaretti e Alexandra Zabala nei ruoli di Basilio e Marcellina, sarebbe stato auspicabile il non taglio delle rispettive arie di cui si è sentita la mancanza. Aggrazziata e dolce la Barbarina di Arianna Vendittelli. Benissimo anche l’Antonio di Matteo Peirone ed il Don Curzio di Luca Casalin.
Moderati, calibrati e ponderati i tempi scelti da Yutaka Sado egregiamente seguito dall’Orchestra del Teatro Regio di Torino. Ridona alla partitura di Mozart un afflato ed una riflessività spesso negatogli nelle più frequenti scelte di tempi troppo rapidi. Anche il Coro del Teatro Regio offre un’ottima interpretazione e l’intera rappresentazione è dominata da buon gusto ed eccellenza.

DON PASQUALE [Lukas Franceschini] Venezia, 18 febbraio 2015.
Il Teatro La Fenice, programmato ora come un teatro mitteleuropeo, allestice nuove produzioni alternate a numerose riprese di repertorio. E’ il caso del Don Pasquale di Gaetano Donizetti, spettacolo creato dalla Fenice al Teatro Malibran nel 2002 con la regia di Italo Nunziata.
Messa in scena tradizionale ma allo stesso tempo originale ed in parte innovativo. Il regista sposta l’azione negli anni ’30 del secolo scorso, nel periodo denominato dei “telefoni bianchi” immortalato dal cinema italiano della commedia romantica. Il protagonista è un ricco industriale tessile, gli altri interpreti nei loro ruoli, che non differenziano nella drammaturgia, la vicenda potrebbe essere ambientata in ogni epoca. La bellezza e la piacevole visione dello spettacolo sono incomparabili, a distanza di tredici anni è ancora funzionale e fa sorridere, con gags misurate e argute, riproposte di un mondo che abbiamo visto nei film, è anche proiettato per un breve segmento di “Grandi Magazzini” di Mario Camerini con un giovanissimo Vittorio De Sica e la star Assia Noris, quanto erano bravi… e belli! Non manca il tocco patetico sul personaggio di Don Pasquale, il vecchiotto illuso da una nuova giovinezza, ma in fondo resosi conto della sua chimera, il lieto fine è scontato. Operazioni teatrali di tale portata dovrebbero essere in uso frequentemente nei nostri teatri, ed è altrettanto bravo anche Pasquale Grossi che disegna una scena efficace e con cambi velocissimi di ottima fattura, e costumi preziosi di gran classe.
Sul podio abbiamo ritrovato Omer Meir Wellber, che in questi mesi sta dirigendo alla Fenice quasi tutte le produzioni. Il maestro israeliano non ci ha convinto totalmente anche se rispetto ai recenti Capuleti e Montecchi le cose sono andate meglio. La sua lettura è tuttavia sempre alterna, con momenti vorticosi o troppo slentati, il ritmo è sfasato ed accumunato ad un colore orchestrale piatto che determina un equilibrio poco accattivante tra buca e palcoscenico. Molto buona invece la prova offerta dal Coro del Teatro la Fenice istruito da Claudio Marino Moretti.
Il basso Roberto Scandiuzzi vestiva i panni del protagonista. Non è un ruolo a lui usuale, il suo repertorio spazia per caratura vocale su altri spartiti, soprattutto verdiani. Adesso la voce non è più fresca e i mezzi sono in parte ridimensionati rispetto ai gloriosi momenti degli anni ’90, e la ricerca di personaggi alternativi dovrebbe essere più oculata, poiché i ruoli della commedia o comici non sono molto particolari alle sue corde. Dobbiamo riconoscergli che a differenza anche di più giovani colleghi non è scivolato sul facile terreno delle gigionate teatrali (che spesso piacciono troppo al pubblico) ma si è distinto per sobrietà e un umorismo trattenuto e sottile.
Barbara Bargnesi è stata una buona Norina, civettuola e brillante, con brio non troppo evidente ma elegante, vocalmente si è esibita con correttezza, anche se il registro acuto sovente è risultato forzato. Alessandro Scotto di Luzio era un Ernesto insufficiente per carenze tecniche molto evidenti, soventi problemi d’intonazione e una voce, seppur bella, ancora sfasata. Davide Luciano, il migliore del cast, era un ottimo Malatesta dal canto elegante e molto equilibrato con l’aggiunta di un’indicativa recitazione. Rilevante la prova di Matteo Ferrara, nel breve ma squisito ruolo del notaro.

LE NOZZE DI FIGARO [William FrattI] Piacenza, 20 febbraio 2015.
Dopo Le nozze di Figaro il Teatro Municipale di Piacenza ospita Don Giovanni in attesa di terminare nei prossimi due anni la trilogia Mozart-Da Ponte – sempre sotto la guida di Cucchi-Sisillo – con Così fan tutte.
Alessanro Luongo dimostra ancora una volta di essere un protagonista eccellente, non solo nell’interpretazione vivace e avvenente, ma soprattutto soddisfacente da un punto di vista vocale. La sua linea di canto ben omogenea sta facendo spazio ad una luminosità ben manifesta che in questo repertorio vede certamente una delle sue massime espressioni. Degna di particolare nota è la serenata, ricca di colori, eccellente nel fraseggio, sublime nelle mezze voci. Purtroppo in questa performance non lo si ode eseguire certe finezze e sfumature come in altre occasioni, forse complice una direzione lassa e pesante.
Lo stesso vale per la Donna Anna di Yolanda Auyanet, cantante raffinata ed elegante, ben attenta a ciò che fa e sempre misurata. La resa della serata piacentina è abbastanza buona, ma è noto che la soprano sa fare di meglio in termini di rotondità di suono, di morbidezza di certi passaggi, di gusto e di stile, che in questo caso tendono a venire meno, presumibilmente per la medesima motivazione di una direzione poco consona, non in grado di sostenere l’interprete in palcoscenico.
Come sempre bravissimo Roberto De Candia nei panni di Leporello anche se, considerando le sue recenti eccellenti performance canore fuori dai suoi soliti ruoli, fanno presumere che la vocalità del baritono si stia pian piano allontanando dal vecchio repertorio, in cui non brilla più come un tempo, mentre sembra risplendere in altre parti.
Impressiona positivamente anche la prova di Raffaella Lupinacci nei panni di Elvira, ruolo di non facile interpretazione, dove occorre saper equilibrare la drammaticità teatrale con l’eleganza dello stile musicale. Il personaggio della psicopatica impasticcata e reso fin troppo bene, tanto da infastidire. Il canto è ben omogeneo, anche nei difficili passaggi dove molte colleghe risultano stridule o calanti.
Molto bene l’esecuzione vocale di Francesco Marsiglia, che aveva lasciato intuire le sue capacità già nei primi anni di carriera. Nella prima aria sfoggia una raffinata delicatezza di canto che trova il suo apice nelle belle mezze voci, anche se qualche nota non è propriamente ben appoggiata. È un poco meno morbido e preciso nella seconda aria, ma la resa complessiva è più che positiva.
Successo personale decretato dal pubblico piacentino per la Zerlina di Ayse Sener, studente del CUBEC. Fino agli anni Novanta gli spettatori del Municipale avevano il palato fine e sapevano riconoscere il bel canto dal mal canto. Oggi sembrano non curarsene e preferire le voci che superano una certa soglia di decibel, indipendentemente dalla correttezza dell’esecuzione, applaudendo nelle recenti stagioni interpreti urlatori e urlatrici. Con questo non si vuole disapprovare l’interpretazione della giovane soprano, che comunque possiede una bella voce seppur molto acerba e ha saputo rendere il ruolo con estrema efficacia, ma la si vuole discriminare, poiché errori e imprecisioni sono stati tanti, mentre altri colleghi meno applauditi hanno fatto certamente di meglio.
Buono anche il Masetto di Fumitoshi Miyamoto e abbastanza adeguato il Commendatore di Antonio Di Matteo, anch’egli dotato di una gran voce, ma necessaria di miglioramento, poiché molto impastata, opaca e di difficile portabilità nelle zone grave e acuta.
Sufficiente la prova del Coro Lirico Amadeus diretto da Stefano Colò.
Della direzione soporifera di Aldo Sisillo si è già detto, poco efficacie nel dialogo col palcoscenico, come pure nei colori e nelle sfumature.
Della regia di Rosetta Cucchi, seduta in un palco ma non comparsa alla ribalta al termine della rappresentazione, va detto che le idee sono buone – in questo repertorio è solitamente molto brava – ma la sua realizzazione è stata poco espressiva dei concetti di base e soprattutto troppo visibilmente low cost. Gli spunti interessanti ci sono, ma sono talmente nascosti dietro un’accozzaglia inelegante di cineserie che non ci se ne accorge nemmeno, ma che possono tornare in mente solo ripensandoci successivamente con attenzione. La trasposizione agli anni Ottanta e agli anni della perdizione sessuale, delle droghe e dei costumi facili è vincente, ma rappresentata con scene e costumi – firmati da Andrea De Micheli e Claudia Pernigotti – che si sarebbero potuti comprare da Satur Passione Casa e da Jin Hao Mercatone è inguardabile. Per non parlare delle luci oratoriali di Andrea Ricci. Validissima l’idea della ferita inferta dal Commendatore a Don Giovanni, come pure quella delle pasticche di Donna Elvira. Completamente fuori dalla filologia il ricordo dello stupro di Donna Anna nel taxi mentre recita “quando nelle mie stanze, ove soletta mi trovai per sventura” o la spiegazione di Leporello a Donna Elvira che prende per mano una ragazza mora mentre canta “nella bionda egli ha l’usanza”. Piccolezze, ma che potevano essere evitate.
Di totale inutilità Juan Manzano e Martina Monaco che in locandina sono presentati come danzatori, ma dovrebbero comparire come figuranti, poiché non conoscono l’eleganza con cui si cammina, si mette un braccio o si allunga una gamba.
Il pubblico di metà platea è scappato alla chiusura del sipario, senza neppure attendere l’uscita dei cantanti. Peccato, poiché i solisti meritavano davvero un applauso.

LUCIA DI LAMMERMOOR [William Fratti] Genova, 1 marzo 2015.
Il Teatro Carlo Felice di Genova invita il celebre regista Dario Argento a cimentarsi con il melodramma per la sua prima volta.
Chi si aspettava da questa Lucia di Lammermoor uno spettacolo splatter o spaventoso è indubbiamente rimasto deluso. Solo per qualche secondo fanno la loro comparsa un coltello e un assassinio alla maniera di Profondo rosso quando Lucia uccide Arturo (siparietto inelegante e bruttino, che avrebbe potuto essere reso diversamente); appare anche l’ombra della fonte (la brava Fabiola Di Blasi), nuda e con i capelli lunghi, scuri e bagnati, appiccicati sul volto, come in alcune scene di Inferno, Tenebre e Phenomena; la protagonista, durante la scena della pazzia, è completamente imbrattata del sangue del neo sposo appena accoltellato. E tutto si ferma qui; sono gli unici momenti in cui succede qualcosa, i soli istanti in cui c’è la regia, mentre il resto è piatto e noioso. Il coro è sempre fermo e spesso in disordine; controscene non ce ne sono, tranne appunto l’ombra della fonte; i protagonisti sono fissi in scena, a parte la sola Lucia durante “Il dolce suono”. Sembra lo spettacolo di un giovane apprendista alla prima esperienza. Addirittura durante il matrimonio, quando tutti attendono l’ingresso della sposa, pur avendo a disposizione la grande scalinata del palazzo che presumibilmente conduce alle camere, ella entra dal lato come se fosse la portinaia. Concludendo, il lavoro di regia di Argento delude molto: senza scendere nell’ambito soggettivo di bello o brutto, si può obiettivamente affermare che è stato fatto con poca accuratezza.
Migliore è la realizzazione delle scene di Enrico Musenich, soprattutto la prima del bosco e l’ultima del cimitero, mentre l’interno del palazzo degli Ashton, pur avendo dei criteri di architettura interessanti, ha dei colori che riconducono molto alla cartapesta e lo rendono poco realistico. Sarebbe inoltre stato interessante il telo dipinto della casa dei Ravenswood se fosse stato immobilizzato con dei tiranti invece di protendersi verso il proscenio a causa della corrente d’aria; infine la lampada elettrica nella stessa scena, è alquanto fuori tempo e fuori luogo: che nessuno si sia accorto di questo errore è davvero… illuminante!
Ben confezionati sono i costumi di Gianluca Falaschi anche se l’aver vestito gli uomini con abiti ottocenteschi e le donne nello stile del primo rinascimento alla maniera preraffaellita ha ben poco senso e certamente non aiuta lo spettatore a entrare emotivamente nella vicenda. Adeguate le luci di Luciano Novelli.
Il sollievo dalla noia lo si deve soprattutto a Giampaolo Bisanti che, nonostante la staticità di ciò che avviene in palcoscenico, compie un buon lavoro di amalgama tra orchestra, cantanti e platea, ma a questo punto avrebbe potuto sortire il medesimo buon risultato anche in forma di concerto. Il suo carattere distintivo è indubbiamente il dialogo con gli interpreti, che sono sempre supportati, mai sovrastati col suono, seguiti nel loro fraseggiare a favore di una più ampia resa passionale e sentimentale. Eccellente il difficile finale secondo. Orchestra e coro non sono precisi in ogni momento, ma i segni del bravo direttore non sembrano affatto colpevoli, anzi, in certi passaggi sono serviti a rientrare sui giusti binari.
Desirée Ranatore, oggi riconosciuta come un delle migliori interpreti di questo ruolo da tutto il panorama lirico internazionale, accetta comunque di cantare nonostante colpita da un violento virus influenzale. Chi la conosce di persona la vede palesemente indisposta. Chi ricorda la meraviglia di altre sue esecuzioni di Lucia, sente la differenza , poiché dai numeri uno ci si aspetta sempre il meglio. Ma Rancatore deve essere ringraziata per non avere rinunciato, per non avere abbandonato il suo pubblico, per aver cantato con una tecnica talmente salda e ferrea da potersi considerare inferiore solo a se stessa, quando è in perfetta salute. Questo è il vero modo di cantare, di saper adoperare il proprio strumento. Meritatissime le ovazioni a lei tributate dopo la scena della pazzia e al termine dello spettacolo.
Lo stesso non vale per Gianluca Terranova, che sfoggia una delle più belle voci tenorili dell’ultimo ventennio – splendente nel timbro, vellutata nel colore – ma con un livello tecnico ridotto al minimo indispensabile. E ciò fa parecchia rabbia, poiché potrebbe davvero essere qualcuno e lasciare un segno nella storia della lirica, ma se continua così rischia di esaurirsi presto, proprio come la bellezza perlacea di un viso giovane sfiorisce col passare degli anni. Il suo Edgardo è particolarmente piacevole ad un ascolto approssimativo, soprattutto perché è onesto e generoso, ma se si porta attenzione si sente chiaramente dove arriva la natura e dove manca la tecnica.
Stefano Antonucci, come già detto in altre occasioni, è un cantante corretto e la sua linea di canto si trova particolarmente agiata nella zona acuta, grazie a cui riscuote sempre un grande successo, ma nelle note basse è molto affaticato e risultano pasticciate o parlate. Il colore del suo Enrico è abbastanza piacevole, ma in certi momenti risulta opaco, i fiati sembrano corti e pare perdere di elasticità.
Giovanni Battista Parodi veste i panni di Raimondo in tutte le recite, anche in sostituzione di Orlin Anastassov. La sua naturale presenza scenica, ma soprattutto il saper portare nelle proprie interpretazioni gli insegnamenti avuti dai grandi registi con cui ha lavorato, fa dei suoi personaggi eleganti e autoritari un segno distintivo. Complice anche una vocalità particolarmente adatta ai ruoli del belcanto romantico, dove occorrono una tecnica salda, un’estensione reale e non celata dietro falsi compromessi, nonché una certa duttilità, il tutto arricchito da un fraseggio espressivo.
Enrico Cossutta è un Normanno efficace, un po’ nascosto dal coro nelle pagine d’assieme. Adeguato è l’Arturo di Alessandro Fantoni. Abbastanza anonima è l’Alisa di Marina Ogii. Sufficiente la prova del Coro del Teatro Carlo Felice diretto da Pablo Assante.
Scroscianti applausi per tutti al termine dello spettacolo, soprattutto per la stella Rancatore, visibilmente commossa nel ricevere tanto meritato successo.

DIDO AND AENEAS [Renata Fantoni e William Fratti] Firenze, 5 marzo 2015.
L’Opera di Firenze prosegue la Stagione 2014/2015 all’insegna della promozione culturale, con la proposta di titoli meno comuni accanto al grande repertorio.
La ripresa di Dido and Aeneas di Henry Purcell nell’allestimento veronese firmato da Marina Bianchi segue un po’ il filone dell’Orfeo ed Euridice di Gluck dello scorso anno, trattandosi di opere fuori dal solito calderone a cui attinge la maggior parte dei teatri italiani, ma comunque nell’ambito di lavori importanti che hanno fatto la storia del teatro musicale.
Marina Bianchi alla guida dello spettacolo e Leila Fteita alle scene e ai costumi sanno essere maestre di eleganza, pur non restando troppo legate alla tradizione e neppure volendo strafare in termini di coup-de-théâtre contemporanei. Si potrebbe dire di un allestimento neoclassico, una lettura evergreen con accenni moderni, poiché tale è la vicenda di Didone: una donna forte, autoritaria, apparentemente invincibile, spezzata da un amore impossibile.
L’eleganza e la raffinatezza del lavoro della regista milanese – che con nonchalance mette in scena una maga dalle tinte sadomasochiste – trova il suo compimento nelle delicate coreografie di Maria Grazia Garofoli, che riempiono d’azione le pagine musicali senza mai invadere lo spazio del canto, in perfetta complementarietà, come pure le luci aggraziate, quasi timide, di Gianni Paolo Mirenda.
Ottima la lettura e la direzione di Stefano Montanari che risulta essere molto fluido e buon fraseggiatore, sapendo tirar fuori il carattere descrittivo dai passaggi orchestrali.
José Maria Lo Monaco è una Didone corretta, seppur non precisissima e lo stesso vale per l’Enea di Leonardo Cortellazzi. Maggiormente efficace è Francesca Aspromonte nei panni di Belinda, in possesso di un miglior stile baroccheggiante e una più puntuale omogeneità nella linea di canto. È accompagnata dalla brava Irene Favro, seconda donna.
Eccellente è l’interpretazione della maga di Adriana Di Paola, seppur non così pulita nel suono, affiancata dalle efficacissime Alessia Nadin e Anna Pennisi nei panni delle streghe. Adeguati alle circostanze il primo marinaio di Paolo Antognetti e lo spirito di Teona Dvali.
Validissima la prova della voce recitante di Ermelinda Pansini, alle prese con l’Epistulae Heroidum di Publio Ovidio Nasone, in cui Didone scrive all’amato Enea, come quella del Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Lorenzo Fratini. Ottimi i ballerini di MaggioDanza, anche se va notato che sono migliori presi singolarmente che non nella globalità dell’organico, poiché non sempre in perfetta sincronia.
Le jeune homme et la mort di Roland Petit, per la prima volta a Firenze, segue l’opera di Purcell. L’allestimento è quello del Teatro alla Scala di Milano, la coreografia è ripresa da Luigi Bonino e il bravissimo Andrea Severi esegue all’organo la Passacaglia di Johann Sebastian Bach.
Yonah Acosta, giovane stella internazionale della danza, interpreta le jeune homme con grande fascino e precisione tecnica, seppur troppo attento al risultato per essere perfetto trasportatore delle angosciose emozioni volute da Cocteau e Petit.
Migliore in questo senso è l’eccellente Alessandra Ferri che dopo oltre trenta anni sulle punte sa ancora regalare al suo pubblico delle performance sublimi, cariche di pathos, nell’eleganza raffinata di uno stile dal gusto delicato e deciso al tempo stesso.

EL AMOR BRUJO – CAVALLERIA RUSTICANA [Lukas Franceschini] Verona, 10 marzo 2015.
Originale ed insolita accoppiata quella proposta al Teatro Filarmonico dalla Fondazione Arena: il balletto El amor Brujo di Manuel de Falla e l’opera in un atto Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni.
Il balletto è un’esaltazione dell’amore sulla morte, la protagonista Candelas è ossessionata dallo spettro di un amore sfortunato precedente, sarà il bacio con il nuovo innamorato, Carmelo, a far morire lo spettro, il passato scompare con la prospettiva di un futuro d’estasi. De Falla, il quale compose la partitura nel 1915, si è servito di canti popolari andalusi abbinati a momenti espressivi che identificano una gioia sfrenata ma anche cupi e tristi. Domina su tutto un ritmo irresistibile delle più popolari danze spagnole, che pulsa vivo in ogni pagina per divenire simbolo di vittoria. De Falla, diversamente da altre composizioni, per L’amor stregone si seve di una ridotta orchestra cameristica composta da legni, corni, trombe, timpani, pianoforte, archi e una parte solistica affidata a voce di soprano o mezzosoprano. Cavalleria Rusticana (1890) fu il debutto operistico di Pietro Mascagni, cui arrise un successo straordinario e storico mai più raggiunto in seguito da altre composizioni seppur ragguardevoli. Il libretto molto conciso e raffinato è tratto dalla celebre novella di Giovanni Verga, ed in piena epoca verista letteraria l’opera si afferma come l’emblema del genere musicale. L’opera è caratterizzata da una passionalità estroversa con infiammati sbocchi teatrali, languore e una perspicace propensione per il colore locale contadino. La vicenda dell’amore travolgente con delitto d’onore è immersa in pagine corali, religiose e folkloristiche, le romanze si adagiano sul popolare. Merito del compositore fu quello di utilizzare una cantabilità generosa e spontanea senza tralasciare il dramma e particolare attenzione riservò ai momenti descrittivi, il tutto in una coesione stupefacente di circa settanta minuti.
Artefice di tale progetto il coreografo (e regista) Renato Zanella, direttore del corpo di ballo della Fondazione, che crea uno spettacolo unico senza intervallo accomunando la duplice drammaturgia dell’amore passionale e frenetico che è il comune denominatore. La scenografia di Leila Fteita è scarna ma efficace, da un lato le rovine di un tempio greco all’opposto una pianta di ulivo, creano un’ambientazione mediterranea ottimale, su cui s’intersecano i protagonisti: Lola, il mezzosoprano Clarissa Leonardi, canta gli interventi canori del balletto, gli stessi ballerini partecipano ad alcune scene dell’opera, rilevando l’intreccio comune delle due partiture. Sulle stesse tavole si svolgono entrambe le vicende, con voluto accento femminile, e Zanella pone giustamente e con garbo la sintesi di questi amori passionali ma realizza una semplicità ammirevole di drammatica e fine teatralità. Si lascia prendere la mano inserendo un gioco di tiro alla fune inutile, e avrebbe avuto più impatto non far vedere il duello tra Turiddu e Alfio, ma sono piccoli dettagli che non inficiano il bel lavoro del regista veronese. La coreografia del balletto è emozionante nell’ambiente iberico, fondendo classicità a tradizione locale. I costumi, curati dalla stessa scenografa, sono bellissimi nella loro tradizione.
Altro principale artefice di questo successo è il direttore Jader Bignamini, che si sta imponendo sempre più sulla ribalta musicale italiana. La sua bacchetta è particolarmente espressiva nel brano di De Falla, ove vigore ed estrema ricercatezza di suono sono luminosi ed emozionanti. In Cavalleria si ammira altrettanta cura del dettaglio ma con taglio teatrale di estremo rigore e pulizia che rende la verista vicenda carica di tensione da mozzare il fiato. Ottima dimostrazione di assoluta capacità concertante.
I solisti dell’Amor Brujo, Teresa Strisciulli, Annalisa Bardo, Antonio Russo ed Evgenij Kurstev, esprimono passione e tecnica raffinata, in un vorticoso e dinamico gioco di corpo, assieme all’intero Ballo della Fondazione Arena.
Nel cast di Cavalleria emerge la Santuzza di Ildiko Komlosi, sensibile e remissiva che sfodera una voce di rango, vellutata ed incisiva, nella zona centrale e controlla con astuzia l’acuto, ma è teatralmente irreprensibile e molto calata nel personaggio. Piuttosto acerbo il giovane tenore Dario Di Vietri, ma il materiale c’è e speriamo in futuro di ascoltare un cantante con più colori e fraseggio. Truce e abbastanza calibrato l’Alfio di Sebastian Catana, Clarissa Leonardi è una sensuale e bravissima Lola, oltre ad una precisa solista nelle canzoni andaluse, e Milena Josipovic una Lucia più che corretta. Abbastanza buona la prova del coro.
Teatro esaurito in ogni ordine di posto che ha al termine ha decretato un autentico trionfo a tutta la compagnia.

AIDA [Lukas Franceschini] Milano, 11 marzo 2015.
E’ andata in scena alla Scala l’opera di Giuseppe Verdi Aida, nel nuovo allestimento con la regia di Peter Stein, sulla quale in precedenza si erano sviluppate molteplici polemiche.
Il Teatro alla Scala aveva a disposizione nei suoi magazzini ben due produzioni di Aida, entrambe a firma Franco Zeffirelli, una del 1963 ripresa recentemente dopo un accurato restauro, l’altra del 2006 che inaugurò la stagione ed è stata venduta recentemente scatenando le ire del regista fiorentino: Il fatto è stato riportato su tutti i giornali. Ad onor del vero la seconda produzione non fu uno dei lavori migliori di Zeffirelli, peraltro ricopiata su un’edizione areniana, e non è da biasimare se l’allora sovrintendente Lissner decise di disfarsene. Restava l’altra che pur dimostrando il suo mezzo secolo d’anzianità aveva molti pregi e resta uno degli allestimenti storici della Scala, anche per i diversi cast che si sono alternati nel corso delle numerose riprese.
A mio personale giudizio, bene ha fatto il Teatro milanese a proporre un nuovo allestimento che ha molti pregi e un solo difetto. Il difetto consiste nel fatto che il regista ha deciso di eliminare il balletto del secondo atto, definendoli “orpelli” (come da intervista nel programma di sala) e credo che tale considerazione sia del tutto errata e la sua decisione ancor più scellerata ma le colpe vanno additate anche a chi ha permesso tale scelta. Tuttavia, lo spettacolo di Peter Stein è di pregio e con innovative concezioni che non lasciano spazio al trionfalismo, ma entrano visceralmente nell’intimo dei personaggi, in particolar modo nel triangolo amoroso a tre. Le scene geometriche di Ferdinand Wogerbauer ben si dispongono in questa logica, creando effetti di forte impatto pur nella loro semplicità e un cromatismo che spazia spesso tra bianco e nero. Altrettanto ammirevoli i costumi sontuosi di Nanà Cecchi che non s’ispira ad uno stereotipo immaginario da geroglifico, puntando invece su astratte e rifinite tuniche. Dal punto di vista drammaturgico Stein si concentra su una recitazione intima che volutamente narra la triplice vicenda infelice dei protagonisti, ci riesce con garbo e particolare inventiva, rifuggendo da qualsiasi stereotipo. Unica osservazione: non condivido il suicidio di Amneris sulla tomba degli amanti, il suo dolore o rimorso dovrebbe scontarlo vivendo.
Da punto di vista musicale abbiamo avuto il ritorno di Zubin Mehta sul podio del Piermarini, in sostituzione dello scomparso Lorin Maazel, il quale ci regala un’Aida sontuosa e senza sbavature, ben calibrata nel suono e tenendo sotto controllo un cast per nulla straordinario, riuscendo con dinamica e narrazione a portare in porto la difficile operazione, senza però mettere una personalizzazione tangibile, che una bacchetta come la sua sarebbe autorizzata. Molto buona la prova del Coro scaligero diretto da Bruno Casoni e di ottima fattura le brevi danze nella scena del gabinetto di Amneris, brillanti le coreografie di Massimiliano Volpini, eseguite dagli allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala.
L’unico elemento del cast ad offrirci una prova positiva è stata Anita Rachvelishvili, Amneris, che sfodera una rigogliosa voce, ben timbrata, con accenti e fraseggio rilevanti, superando anche per personalità interpretativa tutti i colleghi. Delude Kerstin Lewis, Aida, che nel breve spazio di qualche anno ha fornito prove quasi sempre sotto le aspettative rispetto gli esordi italiani. La tecnica è precaria, e solo il centro resta ancora tornito e calibrato, il grave è quasi assente e il registro acuto sempre stridulo e forzato. Fabio Sartori, rientrato dopo un’indisposizione iniziale, risentiva ancora delle non perfette condizioni di salute. Del tenore veneto ho scritto più volte la sicurezza nell’affrontare il ruolo pur con lacune interpretative e timbriche. Non posso che riconfermare tale giudizio, anche se nell’occasione scaligera la sua esibizione era al di sotto del suo standard per i motivi citati sopra.
Autorevole ed in ottima forma Ambrogio Maestri che ha disegnato un Amonasro paterno ma allo stesso tempo guerriero con incisivi accenti. Molto bene Carlo Colombara, il Re, purtroppo relegato nella breve parte del faraone, e meritevoli di plauso gli interventi del messaggero e della Gran Sacerdotessa, rispettivamente Azer Rza-Zada e Chiara Isotton, Solisti dell’Accademia di Perfezionamento per Cantanti Lirici del Teatro alla Scala.
Resta per ultimo Matti Salminen, Ramfis, il quale ha offerto una prestazione che definire imbarazzante è un eufemismo. La voce ormai al caffè sfocata e affaticata, talvolta parlante. Dopo oltre quarant’anni di carriera sarebbe meglio chiudere con più onore.
Teatro gremito in ogni ordine di posto, applausi scrosciati al termine mescolati con isolati “buu” a Salminen e alla Lewis.

LES PECHÊURS DE PERLES [Lukas Franceschini] Torino, 13 marzo 2015.
Dopo oltre ottanta anni di assenza, Les pêcheurs de perles di Georges Bizet torna sul palcoscenico della Rai di Torino.
Un tempo le performance operistiche negli Auditorium Rai (quattro) erano molteplici e variegate, inoltre avevano il pregio di proporre composizioni rare anche di autori famosi. La possibilità era dettata prevalentemente dall’esecuzione in forma di concerto che faceva risparmiare notevolmente sulle produzioni. Oggi, dopo il ridimensionamento degli anni ’90, l’Orchestra Rai è una e ha sede nella città storica ove nacque, Torino. Nell’ambito di una lunga e interessatissima stagione sinfonica, quasi tutta trasmessa alla Radio, molti concerti anche in televisione, propone in ogni stagione anche qualche titolo operistico.
Per il 2015 nella rassegna denominata “Altro che Classica” il titolo prescelto è stato la celebre, ma assai poco eseguita, opera di Georges Bizet Les pêcheurs de perles. E’ abbastanza paradossale che Bizet sia ricordato solo esclusivamente per il suo ultimo capolavoro Carmen, e non anche per altri suoi scritti che seppur inferiori contribuirono alla formazione compositiva che sfociò nella predetta opera ma che sarebbe il caso di apprezzare per ampi motivi di estetica. I pescatori di perle sono uno di questi e colpisce soprattutto in tempi moderni quanto quest’opera sia stata dimenticata, poiché per molto tempo è stata banco di prova di numerosi tenori. Composta per il Théâtre Lyrique di Parigi (30 settembre 1863) è un’opera incentrata sulla tematica principale dell’ottocento: l’amore, con le sue molteplici sfaccettature qui però sviluppato in modo onirico, sentimentale seppur tragico nella conclusione. Inoltre non possiamo non evidenziare il colore locale, isola di Ceylon, e l’insieme esotico della vicenda, che per tutta la seconda parte del XIX secolo fu molto utilizzata in campo operistico. E’ proprio questa “tinta” esotica che ci rivela un Bizet, seppur giovanissimo, autore di teatro musicale geniale che realizza un gioiello sottovalutato per relazione drammatica e storica ma con un’inventiva unica e larmoyante.
In questa esecuzione abbiamo ascoltato la versione originale dell’opera del 1863 che differenzia sostanzialmente nel finale III. In precedenza furono utilizzate altre versioni non propriamente pertinenti e la pubblicazione dell’originale si deve ad Arthur Hammond nel 1974.
Nell’edizione torinese dell’opera abbiamo trovato il direttore Ryan McAdams poco addentro al repertorio francese, con soluzioni timbriche assai opinabili. La bacchetta mancava clamorosamente nel linguaggio operistico bizetiano, sfoderando enfasi e sonorità eccessive che facevano perdere non solo il “gusto” esotico della partitura ma soprattutto una drammaturgia narrativa che sarebbe dovuta essere cesellata e colorata piuttosto che “violenta” e priva di filo conduttore. L’orchestra Rai confermava la sua ottima formazione, anche se l’assolo dei corno era imarazzante.
Nel ruolo principale tenorile abbiamo avuto in Paolo Fanale un buon esecutore, suo pregio è stato non imitare nessuno, anche se probabilmente un po’ impaurito della parte. Se da un lato abbiamo avuto il buon cantante con preziosa voce lirica-lirica leggera capace di mezzevoci e pianissimi autorevoli, dall’altra era carente di colore ed espressione risultando sovente monocorde. E’ auspicabile che riprendendo in seguito il ruolo possa trovare una cifra interpretativa più consistente anche in virtù del fatto che ha cantato il ruolo in due serate consecutive.
Rosa Feola, Leila, era un soprano lirico con ottime capacità nella coloratura, di buona fattura musicale, senso misurato del canto e una variegata espressione stilistica.
Nel ruolo di Zurga è stato ingaggiato all’ultimo momento Vincenzo Taormina in sostituzione d’indisposto Luca Grassi, che aveva cantato la sera precedente. Onore al merito di aver “ripassato” a parte in poche ore prima dell’esibizione, la quale tuttavia ha mostrato un cantante probabilmente più adatto ad altro repertorio considerata la poca raffinatezza, notevoli forzature e un timbro greve poco rifinito.
Luca Tittoto era un Nourabad di lusso e peccato sia stato scritturato per un ruolo così marginale. La voce è molto bella e calibrata, omogenea nei registri, morbida ed espressiva.
Una menzione particolare per il Coro del Teatro Regio di Parma, istruito da Martino Faggiani, che ha fornito prova di estrema professionalità e ottima resa canora.
L’auditorium Rai di Torino non era gremito, anzi si notavano numerosi vuoti, cosa molto strana considerata la rara esecuzione dello spartito, ma il pubblico presente al termine ha premiato tutta la compagnia con numerosi e convinti applausi.

LES PECHÊURS DE PERLES [William Fratti] Torino, 13 marzo 2015.
Paolo Fanale è indiscutibilmente un eccellente Nadir e lo dimostra fin dalle prime pagine, in cui già si evidenzia il suo sapiente uso dei fiati con una capacità di smorzare i suoni fuori dal comune. Indubbiamente sa far collimare la morbidezza del canto all’italiana con l’eleganza del gusto francese, con un fraseggio molto espressivo e una dizione davvero ottima. L’emissione, mai spinta, risulta particolarmente omogenea, così piani e forti assumono una dimensione cromatica ben più raffinata. Ottima la linea di canto, con note basse ben salde, quasi da baritenore, come insegna la scuola del belcanto, e note alte ben appoggiate e che godono di un passaggio talmente corretto da non sentirsi la gola. Durante la celebre “Je croix entendre encore” sfoggia degli acuti su “folle ivresse” a voce piena, come in pochi riescono a fare, si permette di restare sulla nota più a lungo, poi pian piano toglie fiato, la voce si smorza naturalmente, diventa un filato naturale e scende. Pericolosissimo! Ma riuscito benissimo! Ed emozionantissimo!
Rosa Feola è una brava Leïla e lo dimostra soprattutto durante l’aria di secondo atto e il successivo duetto con Nadir, anche se si sentono suoni pungenti negli acuti, alcune note alte risultano un poco urlacchiate, altre stridule come in “je le jure” alla sua sortita. Molto belli sono gli accenti drammatici nel duetto con Zurga, anche se in certi punti spinge un po’ troppo, ma presumibilmente la colpa è da ricercarsi nell’eccessivo volume del suono orchestrale.
Il bravo Vincenzo Taormina sostituisce l’indisposto Luca Grassi nel ruolo del capo dei pescatori, con una vocalità ben luminosa, anche se si sarebbero preferiti più colori e sfumature e una maggior robustezza nelle note gravi.
Ottimo il Luca Tittoto nell’ingrata parte di Nourabad, poiché quasi sempre associata agli assiemi col coro.
Ryan McAdams, sul podio dell’eccellente Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai – che primeggia in tutti i comparti con una pulizia di suono esemplare – dirige i quasi ottanta musicisti con un gesto troppo ampio, generando un volume troppo alto e decisamente fastidioso. I tempi sarebbero perfetti e forse lo sarebbe anche la ricerca dei cromatismi se non fossero tutti fusi e confusi tra loro dalla mole eccessiva dei decibel prodotti, andando così a perdere le finezze volute da Bizet, nonché le sfumature dei maestosi. Anche le bellissime pagine tratte dal Te Deum risultano così compromesse in parte. Come pure mancano tutti i passaggi delicati nel duetto finale.
Lo stesso vale per il Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani, che si sarebbe maggiormente distinto se non gli fosse stato chiesto di cantare così forte, a discapito dei colori che sempre dimostra di saper eseguire.
Serata comunque di alta qualità, trasmessa alla radio in collegamento diretto e in differita su Rai5 il prossimo giovedì 23 aprile alle ore 21.15.

LUCIO SILLA [Lukas Franceschini] Milano, 14 marzo 2015.
L’opera Lucio Silla K 135 di Wolfgang Amadeus Mozart torna al Teatro alla Scala per la terza volta, dopo la prima assoluta, però al precedente Teatro Ducale nel 1772, e le rappresentazioni del 1984.
Terminato il primo viaggio in Itali nel marzo del 1771, Mozart rientra a Salisburgo portandosi gli onori e la gloria per Mitridate Re di Ponto che trionfò a Milano, ma anche la soddisfazione per aver ottenuto l’incarico di comporre Lucio Silla, nuova opera seria che sarà rappresentata per la stagione di Carnevale successiva sempre a Milano. L’opera fu eseguita il 26 dicembre 1772 ed annoverava un ottimo cast, nel quale si segnalano le presenze di Anna De Amicis (eccellente virtuosa) e Venazio Rauzzini (celeberrimo castrato) cui Mozart riservò arie particolarmente difficili in virtù della sua estensione vocale. Il successo fu notevole e sotto il profilo musicale ci troviamo di fronte ad una composizione più matura e solida rispetto le precedenti, pur riscontrando una certa disomogeneità nell’insieme vocale, ma non in quello orchestrale che dimostra una concreta ed efficace atmosfera drammatica. Molti critici concordano nell’affermare che sono ancora vivi e ben presenti gli influssi della scuola napoletana e di Johann Christian Bach, tuttavia arricchiti da geniali soluzioni melodiche. Ci furono dei problemi con il ruolo del protagonista perché il tenore Bassano Morgnoni, cantore di chiesa e poco esperto di palcoscenico, fu chiamato all’ultimo a sostituire il titolare prescelto. Le repliche furono venticinque, ma non fruttarono a Mozart una successiva commissione, pertanto Lucio Silla fu l’ultima opera non solo milanese, le precedenti furono Mitridate (1770) e Ascanio in Alba (1771), ma anche italiana dell’allora giovanissimo compositore.
Il nuovo spettacolo è una coproduzione, la quale ha debuttato a Salisburgo nel 2013. Il regista Marshall Pynkoski sposta l’azione dall’antica Roma, al settecento della prima esecuzione. Nulla di nuovo ma ben collaudato e ben tracciata la regia nella drammaticità; l’azione dei personaggi, la quale è algida e tagliente, si apprezza con piacere. Le scene monumentali, con grandi colonne, siparietti con giardini, sono austere ma di forte impatto, lo stesso scenografo, Antoine Fontaine, è altrettanto bravissimo costumista di ricercata raffinatezza. Unico neo, almeno per chi scrive, è stato l’inserimento di mimi ballerini che volteggiano in alcuni intermedi orchestrali e durante l’azione dell’opera, che seppur in una dinamica coreografia di Jannette Lajeunesse Zingg, poco avevano da spartire con l’opera. Il corpo di ballo del Teatro alla Scala è sempre e comunque superlativo.
Definirei straordinaria la direzione di Marc Minkowski, eccelso concertatore che già conoscevamo, ma in quest’occasione è il vero artefice di un secesso che non sarebbe stato tale senza la sua bacchetta. I tempi sono energici e serrati, il recitativo molto accurato e drammatico, pregio ancor più importante è stato quello di accompagnare e guidare una compagnia non eccelsa in un ostico e difficoltoso percorso, cesellando ed aiutando con partecipazione orchestrale tutta l’opera. Un vero maestro di musica. Per l’occasione è stata utilizzata l’edizione critica di Kathleen Kuzmick Hansell, e il direttore ha avuto anche la saggezza di sfoltire i recitativi e trovare nuove cadenze per alcune arie.
Quanto al cast è d’obbligo la precisazione che i ruoli più difficoltosi sono quelli di Cecilio e Giunia, per i quali non sempre le interpreti sono state all’altezza delle aspettative. Tuttavia il Cecilio di Marianne Crebassa era il miglior elemento della compagnia, espressione, drammaticità, stile sono pregevoli, anche se nel corso della rappresentazione non costanti e si sarebbe auspicato qualche abbellimento più consistente nelle arie. Lenneke Ruiten, Giunia, pur con un canto espressivo esprimeva lacune nel registro acuto non sempre intonato e quasi sempre sfibrato.
Kresimir Spicer, che in origine doveva cantare alcune recite, ha sostituito il previsto Rolando Villazon per tutte le recite in programma. Tenore con voce non particolarmente bella, ma alquanto preparato tecnicamente, difetta purtroppo in una dizione traballante che rende ancor meno efficace il ruolo sì di protagonista ma messo ai margini dalle parti femminili.
Molto brava Giulia Semenzato, che disegna una Celia frizzante e civettuola, presumo voluta dal regista, a discapito del drammatico ma per questo senza trascendere dai suoi compiti vocali.
Infine, il Lucio Cinna di Inga Klana era ben proiettato in un canto sicuro e preciso.
Bravissimo il coro preparato da Bruno Casoni. Teatro gremito, cosa assai rara per un Mozart di nicchia, e al termine convinti applausi a tutta la compagnia con ovazioni per il direttore.

IL TURCO IN ITALIA [Margherita Panarelli] Torino, 15 marzo 2015.
Prosegue con un buon Turco in Italia la stagione del Teatro Regio di Torino. Non convince totalmente la regia ma il cast riesce a far passare la cosa in secondo piano.
Nino Machaidze è scenicamente una Donna Fiorilla ineccepibile. La voce ha un timbro ambrato molto piacevole e non le mancano volume e eccellenti mezzevoci ma non sempre la voce è brillante e le colorature non sono sempre sgranate distintamente. Se “Squallida veste e bruna” è resa ottimamente lo stesso non si può dire della cavatina “ Non si dà follia maggiore” che non trasmette appieno la vivacità del personaggio.
Sul fronte maschile il cast è eccellente a partire dal Selim di Carlo Lepore,imponente fisicamente e vocalmente. L’accento è stentoreo ma accattivante.
Paolo Bordogna nei panni di Don Geronio si conferma ideale per questo genere di ruoli, sfrutta il suo naturale istinto comic senza rendere macchiettistico il personaggio, regia permettendo.
Un’indisposizione ha reso impossibile a Antonino Siragusa affrontare la recita ed è stato sostituito dall’ottimo Edgardo Rocha. Nonostante il timbro non sempre piacevole Rocha tratteggia un Don Narciso appassionato e merita una menzione speciale per aver cantato nel secondo e nel primo cast. La sua facilità nel registro acuto gli fa riscuotere un discreto numero di applausi purtroppo sicuramente trattenuti dalla caratterizzazione demenziale che questa regia gli ha affibiato ovvero un ragazzo affetto da autismo. La regia sembra prendersi gioco di chi soffre di questa malattia e la scelta non si adatta nemmeno alle esigenze della storia. La vanitosa Donna Fiorilla non sceglierebbe come amante quel ragazzo. Risulta specialmente fuori luogo l’autolesionismo durante “ Un vago sembiante”.
Eccellente il Prosdocimo di Simone del Savio, un baritono da tenere d’occhio in futuro sicuramente.
Brava ma un poco petulante Samatha Korbey nel ruolo di Zaida, ottimo Enrico Iviglia come Albazar, chiamato addirittura ad un numero alla Fred Astaire in “Ah sarebbe troppo dolce” così come il coro si è dovuto vestire in “drag” durante la festa mascherata dell’ultimo atto.
Christopher Alden, di cui questo allestimento ha debuttato al Festival di Aix-en-Provence, ambienta l’azione tra le prove di una compagnia teatrale di cui i personaggi sono gli attori ed il poeta il regista, deus ex machina per antonomasia. Questo offre l’occasione alla costumista Kaye Voyce di spaziare con i costumi dagli anni ’50 ai giorni nostri. Il tutto è colorato, a tratti molto divertente ma spesso poco chiaro nei suoi intenti.
Daniele Rustioni dirige con brio e verve, fondamentale il suo apporto all’elemento comico. Eccellenti come sempre Orchestra e Coro del Teatro Regio.

ALCESTE [Lukas Franceschini] Venezia, 24 marzo 2015.
Per la prima volta nel corso della sua lunga storia artistaca il Teatro La Fenice mette in cartellone il capolavoro di Willibald Christopher Gluck Alceste, scegliendo di rappresentare la prima versione denominata “di Vienna 1767” in lingua italiana.
Alceste fu la seconda opera della cosiddetta riforma gluckiana dopo Orfeo ed Euridice, in seguito il compositore rimaneggiò la partitura per Parigi (1776) in una versione più breve su libretto di Le Bailly du Roullet. E’ il caso di ricordare brevemente i punti della “riforma” che costituiscono il manifesto sulla riforma del teatro settecentesco che influenzarono in parte tutte le composizioni successive: nessuna aria con il da capo, niente improvvisazione e virtuosismo vocale, pochissime ripetizioni testuali anche nelle arie, attenuazione dello stacco tra recitativo ed aria limitando i recitativi, esercitare prevalentemente una semplicità melodica, nella sinfonia non si anticipano temi insiti nell’opera, infine il coro assume importanza maggiore rifacendosi al “coro greco”. Altra particolarità di Alceste è che non è presente nessuna parte per castrato, anche se Gluck utilizzerà in seguito questo tipo di voce.
Con la riforma e propriamente con Alceste, Gluck raggiunge risultati drammatici e musicali di estremo spessore, sviscerando un’appropriata penetrazione nei sentimenti umani e sviluppando una classica solennità nelle pagine corali mentre l’intensa meditazione si rivela nelle pagine corali. Significative sono le parti riservate alla protagonista dell’opera, i suoi lamenti e la sua disperazione sono ricchi di effetti, liberati musicalmente in un canto anticonvenzionale e declamato.
Pier Luigi Pizzi allestisce una nuova Alceste di tutto punto per Venezia, ma credo che nel corso della sua lunghissima carriera sia almeno la terza volta. Lo spettacolo è un classico nello stile del regista-scenografo milanese, il quale come di consueto disegna anche i costumi. Si apprezza la sobrietà delle scene in stile neoclassico, con cambi rapidi utilizzando due pannelli scorrevoli che muovendosi aprono alla visione di statue di rarefatta bellezza ed un intrigante bosco degli dei infernali. Altrettanto stilizzati in bianco e nero i costumi, sempre nella cornice di classicismo e di un’estetica teatrale di prim’ordine che contraddistingue la mano pizziana. Quello che manca invece dal punto di vista registico è un incisivo taglio drammatico della vicenda, in particolare sulla contrastata e appassionante vicenda di Alceste. I personaggi sono quasi sempre fermi in sorta di tableau vivant, perfettamente estetico, ma poco incisivo. Del tutto banale che Alceste si distenda sul letto del marito guarito quando dovrebbe essere portata negli inferi, e anche la non discesa di Apollo quando invece i protagonisti volgono lo sguardo in alto senza che nulla accada.
L’orchestra della Fenice era guidata dal valente Guillaume Tuorniaire, direttore più attento all’impulso drammatico e ad un vigoroso tessuto musicale nervoso a scapito delle delicate sfaccettature poetiche ed intimistiche. Il direttore tuttavia ha portato in porto la difficile operazione con polso fermo e guidando un’orchestra attenta ed abbastanza precisa, con un cast certamente non di rango. Ottima la prova de coro diretto da Claudio Marino Moretti.
Carmela Remigio affrontava l’eroina di Euripide con grande professionalità e una tenace forza d’animo interpretativa, i quali vanno entrambi lodati. E’ il ruolo che ritengo oltre il limite dei suoi mezzi, per un canto attento ma del tutto estraneo al colore vocale, all’accento drammatico, allo slancio emotivo.
Del tutto insufficiente l’Admeto di Marlin Miller per un canto stentoreo, lacunoso nel volume e nello stile. Molto brava Zuzana Markova, Ismene, soprano soave e finemente interpretativa, Giorgio Misseri, pur con un timbro non rifinito non sfigura nel ruolo di Evandro. I solisti dei Piccoli cantori Veneziani erano i figli della coppia reale: Ludovico Furlani e Anita Teodoro, precisi nel loro compito. Completavano con professionalità la locandina Armando Gabba (banditore e Oracolo) e Vincenzo Nizzardo (Gran Sacerdote e Apollo).
Al termine grandi applausi per tutti.

FEDORA [William Fratti] Genova, 25 marzo 2015.
Il capolavoro di Umberto Giordano, su libretto di Arturo Colautti, tratto dall’altrettanto eccellente dramma di Victorien Sardou, ha conosciuto un innegabile successo nei primi cinquanta, forse sessanta, al massimo settanta anni e solo in alcuni teatri, mentre oggi è ingiustamente relegato al repertorio di secondo ordine, non certo per la difficoltà di reperire gli interpreti, che devono essere dei bravissimi attori ed avere dei liricissimi slanci vocali, ma non incontrano grossi ostacoli. Molti soprani, nel corso della storia, hanno deciso di eseguire il ruolo della principessa russa sul finire della carriera, forse per lasciare un segno distintivo delle loro doti drammatiche e ciò è accaduto anche una quindicina di anni fa durante l’ultimo ciclo di Fedore che ha graziato alcuni palcoscenici del nord Italia, con Mirella Freni protagonista.
Il Teatro Carlo Felice di Genova deve essere ringraziato per questa scelta, soprattutto per aver prodotto un nuovo spettacolo, a cura di Rosetta Cucchi, dall’indiscutibile effetto teatrale e che non dovrebbe restare confinato solamente nella bella Liguria, ma che si meriterebbe di essere riallestito in altre città. La brava regista pesarese, che di recente ha compiuto un passo falso con Don Giovanni, in questa occasione torna a portare in scena la sua consueta aria frizzante: lo scorrere del dramma è serrato e non c’è spazio per fermarsi a pensare, a riflettere, ma ogni azione è dettata dalla passione frenetica che ad ogni bivio porta inequivocabilmente a prendere scelte sbagliate. La vicenda è intelligentemente trasposta al tempo della Grande Guerra e della Rivoluzione d’Ottobre, sovrapponendo i drammi personali di Fedora e Loris non solo al terrore del movimento nichilista, ma anche agli angosciosi momenti della caduta dell’Impero, al dilagare della povertà che ha portato il popolo russo a pretendere giustizia, alla terrificante vicenda prima politica e poi umana che ha colpito gli ultimi membri della famiglia Romanov. Il lavoro di regia, pur essendo centrato sui protagonisti, si avvale di molte controscene sapientemente costruite. Ottimo l’uso delle masse. L’unico neo potrebbe essere costituito dalla mancanza di una certa gestualità teatrale, ma forse è un pregio, poiché avrebbe potuto costituire un impedimento alla recitazione verista dei bravi protagonisti. Efficacissimo, soprattutto nella suddivisione di scene e controscene, l’allestimento di Tiziano Santi e molto convincenti, oltreché azzeccati e piacevoli, i costumi di Claudia Pernigotti.
Il talento pucciniano di Valerio Galli si sposa perfettamente con la lettura di Fedora; non mancano i momenti sinfonici di ampio respiro – bellissimo l’intermezzo, arricchito di sfumature emozionanti – gli accenti veristi, né gli slanci più passionali che aiutano sapientemente i cantanti in palcoscenico. Anche l’Orchestra e il Coro del Teatro Carlo Felice compiono un buon lavoro; Patrizia Priarone è alla guida del Coro, mentre Gino Tanasini dirige le voci bianche.
Daniela Dessì, pur annunciata indisposta, non dà segno di cedimento alcuno. Il personaggio sembra che le sia cucito addosso nella vocalità, nel temperamento, nell’interpretazione. La tessitura di Fedora non prevede grosse difficoltà, pertanto la celebre soprano è libera di sfoggiare il suo fraseggio più espressivo, i suoi accenti più drammatici, la sua classe innata, elegante sempre e comunque.
Fabio Armiliato, che ha dovuto rinunciare alla sera della prima a causa di un’indisposizione, porta al Carlo Felice la sua consueta presenza scenica, altamente emotiva, intensa, realista, che gli ha valso tanti meritati successi. Inizialmente il suo Loris appare un po’ affaticato, anche in “Amor ti vieta”, ma il successivo duetto accompagnato al pianoforte è davvero ben riuscito. In terzo atto il tenore genovese sembra ritrovare nuova freschezza e dona un’interpretazione generosissima.
Alfonso Antoniozzi restituisce un De Siriex ben costruito nel personaggio ed equilibrato tra il dramma e l’allentamento della tensione, pur con qualche intoppo nella linea vocale un poco incerta.
Daria Kovalenko è un’Olga corretta, forse un po’ minuta nella proiezione vocale e un po’ eccessiva nell’interpretazione, che la fa sembrare troppo superficiale.
Luigi Roni, Cirillo, nonostante gli evidenti segni dell’età, dà un’eccellente prova di drammatica intensità di “Egli mi disse” e Manuel Pierattelli mostra una voce limpida e luminosa nei panni di Desiré, sovrastando tutti i suoi colleghi. Buona anche la prova dell’intonatissimo Savoiardo e del bravo Sirio Restani al pianoforte.
Completano il cast Margherita Rotondi, Alessandro Fantoni, Claudio Ottino, Roberto Maietta, Davide Mura, Matteo Armanino, Pasquale Graziano, Roberto Conti.
Nonostante la sala semideserta, gli applausi sono stati scroscianti e anche la regista è stata chiamata alla ribalta al termine della lunghissima serata che, a causa delle interminabili pause, ha costretto il pubblico a restare in teatro tre ore per un’opera che supera di poco i cento minuti di musica.
La recita è stata dedicata a Maria Radner e Oleg Bryjak.

CARMEN [Lukas Franceschini] Milano, 28 marzo 2015.
Carmen di Georges Bizet ritorna al Teatro alla Scala in due sessioni separate di recite, la prima in primavera, la seconda a giugno con due cast totalmente differenti.
Lo spettacolo è quello creato da Emma Dante per l’inaugurazione della stagione 2009-2010. Rivederlo oggi desta ancor più perplessità rispetto alla prima visione. E’ indubbio che la signora Dante sia una donna di teatro, originale e capace di sviscerare molteplici aspetti scenici ed interpretativi, tuttavia questa Carmen fu la sua prima regia lirica e la lettura non fu, e non è oggi, del tutto risolta. La sua regia è eccessivamente impregnata di simbolismi, anche ricercati, ma sovente fuori luogo o superflui e talvolta inutili. Sterili sono tutti i riferimenti religiosi d’ambientazione mediterranea, i quali non hanno nulla a che vedere sia con la partitura sia con la novella di Mérimée. Il ruolo di Micaela è imbrigliato in una giovane che cerca solo il matrimonio con Don José, incapace di propria determinazione perché sempre accompagnata da un religioso, quando invece non è rilevato il coraggio e la ferrea volontà della giovane di sani principi anche morali. Altro elemento che disturba è l’insistente messaggio contro la pratica della corrida. Oggi è anche plausibile tale posizione, che in larga condivido, ma nella cultura di fine ottocento non è assolutamente proponibile, inoltre, sminuire un aspetto così forte e folkloristico della Spagna, citato e sviluppato anche dalla più elevata letteratura e con un personaggio come Escamillo così focalizzato, porta fuori strada una regia che dovrebbe attenersi al testo e non a considerazioni o principi personali.
L’atto più riuscito è il secondo, la splendida taverna di LillasPastia, dove la canzone bohèmiens è un frizzante e vertiginosa danza di tutto il cast assieme agli attori della “Compagnia Sud Costa Occidentale” e al Corpo di Ballo del Teatro alla Scala. Bravissimi! Per non parlare del finale atto primo ove Carmen è legata da due lunghissime funi appese ai palazzi circostanti. Altro elemento drammatico e molto efficace è nel finale atto IV quando nel duetto, Don José, rifiutato dalla protagonista, tenta di stuprarla in segno di massimo disprezzo e cieca ferocia. Insomma uno spettacolo con luci ed ombre ma che si rivede volentieri, anche se non tutto è comprensibile e manca in generale del colore e dell’atmosfera andalusa che lo caratterizza.
Il cast impegnato in queste prime tre recite non era dei migliori, anche se composto di nomi famosi. Elina Garanca è una Carmen bellissima, bionda e non gitana ma credibile nel personaggio e con una recitazione di livello seppur non ben calibrata sotto l’aspetto della seduzione femminile, al termine cade sovente nell’impersonale. Vocalmente non lascia grande traccia poiché il grave è pressoché inesistente il centro limitato mentre il settore acuto ben rifinito. La cantante ha il pregio di non scendere nell’interpretazione vocale greve e mantiene essenzialmente una certa eleganza, ma il carisma, l’accento e il fraseggio sono deboli, pur mentendo sempre una linea calibrata.
José Cura ritornava alla Scala in un ruolo che l’ha reso celebre in tutto il mondo. Peccato che questa rentrée avvenga solo ora, poiché il cantante è in parte usurato vocalmente e il suo Don José deve venire a patti con uno smalto molto ridimensionato, un acuto accennato e suoni non sempre precisi. Scenicamente è Don José, per un’innata teatralità scenica e la possibilità di accentare, quando gli è consentito, frasi di grande efficacia e spessore. E’ un vero peccato che una voce così importante e con mezzi non comuni al suo apparire, non sia riuscita a svilupparsi tecnicamente, oggi avremo sicuramente un grande tenore ancora in attività.
La migliore del cast era Elena Mosuc, la quale tuttavia è leggermente sotto le attese. Pur dimostrando sempre una qualità di voce eccelsa, e una linea di canto precisa, manca di quel mordente lirico ed abbandono sentimentale (specie nel duetto atto I) che caratterizza la parte. Probabilmente il repertorio allargato degli ultimi tempi oltre i suoi mezzi ha inficiato, lievemente, una voce di prim’ordine.
Personalmente ho trovato Vito Priante completamente fuori ruolo, il baritono ha realizzato prove notevolmente superiori in altri repertori. Il canto è sempre corretto seppur con volume limitato, ma quello che maggiormente è pesato alla sua performance è la vis interpretativa che per tal effetto necessiterebbe anche una voce più ridondante e capace di superare l’orchestra, mentre abbiamo avuto un cantante preciso, ma sembrava intimorito dalla parte.
Di buon rango gli altri cantanti nei ruoli minori: il bravo Alessandro Luongo (Morales), le puntuali Mercedes e Frasquita, ripetitivamente Sofia Mchedlishvili e Hanna Hipp, i due precisi contrabbandieri Michal Partyka (Dancario) e Fabrizio Paesano (Remendado) e Gabriele Sagona (Zuniga).
Precisa e puntuale la direzione di Massimo Zanetti, ma mi sarei aspettato più slancio e più attenzione alle tinte e ai colori. Invece, ci siamo trovati di fronte ad un direttore preciso, senza sbavature ma tutto sommato di ruotine ed anonimo, che guida l’intera partitura con precisione, ma non trova una sua personale lettura soprattutto nelle sonorità, forse ciò è dovuto ad un cast non pienamente azzeccato.
Rilevante la prestazione del coro, diretto da Bruno Casoni, preciso e di grande professionalità.
Teatro esaurito e lunghi applausi per tutti al termine.

LA TRAVIATA [William Fratti e Renata Fantoni] Firenze, 8 aprile 2015.
Mettere in scena una Traviata degna di essere ricordata negli annali della storia dell’opera italiana non è cosa facile, soprattutto oggi, poiché vittima della sua stessa popolarità, vittima di una tradizione musicale e canora che l’hanno snaturata, vittima delle difficoltà insite nelle parti, anche le più piccole, che portano spesso alla scelta di interpreti sbagliati.
Violetta non ha nulla di diverso da Abigaille, da Gulnara o da molti altri ruoli del giovane Verdi. La vocalità è la stessa, cambia solo il carattere che diventa più o meno eroico, dunque è solo una questione di accenti. Le agilità di “Sempre libera” non sono molto diverse da quelle di Amalia e la tessitura arriva al re come Giovanna d’Arco. Il famoso mi bemolle – non scritto – lo si può fare – e molte cantanti lo fanno – più o meno in quasi tutte le opere precedenti a La traviata. E lo stesso vale per Alfredo. Per non parlare di Flora, Annina, Gastone e Grenvil. È la tradizione che ha portato questo titolo a essere eseguito da vocalità leggere, ma si tratta di un errore filologico, nonché musicale, di portata molto ampia.
Eva Mei è la bravissima e raffinata cantante che conosciamo e anche in questa occasione non si smente. Nel duetto con Alfredo è una grande cesellatrice di agilità e appoggiature, nel duetto con Germont è un’eccellente fraseggiatrice, in “Addio del passato” è esemplare nell’esecuzione dei pianissimi e dei legati e mostra un suono pulitissimo. Ma l’intensità che deve trasmettere nell’interpretazione è solo nelle sue intenzioni e arriva al pubblico solo a tratti. All’apertura dell’opera e al successivo brindisi, la sua vocina non si confà al personaggio autorevole e disinvolto della padrona di casa e i recitativi sono quasi sempre senza corpo o spessore. Lo stesso vale per “È strano” che, pur essendo ben cantato, manca di quella grinta imprescindibile in Violetta.
I medesimi demeriti sono da tributare all’Alfredo di Ivan Magrì, che possiederebbe il materiale necessario al ruolo, ma non sfrutta adeguatamente il suo slancio naturale – che invece ha dimostrato di saper usare in precedenti ruoli drammatici donizettiani – ed abbisognerebbe di un “tagliando” tecnico, soprattutto per il vibrato eccessivo, che nel lungo termine potrebbe portarlo fuori strada nel giusto appoggio e dunque nell’intonazione.
Contrariamente agli altri protagonisti Paolo Gavanelli porta in scena un personaggio riuscitissimo, autoritario nelle sembianze, fermo nei suoi propositi, dolce dove occorre, paterno nei sentimenti. Il suo Germont è sinceramente toccante e il fraseggio è emozionante, soprattutto nelle frasi con lunghi piani e smorzature. Purtroppo la vocalità non è piacevolissima e la linea di canto è un poco discontinua, quindi con la sua interpretazione si guadagna in intensità ma si perde in qualità musicale.
Il lungo stuolo dei comprimari è abbastanza mediocre, talvolta non pervenuto. È composto da Anastasia Boldyreva, Simona Di Capua, Enrico Cossutta, Francesco Verna, Italo Proferisce, Alessandro Spina, Davide Cusumano, Vito Luciano Roberti, Nicolò Ayroldi. Molti di questi artisti sono già stati uditi in altri ruoli con risultati positivi. Il fatto che in questo titolo non riescano a farsi notare è ulteriore prova del fatto che non sono parti semplici, seppur brevi.
Anche la direzione di Zubin Mehta è abbastanza anonima. È sempre maestro di precisione e mai si permette di sovrastare gli interpreti, ma l’uso di colori e sfumature è molto comune. Addirittura la sua eccellente Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino commette qualche errore nelle prime battute dopo il preludio. Inoltre, dal celebre direttore, ci si sarebbe aspettati un’edizione comprensiva della strofa “A me fanciulla”, del da capo delle cabalette degli uomini, degli interventi del Dottore e poi anche del Marchese e di Flora in “Su via, si stenda un velo”, delle frasi conclusive di Alfredo, Annina, Germont e Grenvil al termine dell’opera.
Bravo il Coro preparato da Lorenzo Fratini.
Infine lo spettacolo di Henning Brockhaus con scene di Josef Svoboda, costumi di Giancarlo Colis e coreografia di Valentina Escobar non ha bisogno di presentazioni, poiché ha compiuto più di venti anni, ma è ancora efficacissimo e soprattutto un ottimo esempio di risparmio intelligente in tempi di crisi: i teatri italiani sono stracolmi di bellissimi allestimenti tuttora funzionali che giustamente devono circuitare e portare alto il nome del nostro Paese e del nostro saper fare cultura.

IL BARBIERE DI SIVIGLIA [Lukas Franceschini] Verona, 16 aprile 2015.
Innovativo e brillante l’allestimento de Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini presentato al Teatro Filarmonico, nuova produzione della Fondazione Arena con la regia di Pier Francesco Maestrini e la scenografia animata di Joshua Held.
Allestimenti di Barbiere, essendo una delle opere più rappresentate, ne dono stati creati di tutti generi, tuttavia mai mi era capitato di assistere ad uno spettacolo in versione cartone animato. Il connubio tra opera e cartone animato non è certamente nuovo, valga quale esempio il celebre film Fantasia di Walt Disney con la direzione musicale di Leopold Stokovski, pertanto lo spettacolo veronese come idea non è nuova, tuttavia è originale, se non unica, perché i personaggi veri interagiscono con la visualizzazione animata dei cartoni diversamente usati da come li intendiamo solitamente. Già nell’overture vediamo proiettata la figura di un Rossini pingue e buffissimo che a letto, il compositore è risaputo amava oziare, compone l’opera all’ultimo minuto poco prima dell’alzarsi del sipario. Quando l’opera prende forma, i personaggi non sono altro che una caricatura fisica, anche nei costumi, di Rossini stesso, infatti, sono tutti piuttosto grassi e portano divertenti e impossibili parrucche settecentesche. Il gioco drammaturgico efficace dello spettacolo consiste appunto non solo nella proiezione del cartone ma nel continuo scambio dei personaggi con i fumetti, il tutto realizzato con estrema cura e rilevante senso umoristico, non mancando di citare scene cinematografiche di comune memoria, Rosina sdraiata su un letto di rose (American Beauty). Almaviva nel travestimento del secondo atto prende le sembianze di Luciano Pavarotti, un omaggio simpatico all’indimenticato tenore, e ancora la presenza nella visione animata di Beethoven e Verdi che plaudono al compositore, il primo era ammirato dal pesarese il secondo venerava Rossini (basti pensare che il Requiem sarebbe stato ideato per la sua morte).Spassosissimo poi che durante la grande aria di bravura del Conte i musicisti si siedono ad ascoltare, arriva poi Giovanni Allevi sul quale si siede Pavarotti, schiacciandolo! Tutto funziona in un vortice di azione, colori, brio, spesso anche esagerato, ma con il Rossini buffo si può fare e funziona alla grande. Per rendere ancora più credibile l’operazione sono stati aggiunti i rumori di scena tipici dei cartoni, non disturbavano e facevano sorridere molto. Se proprio bisogna trovare un appunto è che tutto questo in molti momenti distraeva la concentrazione che si doveva alla musica e al canto, ma non è poi grave perché il prodotto era veramente ben fatto e divertente, e allora piuttosto di assistere a scialbi spettacoli migliore quest’opzione. Queste poche righe non bastano per raccontare tutto ciò che accade in palcoscenico, uno spettacolo da vedere assolutamente. L’idea di questo nuovo Barbiere nacque in Brasile tempo addietro e ci sono voluti quasi due anni di lavoro per realizzarlo. Ne valeva la pena. Un plauso va ai due artefici Mestrini e Held, ma anche ai cantanti che si sono trovati in una situazione del tutto estranea alla prassi operistica. Il pubblico che gremiva in ogni settore il Filarmonico era diviso, i giovani entusiasti, gli anziani sconcertati e con il pollice verso. Chi scrive, che è diversamente giovane, sta dalla parte di coloro che si sono divertiti moltissimo.
A tanta estrosità visiva corrispondeva un’adeguata e molto professionale prova musicale. Stefano Montanari, maestro concertatore, è un validissimo direttore, il quale ha un senso teatrale innato cui somma dinamiche e ritmo esemplari che rendono l’opera frizzante briosa e nel pieno rispetto della filologia. Plauso a Montanari per aver suonato i recitativi, i quali erano virtuosi come raramente capita di ascoltare, la formazione di clavicembalista è esemplare. L’orchestra dell’Arena di Verona segue il direttore con grande professionalità e coinvolgimento, una delle migliori prove offerte negli ultimi anni.
Christian Senn è un Figaro molto divertente scenicamente e sornione, si esibisce in una prova vocale convincente anche se in taluni momenti leggermente opaco e non del tutto rifinito. Molto buona la prova offerta da Annalisa Stroppa, Rosina, omogenea nei registri, brillantissima nella coloratura e fantasiosa nelle variazioni. Edgardo Rocha ha una voce tipica da tenore leggero e disegna un Almaviva di classica scuola, elegante e corretto ma il settore acuto non è ben rifinito ed il rondò finale “Cessa di più resistere” lo mette un po’ a disagio, evidenziando tali lacune
Strepitoso il Bartolo di Omar Montanari capace di interpretare un personaggio buffo ma in parte caricaturale senza cadere nello stereotipo della scialba comicità. Vocalmente è un bass-baritono chiaro con eccellente sillabato e una pastosità di timbro esemplare accomunato ad un senso teatrale di rango. Questo cantante meriterebbe maggior occasione in tale repertorio, speriamo in un futuro prossimo. Marco Vinco, Basilio, era perfettamente calato nel ruolo del prete intrigante e fintamente vanesio. Rispetto ad una recente Bohème scaligera, ho trovato il cantante in forma smagliante, voce uniforme, ben calibrata nei registri e più autorevolezza nella precisa dizione.
Irene Favero era una Berta di gran bravura e spiccata simpatia, Salvatore Grigoli corretto nel doppio ruolo di Fiorello e un ufficiale.
Perfettamente calato nel compito il Coro diretto da Vito Lombardi.
Al termine successo trionfale, come citato prima, soprattutto da parte del pubblico giovane.

JENUFA [Lukas Franceschini] Bologna, 17 aprile 2015.
Una delle migliori produzioni della stagione operistica nazionale è stata Jenůfa di Leóš Janáček presentata al Teatro Comunale di Bologna nella produzione, in prima italiana curata dal regista lettone Alvis Hermanis.
L’opera rappresenta uno dei vertici teatrali musicali non solo del compositore ceco ma di tutto il Novecento. La vicenda è tratta dal dramma “La sua figliastra” di Gabriela Preissová ed ebbe il suo battesimo al Teatro Nazionale di Brno il 21 gennaio 1904. Janáček cominciò ad interessarsi al soggetto sin dal 1893 informando l’autrice via lettera la sua intenzione di musicare il dramma. La scrittrice tentò invano di persuaderlo dell’impossibilità di trarre un’opera lirica da questo suo testo, tuttavia Janacek si immerse alla riduzione del libretto dal 1895. L’adattamento fu singolarmente fedele, suddiviso in tre atti, la vicenda narrata nello stesso ordine, testo originale rispettato, inclusione di tutti i personaggi anche i minori. La versione librettistica de “La sua figliastra” rappresentò un’originalità nel panorama musicale ceco: fu la prima opera lirica tratta da un dramma teatrale. Elemento musicale primario della partitura è la canzone popolare (arrangiata), è la sfera campagnola della vicenda che portò il compositore all’invenzione musicale d’estrazione popolare. Jenůfa è la narrazione di un destino, vissuto fra risentimento, orgoglio, incomprensione, buoni sentimenti, perdono e redenzione. E’ la storia di un’elevazione spirituale vissuta attraverso le traversie della vita e nella disgrazia. Pur contenendo una buona dose di verismo, l’opera si avvicina più alla filosofia morale della cultura slava, infatti, su un soggetto di gelosia, amore, infanticidio, Janáček non si fa prendere la mano dalla curda passione ma analizza l’animo di un popolo, il suo, nel quale trova anche una ricchezza umana oltre alla complessa psicologia. In Jenůfa la tinta popolare, i costumi, la tradizione, le icone, i canti popolari possono in un’analisi superficiale fuorviare dal dramma reale insito nella musica; l’elemento folkloristico è solo una cornice appariscente ed istintiva mentre il fulcro è caratterizzato dalla peculiarità emotiva dei protagonisti.
Seguendo alla perfezione questi concetti il regista e scenografo Alvis Hermans realizza uno spettacolo singolare di estrema enfasi teatrale sviluppando una drammaturgia che guarda ai molteplici aspetti dell’opera. Egli segue un doppio binario azzeccatissimo inquadrando il I e il III atto nella classica ambientazione contadina popolare della campagna, in una scena, esteticamente lineare, divisa in due verticalmente: sotto agiscono i personaggi in cromatici e fantasiosi costumi folkloristici, ideati da Anna Watkins, sopra il coro come a sovrastare gli eventi. In una sorta di siparietto agiscono delle ballerine, le quali mimano un’atmosfera tipicamente locale con ispirazione ad una sorta di danza russa creata dalla brava Alla Sigalova. In questo sviluppo che è il momento più “tipico”, si vedono proiettati anche ritratti di donne in stile liberty. Il secondo atto è da mozzafiato per espressione drammatica. In una stanza di dimensioni ridotte, claustrofobica, tipica di un mondo proletario da est Europa in guerra fredda, sic consuma la tragedia dell’infanticidio. Un letto di ferro smaltato, un televisore anni ’70 in bianco e nero, un lavandino lercio, imprimono in maniera efficace quel sotto strato di società povera e legata a regole e credenze rurali per le quali il peccato deve essere lavato o cancellato, l’omicidio del piccolo neonato può rendere dignità e rispetto alla protagonista. La recitazione degli artisti, in questo caso le due protagoniste Jenůfa e Kostelnička, è impressionante. Non saprei trovare parole per descrivere l’impatto emotivo del delirio della giovane e della realistica decisione della matrigna. Le due visioni, una quasi onirica, ma con sprazzi di realtà rurale, l’altra realistica e purtroppo anche attuale, sono la forza di uno spettacolo quasi ricreato in sorta di dramma e favola finale moderna.
La bravissima Orchestra e il preciso Coro, istruito da Andra Faidutti, del Teatro Comunale sono diretti da un ispiratissimo Juraj Valčuha, direttore stabile d’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. La sua lettura è particolarmente struggente e decisa con tinte forti e violente nel dramma ma altrettanto sensibile e raffinata nei momenti più lirici, in particolare nello struggente e speranzoso finale.
Andrea Dankova interpreta una Jenůfa di ottima caratura vocale, adoperandosi con un’intensa vocalità nel lirismo e tensione nella disperazione di madre. Mirabile e dirompente scenicamente Angeles Blancas Gulìn, una Kostelnička vissuta appieno sia nel canto sia nell’interpretazione. Musicale e di grande professionalità il Laca di Brenden Gunnell, cui si contrappone il preciso ma più scialbo Števa di Ales Briscein. Meritano un plauso anche gli altri intrepreti, i quali hanno dato un apporto più che convincente alla resa dell’opera: Gabriella Sborgi incisiva Buryiovka nonna, Maurizio Leoni il mugnaio, Luca Gallo il sindaco, Monica Minarelli sua moglie, e Leigh-Ann Allen la giovane Karolka. Completavano la locandina: Arianna Rinaldi (Pastuchyňa), Roberta Pozzer (cameriera), Sandra Pastrana (Jano) e Grazia Paolella (Tetka).
Il pubblico, che era particolarmente impressionato sia dalla deliziosa musica sia dal meraviglioso spettacolo, al termine si è sciolto in un meritato trionfo per tutti gli artefici della produzione.

LA CENERENTOLA [Lukas Franceschini] Rovigo, 18 aprile 2015.
La Stagione d’Opera del Teatro Sociale di Rovigo si è conclusa con una bella edizione del melodramma giocoso La Cenerentola di Gioachino Rossini.
Il Teatro Sociale di Rovigo vanta una lunghissima tradizione ed è stato frequentato dai più illustri cantanti, basti pensare ivi hanno fatto il loro debutto Beniamino Gigli né La Gioconda e Renata Tebaldi nel Mefistofele, altri tempi! Teatro di provincia, quando provincia non significa inferiorità, nel mezzo della pianura padana ad ugual distanza tra le Fondazioni di Verona, Bologna e Venezia. Nella ristrettezza economica dei tempi odierni è uno dei teatri di tradizione che ha saputo crearsi una propria identità abbinata ad una programmazione di assoluto rispetto.
Né è la riprova questa Cenerentola in coproduzione con il Teatro dell’Opera Giocosa di Savona, ove ha debuttato nel luglio 2014. Francesco Esposito, regista e costumista, e Mauro Tinti, scenografo, hanno ricostruito la fiaba tratta da Perrault in maniera efficace e divertente. Una collocazione atemporale con costumi sgargianti e coloratissimi come a rilevare che la vicenda è sempre attuale e la felice conclusione soddisfa il pubblico. La scena fissa circoscritta su un praticabile inclinato rotondo presenta pochi elementi, che sono inseriti a vista, e sovente si utilizza una simpatica passerella attorno alla buca dell’orchestra. La regia molto divertente e precisa dosa il giusto peso sia sull’aspetto patetico sia su quello comico. Qualche leggera diversione se la prende, ad esempio don Magnifico che dorme in un letto assieme numerose fanciulle (escort?), ma sono cose di poco conto, nell’insieme Esposito è capace focalizzare tutti i personaggi con brio ed eleganza. Tinti si adopera efficacemente con bellissime tappezzerie, ora calate dall’alto ora distese sul palcoscenico, e qualche mobile nell’uniformità del concetto di scena unica, cui si sommano le ottime luci Alessandro Canali e, parafrasando il libretto, il gioco è fatto. Piacevole e simpatico spettacolo, il quale regge anche per la bravura attoriale di un cast molto omogeneo.
Giovanni Di Stefano a capo dell’Orchestra Sinfonica di Sanremo tiene ben saldo l’insieme in tempi molto serrati ed imprime un ritmo davvero incalzante. In alcuni momenti non era ben rifinito l’insieme delle sezioni orchestrali, ma il risultato era più che positivo. Ottima la prova del settore maschile del Coro Lirico “Pietro Mascagni” di Savona istruito da Gianluca Ascheri.
Nel ruolo in titolo debuttava, salvo errore di chi scrive, Marina De Liso, la quale riusciva ad affrontare Angelina con spiccata sensibilità artistica e un rifinito materiale vocale, anche se ha privilegiato più l’aspetto patetico cantabile rispetto a quello virtuosistico. Tuttavia, la sua è una Cenerentola ben rappresentata ed interpretata, finemente scolpita nei sentimenti. Filippo Adami è un buon Ramiro dall’ottima dizione e con voce lirica e timbrata. Talvolta il settore acuto lo mette a disagio e sarebbe opportuno tralasciare, poiché il personaggio è riuscitissimo per eleganza e proprietà di fraseggio cui si unisce un’innata musicalità che ha appagato la sua performance.
Domenico Colaianni era un bravissimo Don Magnifico, voce tendenzialmente chiara ma splendido vocalista soprattutto nel sillabato, rende un personaggio uniforme di gran classe senza mai cadere nella facile trappola della compassata comicità. Lievemente inferiore Enrico Maria Marabelli un Dandini che dovrebbe assestare la parte tecnica soprattutto nel registro acuto assolvendo comunque il suo compito con onore.
Molto positiva la prova Rocco Cavalluzzi, Aldioro, un giovane che a mio parere è da tenere in considerazione in futuro. Bellissima voce di basso ha caratterizzato il filosofo con nobiltà d’accenti e uno stupendo fraseggio, anche se nell’aria si sono notate talune sfasature nella tenuta dei fiati (e precisiamo che cantava una sola aria ma la più difficile di tutta l’opera) tuttavia in considerazione della giovane età è auspicabile, se non certo, un progredire a livello tecnico e vorremo ancora avere occasione di ascoltarlo in futuro. Infine, ma per questo non da ultime perché in Cenerentola tutti i cantanti sono coprotagonisti, le due sorellastre: Linda Campanella e Paola Pittaluga. Entrambe hanno centrato i loro personaggi con grande classe attoriale, vorrei aggiungere con spiccata autoironia, e doveroso aggiungere con estrema professionalità nel canto. La signora Campanella ha eseguito l’aria “Sventurata! Mi credea” solitamente omessa, con professionalità.
Successo clamoroso al termine per tutta la compagnia, anche se stranamente il teatro non era esaurito per un titolo che dovrebbe attirare molto pubblico, il quale s’è perso l’occasione per passare una serata divertente.

I PURITANI [William Fratti] Torino, 19 aprile 2015.
In occasione delle recite fiorentine, all’alba della sua produzione, si è già discusso dei molti pregi e dei pochissimi difetti di questo spettacolo firmato dalla squadra Ceresa, Santi, Palella, Olivier, Filibeck ed è dunque superfluo soffermarvisi nuovamente, se non per ribadire la necessità di avere più spesso il medesimo livello qualitativo sui palcoscenici italiani.
A Torino la direzione è affidata al talentuoso Michele Mariotti, che si riconferma essere un egregio belcantista. La sua lettura è un tripudio di colori arricchiti di sfumature e nuance che rivelano l’anima della melodia belliniana. La guida è salda, ma con gesto raffinato e puntuale; l’intenzione è romantica, forse più accentuata nella recita di martedì che non in quella di domenica; è infine abile accompagnatore, sempre attento al fraseggio individuale dei solisti, cui è affidata molta libertà interpretativa. Altro grande pregio, presumibilmente da ascriversi sia al direttore sia al teatro, è quello di avere formato due squadre di eleganti cantanti belcantisti, alcuni di stampo prevalentemente rossiniano, in perfetta armonia tra loro, con voci non particolarmente stentoree – chi più chi meno – adattissime al canto di Bellini e ottimamente conformi alla guida di Mariotti, che sa sempre equilibrare il suono della buca col volume del palcoscenico. Questi Puritani sono l’esempio lampante che il bel canto non coincide con l’urlo.
Le stelle indiscusse delle recite torinesi sono indubbiamente Olga Peretyatko e Désirée Rancatore nei panni di Elvira. La prima mostra una tecnica ferrea e precisa, elasticità invidiabile nelle agilità – tranne che nel duetto con Giorgio, dove sembra giocare al risparmio – una linea di canto morbida e molto musicale che trova l’apice in “Ah vieni al tempio”, acuti e sovracuti molto belli, soprattutto in “Son vergin vezzosa” seppur piccoli come uno spillo e certuni calanti in “Vien, diletto” ma dove l’interpretazione è magistrale e sinceramente toccante. Anche Rancatore parte in sordina in “Sai com’arde in petto mio” con alcune note gravi poco corpose, ma inizia a mostrare il suo consueto carattere con la polacca, con un registro acuto pieno e rotondo. L’intonazione perfetta, la bravura nel legato e il saper gestire magnificamente piani e filati sono gli ingredienti giusti per le pagine successive, dal finale primo alla scena della pazzia, la cui cadenza è cantata quasi interamente da coricata. Eccellente il finale del duetto con Arturo “Caro non ho parola”.
Dmitry Korchak, come già detto in altre occasioni, è un tenore naturalmente dotato di bellezza nel timbro, morbidezza, grande musicalità e capacità di smorzare i suoni, qualità ben riconoscibili nel bel duetto con Enrichetta e nell’emozionante lungo terzo atto, ma continua ad avere qualche problema di appoggio e in molti passaggi tende a perdere l’intonazione, tra cui “A te, o cara” e i sovracuti del finale. Invece l’Arturo di Enea Scala si mostra intonatissimo e il suo canto è veramente più che corretto. Inizialmente vittima di alcune contestazioni, poi paladino chiamato a bissare, la sua voce può non piacere in questo tipo di repertorio, poiché poco eroica e più tipicamente da contraltino, ma certo non si può dire che non sappia cantare, né che non sia in grado di donare intensità drammatica, qualità che ripercorre nelle pagine dell’ultimo atto.
Nicola Alaimo è un Riccardo liricissimo, provvisto di una linea di canto pulitissima e omogenea, eccellente nel fraseggio. Altrettanto positiva è la prova di Simone Del Savio, che difetta solamente nella capacità di legare i suoni.
Nicola Ulivieri è Giorgio e regala al pubblico un’esecuzione superlativa, una vera lezione di belcanto, in perfetta sintesi armonica con la melodia belliniana, musicale, morbido, omogeneo, senza alcun minimo difetto. Bravissimo anche Mirco Palazzi, luminoso e squillante.
Buona è la resa della borsista Samantha Korbey nei panni di Enrichetta, anche se l’interpretazione è povera di accenti. Efficacissimo Fabrizio Beggi nel ruolo di Gualtiero Valton. Non sempre intonatissimo il Roberton di Saverio Fiore.
Eccellente il Coro del Teatro Regio preparato da Claudio Fenoglio.

JENUFA [William Fratti] Bologna, 23 aprile 2015.
Dopo oltre quaranta anni l’indiscusso capolavoro di Leòš Janáček torna sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna e troppi sono i posti rimasti vuoti nonostante le promozioni attivate dalla biglietteria. Ciò dimostra nuovamente la costante preoccupante di un pubblico troppo poco interessato al repertorio meno comune, anche di fronte all’eccellenza di partiture come quella di Jenůfa.
Tra l’altro questa infiammante occasione bolognese ha messo insieme più di un motivo che avrebbe dovuto spingere melomani e amanti della musica classica a presenziare: la direzione del talentuoso Juraj Valčuha, un cast vocale di alto livello e una rappresentazione teatrale magnifica sotto ogni punto di vista, oltre alle eccellenti masse artistiche del Comunale.
Lo spettacolo ideato da Alvis Hermanis è di un impatto emotivo formidabile, incalzante ed incessante, perfettamente in sincrono con la splendida musica di Janáček. È come se il regista lettone fosse riuscito a dare forma a gesti e movimenti in sintesi drammatica con la partitura, mentre scene e costumi sono più in linea con il libretto, che in primo e terzo atto sembra quasi discosto dalla forza spaventosa delle melodie terribilmente cadenzate dallo xilofono. Il secondo atto è il momento in cui si svolge la vera tragedia ed è di una semplicità struggente e realistica. Allo stesso modo le stupende coreografie di Alla Sigalova, riprese da Anaïs Van Eycken, si discostano dalla gestualità quasi meccanica dei protagonisti contribuendo ulteriormente a dare quel senso di angoscia crescente già dipinto dalla musica stessa. Stupendo è altresì lo scorrere continuo dei capolavori plastici dell’Art Nouveau ceca, ad opera del video di Ineta Sipunova, sfondo naturale del tragico dramma, così come lo erano al tempo in cui Janáček componeva. Insostituibili i bellissimi costumi di Anna Watkins. Eccellente la drammaturgia di Christian Longchamp. Efficacissime le luci di Gleb Filshtinsky.
Il bravissimo Juraj Valčuha, sul podio della precisa Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, dirige Jenůfa come se fosse una lunga sinfonia, con estrema disinvoltura e naturalezza, in fusione con la partitura, tanto nelle pagine più melodiche, quanto in quelle più drammatiche, passando omogeneamente per i tratti folkloristici.
Andrea Dankova esegue il ruolo della protagonista in maniera superlativa. L’interpretazione è azzeccatissima, quasi una marionetta in primo e terzo atto, per esprimersi mesta, dolce, figlia addolorata e madre disperata in secondo. La linea di canto è morbidissima, ben uniforme dalle note più gravi fino alle più acute, dai pianissimi ai fortissimi.
Inarrivabile, incomparabile, più unico che raro è il personaggio di Kostelnička letteralmente incarnato da Angeles Blancas Gulìn, che dona una prova da togliere il fiato. Forse non tutti gli acuti in forte sono propriamente puliti, quasi urlati, ma rendono la tragedia e il suo delirio ancora più veri e realistici.
Squillante e musicale è il Laca di Brenden Gunnell; luminoso ed armonico è lo Števa di Ales Briscein; entrambi ben centrati nei loro rispettivi ruoli, sia vocalmente, sia nella recitazione.
Più che positiva anche la prova di tutti i comprimari, capitanati da una ben timbrata Gabriella Sborgi nei panni della nonna: Maurizio Leoni, Luca Gallo, Monica Minarelli, Leigh-Ann Allen, Arianna Rinaldi, Roberta Pozzer, Sandra Pastrana, Grazia Paolella.
Sempre bravissimo il Coro del Teatro Comunale di Bologna guidato da Andrea Faidutti.
Ovazioni da stadio per tutti gli interpreti al termine dello spettacolo, soprattutto per Angeles Blancas Gulìn e Juraj Valčuha.

IL TURCO IN ITALIA [Natalia Di Bartolo] Catania, 24 aprile 2015.
Capita a tutti di percepire e subire una serata teatrale “no”…Ma ci si chiede sempre il perché, se il contesto si sia prospettato invece foriero di distensione e di gioiosa fruizione dell’arte musicale… 
E’ ciò che è successo per la rappresentazione catanse de Il turco in Italia di Gioachino Rossini, andato in scena al teatro Massimo Vincenzo Bellini il 24 aprile 2015.
Tutto al proprio posto, tutto in ordine…E allora?
Dopo lunga riflessione già durante la rappresentazione, le conclusioni tratte sono venute fuori in chi scrive solo dopo aver digerito nell’insieme uno spettacolo che avrebbe potuto essere di qualità, ma non ha tenuto fede alle promesse.
Michele Mirabella, che ha curato la regia, se ha reso teatralmente plateale il coro nella recitazione e vigilato sui particolari dei movimenti delle comparse, è sembrato trascurare giusto gli interpreti principali. Li ha schierati in ranghi compatti, come soldatini, soprattutto nei concertati, ponendoli quasi sul proscenio, a fianco l’uno dell’altro. Questo non ha giovato alla proiezione delle voci, che andebbero sempre collocate strategicamente, teatro per teatro, a favore d’acustica, e che, essendo profondamente diverse l’una dall’altra, invece di fondersi hanno creato una gran confusione.
Tutto ciò non ha giovato neanche all’azione scenica che di tratto in tratto, nonostante perfino gli interventi danzati con la coreografia di Silvana Lo Giudice, sembrava congelarsi e divenire teatralmente solenne, priva del brio necessario che andrebbe impartito dalla regia per ornare di giusti espedienti recitativi la partitura rossiniana.
In quest’opera di Rossini (e non solo in questa) la regia è fondamentale: si dà vita a Il turco in Italia soltanto cogliendo quegli spunti geniali che Rossini ha disseminato qua e là magistralmente e furbescamente. Non saperli cogliere è l’appiattimento dell’intera produzione.
Queste défaillances registiche hanno lasciato anche spazio, purtroppo e senza pietà, alle défaillances della direzione d’orchestra.
Il Maestro catanese Leonardo Catalanotto, pur impegnandosi al massimo, mantenendo la brillantezza del suono e fornendo supporto agli interpreti, ha tenuto il volume orchestrale pressoché piatto, rendendo assenti anche i chiaroscuri: non esaltando le dinamiche, in automatico sono mancati perfino i veri e propri crescendo rossiniani, che contribuiscono a fare delle opere del grande pesarese dei capolavori unici nel loro genere.
Dal canto loro, le singole voci non hanno aiutato l’insieme; ed una nota speciale riguarda le agilità: la partutura né è costellata come un fuoco d’artificio, ma per tutti gli interpreti, nessuno escluso ed eccettuato, si sono dimostrate un pio desiderio, quanto a precisione ed a coordinamento, tra i cantanti stessi e con l’accompagnamento orchestrale. Indispensabile in quest’opera un lavoro di cesello pure vocale: mancando quello, la sensazione di approssimazione è divenuta a tratti davvero stridente.
Simone Alaimo, ormai turco assai attempato ed opaco anche vocalmente, ha solo riecheggiato lo strepitoso se stesso di parecchi anni fa, sempre al Bellini, in una produzione che allora fu davvero spumeggiante.
Il soprano Silvia Dalla Benetta, sia pure corretta Fiorilla, non ha brillato per proiezione, nè per facilità negli acuti, nonché per espressività dell’interpretazione. Fiorilla necessita di un equilibrio recitativo sottile, nè troppo bamboleggiante, né troppo verista: l’equilibrio del personaggio, stereotipo, ovviamente, della “moglie capricciosa ma onesta” infedele con leggerezza, va tenuto sul filo del rasoio. Lode cumunque alla Dalla Benetta che, lasciata praticamente a se stessa dalla regia, ha dimostrato un impegno tutto personale.
Come per Fiorilla, è stata mancata anche la caratterizzazione del personaggio del marito Geronio. Il baritono Marco Filippo Romano ha dato del personaggio buffo, stereotipo anch’esso, una versione quasi drammatica, che cozzava con la caricatura insita nel personaggio: pur essendo la voce più dotata e più corretta della serata è stato però evidentemente penalizzato dalla propria vena drammatica, oltre che dalla regia.
Gran buona volontà per Giorgio Misseri, Don Narciso, e per Antonella Colajanni, Zaida, come per Giulio Mastronotaro, Prosdocimo, per ma ben lungi dal livello che avrebbero dovuto raggiungere quali voci principali del cast e, in scena, solo semplici sagome.
Stessa sensazione di approssimazione per il resto del cast e per il Coro, curato dal gallese Ross Craigmail, galvanizzato dalla regia, ma vocalmente carente di amalgama e necessarie finezze.
Insomma…un sentore complessivo di stiracchiamento e di prolissità che sul momento non sembrava avere una spiegazione coerente, ma che in realtà era la risultante di una carenza generalizzata nel nerbo che tenesse in piedi l’intera produzione, sia dal punto di vista musicale che da quello scenico.
Unica nota gradevole le scene e soprattutto i costumi del nuovo allestimento di Alida Cappellini & Giovanni Licheri, illuminati dalle luci di Franco Ferrari…con un occhio di riguardo al compianto Emanuele Luzzati. Il che fa sempre effetto…
Applausi comunque per gli interpreti, ma variegati i commenti del pubblico alla fine, spiazzato nell’insieme dalla sensazione che la noia la facesse troppo spesso da padrona. E per far diventare noiosa un’opera di Rossini bisogna davvero mettersi d’impegno.

FIDELIO [Renata Fantoni e William Fratti] Firenze, 5 maggio 2015.
L’esecuzione del Fidelio fiorentino è purtroppo priva di smalto e la direzione di Zubin Mehta, che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello di questa inaugurazione del 78° Festival del Maggio Musicale Fiorentino, appare un poco floscia, senza carattere, ma soprattutto inaspettatamente senza colore. Il dramma beethoveniano inizia a percepirsi solo a partire dalla Leonore 3, tradizionalmente inserita a capo della scena conclusiva dell’opera, ma è troppo tardi. L’orchestra, solitamente impegnata in suoni pulitissimi e cristallini, commette qualche scivolone, particolarmente nei fiati, sia legni sia ottoni. Neppure il coro diretto da Lorenzo Fratini riesce a prodigarsi nel consueto ottimo lavoro. Riassumendo: la sensazione che si coglie osservando la rappresentazione è che gli artisti e le masse eseguano un mero lavoro di routine, privo di emozioni e sentimenti. Lo stesso vale per gli interpreti solisti, che restano nella linea della mediocrità.
Ausrine Stundyte è una Leonore dalla voce piacevolmente piena e tonda, ma dagli acuti gracchianti, oltre ad avere poco carattere per poter trasmettere il personaggio.
Burkhard Fritz è un Florestan corretto e luminoso, ma poco generoso e svettante, pertanto aria e duetto, essendo vocalmente privi di slanci, risultano abbastanza scialbi.
Manfred Hemm è un buon Rocco dalla voce grave, ma troppo mastodontica per potersi muovere agevolmente lungo la parte, risultando poco musicale, oltre ad essere impreciso negli acuti.
Evgeny Nikitin appare fuori ruolo nei panni di Pizarro: la voce corre poco, le note basse sono poco salde e l’appoggio è pressoché precario, col risultato di essere spesso calante.
La Marzelline di Anna Virovlansky è troppo delicata ed evanescente per poter trasmettere i giusti accenti, seppur con un canto corretto. Il Jaquino di Karl Michael Ebner è anch’esso corretto, ma passa abbastanza inosservato, come pure il Don Fernando di Eike Wilm Schulte.
È invece ancora validissimo ed efficacissimo lo spettacolo di Pier’Alli creato per il palcoscenico del Palau de les Arts di Valencia. Se proprio si vuole trovare un difetto, questo sta nella lettura della drammaturgia strettamente tradizionale, che non dà alcun spunto nuovo, ma la sua rappresentazione è un vero capolavoro di regia, opportuno nella gestualità e negli sguardi dei protagonisti, preciso nei movimenti delle masse, abilissimo nell’uso delle sincronie e delle simmetrie. Spesso gli allestimenti di Fidelio trovano il loro massimo effetto nelle scene corali, invece Pier’Alli punta l’attenzione sulla prigionia di Florestan, con una scenografia, delle proiezioni e degli effetti luce davvero intensi ed emozionanti. Se in questa occasione non si è potuto rendere onore musicale a Beethoven, si è perlomeno reso onore plastico al dramma.
Scroscianti applausi per tutti gli interpreti, soprattutto per Mehta e la sua orchestra, che solo nel finale hanno risvegliato gli animi di tutti gli spettatori.

HÄNSEL E GRETEL [Margherita Panarelli] Torino, 9 maggio 2015.
Grande successo di pubblico tra grandi e piccini per Hänsel e Gretel di Engelbert Humperdinck al Teatro Regio di Torino.
La recita del 9 Maggio è inserita nell’iniziativa “Al Regio in famiglia” e la sala è gremita di bambini attenti e ricettivi. Hänsel e Gretel è un opera deliziosa, in questo caso ancora impreziosita dalle scenografie di Emanuele Luzzati che trasportano lo spettatore in quel mondo incantato dove è possibile incontrare il Nano Sabbiolino e la Strega Marzipan. La casetta della Strega è un trionfo di colori e gli angeli che scendono dal cielo alla fine del secondo quadro un momento di squisita dolcezza.
La compagine canora è ugualmente valida. Molto brava infatti è Annalisa Stroppa nei panni di Hänsel che da al suo personaggio un carattere dolce ma determinato e gesti da vero monello di campagna.
Non è da meno Regula Mühlemann come Gretel. La voce è cristallina, il registro acuto molto ben sostenuto e la recitazione altrettanto curata.
Perfettamente perfida la Strega Marzipan di Natasha Petrinsky che piega il proprio strumento alle tonalità quasi Wagneriane dello spartito per il proprio personaggio (l’influenza del compositore di Lipsia è percebile in molti momenti dell’opera). Simpaticissimo il Padre di Tommi Hakala che fa della sua aria “Rallalala,heiBa,Mutter,ich bin da!” un momento di delizioso rilievo comico. Brava anche Atala Schöck nei panni della Madre.
Ottima prova anche per Bernadette Müller nel doppio ruolo del Nano Sabbiolino e Mago Rugiadino.
Splendido lavoro da parte di Orchestra e Coro del Teatro Regio con particolare plauso ai piccoli canotri del Coro di voci bianche. Pinchas Steinberg, che prima di inziare ha voluto dedicare la recita ai propri nipotini presenti in sala, tiene stretti in mano tutti i fili senza lasciarseli scappare. Il dialogo tra buca e palcoscenico è efficace e sempre preciso,l’ambientazione fiabesca ampiamente rispettata ed i lunghi applausi finali coronano un lavoro di grande qualità da parte di ognuno.

TURANDOT [Lukas Franceschini] Milano, 15 maggio 2015.
Il teatro alla Scala ha programmato la nuova produzione dell’opera Turandot di Giacomo Puccini esattamente nel giorno in cui è stato inaugurato l’Expo 2015 di Milano, il quale è un evento unico e straordinario per l’Italia e soprattutto per Milano, città che lo ospita. Pertanto, era doveroso che la più importante istituzione musicale nazionale, il Teatro alla Scala, partecipasse in prima fila all’evento dimostrando un’indispensabile sinergia con la città e innalzando il nostro orgoglio nazionale.
La produzione di Turandot è caratterizzata da due aspetti rilevanti. In primis segna l’inizio del mandato quale direttore principale del Teatro del M.o Riccardo Chailly, in secondo luogo per la prima volta nella sala del Piermarini è stata eseguita l’opera incompiuta di Puccini con il completamento del III atto di Luciano Berio.
Sarebbe troppo ampio in questa sede ripercorre la genesi dell’opera, ma sintetizziamo brevemente i fatti. Puccini aveva portato a termine l’orchestrazione del suo nuovo lavoro fino alla morte di Liù nel terzo atto. Dovette partire subito dopo per Bruxelles ove fu sottoposto a delle cure di radioterapia, le quali come sappiamo furono inefficaci, il maestro spirò il 29 novembre 1924. Per volere del Teatro alla Scala e del suo direttore principale del tempo, Arturo Toscanini, si affidò incarico al compositore Franco Alfano di ultimare l’ultimo quadro dell’opera per poi poterla eseguire. Tale commissione avvenne in virtù delle eccelse qualità di orchestratore che Alfano si era procurato nel corso della sua carriera. Egli basandosi su appunti e idee frammentarie lasciate da Puccini compose una prima versione del finale, il quale fu bocciato da Toscanini perché troppo estraneo allo stile di Puccini, il quale si sapeva, voleva conclusa la fiaba, ma l’intervento postumo e di altra mano doveva essere in meno incisivo possibile. Fu così che Alfano compose un secondo finale molto più stringato e con uno sviluppo a lieto fine maestoso e trionfale. Questo secondo finale è sempre stato utilizzato in tutte le rappresentazioni teatrali ed incisioni discografiche.
E’ un finale che possiamo definire “arrangiato” per terminare una vicenda restata sospesa. E’ assurdo che talvolta per egocentricità di direttori o registi l’opera si interrompa con la morte di Liù, con la sola musica composta da Puccini, lo fece, in effetti, Toscanini la sera della prima assoluta il 25 aprile 1926, ma era altra cosa, sommo omaggio al compositore, nelle recite successive diresse il secondo finale Alfano. Nel 2001, su commissione del Teatro di Las Palmas, Luciano Berio propone un suo completamento di Turandot basato su criteri del tutto differenti. Egli elimina tutte le parti ridondanti del finale in particolare “l’inno” di lode alla Principessa realizzando un finale aperto: la vicenda amorosa di Turandot e Calaf continua lasciando sul palco il cadavere dell’infelice Liù, sacrificatasi per amore Non è da sottovalutare che Berio utilizza tutti gli schizzi dai quali è possibile intuire le intenzioni di Puccini, Alfano ne utilizzo solo cinque su trenta, soprattutto ha voluto finire l’opera in maniera “wagneriana” rifacendosi al finale di Tristan und Isolde, il quale indicava che Puccini voleva terminare l’opera in pianissimo, come testimoniato dal musicista Salvatore Orlando al quale il compositore espresse tale convinzione, e il musicista lo confidò in un carteggio con Leonardo Pinzauti.
In questa veste l’opera prende tutt’altro spessore da come siamo abituati ad ascoltarla. L’aria e il suicidio di Liù acquisiscono un’importanza più drammatica, scuotendo le coscienze dei due protagonisti, dei quali è la principessa ad ottenere un ruolo ora di donna e non più gelida principessa, e il cammino sulle parole finali “E’ amore” terminano una fiaba con una forte impronta umana e meno ridondante. Esprimere ora un giudizio sui tre finali non è molto corretto, non piace a chi scrive stilare classifiche. Ognuno ha una sua importanza anche in virtù del momento in cui è stato composto. Sicuramente la versione Berio è più rispettosa non solo dell’autore ma anche della drammaturgia dei personaggi, basti pensare che la Principessa “cede” a Calaf con il contatto fisico. Quello ascoltato alla Scala è stato un finale struggente e pieno di umanità e anche parliamo di fiaba, ci ha emozionato come raramente capita. Vorrei aggiungere che per stessa ammissione di Berio, egli non ha voluto sostituirsi a Puccini ma ha cercato a modo suo di interagire con la musica del compositore che ricordiamolo, al tempo, era il più illustre e futurista dei musicisti italiani pur rispettando il senso melodico del canto.
Lo spettacolo proposto era un allestimento della Nederlandse Opera di Amsterdam (2002) curata dal regista Nikolaus Lehnhoff. Spettacolo che si sviluppa principalmente nel nuovo finale, trovando pochi spunti per cineserie e tableaux folkloristici, ma immergendoci in una fiaba per molti aspetti cruda e disumana. La scena fissa, di Raimund Bauer, rappresentava un castello imponente e spettrale tutto rosso, luogo ove la perfida protagonista enuncia i suoi indovinelli e manda a morte gli sfortunati principi. A fianco del rituale fiabesco troviamo riferimenti cinematografici contemporanei della partitura, in particolare Fritz Lang (M il Mostro di Düsseldorf), con il coro disposto su di una balaustra e le guardie con le torce al posto delle mani. Perfettamente impregnante negli aspetti drammatici, con il mirabile costume nero di Turandot, di Andrea Schmidt-Futterer, che rende ieratica la gelida principessa. Nulla è lasciato al caso, dall’ottima recitazione, alla frizzante macchietta delle tre maschere che s’ispirano alla commedia dell’arte, allo struggente finale quando tutte le porte del palazzo si aprono emanando luce e i due protagonisti s’incamminano, non senza un barlume di rimorso per Liù, verso una nuova vita.
Artefice principale di dell’operazione musicale è Riccardo Chailly, perfetto cesellatore di sonorità del ‘900, sia quelle pucciniane, bastano gli stacchi timbrici degli archi e delle percussioni, e la poetica armonia nei momenti cantati da Liù, sia in quelle di Berio ove la fluttuante orchestra regala squarci di estetica musicale di prim’ordine. Complici molto conviti sono un’orchestra allo zenit e la magnifica prova del Coro diretto da Bruno Casoni.
Il cast era ragguardevole, e per i tempi che corrono non è poco, senza andare a rispolverare miti, apprezzati, del passato. Nina Stemme è una glaciale principessa, ben inserita nel ruolo e dal buon fraseggio, certo che lo spessore vocale di un tempo è notevolmente ridimensionato e nel settore acuto ha dovuto barattare in molte occasioni. Stefano La Colla, che sostituiva in alcune recite l’indisposto titolare, ha fatto un debutto scaligero rilevante dimostrandosi tenore di solida tenuta con accenti apprezzabili. Maria Agresta quando interpreta personaggi tipicamente lirici si trova a perfetto agio e regala emozioni in sfumature, pianissimi e dolcezza che sempre vorremo ascoltare. Molto efficaci le tre maschere, brillanti e superbamente recitate: Angelo Veccia, Roberto Covatta, Blagoj Nacoski. Preciso il Timur di Alexander Tsymbalyuk dotato di voce molto penetrante, sfavillante Carlo Bosi nel ruolo di Altoum e corretto il Mandarino di Ernesto Pannariello.
Successo trionfale alla quinta recita cui abbiamo assistito con numerosissime chiamate al termine.

IL FLAUTO MAGICO [Lukas Franceschini] Bologna, 16 maggio 2015.
Al teatro Comunale di Bologna è andata in scena una nuova produzione del singspiel tedesco Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart, in un particolare allestimento creato da Fanny & Alexander, bottega d’arte nata a Ravenna nel 1992.
Iniziamo con una breve precisazione. Il Flauto Magico mozartiano, ultima opera del salisburghese ad essere rappresentata, contiene molteplici elementi culturali di varia estrazione. Il fiabesco-meraviglioso settecentesco (sia il flauto sia il glockenspeil hanno proprietà magiche, ma vi sono anche giovani geni e situazioni magiche), l’illuminismo (massima aspirazione dell’uomo alla saggezza e alla ragione), la massoneria (con i riti d’inizio, zone per accedere ai misteri, le invocazioni divine, particolare dedizione alla simbologia numerica), e il popolare viennese rappresentato dal Kasperl e Hanswurst (l’umile, il comico, il semplice e bonario incentrati sulla figura di Papageno). L’opera è stata rappresentata in varie chiavi di lettura, oltre a fiaba per bambini anche come racconto massonico e storia illuminista. Tuttavia, la vicenda narra l’evoluzione dell’individuo che da debole e credulone diventa saggio e sapiente uomo attraverso il sentimento dell’amore e il superamento delle prove iniziatiche. Bisogna anche considerare la figura dell’uomo popolare che nel personaggio di Papageno, il quale non considerando importanti le prove, resta uomo semplice. Infine, la contrapposizione dei due regni, quello di Sarastro e quello di Astrifiammante, che s’invertono nel finale con il significato che il regno del sacerdote sarà quello della sapienza e dalla ragionevolezza.
Nell’allestimento presentato a Bologna, tutti questi importanti elementi non erano per nulla centrati. Fanny & Alexander ha voluto trasportare solo la parte fiabesca e rifacendosi al famoso film-opera di Ingmar Bergman, creando un racconto ideato da due bambini che giocano con la fiaba. Tutto il resto volutamente tralasciato o non focalizzato. La concezione primaria potrebbe anche funzionare, seppur non originale, ma il vuoto attorno era davvero desolante. Inoltre, nella realizzazione visiva è stata adottata la tecnica del 3D, solo in talune parti, il che rendeva noioso e snervante il continuo mettere e togliere gli appositi occhiali, i quali servivano solo per alcuni minuti di proiezioni scontate e dozzinali. Possiamo capire l’omaggio al regista svedese ma focalizzare lo spettacolo solo sulla visione dei bambini che giocano con i protagonisti come fossero marionette è riduttivo per l’opera mozartiana, mancano tutti gli altri elementi, e poi riportare il coro in platea ormai è superato, tanto abusata soluzione, il coro è una comunità come quella che frequenta il teatro. Inoltre, dobbiamo costatare che non abbiamo avuto una regia indicativa, i cantanti erano lasciati al loro istinto interpretativo, anche soddisfacente, ma non guidati da una narrazione drammaturgica, scenografia minimalista spoglia, costumi moderni con un mix di varie culture e luci sempre scure e tenebrose.
Se la parte visiva ci ha lasciato molto perplessi, se non delusi, l’apparato musicale ha risollevato le sorti. Michele Mariotti ha concertato con grande efficacia interpretativa e gusto teatrale. Assieme all’ottima Orchestra del Comunale e al puntuale Coro (istruito da Andrea Faidutti), egli ha cesellato ogni singolo momento della partitura con perizia tecnica ed estrema cura del suono che è sempre stato calibrato. Accompagnatore eccellente del palcoscenico non ha mai perso di mano i solisti, accompagnandoli con estrema cura e risultando efficace anche nei tempi sostenuti e brillanti, seppur in taluni momenti, immagino per gusto interpretativo, tendeva a rifugiarsi in una lentezza esecutiva ma sempre teatrale. Se devo fare i paragoni con Così fan tutte dello scorso anno, non posso che registrare una superiore concertazione nell’occasione odierna, notevolmente superiore.
Nel cast abbiamo trovato molti nomi conosciuti e qualche gradita sorpresa a noi ignota, tuttavia, è rappresentativo che nell’insieme abbiamo avuto buoni professionisti e molto omogenei. Paolo Fanale, che salvo errori debuttava il ruolo, è stato un Tamino estatico e sognante vocalmente preciso e con grande cura di colori e fraseggio. La Pamina di Maria Grazia Schiavo ci è parsa musicale e precisa, con voce squisitamente lirica e ben rifinita nei registri. Imponente il Sarastro di Mika Kares, autentico basso profondo precisissimo tecnicamente. La regina della notte di Christina Poulitsi pur con una voce non prettamente drammatica ha cantato con pertinenza le due arie, anche se nella prima era a corto d’incisività, molto più efficace nella seconda per perizia tecnica soprattutto nei picchettati. Nicola Ulivieri ha risolto benissimo il ruolo di Papageno, personaggio ormai collaudato con al suo fianco la graziosa Papagena della brava Anna Corvino. Simpaticissime e molto omogenee nel canto il terzetto delle dame composto dalle brave: Diletta Rizzo Marin, Diana Mian e Bettina Ranch. Spassoso il Monostatos di Gianluca Floris, cantante sempre raffinato, e molto positiva per incisività la prova di Andrea Patucelli quale Oratore. Menzione positiva particolare per i tre geni: Marco Conti, Pietro Bolognini e Susanna Boninsegni, del Coro Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna. Completavano la locandina con ottima professionalità: Simone Consolari (primo sacerdote), Cristiano Olivieri (secondo sacerdote), Carlo Alberto Brunelli (terzo sacerdote) e Luca Gallo (secondo uomo corazzato).
Successo trionfale al termine per direttore e cantanti, applausi più contenuti per il team registico. Piccola nota: è stato abbastanza curioso che nelle uscite singole l’ultimo fosse Nicola Ulivieri, non credo che Papageno sia il protagonista di Die Zauberflöte.

CO2 [Lukas Franceschini] Milano, 19 maggio 2015.
Ha debuttato alla Scala la novità assoluta del compositore Giorgio Battistelli, l’opera in prologo, nove scene e un epilogo, CO2 su libretto (in inglese) di Ian Burton. Questa nuova commissione del teatro milanese doveva essere realizzata qualche anno addietro, poi per problemi vari è slittata a oggi, la quale trattando la prospettiva del cambiamento climatico non poteva essere bandiera più appropriata con l’Expo 2015 il cui tema è “Feeding the Planet – Energy of Life” (Nutrire il pianeta – Energia della vita).
Il titolo è la formula chimica dell’anidride carbonica, la quale è indispensabile per il processo della vita sul pianeta, ma parallelamente è corresponsabile del surriscaldamento globale del pianeta e dell’effetto serra che lo minaccia. Tema attualissimo dunque, cui media, giornali ed esperti nel settore hanno dato ampio spazio negli ulti tempi, anche se non a tutti, come chi scrive, il problema è chiarissimo dal punto di vista scientifico.
I nove quadri che compongono l’opera sono ispirati da diversi elementi. Tra questi, l’Ipotesi “Gaia” è parte centrale della drammaturgia, tale concetto fu formulato da James Lovelock nel 1979 e sostiene che la terra è un organismo vivente autoregolato, sintetizzando possiamo affermare che nel momento in cui la terra si renderà conto che l’uomo l’avrà deteriorata, essa si libererà di noi. Si parla del mito induista in cui il dio Shiva bruciando il mondo lo ricrea sulle stesse ceneri in un cerchio d’infinita rigenerazione, e della tradizione cristiana del Paradiso terreste, nel quale vivono pacificamente fino al fatto della mela. In alcuni quadri sono narrati avvenimenti reali come la convention della sottoscrizione del Protocollo di Kyoto, il dirompente tsunami nell’oceano Indiano del dicembre 2004, uragani che distruggono parti del mondo, e infine la globalizzazione del mercato. La sequenza pare complessa e di difficile comprensione ma nel libretto sintetico, anche se in inglese ma tale lingua è universale oggi, i fatti si susseguono in maniera incalzante ed in splendida sintesi ad affresco musicale. Emblematico il fatto che si ascoltino anche altre lingue nella concezione di univesalita, oltre all’inglese, sono utilizzati latino, sancrito e greco antico. Giorgio Battistelli che non è compositore d’avanguardia, ma complesso, utilizza un canto classico e dipinge la breve partitura, novanta minuti circa, con soluzioni originali ed innovative intrise di modernità che trovano qualche ispirazione anche nel jazz, nelle musiche antiche e dell’oriente. Spiccate sensazioni soprattutto timbriche, sono realizzate con raffinata simmetricità ed espressiva violenza nei quadri catastrofici. Emerge lo spiccato senso narrativo e teatrale, fortunatamente non rifacendosi all’atonale.
Fiammeggiante senso teatrale, di stampo ovviamente ambientalista, è quello che ha realizzato il regista Robert Carsen, il quale racconta con realistica visione e raffinata precisione gli eventi, anche con l’ausilio di bellissime proiezioni. Spettacolare la scena dell’aeroporto con lo sciopero, realistica quanto claustrofobica, commuovente quella sull’oceano dopo lo tsunami quando la signora Mason rievoca la morte del cognato e del giovane che tenta di salvarlo. Spettacolare la scena di Paul Steinberg, efficai i costumi di Petra Reinhardt.
Protagonista è il personaggio del professor David Adamson che inizia l’opera con una conferenza parlata sugli effetti del cambiamento climatico. Inizia poi il racconto a quadri cui interviene un adeguato e numeroso cast di validissima interpretazione. Rilevante l’utilizzo del coro, che risponde alla perfezione al nome del Teatro alla Scala. Tra gli interpreti si segnalano: un superlativo Anthony Michaels-Moore (Adamson), Orla Boylan (Arcangelo e Mrs. Mason), Alessandro Spina (Arcangelo Michele), Pumeza Matshikiza (Eva) e Jennifer Johnston (Gaia).
Un plauso particolare al giovane direttore Cornelius Meister che concertato con estrema precisione, calibrando le varie sezioni orchestrali, soprattutto timbriche, e reggendo un validissimo rapporto con il palcoscenico, seguito a puntino dalla puntuale precisa orchestra.
Abbiamo assistito alla seconda rappresentazione (la prima assoluta il giorno 15) ed il folto pubblico ha decretato al termine un autentico trionfo a tutta la compagnia. Meritatissimo!

IL FLAUTO MAGICO [William Fratti] Bologna, 21 maggio 2015.
In occasione di questo Flauto la sala del Bibiena registra il tutto esaurito in ogni recita e l’esecuzione del capolavoro mozartiano risponde in parte alle alte aspettative, in primis la lettura musicale dell’eccellente bacchetta di Michele Mariotti, che si dimostra essere – ancora una volta – sapiente “disegnatore e pittore” di colori e cromatismi, intrisi di sfumature e venature che rendono il suo belcanto – da Mozart al primo Verdi, passando soprattutto attraverso l’irrinunciabile Rossini – particolarmente chiaro e nitido nelle caratteristiche che lo compongono, senza mai rischiare di prevaricarne lo stile, ma in grado di accentuarne il gusto. La bravissima e precisissima Orchestra del Teatro Comunale di Bologna lo segue in maniera attenta e accurata. Prova più che positiva anche per il Coro guidato da Andrea Faidutti, purtroppo parecchio castrato dal lavoro di regia, che in alcuni momenti lo costringe sulle porte del golfo mistico, in altri lo dispiega in platea addirittura dividendone le sezioni, col risultato di udire il canto dei singoli e non del gruppo.
Paolo Fanale, che riprende il ruolo di Tamino per la prima volta dopo il debutto di Oslo avvenuto qualche anno fa, si esibisce nella sua naturale morbidezza, dimostrando ancora una volta di essere esemplare interprete mozartiano, sempre attento alla purezza e all’omogeneità dei suoni, abile fraseggiatore e cesellatore di colori, con una linea di canto sempre uniforme.
Maria Grazia Schiavo si riconferma una Pamina delicata, ben centrata nella parte, bravissima nel duetto con Papageno e particolarmente attenta ai passaggi ingrati di “Ach, ich fühl’s” anche alcuni acuti sono leggermente aciduli.
Nicola Ulivieri si riafferma quale interprete di riferimento del canto mozartiano e nel suo Papageno si individua un’eleganza che ha pochi pari.
Eccellente, sotto ogni punto di vista, è il Sarastro di Mika Kares, che insiste nella zona grave del pentagramma con invidiabile musicalità, ottenendo risultati raffinatissimi in termini vocali e interpretativi, con autorità nobile anche nell’accento.
L’anello leggermente debole di questa preziosa catena di protagonisti è la Regina della Notte di Christina Poulitsi – nonostante riceva il più grande successo personale con copiosi applausi e acclamazioni – che produce dei bellissimi suoni sovracuti, ma difetta ampiamente d’accento drammatico e di legato nelle pagine più patetiche. Il materiale che possiede è ottimo, ma deve assolutamente essere perfezionato tecnicamente.
Efficacissima la prova di Andrea Patucelli quale Oratore, come pure Gianluca Floris quale Monostatos e Anna Corvino quale Papagena. Si distinguono positivamente anche le tre dame di Diletta Rizzo Marin, Diana Mian e Bettina Ranch, nonché i tre fanciulli di Marco Conti, Pietro Bolognini e Susanna Boninsegni, anche se vanno registrate un po’ di stonature da parte di entrambi i gruppi. Concludono il lungo cast gli efficaci Simone Casolari, Cristiano Olivieri, Luca Gallo.
Accanto all’entusiastica riuscita della parte musicale e vocale, risiede il desolante e inesorabile vuoto della parte visiva dello spettacolo, di cui si nota chiaramente solo il grande impegno profuso dalla squadra di lavoro (composta principalmente da Luigi De Angelis, Nicola Fagnani e Chiara Lagani), ma il risultato è pressoché da oratorio e lo si potrebbe valutare con la frase: “vorrei ma non posso”. Tutti gli accenni e i richiami al Reame del Didietro di Wolfgang e della sorella, al cinema di Ingmar Bergman e al teatro barocco del castello di Drottningholm possono essere colti solo leggendo le note di regia o assistendo alla presentazione dell’opera. Ma non si dovrebbe andare a teatro con le istruzioni, poiché chi non conosce la vita di Mozart bambino, l’arte di Bergman o chi non ha mai visitato la residenza della famiglia reale svedese non può conoscere questi riferimenti. L’esperimento dei video tridimensionali è equiparabile al cinema della parrocchia. La gestualità dei cantanti è lasciata a se stessa. L’uso delle masse non è nemmeno valutabile. Le luci scure e cupe non danno quasi mai un effetto suggestivo. I costumi sono abiti che provengono evidentemente dal mercato o dai grandi magazzini, poi dipinti. È invece apparso parzialmente positivo l’uso dei diaframmi: molto probabilmente si sarebbe ottenuto un miglior risultato se si fosse focalizzata l’attenzione su questi, incrementandoli ulteriormente per evitare il vuoto e dare maggiore significato alle scene nella vicenda, accantonando il 3D e la visione della sala del teatro come la sala del palazzo di Sarastro.

I DUE FOSCARI [William Fratti] Piacenza, 22 maggio 2015.
Dopo qualche anno di assestamento, il Teatro Municipale di Piacenza dimostra di avere ritrovato la sua dimensione, facendo cultura all’insegna della tradizione.
La nuova stagione 2015-2016 è strategicamente presentata prima della conclusione del cartellone attuale, puntando dunque non soltanto sugli abbonati e gli spettatori abitali, ma cercando di attirare un pubblico sempre più vasto, nonché turisti provenienti da altrove. Ma è Piacenza a cui deve essere risposto in primis e se la città preferisce la consuetudine all’innovazione, è giusto che ottenga risposta in questo senso. È vero che le platee devono essere abituate alla nuova arte, ma è anche vero che lo si può fare in maniera graduale, senza per forza dover proporre titoli modernamente rivoluzionari. Il connubio tra il direttore artistico Cristina Ferrari e il Maestro Leo Nucci ha dato prova di funzionare, dunque squadra che vince non si cambia. Le polemiche in merito alle assidue presenze di alcuni artisti e certe agenzie vanno lasciate alle sedi opportune e non sono oggetto di recensione.
Anche il sindaco Paolo Dosi ha avvalorato questo indirizzo di lavoro al termine de I due Foscari, l’opera conclusiva della stagione 2014-2015, una serata di grande musica, come già sottolineato,  nel solco della tradizione. E proprio lungo questo filone si inerisce la direzione di Donato Renzetti, che non dà particolare lettura o significato personale all’opera del giovane Verdi, ma usa colori e accenti tipici di questo repertorio per come lo si è abituati a sentire da almeno mezzo secolo, compreso il taglio di tutti i da capo. L’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna lo segue piacevolmente e con estrema disinvoltura, anche grazie all’assidua frequentazione del lavoro del Cigno di Busseto. Un segno di merito va alla prima viola e al primo violoncello per l’esecuzione dell’emozionante preludio secondo.
Leo Nucci è interprete strepitoso del personaggio del vecchio Foscari e la sua performance non fa avvertire l’assenza della forma scenica in alcun modo. Ovviamente non si può sperare di udire la voce di qualche anno fa, ma l’espressività del fraseggio e il significativo uso degli accenti sopperiscono pienamente a questa mancanza.
Fabio Sartori è tenore verdiano di primo ordine, intonatissimo, squillantissimo, morbido nel passaggio. L’unico neo del suo Jacopo risiede nell’assenza di piani e pianissimi, ma Sartori è un professionista e riesce tranquillamente a fraseggiare, accentare, dare colori e sfumature passando dal mezzo forte al fortissimo.
Kristin Lewis è una Lucrezia naturalmente dotata di una bellissima voce importante, ma difficile da muovere. È a suo agio finché si trova nel canto spianato e dove non occorrano tinte particolarmente espressive, ma non appena incontra delle agilità si sentono i primi ostacoli, così come grandi scogli si odono nel drammatico e nel patetico, poiché povera d’accenti, cui si aggiunge una dizione catastrofica, col risultato di diventare algida e insignificante. Il materiale per essere cantante di prim’ordine c’è tutto, ma necessita di molto studio sulle fioriture, anche se minime, e sull’interpretazione.
Marco Spotti è un vero basso che finalmente riconsegna totale onore alla breve ma importantissima parte di Loredano, che è l’effettivo deus ex machina della vicenda, e la sua bella voce scura ben proiettata si fa udire anche nei corposi pezzi d’assieme.
Fabrizio Paesano, vincitore del 52° Concorso Voci Verdiane Città di Busseto, è un efficace Barbarigo, affiancato da Federica Gatta come Pisana, Andrea Bianchi come fante del consiglio e Alessio Verna come servo del doge.
Come sempre eccellente nel repertorio verdiano è il Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati.

NORMA [Lukas Franceschini] Venezia, 27 maggio 2015.
La superba partitura di Vincenzo Bellini, Norma, è stata assai rappresentata al Teatro la Fenice e nei ruoli principali furono impegnati il gotha canoro del momento. Nell’odierna stagione è riproposta, a distanza di ventidue anni dall’ultima edizione, in una nuova produzione in collaborazione con la Biennale Arte di Venezia.
Tralasciamo genesi, struttura e compianti grandi interpreti, Norma seppur oggi poco rappresentata è titolo di repertorio, pertanto è assolutamente importante fare un preambolo sulle concezioni che la regista, scenografa e costumista Kara Walker ha evidenziato per realizzare lo spettacolo. Ella ha spostato l’azione nell’africa coloniale di fine secolo XIX, prendendo spunto dal libro “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, nel quale sono narrati efficacemente gli orrori del colonialismo e dello schiavismo. Norma l’abbiamo vista in molte versioni, pertanto anche questa non scandalizza, anzi, l’idea in se è originale e pertinente, perché mostra lo scontro di civiltà tra due popoli, ponendo in relazione anche le opposte fazioni: il conquistatore e oppressore contro l’invaso e sottomesso. È rilevante ricordare che la Walker è artista afroamericana la cui opera artistica è da sempre incentrata su tale aspetto storico e sociale. Purtroppo questi temi con Norma c’entrano poco, o niente, poiché l’opera è più basata sugli affetti privati che lo sfondo storico dei romani che conquistano la Gallia, il quale rimane in margini molto ben tracciati giacché non vi sono che dei soli romani, Polline e Flavio, niente battaglie niente cori di conquista da parte dei romani. Della regista si apprezzano solo le scene, talora astratte o naturistiche, ben evidenziate da mano che di arte ne sa. Tutto si ferma qui. Manca in primis un’idea registica, uscite ed entrate senza una precisa indicazione, coro schierato senza un minimo di razionalità, solisti statici e franati o solamente approssimativi nel tentare qualcosa di autonomo. Non contribuivano a questa pesante e noiosa visione i costumi, della stessa regista, che rasentavano il ridicolo quando si notava che Oroveso indossava la pelle di giaguaro (come Totò nel celebre film), Pollione e Flavio erano due stereotipati coloni con cappellino e divisa beige (mancava solo la rete per cacciare le farfalle!), Norma una sorta di sacerdotessa punk. Si poteva sicuramente fare di meglio, e avere un senso teatrale tale da non permettere di scivolare nel farsesco, come ad esempio i coristi che nella scena finale parafrasavano drag-queen d’improbabile presenza africana. In definitiva tante idee anche originali ma pochi contenuti e molte sbandate nella realizzazione.
Sul versante musicale non abbiamo trovato la controparte che spesso appaga l’udito quando la visione è deludente. Chi ha compromesso in maniera decisiva questa Norma è stato il direttore Gaetano D’Espinosa, il quale con Bellini e presumo tutto il romanticismo operistico, non ha nulla da spartire. Overture frastornante e tempi sempre fuori luogo, o troppo forti o troppo lenti, come nel finale atto primo ove in luogo di tensione e furore abbiamo udito un terzetto accompagnato come fosse un largo di Mahler. Ed è un peccato giacché l’orchestra della Fenice è cresciuta molto in questi anni e avrebbe potuto seguire benissimo indicazioni più consone ed essere valorizzata, invece indirettamente è stata penalizzata. Riesce ad emergere in questa triste concertazione il bravo coro locale istruito da Claudio Marino Moretti.
Il cast ha subito anch’esso una penalizzazione dal direttore, ma purtroppo ha espresso limiti propri. Carmela Remigio è decisamente fuori ruolo nell’interpretare la sacerdotessa Norma, per una voce troppo leggera, una scansione interpretativa che non le permette si superare i passi drammatici, e una zona grave limitata, quando doverosamente adoperata suona forzata. Bisogna ammettere che la grinta della cantante c’era tutta, ma il passo era oltre le sue capacità, c’è da augurarsi che non prosegua su questa strada per non compromettere un materiale più che apprezzabile.
Gregory Kunde è un caso strano. Senza ripercorrere la sua vicenda artistica occorre ricordare che oggi canta tutto, da Africana a Pagliacci, da Britten a Trovatore. Non poteva mancare un ruolo come Pollione, cantato dai passati migliori tenori. Il fatto di aver cambiato vocalità e di avere ancora un registro acuto ragguardevole, non è sufficiente per affermare che sia il miglior tenore del momento, semmai uno dei pochi che riesce a sostenere una recita. Innanzitutto, la voce è dura, secca ed inespressiva, totalmente assente il colore, ma lui è dotato di carisma e qualche accento nei limiti lo esibisce. Non è sicuramente imbarazzato dalla scrittura, ma canta tutto uguale, che sia il duetto amoroso con Adalgisa, o il drammatico scontro con Norma nel finale, la differenza è impercettibile. Interpretando un ruolo che fu composto per Donzelli, gli riconosciamo un plauso per aver eseguito delle variazioni nella cabaletta, e una discreta tenuta ma null’altro.
Veronica Simeoni con Adalgisa centra uno dei suoi migliori personaggi. Più volte mi sono espresso su questa cantante affermando che vero mezzosoprano non è, pertanto in un ruolo che originariamente fu affidato sempre a soprani che differenziavano vocalmente dalla protagonista, lei trova una corda a mio avviso molto più consona rispetto alle recenti Azucene e alle future Favorite. Inoltre, la cantante è dotata di un ottimo gusto interpretativo, un fraseggio eloquente e per niente imbarazzata dai passi d’agilità, cui si aggiunge un’innata delicatezza d’accento in particolare nell’aria di sortita. Mediocre il basso che interpretava Oroveso, Dmitry Beloselskiy, il quale seppur dotato di voce importante è stato alquanto ruvido. Bravi Emanuele Giannino nel breve ruolo di Flavio e Anna Bordigon in quello di Clotilde.
Successo al termine con molti applausi per i cantanti, mescolati con qualche dissenso per il direttore.

LA SERVA PADRONA [Lukas Franceschini] Mantova, 30 maggio 2015.
La splendida città di Lombarda sita sulle sponde del Mincio organizza “Trame sonore a Palazzo” Mantova Chamber Music Festival, giunto alla III edizione. Tra i numerosi concerti che si sono succeduti in vari luoghi della città dal mattino alla tarda sera abbiamo assistito alla rappresentazione dell’intermezzo buffo La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi.
La città di Mantova ha un rapporto storico molto importante con l’opera, è comune conoscenza che la prima rappresentazione di Orfeo di Claudio Monteverdi fu eseguita al Teatro Ducale di Mantova nel 1607, siamo agli albori della nascita dell’opera lirica. In seguito, la corte dei Gonzaga operò un vero e proprio mecenatismo in questa nuova forma di spettacolo ed intrattenimento. Oggi, dopo essere stata sede d’importanti stagioni operistiche, la città ospita la prestigiosa Orchestra da Camera di Mantova, cui direttore principale è Alexander Lonquich, che si esibisce prevalentemente in quel gioiello che è il Teatro Bibiena. L’altro teatro della città, il Sociale, è di proprietà privata e non più utilizzato per rappresentazioni teatrali operistiche, ma saltuariamente da altre forme di spettacolo pertanto, il festival in questione rappresenta un fiore all’occhiello cultural-musicale anche per le città limitrofe.
La serva padrona è un celeberrimo intermezzo buffo, composto per il compleanno di Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel su libretto di Gennaro Antonio Federico, fu rappresentato la prima volta al Teatro San Bartolomeo di Napoli il 28 agosto 1733, quale intermezzo all’opera seria Il prigionier superbo, dello stesso Pergolesi, destinata a ad un successo minimamente comparabile rispetto allo spartito che doveva fungere da diversivo al dramma serio. Con la prima rappresentazione de La serva padrona s’intende considerare l’inizio del nuovo genere dell’Opera Buffa. Il libretto inseguito fu musicato anche da altri compositori. È singolare rilevare che il grande successo riportato nella ripresa del 1752 dell’Académie Royale de Musique scatenò una disputa, nota come la Querelle des bouffons, fra i sostenitori dell’opera tradizionale francese, incarnata dallo stile di Jean-Baptiste Lully e Jean-Philippe Rameau, e i sostenitori della nuova opera buffa italiana fra cui alcuni enciclopedisti, come Jean Jacques Rousseau compositore anch’esso. La disputa divise la comunità musicale francese e la stessa corte, la regina Maria Leszczynska (consorte di Luigi XV) si schierò a fianco degli “italiani”, e portò ad una rapida evoluzione del gusto musicale del paese transalpino verso modelli meno schematici e più moderni. Intramontabile per brillantezza musicale, sintesi narrativa, frizzante briosità, La serva padrona non conosce oscurantismi, sempre in cartellone e cavallo di battaglia di bassi-baritoni e soprani.
L’esecuzione mantovana dell’intermezzo è stata semplicemente deliziosa, non solo per la mirabile locazione, non saprei trovare aggettivi appropriati per descrivere il teatro Bibiena, ma soprattutto per l’ambiente ideale e raccolto, il quale ha potuto valorizzare la Baroque Academy of The Nederlands Symphony Orchestra, un ensemble di soli sei strumenti ad arco e un clavicembalo, diretti con grande senso teatrale e perfetta calibrazione sonora da Christian Deliso, esperto e precisissimo musicista. Il cast era formato dal soprano Maria Abbate, Serpina, Carlo Torriani, Uberto, e Marc Pantus, mino, nel ruolo di Vespone. Il soprano ha fornito prova convincente sia sotto il profilo interpretativo sia musicale, regalandoci un personaggio squisitamente brioso ed altrettanto perfetto vocalmente. I ruoli buffi sono un cavallo di battaglia di Carlo Torriani, il quale, anche se fattosi annunciare indisposto, ha cantato con innato gusto buffo e una verve interpretativa da manuale, non cadendo nel facile tranello della macchietta teatrale. Da esperto cantante ha saputo calibrare una voce duttile e superare la difficoltà della serata che solo un orecchio esperto avrebbe potuto notare il suo non perfetto stato di salute. Bravissimo anche l’attore Marc Pantus, che s’inseriva nella drammaturgia con simpatiche trovate comiche.
Un plauso va anche alla regista Eva Buchman, che sapientemente non ha voluto sovraccaricare la scena, trovandosi appunto in un luogo ideale e speciale, ha creato personaggi vivi e credibili di un’operina buffa ma con mano veramente elegante.
Il pubblico numeroso e pienamente soddisfatto della proposta ha salutato l’intera compagnia con prolungati applausi al termine.

CANDIDE [Lukas Franceschini] Firenze, 31 maggio 2015.
Non c’è alcun dubbio che la partitura di Candide sia un capolavoro in termini sinfonici e di invenzione musicale, un’operetta assolutamente in grado di stare al pari dei grandi titoli del melodramma, come pure dei più importanti musical di Broadway.
“Any question?” così termina l’opera comica Candide, su libretto di Hugh Wheeler dall’omonimo romanzo satirico di Voltaire, musica di Leonard Bernstein e rappresenta per la prima volta a Firenze nell’ambito dell’odierno 78° Maggio Musicale Fiorentino.
Opera comica sì, ma non solo, semmai opera morale, la domanda finale è un pugno nello stomaco dell’ascoltatore, poiché di domande ce ne sarebbero molte, ma sappiamo le risposte, il dramma è questo. Leonard Bernstein fu uno dei più geniali direttori del XX secolo, personalità eclettica del panorama internazionale. Difficile dimenticare carisma, precisione, disciplina, modernità, genialità, per coloro che almeno una volta l’hanno sentito dirigere dal vivo. Parallela all’attività direttoriale, per la quale è maggiormente conosciuto, non è meno rilevante la creatività compositiva, basti pensare a West Side Story e alle colonne sonore di film quali Fronte del porto. In tale arte Bernstein ci ha lasciato una delle opere più espressive del secondo dopoguerra, di elevata forza espressiva e soprattutto morale, ancor oggi non si notano differenze su un libretto e gli insiti significati realizzato nel 1956. Innanzitutto bisogna tener presente la lungimiranza dell’autore nel voler musicare in forma di operetta (come lui stesso definiva il suo componimento) un testo come Candide ou l’Optimisme di Voltaire, il quale è una delle più grandi satire di tutti i tempi, senza esclusione di colpi e zone sociali, nel turbinio delle umane follie sino al termine del romanzo, in tal punto si suggerisce al lettore di porsi domande. Candide appartiene ad un genere di spettacolo ibrido, che riunisce in sé elementi del musical, dell’operetta, del tradizionale teatro d’opera, e s’inserisce nel filone del teatro satirico inglese di Gilbert & Sullivan, tipologia in voga agli inizi del secolo scorso nel quale erano canzonati temi “politici” e di attualità. Nel realizzare la prima stesura Bernstein e Lillian Hellman si rifecero al romanzo di Voltaire attualizzandolo all’età della guerra fredda e del maccartismo. Il prodotto non era pertanto teatro d’evasione ma teatro politico, che sotto l’ironia apparentemente leggera celava una rappresentazione sferzante dell’ipocrisia con la quale l’uomo cercava di nascondere la sua vera natura e il fine delle sue azioni. La parodia presentata sia a Boston e poi a Broadway si rivelò troppo seria e raffinata, perciò non fu colta appieno dal pubblico. Fu solo nel 1973 quando il libretto fu rimaneggiato da Hugh Callingham Wheeler, il qualerese lo spettacolo più frizzante e ripristinava il tono ironico di Voltaire, così l’opera ebbe un vero successo. Sempre nello stile di Bernstein la musica strizzava l’occhio a molteplici stili e alla danza, peculiarità che impressero nella critica e nell’ascoltatore una positiva affermazione. Volutamente la situazione drammatica sovente stride ironicamente con il carattere della danza creando effetti esilaranti e surreali.
Francesco Micheli realizza in questa nuova produzione uno dei suoi migliori spettacoli da me visti. Quale filo conduttore segue una frase di G. W. Leibniz “Viviamo nel migliore dei mondi possibili?”, e in base all’ironia ci fa capire che è esattamente il contrario. La drammaturgia è sviluppata sulla figura del protagonista Candide, sicuramente ispirato dalle migliori intenzioni ma anche un po’ ingenuo, il quale è schernito dalla malvagità che lo circonda. L’ambientazione è in una fabbrica luogo di paradosso quale centro di produzione perfetto, ma lo è? Sicuramente no, tutto è organizzato al meglio ma speculatori cercano di comprare il tutto, il Dio denaro, infatti, apre molte porte. Il giovane protagonista è il bravo ragazzo illuso che vuole sposare l’amata Cunegonde ma le avversità e la malvagità imperante gli rendono quasi impossibile la realizzazione. Le varie traversie lo mettono a dura prova ma alla fine ci riuscirà, modificando le sue ambizioni, e ritirandosi nella casetta di periferia con il giardino. Amplificando ed esasperando nell’attualità tutti i riuscitissimi personaggi, il regista ci offre uno spettacolare spaccato della società odierna cogliendo appieno il messaggio sia di Voltaire sia di Bernstein, i quali allora come oggi evidenziano un mondo retto da soprusi ed ingiustizie, e Micheli segna questo elemento definendo le persone come una rotella della grande catena di montaggio della società, ove le libertà e la correttezza sono latenti da forze superiori. “Viviamo nel migliore dei mondi possibili?”, dice Voltaire (interpretato da Lella Costa), chiedendo al termine “Ci sono domande?”, decisamente no, è il messaggio e lo sappiamo benissimo. Scena spoglia ma in continuo cambiamento con l’entrata di container e flycase giganti, ottimamente realizzata da Federica Paolini, costumi lineari ma spesso sgargianti di Daniela Cernigliaro, luci azzeccatissime di Angelo Linzalata, e una coreografia bellissima di Alfonso Cayetano contribuiscono al meglio alla realizzazione di uno spettacolo che difficilmente si dimentica.
Sul podio abbiamo avuto la pregevole presenza di John Axelrod, un concertatore preciso che ha spronato l’ottima orchestra del Maggio Musicale in una lettura di straordinaria vivacità ed emblematico lirismo. Bravissimo il Coro preparato da Lorenzo Fratini.
Il numeroso cast è stato istruito interpretativamente da Micheli in maniera stupefacente. Musicalmente abbiamo riscontrato un’omogeneità generale di alto livello.
L’attrice Lella Costa era uno strepitoso Voltaire, in pattini a rotelle, che girovagava per il palcoscenico creando il trait-d’union delle vicissitudini, in perfetto inglese, con la classe che la contraddistingue da sempre. Keith Jameson era un Candide con voce lirica di particolare espressione, Richard Stuart un brillante e sagace Pangloss. Gary Giffiths preciso Maximilian, Jessica Renfro una divertente Paquette, Chris Merritt un indicativo Governatore, ruolo che oggi può ancora permettersi di cantare. Laura Claycomb, la quale cantava l’aria di coloratura più conosciuta, era una precisa Cunegonde, con grandi proprietà musicali anche se gli estremi acuti leggermente tirati, mentre Anja Silja era solo una presenza di nome poiché parlare di canto sarebbe azzardato, anche se il personaggio era mirabile.
Completavano la locandina con ottime prestazioni Timothy Martin (Charles Edward), Luca Casalin (Augustus), Hector Guedes (Ivan), Christopher Turner (Sultano), Alessandro Calamai (Stanislaus), Christopher Lemmings (Ragotski) e Gianluca Di Lauro (Cacambo). Una particolare menzione per gli attori dell’Associazione Culturale Teatro della Limonaia e per i bravissimi ballerini di MaggioDanza.
Il pubblico ha apprezzato moltissimo lo spettacolo nel suo insieme e al termine ha decretato un autentico trionfo a tutta la compagnia.

LE ROI ARTHUS [Natalia Di Bartolo] Parigi, 02 giugno 2015.
(Following excerpts in French and English translation) Dramma lirico in tre atti e sei quadri, Le Roi Arthus di Ernest Chausson (su libretto dell’autore stesso), composto tra il 1888 e il 1894, fu rappresentato solo dopo quatto anni dalla morte del compositore, nel 1903 a Bruxelles, e ripreso successivamente soltanto altre tre volte fino ai nostri giorni.
La scelta di inserire l’opera nel cartellone dell’Opéra National de Paris Bastille nel corso della Stagione 2014-2015, quindi, è certamente una scelta ponderata e indovinata, che riporta l’unica opera composta da Chausson sulle scene francesi, dove era comparsa solo nel 1916.
Le Roi Arthus risente degli echi wagneriani del Tristan und Isolde e del Parsifal, ma anche dei cori marinareschi del Der fliegende Holländer, con un orecchio ben teso, però alla musica di Berlioz, dalla quale Chausson trae i suoi spunti più originali. Una sorta di risultante post-wagneriana, con influssi anche simbolisti, che vennero espressi pure nella messa in scena della prima rappresentazione. Ciò non toglie che si possano anche percepire vibrazioni che facciano risalire a Gounod o emozioni che richiamino altri illustri autori francesi. Si tratta quindi di un’opera musicalmente monumentale, assolutamente fuori dagli schemi, che non è, come può apparire a prima vista, tutto un clangore di ottoni e rimbombare di percussioni, ma è ricca di declinazioni e nouances variegate ed è difficile da eseguire e da seguire nella sua interezza.
La nuova messa in scena parigina è affidata a Graham Vick, che si avvale della scenografia e dei costumi di Paul Brown e delle luci di Adam Silverman, che ne ha fatto un miscuglio tra l’ambientazione di una tardiva gioventù bruciata con quella di una comunità Hippy anni ’70, ma è riuscito a non snaturare i sentimenti dell’idealismo che permeano la saga arturiana, pur presentando l’odierna produzione un impatto degli spettatori con tutto l’insieme che possa definirsi decisamente “robusto”.
Da parte sua il direttore Philippe Jordan non si lascia catturare dall’infida trappola delle dinamiche wagneriane miste a quelle francesi, tendenzialmente un mix esplosivo: non arriva ad una temibile direzione sopra le righe, ma dimostra una assoluta padronanza delle dinamiche, con un polso forte ed autorevole nei confronti della magnifica Orchestra dell’Opéra National de Paris. Difficilissimo dirigere questa musica inconsueta e ritrovata!
Ma è soprattutto il canto che si dimostra di estrema difficoltà e sottopone l’intero cast ad una prova assolutamente fuori dall’ordinario.
Sul palcoscenico un trio prestigioso: l’imponente Thomas Hampson, Arthus, la volitiva Sophie Koch, Genièvre, e il vitale Roberto Alagna, Lancelot, danno il meglio di sé e dimostrano una “tenuta” vocale assolutamente invidiabile. Le aspre difficoltà di una partitura scabra e vertiginosa vengono affrontate dai tre protagonisti, insieme a Alexandre Duhamel, Mordred, ed a Peter Sidhom, Merlin, nonché a tutti gli altri interpreti ed al Coro, diretto da José Luis Basso, con una potenza ammirevole ed una fusione che si potrebbe definire “miracolosa”, date le condizioni a cui la partitura li sottopone. Una menzione speciale al giovane Lyonnel di Stanislas de Barbeyrac.
Ma, inarrestabile, a brillare su tutti è il Lancelot di Roberto Alagna, il quale fa propria e personalissima questa parte “terribile”. Quella di Lancelot, infatti, non solo è una parte difficile da rendere scenicamente, ma soprattutto è lunga e difficoltosa da affrontare nota per nota: si richiede una recitazione serrata, unita ad una estrema duttilità della voce ed i pericoli per le corde allignano infidi sul pentagramma e spesso compare una buona dose di rischio. I duetti con Genièvre, poi, sfrecciano sul filo del rasoio.
Ed è così che, rendendo sulla scena un Lancelot giovanile, scattante ed eroico, Alagna si dimostra ancora una volta non solo un magnifico interprete dal fraseggio perfetto e dalla dizione impeccabile, ma, vocalmente, anche un meraviglioso funambolo, dotato della capacità di affrontare qualsiasi ostacolo che stia tra il canto francese e quello tedesco, e superarlo, evitando le distorsioni sonore ed inerpicandosi lungo una tessitura da brivido.
E’ stato detto che sembra che Chausson abbia scritto la parte di Lancelot proprio per lui. In realtà sta giusto lì la grandezza dell’interprete, che mirabilmente, al contrario, si cuce addosso una parte da far tremare i polsi. Un obiettivo scenico e vocale pienamente centrato, una performance piena anche di vitale entusiasmo, di sentimento e di umana partecipazione, nella continua, ininterrotta esplorazione da parte del celebre tenore di territori musicali inediti e senza precedenti. Debutta in quest’opera e la fa sua. Chiunque d’ora in poi possa avere il coraggio di cantare questa parte, dovrà fare i conti con Roberto Alagna, con le doti inossidabili della sua voce e con la sua straordinaria capacità di interpretazione: la sua performance parigina nei panni di Lancelot, così, diventa storica, unica e irripetibile.
Altissimo il gradimento del pubblico, soprattutto per i cantanti, che ha reso a tutti gli interpreti applausi sentiti e interminabili ed ha decretato il grande successo di questa produzione 2015 dell’Opéra National de Paris Bastille.
Extrait (traduit de l’Italien) :
« Le plus brillant de tous est le Lancelot de Roberto Alagna, qui s’approprie parfaitement, ce rôle redoutable. Ce Lancelot-là n’est pas seulement difficile à rendre scéniquement, mais surtout vocalement à chaque note : il réclame un jeu précis, allié à une extrême souplesse de la voix. Pour les cordes vocales, les chausse-trappes y sont légion et le rôle représente une bonne prise de risque. Les duos avec Genièvre se chantent sur le « fil du rasoir ». Dès lors, avec son Lancelot juvénile, fringant et héroïque, Alagna prouve, si besoin en est, quel magnifique interprète il est, au phrasé parfait , à la diction impeccable. Sur le plan vocal, il s’avère un remarquable funambule, capable d’affronter n’importe quel obstacle […] La grandeur de son interprétation est admirable, pleine de fougue et de sentiments humains. […] Poursuivant son exploration de territoires musicaux inédits et sans précédent, il débute dans cette œuvre et la fait sienne. Dorénavant, n’importe qui aura le courage de chanter cette œuvre devra compter avec l’interprétation de Roberto Alagna, avec les qualités inoxydables de sa voix, et avec son extraordinaire interprétation : sa performance parisienne de Lancelot, unique, entre désormais dans l’histoire. Une entrée au répertoire de l’ONP qui fut applaudie chaleureusement et longuement par un public très satisfait de la performance des chanteurs.
Excerpt (translated from Italian) :
“The most brilliant of all is Roberto Alagna, who perfectly owns this terrible role of Lancelot. This is not only difficult to render scenically, but especially vocally, at each note: it demands a precise acting, combined with a high vocal flexibility. For the vocal cords, the performance is tricky and implies a certain amount of risk-taking. The duets with Genievre are sung on the knife’s edge. Thus, with his youthful Lancelot, dashing and heroic, Alagna proves, if need be, what a beautiful performer he is, with a perfect phrasing, an impeccable diction. Vocally, he is an outstanding tightrope walker, able to face any obstacle […] The greatness of his interpretation is admirable, full of passion and human feelings. […] Going on to explore new and unprecedented musical frontiers, he debuts in this work and makes it his own. From now on, anyone who will have the courage to sing this work will have to reckon with Roberto Alagna’s performance, the unaltered qualities of his voice and his extraordinary interpretation: his performance as Lancelot in Paris is unique and makes history. Entering the Paris Opera repertoire, the show was applauded long and loud by an audience very pleased with the singers’ performance.

CANDIDE [William Fratti] Firenze, 3 giugno 2015.
Perciò è necessario che sia diretta da maestri concertatori di sicuro talento, sul podio di orchestre che sappiano riconoscere la differenza tra l’opera italiana e la musica contemporanea d’oltreoceano. Detto ciò la guida di John Axelrod è una certezza assoluta, provvisto di gesto saldo e vigoroso, puntuale e sicuro, nonché della giusta lettura stilistica e l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino lo segue con suoni precisi e puliti, salvo qualche piccolo e sporadico intoppo nelle trombe.
La versione andata in scena all’Opera di Firenze è quella della Scottish Opera del 1988, approntata con il consenso dello stesso Bernstein ed è un vero successo musicale. Quanto allo spettacolo, il lavoro di Francesco Micheli respira in perfetto sincrono con la direzione di John Axelrod ed è un grande piacere per lo spettatore poter assaporare un tale equilibrio tra buca e palcoscenico.
Il romanzo di Voltaire è composto di satira e filosofia ancora perfettamente attuali e che si prestano – anzi, obbligano – ad adattamenti contemporanei, pena l’assoluta mancanza di significato. Così la Vestfalia si trasforma in una fabbrica di esseri umani, costruiti con materie prime provenienti da tutto il mondo – quello visitato da Candide – tramite rapporti di import-export e in grado di soddisfare le esigenze più disparate. Una fabbrica inserita in un mercato finanziario feroce, una fabbrica parte di un mondo industriale dove ogni invenzione diventa presto obsoleta ed è messa da parte, una fabbrica dove tutti, più o meno consapevolmente, fanno parte di una grande catena di montaggio, che forse non è il “migliore dei mondi possibili”.
Il lavoro di Francesco Micheli è pressoché perfetto, poiché riesce a dare un senso – condivisibile o meno – ad ogni parola, ad ogni singola nota, muovendo con grandissima armonia non solo la lunga lista dei protagonisti e il copioso Coro del Maggio Musicale Fiorentino, ma anche un lungo stuolo di attori e figuranti, oltre ai carri di scenografia. Anche la gestualità poco teatrale, ma più realistica, contribuisce a ridurre la distanza che spesso si impone tra platea e palcoscenico. All’eccellente messinscena il resista è coadiuvato da Federica Parolini alle scene, Daniela Cernigliaro ai costumi, Angelo Linzalata alle luci, Alfonso Cayetano alla coreografia.
Keith Jameson, nei panni di Candide, è il solo cantante ad avere un minimo di liricità, di vocalità adeguata, di sapienza nel legare i suoni e nel dar senso alla parola attraverso i colori. Abbastanza adeguato, pur senza segni di spicco, è anche il Maximilian di Gary Griffiths.
Invece appare un poco limitata la Cunegonde di Laura Claycomb che a prima vista sembra dinamica e frizzante, ma guardando e ascoltando con molta attenzione ci si rende conto che tali qualità derivano dalla partitura e non dall’interprete, che presumibilmente è indisposta, comunque non in serata e inferiore rispetto a sue precedenti esibizioni. La voce è uno spillo e corre poco, le note basse non sono pervenute, quelle alte e i sopracuti talvolta riescono, talaltra sono calanti o gracchianti. E soprattutto mai si intravede il carattere bipolare del personaggio, che dovrebbe trovare il suo apice in “Glitter and be gay” tra i momenti di canto spianato e quelli di agilità.
Più attori che cantanti, risultando pertanto non completamente convincenti in termini vocali, sono il Pangloss di Richard Suart, la Paquette di Jessica Renfro e il Cacambo di Gianluca Di Lauro. Non troppo efficaci, ma comunque adeguati, i Re di Timothy Martin, Luca Casalin, Hector Guedes, Christopher Turner, Alessandro Calamai e il Ragotski di Christopher Lemmings.
Menzione a parte va riservata ai grandi di un tempo, che hanno lasciato, ciascuno nel suo repertorio, segni indelebili nella storia della lirica. Chris Merritt veste i panni di un credibilissimo Governatore e dimostra di avere ancora parecchie cartucce da sparare. Certamente non si può pretendere un canto sempre omogeneo, appoggiato e in maschera, ma può senza dubbio fare le scarpe a tanti interpreti più giovani in quanto a grinta, smalto e slancio negli acuti, oltre a grande simpatia nella recitazione. Invece Anja Silja, pur efficiente scenicamente, è vocalmente l’ombra di se stessa e con tale performance non rende certo merito all’eccellente primadonna che è stata.
Superba Lella Costa nei panni di un Voltaire al femminile dinamico e spumeggiante, in corsa sui pattini. Voce penetrante, dizione impeccabile.
Bravissimi i ballerini di MaggioDanza, gli attori e i figuranti dell’Associazione Culturale Teatro della Limonaia e i figuranti speciali.
Come sempre eccellente, anche nell’interpretazione, il Coro del Maggio Musicale Fiorentino guidato da Lorenzo Fratini, ad eccezione delle parti cantate a cappella dove, per qualche ragione, parte dei coristi esce dal seminato, ma potrebbe essere un problema di ritardo nei monitor.
Grande successo per tutti al termine dell’ultima recita dell’opera eseguita a Firenze per la prima volta.

LUCIA DI LAMMERMOOR [Lukas Franceschini] Milano, 3 giugno 2015.
Nella cosiddetta Stagione “La Scala per l’Expo”, all’interno dell’interno della programmazione 2014-2015, è stata riproposta a Milano l’opera di Gaetano Donizetti Lucia di Lammermoor nell’allestimento di Mary Zimmermann creato al Teatro Metropolitan di New York.
Il dramma tragico in due atti, su libretto di Salvatore Cammarano, non è probabilmente il migliore spartito del compositore bergamasco ma sicuramente il più celebre, mai uscito dal repertorio e cavallo di battaglia d’innumerevoli soprani e tenori.
La principale attrattiva di questa riproposta, il titolo e lo spettacolo erano stati allestiti alla Scala nel 2014, era il nome di Diana Damrau quale protagonista ma sfortunatamente alla recita cui ho assistito, il soprano tedesco era indisposta ed è stata sostituita da Elena Mosuc la quale avrebbe dovuto cantare altre recite. La signora Mosuc, che è stata un rilevante soprano in tale repertorio, ha fatto il suo debutto nel ruolo alla Scala dopo aver cambiato parzialmente il suo abituale repertorio. Le sue condizioni vocali sono ancora buone ma a mio avviso aver osato titoli non propriamente azzeccati, ad esempio Luisa Miller, hanno compromesso un organo vocale che nel repertorio lirico-leggero e di coloratura aveva dato frutti notevolmente positivi. La sua attuale Lucia risente nello specifico di un virtuosismo non più cosi mirabile e funambolico e una non più sfavillante armonia nel registro acuto. Tuttavia la sua esibizione è stata onorevole e questo spostamento interpretativo più lirico ha assunto spessore solo da punto di vista interpretativo a discapito delle grandi pagine di bravura.
Vittorio Grigolo, Edgardo presente anche nel 2014, ha fatto annunciare ad inizio recita che seppur indisposto avrebbe ugualmente sostenuto il ruolo. Non apro il discorso sulla pessima usanza di questa prassi ma rilevo che se un cantante non è in grado si sostenere il ruolo per quella recita, avrebbe il dovere di farsi sostituire, poiché alla Scala era presente il tenore del cast alternativo. In questo caso la prova di Grigolo non dovrebbe essere recensita tuttavia mi limito ad alcune considerazioni. La voce è indubbiamente bella, il fraseggio curato, l’accento pertinente, quello che tavola non convince è una palese esuberanza del tenore, anche scenicamente (ma questo forse è voluto dalla regista), che in certi titoli non si addice molto al personaggio. Nella scena finale ha dimostrato un grande senso teatrale e una positiva scansione del colore tuttavia l’intero brano era abbassato di tono date le sue non perfette condizioni fisiche.
Il Lord Enrico di Gabriele Viviani era risolto con buon mestiere anche se vocalmente più truce e violento che autentico baritono belcantista, i mezzi in tal caso dovrebbero essere più raffinati e puntare soprattutto su un’eleganza di fraseggio e stile. Alexander Tsymbalyuk pur difettando nella pronuncia è stato un onesto Raimondo, Juan José De Leon è un bravissimo Arturo, misurato e con accenti molto appropriati, si spera di ascoltarlo presto in ruoli più impegnativi, anche se è da rilevare che la sua aria nel secondo atto è tutt’altro che facile ed egli ha esibito un’ottima esecuzione. Completavano la locandina, come di prassi da qualche tempo alla Scala, due allievi dell’Accademia di Perfezionamento per Cantanti lirici del tetro alla Scala. Chiara Isotton è stata una puntuale Alisa con voce piena ben impostata, Edoardo Milletti un preciso Normanno, il quale ha saputo dare un rilievo vocale al piccolo ruolo cui comunemente non siamo più abituati.
Sul podio abbiamo ritrovato Stefano Ranzani, buon concertatore, che con lo spartito donizettiano ha particolare affinità. Infatti, abbiamo ascoltato tempi precisi e ben sostenuti, un disegno drammaturgico musicale di ottima fattura e un’impostazione orchestrale molto rilevante. Complici anche i bravissimi professori dell’orchestra che hanno seguito il maestro con esemplare disciplina. Una particolare menzione va al Coro del Teatro alla Scala, diretto da Bruno Casoni, il quale ha fornito, come il solito, una prova di altissima professionalità musicale.
Dello spettacolo non vorrei ripetermi su cose già scritte nel 2014, esso seppur ambientato nel tardo ottocento contiene soluzioni visive molto appropriate ma anche cadute di gusto imbarazzanti. Tra queste non posso non ripetere che l’intervento del medico durante la pazzia della protagonista per somministrarle un calmante con siringa è del tutto inutile, come la scenetta del fotografo che dispone i protagonisti durante il matrimonio che rovina teatralmente il celebre sestetto di assoluta rilevanza. La scena di Daniel Ostling è molto lineare e sobria ispirata alla brughiera scozzese, lascia perplessi la grande scala del III atto, d’impronta futurista. Meravigliosi per eleganza e stile i costumi di Mara Blumenfeld, anche se non ho capito perché Lucia si sposa in rosso e poi sale nella camera nunziale assieme al marito vestita di bianco.
Il pubblico ha decretato un convinto successo al termine a tutta la compagnia.

DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Vicenza, 5 giugno 2015.
La XXIV edizione delle Settimane Musicali al Teatro Oimpico ha in programma anche alcune rappresentazioni del dramma giocoso di Wolfgang Amadeus Mozart Don Giovanni, su libretto di Andrea Da Ponte.
La manifestazione vicentina è creata dal M.o Giovanni Battista Rigon, il quale ci ha abituato nel proporre versioni particolari delle opere allestite. Ricordo ad esempio la versione di Vicenza de L’italiana in Algeri di Rossini e la versione in italiano de Il ratto del Serraglio di Mozart approntata per la Scala e mai rappresentata. L’ottima preparazione musicale di Rigon è intervenuta anche nell’odierna manifestazione, si rappresenta un’opera di conclamato repertorio ma è stata scelta la versione di Vienna del 1788. Di prassi in teatro si esegue una versione ibrida che racchiude pagine sia viennesi sia di Praga, ove il dramma fu rappresentato in prima assoluta. Le differenze non sono moltissime, è omessa aria di Don Ottavio “Il mio tesoro intanto” poiché al tenore viennese differenziava vocalmente dal collega di Pragra, nel secondo atto è aggiunto il duetto “Per queste tue manine” comunemente soppresso e di rarissima esecuzione teatrale. Infine, il finale è comune credere che a Vienna l’opera terminasse con la scena Commendatore-Don Giovanni, senza il concertato degli altri interpreti sulla morale “di chi fa il mal”. Studi e supposizioni hanno confermato tale prassi ma anche che un dramma buffo non potesse non avere una sorta di finale lieto, pertanto la scelta è stata quella di eliminare il duettino tra Don Ottavio e Donna Anna ed eseguire, con alcune battute di raccordo, il coro finale “Questo è il fin di chi fa il mal”. Altra peculiarità è di affidare allo stesso cantante il ruolo di Masetto e del Commendatore, come fu nel settecento.
Un Don Giovanni non convenzionale pertanto, ma dobbiamo anche considerare che era prassi del sette-ottocento fare interpolazioni e tagli a discrezione degli esecutori e del direttore, e nel complesso questa versione non toglie nulla al capolavoro di Mozart, semmai aggiunge uno squarcio diverso alla prassi e con il pregio di ascoltare in teatro il duetto sopra citato.
Come per “Così fan tutte” dello scorso anno, è stato richiamato Lorenzo Regazzo ad assolvere il compito del regista, lui che quale cantante di Don Giovanni ne ha eseguito un buon numero. Regazzo mette molta carne al fuoco in questa lettura per alcuni versi molto interessante, per altri un po’ stereotipata. Funziona il degrado morale in cui è ambientata la vicenda, i nostri personaggi, visti anche oggi, non sono certo esempio di moralità, ma stride a mio vedere far intendere l’incesto tra Donna Anna e il Commendatore. Don Giovanni è un mito, sia letterario sia musicale, sia nel comune pensiero, e tale deve restare. Il mito poi non è certo impersonato solo da un “finto” Superman la cui cena è a base di sostanze stupefacenti. Quest’impostazione è credibile se come il regista ha voluto esprimere noi consideriamo Don Giovanni l’attuale comune mortale glorificato dalla televisione, ad esempio i reality, e pertanto la sua sovraeccitazione e una buona dose di autostima non è in se stesso ma costruita da altri. Tra questi il servo Leporello, il quale staccandosi dal servitore gretto e cialtrone, diventa quasi un maggiordomo inglese, altero, professionale, rispettoso dell’etichetta, ma nel coordinare Don Giovanni potrebbe sfogare le sue più irrefrenabili voglie. Gli altri ruotano attorno, soprattutto le donne, le quali possono essere identificate nelle isteriche fans di un belloccio di oggi, e l’ingenuità maschile è indicativa nel grullo Masetto che preferisce un giochino elettronico al “gioco voglioso” di Zerlina. Nel finale sarà lo stesso Leporello, creatore del mito, a sopprimere la sua creatura. La lettura funziona ed è ben chiara, tuttavia non è nuova, nemmeno originale e spesso, solo per mio gusto personale, non particolarmente accattivante. In tale ottica funzionano a meraviglia i costumi moderni di Maria Elena Cotti, e i pochi oggetti consentiti all’interno del Teatro Olimpico, i quali sono coerenti con la visione: una televisione, una poltrona “trono” rosso fiammante, e qualche tappeto.
Giovanni B. Rigon ha particolare predisposizione con lo spartito e anche in quest’occasione la bacchetta ha funzionato al meglio. Il direttore ha impresso un ritmo musicale rilevante, con particolare equilibrio dei generi, drammatico e comico, forgiando l’orchestra in un suono di assoluto pregio, calibrato e misurato in freschezza meritevole di plauso. Ho potuto osservare con piacere la continua evoluzione in crescita dell’Orchestra di Padova e del Veneto, in quest’occasione al meglio di quanto ascoltato finora.
Il cast rispondeva con precisione al dettame registico, riuscendo nell’insieme ad una forma teatrale di grande efficacia. Luca Dall’Amico, Don Giovanni, ha molte carte in regola per essere un buon protagonista, accento, versatilità, padronanza scenica, avesse dalla sua anche un fascino vocale più raffinato sarebbe ideale. Giovanni Furlanetto, Leporello, si è ben adattato ad una calibrata e sobria interpretazione, abbinata ad un’apprezzabile musicalità. La Donna Anna di Anna Viola dimostrava impeto e volume ma non era a suo agio nei passi d’agilità risolti con tecnica non raffinata. Migliore l’aggressiva ed “isterica” Donna Elvira di Arianna Vendittelli, particolarmente sicura nel fraseggio e con acuto facile e ben calibrato. Bravo Matteo Macchioni, Don Ottavio, virile e dalla buona linea di canto sempre perfettamente intonato. Frizzante, ironica e ben cantata la Zerlina di Minni Diodati. Particolare menzione per Abramo Rosalem, nel doppio ruolo del Commendatore e Masetto, capace di piegare un pregevole organo vocale alle diverse caratterizzazioni dei personaggi, con bellissimo pathos musicale. Il Coro Iris Ensemble ha ben figurato nei brevi interventi con precisione.
Sempre degne di nota ed interesse musicale le proposte delle Settimane Musicali di Vicenza, dove un teatro gremito al termine ha decretato un autentico successo a tutta la compagnia. Attendiamo la “novità” del prossimo anno.

IL SIGNOR BRUSCHINO [Lukas Franceschini] Vicenza, 6 giugno 2015.
Per la prima volta, salvo errore di chi scrive, alle Settimane Musicali del Teatro Olimpico sono state presentate due opere. Dopo il Don Giovanni mozartiano, è la volta della farsa di Gioachino Rossini Il Signor Bruschino.
Rossini ebbe con la città di Venezia un rapporto particolare considerato che i primi grandi trionfi, sia comici sia drammatici, furono ospitati al Teatro La Fenice, entrambi nel 1813: Tancredi e L’Italiana in Algeri. Tuttavia nello stesso periodo il pesarese compose cinque opere brevi che furono allestite al Teatro di San Moisè ma presto dimenticate, tra queste figura appunto Il Signor Bruschino, ossia il figlio per azzardo su libretto di Giuseppe Maria Foppa, il quale aveva scritto anche il libretto de La cambiale di matrimonio e L’occasione fa il ladro. Il soggetto è tratto dalla commedia Le fils par hasard, ou Ruse et folie di Alissand de Chazet e Maurice Ourry (1809). L’opera che andò in scena il 27 gennaio 1813, e fu fiasco clamoroso, lo spartito fu sostituito subito con un altro di Stefano Pavesi. Tolte un paio di riprese a Milano e una a Parigi, ove ebbe l’onore della direzione di Jacques Offenbach, Il Bruschino fu confinato nel dimenticatoio. Alcune riprese nella seconda metà del XX secolo e soprattutto le ripetute riproposte al ROF ne hanno riscattato il valore e il piacere dell’ascolto, assieme alle altre quattro “sorelle”. Bruschino è la classica opera comica di stampo settecentesco con piccolo organico strumentale, assenza di coro e un gruppo ristretto di cantanti che sviluppano la vicenda su uno scambio di persona. Trama tra le più classiche, oltre alla peculiarità che nell’esecuzione della Sinfonia è richiesto ai violini di battere ritmicamente con l’archetto sul leggio.
La produzione vista a Vicenza è una collaborazione con la Fondazione Teatro La Fenice ove è stata proposta nell’attuale stagione al Teatro Malibran. Artefice del progetto è il regista Bepi Morassi, che firma una spassosa e geniale rappresentazione, giocando soprattutto sulle qualità attoriali degli interpreti e senza rifugiarsi in astruse concezioni. Tutto è perfettamente lineare e divertente, giacché è posto in scena un modellino del teatro con i personaggi in cartoncino spostati secondo l’azione da uno stralunato servitore. Al teatro olimpico la soluzione registica è stata riadattata agli spazi e alle ristrettezze dello stabile, ma non è mancata per questo l’intuizione frizzante e divertente. Erika Muraro, scenografa, e Nathan Marin, costumista, partecipano con grande professionalità, la prima con pochi elementi ma mirati, il secondo con bellissimi costumi che illuminano la scena. Ecco un modo semplice e molto teatrale per realizzare un piccolo gioiello musicale.
Ancora una volta l’Orchestra di Padova e del Veneto è impegnata in maniera eccelsa alla realizzazione della farsa, sotto la brillante bacchetta di Giovanni Battista Rigon, che non sappiamo se apprezzare più quale concertatore rossiniano o mozartiano, tanto le forme musicali sono pienamente realizzate nei timbri, nei colori e soprattutto nel ritmo.
Ho assistito a due recite di Bruschino, nelle quali cambiavano solo i ruoli di Sofia e Florville. Paolo Ingrasciotta è un Gaudenzio sornione, bel stilizzato con voce piena e pastosa, precisissimo nel fraseggio, e rende al personaggio una vis comica di assoluta simpatia. Giulia Bolcato è una brava Sofia, sfavillante nel settore acuto, vezzosa e maliziosa nell’interpretazione, come altrettanta positiva è la prova di Medea De Anna, l’altra Sofia, cantante di ottima fattura e spigliata vocalità. Bruschino padre era un Francesco Toso con istrionico travestimento, senza eccessi ma di bella comicità abbinata ad una diligente prova musicale. Francisco Brito, Florville, per eleganza d’emissione, stile e ottimo registro acuto, sorpassa di gran lunga l’altro tenore, Elvis Fanton, ancora troppo acerbo. Bravi gli altri interpreti di fianco a cominciare dalla spassosa Ana Vicotria Pitts, Marianna, e Rui Ma, un Filiberto molto teatrale. Diego Rossetto, impegnato nel doppio ruolo di Bruschino figlio e Commissario, era un preciso cantante e un bravissimo attore.
Teatro non pienissimo, forse dovuto alle calde temperature e alle recite fissate nel fine settimana, ma prodigo di applausi al termine, meritatissimi!

FAUST [William Fratti] Torino, 12 giugno 2015.
Un grandissimo Gianandrea Noseda ha diretto con somma ispirazione il Faust di Charles Gounod al Teatro Regio di Torino e l’eccellente orchestra lo ha seguito, respirando con lui, con altrettanta grazia, dipingendo un vero e proprio quadro sinfonico ricco di colori e carico di sentimenti, elegantemente commisurato alla finezza della musica gounodiana. Suoni precisi e puliti, passaggi accurati e puntuali, forte equilibrio tra buca e palcoscenico hanno fatto il resto.
Lo spettacolo interamente firmato da Stefano Poda è pura poesia. Gran parte dell’allestimento scenico, dell’impianto di regia, dell’illuminotecnica e delle coreografie ha diverse somiglianze con La forza del destino di Parma, ma ciò non disturba, anzi sottolinea la valenza poetica del regista, che trova terreno comune nel romanticismo degli autori e dei compositori: “dopo lotte e passioni scandite dal Tempo e dal Destino, quel che rimane è la purificazione”. Poda dimostra, per l’ennesima volta, di saper fare il suo lavoro con gusto e pertinenza, abile nel governo delle masse, nella gestualità dei protagonisti, nei movimenti correttamente scanditi coi tempi, nell’uso delle luci altamente suggestive che accompagnano ogni singola nota, nei costumi ricercati ma non sovraccarichi, nei simbolismi chiari ed efficaci, perfetti nel rendere un messaggio chiaro, accanto a porte aperte alle singole emozioni e sentimenti di ogni spettatore.
Charles Castronovo è un ottimo Faust, pur privo di slanci particolarmente intensi. La voce limpida e leggera gli consente di dispiegare più che correttamente le pagine più fini della partitura, con totale attenzione alla tecnica. Il fraseggio è discreto e forse necessiterebbe di maggior eloquenza e carico emotivo per risultare più efficace. Buon uso di piani e pianissimi.
Irina Lungu è migliore nella parte di Marguerite che non in altre di sua frequentazione, ma resta una cantante dalla bella voce e tecnica precaria. Sono anni che la soprano russa calca i palcoscenici più importanti del mondo e forse, contenta della sua carriera e dei copiosi plausi del pubblico, non si è mai voluta soffermare sul miglioramento procedurale di quelle che sono le sue doti naturali. Peccato.
Ildar Abdrazakov è il bravissimo cantante di sempre, ma in Méphistophélès non è a suo agio come nei ruoli cantabili verdiani, non riuscendo a produrre la medesima morbidezza ed omogeneità nella linea di canto che solitamente lo contraddistinguono.
Vasilij Ladjuk è un buon Valentin, ma forse un po’ tenorile e la sua vocalità squilla troppo in alto per poter trasmettere un carattere incisivo e soprattutto diverso da quello di Faust.
Ketevan Kemoklidze è un’ottima Siebel, dotata di voce piena ed elegante, in grado di prodigarsi in colori e sfumature che centrano perfettamente il personaggio.
Buona riuscita anche per la Marthe di Samantha Korbey. Adeguato il Wagner di Paolo Maria Orecchia.
Superbo il Coro del Teatro Regio diretto da Claudio Fenoglio, che in questa occasione dona una delle sue migliori performance.

IL SUONO GIALLO [Lukas Franceschini] Bologna, 16 giugno 2015.
Una prima operistica assoluta commissionata dalla Fondazione Teatro Comunale di Bologna: Il suono giallo libretto e musica di Alessandro Solbiati.
In breve tempo, dopo Battistelli, ecco una nuova composizione operistica sui palcoscenici italiani. Come raccontato da lui stesso, Solbiati, ha atteso molto prima di dedicarsi all’opera, in parte per poco interesse nei confronti del genere che considerava stereotipato. Per il suo secondo componimento la scelta è caduta sul non convenzionale: una composizione scenica dell’astrattista Vasilij Kandinskij del 1914, nella quale è sviluppata l’arte creativa basata su immagini, testo e simbologia. Compositore e anche librettista ha evocato l’arte alla pura emotività rifuggendo la figurazione letterale, e rifacendosi al saggio di Kandinskij espone le forme in un prologo, sette intermezzi, sei quadri e un epilogo, nella ricerca della sincronizzazione del colore e dell’emotività. Opera pertanto non narrativa ma di filosofia sulla creazione. Solbiati compone musica molto bella, gli intermezzi in particolare, ove trova un’aura ispiratrice di sommo fascino, il quale pur seguendo la personale prassi compositiva post dodecafonica, non trae spunti di ripresa da maestri del passato, come Franco Donatoni di cui fu allievo. Rilevante la parte affidata alle masse corali che fanno ricordare certe composizioni di Luigi Nono, ma Solbiati trova una sua singolare ed innovativa scrittura personale d’ottimo risalto.
Peccato che la regia di Franco Ripa di Meana non abbia seguito la stessa linea musicale, la quale voleva solo imprimere ascolto, e suscitare sensazioni, mentre il voler coinvolgere il pubblico in una narrazione drammaturgia è, secondo che scrive, un errore che ha portato in molti a leggere le note e non riuscire a comprendere cosa si volesse esprimere o imprimere nel pubblico. Lo stesso compositore, che definisce il suo lavoro una sinfonia scenica piuttosto che un’opera, ove a mio avviso in primis vi è il caotico groviglio, anche psicologico, della creazione artistica nella pura emotività. Manca in questo spettacolo questo aspetto, e il regista ha voluto invece seguire una strada diveresa che poco possiamo condividere. Gianni Dessì, scenografo e costumista, trova invece mano felice evocando espressionismo russo ma ha dovuto piegarsi ad indicazioni superiori, ma era suggestivo il quadro finale dove una mano teneva il pungo su un contenitore giallo simbolo della creazione.
Una tale composizione non poteva avere miglior concertazione di quella che Marco Angius ha offerto a Bologna. Esperto conoscitore della musica moderna guida i cinque solisti il doppio coro e la splendida orchestra del Comunale in una mirabolante sonorità di precisissima lettura ed enfasi più sensoriale che narrativa. Del bravissimo Coro del Comunale, istruito da Andrea Faidutti, in parte ho detto ma sottolineo ancora la splendida prova anche in duttilità stilistica, i cinque solisti, Alda Caielllo, Laura Catrani, Paolo Antognetti, Maurizio Leoni, e Nicholas Isherwood, sono stati di estrema precisione musicale in un canto di difficile intonazione senza mai fallire colpo.
Infine, una ammenda al pubblico bolognese. Le quattro recite previste erano tutte in abbonamento, io ho assistito alla terza replica turno A, il teatro era pressoché deserto, reputo grave non volgere l’orecchio anche a nuovi orizzonti, i quali possono piacere o meno, personalmente non entusiasmanti, ma costituiscono l’accrescere della nostra cultura musicale.

CAVALLERIA RUSTICANA – PAGLIACCI [Lukas Franceschini] Milano, 17 giugno 2015.
Al Teatro alla Scala è stato ripreso il classico dittico Cavalleria Rusticana e Pagliacci nello splendido allestimento del 2011 con la regia di Mario Martone.
Seppur nate quasi contemporaneamente, Cavalleria a Roma nel 1890 e Pagliacci a Milano nel 1892, i due atti unici operistici sono l’emblema del verismo musicale italiano e della Giovane Scuola del melodramma, per questo sono stati da subito anche accoppiati nella programmazione teatrale. Se nello spartito di Mascagni prevalgono le scene drammatiche e l’orchestra ha la funzione narrativa tratteggiando l’ambiente e la situazione con una rilevante forza emotiva è in Pagliacci che notiamo un elemento innovativo di assoluta novità: lo scambio della situazione tra vita e teatro, il quale rende ancor più tragica e veritiera la forza drammatica dell’opera, la quale è anche caratterizzata da un effetto popolaresco e folkloristico ad esempio i saltimbanchi che gironzolano attorno alla vita dei teatranti girovaghi.
Come in occasione della prima messa in scena non posso che dare un giudizio positivo sulla realizzazione di questi spettacoli. Mario Martone centra come pochi altri registi il senso narrativo delle due opere. In Cavalleria s’imprime con forza il maschilismo nelle tradizioni siciliane, infatti, durante il preludio vediamo una classica casa di tolleranza frequentata da clienti abitudinari tra cui Alfio, lo stesso che poi sfida col sangue colui il quale ha osato disonorare il tetto coniugale. Nel corso dell’opera, che si svolge nel giorno di Pasqua, assistiamo ad un coro quasi immobile seduto di spalle al pubblico perché intento a seguire la funzione religiosa. Di fronte a questa visione le varie scene si susseguono con una forza drammatica impressionante ove si mescola il sacro con il profano. In tale visione il gesto registico imprime una straordinaria emotività, cui i cantanti sono partecipi in misura assoluta. Bellissima la scena finale quando una voce annuncia l’assassinio di Turiddu e Santuzza passi davanti al coro maschile schierato sulla sinistra con sguardo di sfida contro le convenzioni della tradizione locale.
Pagliacci ha invece un’ambientazione moderna, il femminicidio per gelosia non è cosa nuova nel teatro e purtroppo oggigiorno di troppa attualità. I circensi sono degli emarginati nella società che si esibiscono per pochi soldi nelle periferie urbane, la scena è delimitata da un imponente rampa stradale di una tangenziale. In un ambiente degradato e ai limiti della legalità, così s’intuisce, si sviluppa l’intreccio amoroso tra Nedda e Silvio, questi che potrebbe essere un arricchito industriale con tanto di Bmv, tale situazione degenera nel teatrino finale cosi spoglio e riduttivo che imprime ancor più senso di desolazione sociale. La mano registica funzionalissima anche in questo caso, imprime il doppio rapporto vita teatro coinvolgendo la scena nella platea del teatro ove siede Silvio ed è trucidato dall’inferocito e geloso Canio. Raramente capita di veder realizzate le due opere con cosi eccellente vigore e drammatica narrazione che coinvolge lo spettator in un sol fiato. Artefici assieme al bravo regista sono l’eccellente Sergio Tramonti per la scenografia, e l’encomiabile Ursula Patzak che realizza costumi di alto taglio sartoriale, neri e tradizionali per Cavalleria, moderni con quel tocco meraviglioso di volgare per Pagliacci, senza dimenticare l’ottimo apporto di Pasquale Mari alle luci.
Carlo Rizzi dirige entrambe le opere con sostanziale routine, svolge il suo compito e tiene assieme la scena. Mancano purtroppo uno slancio emotivo, un colore orchestrale vivo, e un tema narrativo che probabilmente in tale repertorio gli sono sconosciuti. Il Coro del Teatro alla Scala e il Coro di Voci bianche sono puntualissimi e molto precisi perché preparati da Bruno Casoni.
Violeta Urmana avrebbe tutte le caratteristiche per essere una validissima Santuzza, e lo è stata anche, ma il tempo passa, cui va aggiunto il continuo passaggio a ruoli di soprano e mezzosoprano, pertanto il registro acuto è compromesso per non dire sfaldato e rasente al grido. Peccato perché la zona centrale è ancora robusta e l’aderenza al personaggio esemplare. Stefano La Colla, dopo il successo in Turandot, ha confermato le sue buone capacità anche in Turiddu, ove ha dimostrato ottima musicalità e buone doti interpretative, le quali sono state rese anche da Marco Vratogna, però la voce è sfasata, sovente nasale e con difficoltà nel passaggio. Completavano la locandina Oksana Volkova, Lola, più espressiva nel fisico che nella voce e la veterana Mara Zampieri quale mamma Lucia.
In Pagliacci, Marco Berti era un Canio stentoreo ed incolore, propenso ad un canto di forza senza anima, fraseggio e colore. Diversa la valutazione di Fiorenza Cedolins, la quale ha perso lo sfavillante e suggestivo smalto di un tempo, ma in un ruolo come quello di Nedda riesce pur con una voce dura e talvolta artificiosa ad essere credibile e ritagliarsi un meritato plauso anche per le doti interpretative. A Marco Vratogna Tonio calzerebbe a pennello per aderenza stilistica ed impeto interpretativo ma i problemi espressi in Cavalleria sono identici soprattutto nell’arioso del prologo. Simone Piazzola è l’unico che dimostra una linea di canto e una voce integra, avesse avuto suggerimenti più incalzanti dalla direzione, sarebbe stato ancor più coinvolgente in un duetto che potrebbe essere stato più passionale.
Discreta la prestazione di Juan José Leon (Peppe) e corretti i due contadini interpretati da Bruno Gaudenzi e Michele Mauro. Spettacolari il gruppo di acrobati che hanno ravvivato la scena con acrobazie strepitose.

NABUCCO [Lukas Franceschini] Verona, 19 giugno 2015.
Serata fredda e fortunata quella dell’inaugurazione del 93° Opera Festival all’Arena di Verona, nella quale è stata rappresentata l’opera Nabucco di Giuseppe Verdi.
Fredda perché a un’ora circa dall’inizio una pioggia insistente è scesa sulla città, determinando un verticale abbassamento della temperatura e un ritardo sull’orario previsto di circa un quarto d’ora. Fortunata perché la rappresentazione si è svoltasenza nuove interruzioni, anche se guastate da un forte gelido vento.
Stagione con nessuna nuova produzione, scelta doverosa e giusta considerata l’attuale situazione economica, pertanto la direzione artistica ha scelto i titoli tra i migliori allestimenti prodotti negli anni precedenti e ancora utilizzabili. Tra questi Nabucco, creato da Rinaldo Olivieri nel 1991, è una delle migliori realizzazioni degli ultimi anni. Riallestita in seguito nel 2011 sui bozzetti originali dello scenografo e con la regia di Gianfranco De Bosio, ha avuto un successo incontrastato, tanto da meritare l’inaugurazione odierna. Allestimento classico nel solco della tradizione, che rilevo non è un demerito, costituito al centro da una grande torre di Babilonia, che si apre con grande effetto scenografico nel finale, ai lati delle balconate ricoperte di drappi e bracieri, scale ed elementi girevoli che creano l’ambientazione dei quattro atti. Una visione realistica, precisa e di grande spettacolo “areniano”. L’unica pecca consiste negli interminabili tre intervalli, si sarebbe potuto suddividere l’opera in due parti, con tempi più accettabili.
La regia di De Bosio ricalca il progetto originale con molta classicità, avrebbe invece potuto rivedere l’impianto e realizzare qualche modifica o trovare altre chiavi di lettura in occasione di una proposta così importante. Tuttavia non demerita e il regista coglie tutti gli aspetti drammaturgici della vicenda in stile vecchia scuola ed innato gusto teatrale.
Riccardo Frizza dirigeva con controllata misura, tenendo ben saldo il rapporto buca-palcoscenico, tuttavia gli mancava quel nervo tipico del primo Verdi, che avrebbe dovuto formulare in tempi più incalzanti e vigorosi. Opinabile la scelta di non ripetere i da capo delle cabalette.
Ottima la performance del Coro diretto da Salvo Sgrò, puntuale, preciso e non mancando l’appuntamento con il celebre “Va pensiero” eseguito con grande classe, anche se bissato senza giusto motivo.
Protagonista era il baritono Luca Salsi, un Nabucco che avrebbe dalla sua un materiale vocale di primissimo valore e un’idea teatrale rilevante, ma la voce non è mai particolarmente proiettata, tendenzialmente gonfiata, talvolta nasale e con un settore acuto ridimensionato, almeno in quest’occasione. Martina Serafin era decisamente fuori ruolo per un personaggio come Abigaille che vocalmente mette a dura prova qualsiasi interprete. In primis ritengo che la scelta sia stata azzardata poiché la signora Serafin non ha dalla sua un grave di spessore e il registro acuto è totalmente sfasato e rasente al grido. Dovendo pertanto poggiare su due estremi a lei non particolarmente felici, la prova non è stata positiva, anche se bisogna riconoscerle un buon temperamento e molte belle intenzioni purtroppo rimaste incomplete.
Dmitry Beloselsky, Zaccaria, vanta una notevole proprietà stilistica e una voce di primo piano che gli hanno permesso di realizzare un personaggio credibile e di grande peso interpretativo. Nino Surguladze era una corretta Fenena, bravissimo Piero Pretti nel ruolo di Ismaele, tenore squillante, musicale e di estrema perizia vocale. Improbabile il Gran Sacerdote di Belo di Alessandro Guerzoni, gutturale e sfocato. Completavano la locandina con professionalità Francesco Pittari, Abdallo, e Madina Karbell quale Anna.
Anfiteatro delle grandi occasioni, non al completo numericamente, erano vuote le due ali di gradinata, con qualche defezione dopo il bis del coro, ma trionfante a termine spettacolo con numerosi e prolungati applausi.

PELLÉAS ET MÉLISANDE [Lukas Franceschini] Firenze, 21 giugno 2015.
E’ fatto molto raro uscire da una recita teatrale operistica ed essere totalmente inebriati per l’esito felice della rappresentazione, sotto tutti gli aspetti: musicali, canori, visivi. E’ accaduto domenica al Teatro dell’Opera di Firenze assistendo alla seconda recita di Pelléas et Mélisande di Claude Debussy ultimo titolo operistico in programma al 78° Maggio Musicale Fiorentino.
Nel brevissimo catalogo operistico di Debussy, Pelléas et Mélisande occupa il vertice ma potremo affermare che la stessa posizione è anche all’interno della musica del ‘900. Lo stile sia compositivo sia drammatico dell’autore è inteso come esplorazione dell’inconscio in cui la musica governa un percorso parallelo ed affine con il testo, celebrazione di contenuti intimisti all’interno del sogno e anche più. Debussy lavorò all’opera per quasi un decennio producendo un linguaggio sotterraneo nel quale le emozioni sono sempre trattenute prima di una deflagrazione finale. Tali emozioni sono avvolte da una fitta rete di analogie, con la natura vegetale acquea, con le proprietà dell’atmosfera e gli echi delle sensazioni che circondano i personaggi, i quali sono depistati e senza meta in un affresco nebbioso, composto sugli effetti di un’orchestrazione rarefatta. La declamazione arcana è rievocata come da antiche trascrizioni, appena sussurrata. L’argomento è malioso e disperato e la conclusione sconfortante contribuisce a rendere l’idea della condizione dell’uomo solo e combattuto. Tuttavia è una storia d’amore nelle cui zone d’ombra si scende nell’abisso dei sentimenti e dei rapporti, ciò che accade, accade per una volontà che non conosciamo. Indicativa per capire tale concezione di teatro è la conversazione che Debussy ebbe con Ernest Giraud: “Il poeta ideale, l’unico per il quale scrivere musica teatrale, è qualcuno capace di dire le cose a metà e di creare una storia senza luogo e senza tempo. Sogno un poema drammatico che non mi condanni a degli atti lunghi e pesanti, che mi fornisca delle scene mobili di carattere molto diverso fra loro, in cui i personaggi non discutono, ma subiscono la vita e il destino”.
Questa produzione è il fiore all’occhiello non solo del Maggio Musicale 2015 ma dell’intero catalogo del regista Daniele Abbado. Egli, assieme all’ottimo scenografo e light designer Gianni Carluccio, crea un ambiente surreale composto di un semicerchio a pedana, credo volutamente scivolosa, la quale è sovente ricoperta da un arco che collocandosi forma una sorta di grande occhio da cui lo spettatore osserva le estatiche e drammatiche vicende dell’amore tra Pelléas e Mélisande con le conseguenze che sappiamo. Tale visione si sviluppa in seguito fino ad aprirsi per creare con impalcature altre visioni, sempre in un paesaggio stellato e notturno, ambientazioni di grande efficacia drammatica come nel duetto della torre risolto con garbo dal regista che non fa indossare una parrucca a Mélisande ma la invita a calare parte del lungo bianco costume nel quale si avvinghia Pelléas. Nella regia si apprezza la cesellata gestualità della recitazione che si sposa magnificamente al contesto musicale e drammaturgico. Ciò è rappresentato da un Pelléas quasi trasognato all’inizio, dalla delicatezza della compita Mélisande, dalla metamorfosi di Golaud, l’austerità di Arkel e la rincuorante figura di Geneviève, soprattutto nell’ultimo atto quando senza canto porta la bimba al capezzale della protagonista con una dolcezza commuovente. Bellissimi i costumi di Francesca Livia Sartori, eleganti e monocromatici, senza un’identità stilistica precisa. Uno spettacolo che appassiona, commuove e catalizza, tanto ogni piccolo aspetto è curato nei minimi dettagli, in funzione di musica e teatro.
Altro artefice di questo grandioso successo è il direttore Daniele Gatti, il quale mi ha letteralmente sbalordito tanto la sua lettura analitica e penetrante è ricca di fascino. Guida con mano elegante un’orchestra aurea, ottiene ogni singolo dettaglio dai bravissimi professori del Maggio, cesella alla perfezione un linguaggio musicale dei più delicati senza mai sovrapporre l’orchestra alle voci, la melodia è leggera, palpabile e dolente, sempre sul filo dell’equilibrio della linea di contorno di una concertazione precisissima.
Il cast è tutto italiano. Una peculiarità rara per un repertorio generalmente affidato ai madrelingua. Anche in questo caso ci troviamo nella rarità di una locandina d’interpreti totalmente mirabile e perfettamente adeguati al loro compito. Paolo Fanale è un Pelléas che vocalmente sfoggia il suo pregiato timbro in un ruolo tendenzialmente più grave, lo fa con passione, ricchezza di armonici ed impeto delicato ma umano. Monica Bacelli cesella la delicata Mélisande con altrettanta perizia, capace di non cadere nel facile uso della ragazza confusa e smarrita ma donna che reprime sentimenti celati, i quali sono resi con una manierata ed incantevole vocalità. Roberto Frontali sa adoperare una voce ancora molto ricca di armonici nella complessa sfaccettatura del personaggio i Golaud, dapprima distaccato ma conquistato dalla giovane sposa, in seguito tormentato dalla gelosia, senza scadere nel facile espressionismo “verista”, nel finale è dolente e colpito dal rimorso con stile ed espressione di viva commozione. L’Arkel di Roberto Scandiuzzi emerge per la ricchezza del fraseggio abbinato ad un’umanità interpretativa di rigore antologico. Sonia Ganassi interpreta una Geneviève di grande fascino, tracciando con pianissimi eccellenti ed introspettiva comunicabilità una madre premurosa e dolente. Il giovane soprano Silvia Frigato dona il piccolo Yniod una figura teatralmente irreprensibile e commisurata ad una resa vocale limpida ed omogena. Nel doppio ruolo del pastore e del medico Andrea Mastroni si aggrega all’ottimo livello del cast, dimostrando una vocalità duttile, armoniosa e di grande effetto, in particolare nel finale, interpretando un medico di ottima fattura.
Successo pieno e condiviso a tutta la compagnia con scroscianti applausi al termine, peccato che il teatro non era molto gremito, i fiorentini, e non solo, hanno perso una grande serata di musica, canto e dramma.

PELLÉAS ET MÉLISANDE [Renata Fantoni e William Fratti] Firenze, 23 giugno 2015.
Mettere in scena un gigante come Pelléas et Mélisande non è compito facile e al Maggio Musicale Fiorentino è da riconoscersi il merito di essere sempre in grado di proporre titoli di una certa ricercatezza, con una riuscita sempre dignitosa, talvolta addirittura superlativa, come accaduto per il dramma lirico da poco eseguito. In questa occasione è stata composta una squadra di artisti interamente italiani molto ben omogenea, capitanata da Gatti e Abbado, che hanno saputo creare uno spettacolo di altissimo spessore culturale sotto ogni punto di vista. Protagonista indiscusso di questo poema sinfonico è certamente l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino diretta da Daniele Gatti che si prodiga in un suono pulitissimo, precisissimo, giocato sui cromatismi dei piani nelle prime scene per sfogarsi al compimento del dramma e poi tornare ad essere trasognante, descrittivo di uno stato dell’essere profondo e quasi celato al mondo dei vivi, come un subconscio mai visto, mai percepito, ma che guida inesorabilmente la vita e i destini dei personaggi prima e degli spettatori poi, infiltrandosi in ognuno come un virus violentissimo.
Riuscitissimo è anche lo spettacolo ideato da Daniele Abbado, con scene e luci di Gianni Carluccio e costumi di Francesca Livia Sartori, che sa muoversi e danzare dentro e fuori dal simbolismo, per come è conosciuto, per spingersi al simbolico, suggestivo e allusivo, elegante e raffinato, ma soprattutto ben omogeneo, ad eccezione del finale quarto, dove il bacio e l’omicidio sono troppo realistici in uno spettacolo che diversamente si è sviluppato come un sogno o un delirio. A parte ciò si può affermare, senza ombra di dubbio, che sia uno degli spettacoli più belli e meglio riusciti degli ultimi anni, che certamente meriterebbe un oscar alla fotografia: la gestualità e l’espressività dei protagonisti efficacemente illuminata e superbamente inserita nella scenografia fa, di ogni tableau, un vero e proprio capolavoro plastico.
La voce piena e rotonda di Monica Bacelli dona al personaggio di Mélisande un carattere più compiuto di quanto non ci si aspetti, pur restando un ruolo tipicamente etereo, onirico, quasi fiabesco. L’accompagna l’eccellente Pelléas di Paolo Fanale che sfoggia delle note baritonali da fare invidia ed in questa sede rappresenta l’esempio lamante che il baritenore non è – come spesso erroneamente creduto – un tenore corto, bensì un tenore lirico che, mantenendosi leggero lungo una partitura che lo permetta e lo preveda, scende verso il basso in maniera naturale, senza ingrossare e forzare i suoni di petto. Precisissimi i suoi attacchi, pulitissimi i suoni, raffinato il fraseggio, elegante il personaggio.
Superbi gli accenti drammatici di Roberto Frontali nei panni di Goulad, unico ruolo che in alcuni momenti fuoriesce dal simbolismo per affacciarsi al realismo con i suoi eccessi d’ira e la sua gelosia accentuata.
Cavernoso e magistrale è l’autorevole Arkël di Roberto Scandiuzzi, che sa esprimere perfettamente le caratteristiche da oltretomba da fiaba noir dell’Allemonde su cui governa, pur perdendosi un paio di volte in qualche nota non ben appoggiata. Di buon contorno la Geneviève di Sonia Ganassi, che sembra qui trovarsi particolarmente a suo agio, tanto nel canto elegiaco, quanto nel nobile e toccante personaggio.
Ben centrato è il ruolo en travesti del giovane Yniold. Silvia Frigato ne dà prova sia vocalmente, chiara e limpida, sia nella recitazione, sicuramente riuscita in modo ottimale. Molto efficacie è anche Andrea Mastroni, soprattutto nei panni del medico, dove le frasi profonde obbligano alla presa di coscienza di quanto sta accadendo.
Entusiastico successo per tutti al termine dello spettacolo.

TOSCA [Lukas Franceschini] Verona, 26 giugno 2015.
Il terzo titolo in cartellone al 93° Opera Festival all’Arena di Verona è stato il capolavoro di Giacomo Puccini Tosca, tratta dal dramma omonimo di Victorien Sardou.
Avrebbe dovuto dirigere le sei recite previste il M.o Julian Kovatchev, il quale purtroppo ha avuto un serio malore durante una prova a tre giorni dalla prima. Al maestro, tuttora ricoverato in terapia intensiva nell’ospedale veronese, va il nostro più fraterno e sincero augurio di pronta guarigione. La Fondazione Arena si è trovata a dover recuperare un sostituto in ventiquattr’ore, compito non certo facile. Il M.o Riccardo Frizza, già impegnato per le recite di Nabucco, ha dato la sua disponibilità e pertanto seppur in extremis la situazione è stata risolta. Subentrando al collega, immagino con solo una lettura e una prova, sospendiamo il giudizio sulla concertazione di Frizza, sulla quale non sarebbe corretto esprimere giudizi. Tuttavia, è doveroso rilevare che il maestro ha portato a termine la rappresentazione con decorosa esecuzione e un attento rapporto tra buca e palcoscenico, anche se le parti d’assieme erano sfasate soprattutto per un peso orchestrale eccessivo, come il Te Deum e la cantata di Tosca fuori scena del secondo atto. Il Coro dell’Arena di Verona era ben preparato da Salvo Sgrò, ma con il poco tempo a disposizione non ha trovato un buon equilibrio con l’orchestra.
Protagonista era il soprano Hui He, che con Tosca ha particolare rapporto essendo suo cavallo di battaglia. Il soprano cinese ma veronese d’adozione, era in forma vocale smagliante e ha saputo superare tutte le difficoltà della parte con perizia ed eleganza, sfoggiando una voce piena e ricca di colore. Se proprio un appunto bisogna rivolgerle potremo dire che talvolta la dizione non era perfetta e la resa scenica lievemente scarsa ma Hui He è uno dei migliori soprani in questo repertorio e la “sua” Tosca è una garanzia di livello nell’attuale panorama lirico.
Delude il Cavaradossi di Marco Berti per problemi d’intonazione, voce non poggiata tecnicamente, un acuto sempre forzato, povero di sensualità e colore. Tali mancanze le abbiamo evidenziate anche nelle recenti recite di Pagliacci alla Scala, ma in occasione di Tosca si sono accentuate probabilmente per le due produzioni accavallate.
Non entusiasma neppure Marco Vratogna che impersona uno Scarpia piuttosto volgare e con una vocalità non calibrata, sfasato nel registro acuto, dissestato nel passaggio. Peccato perché il timbro è interessante e avrebbe le potenzialità per disegnare un ottimo personaggio.
Federico Longhi, il sagrestano, si ritaglia un successo personale caratterizzando il ruolo con proprietà di stile ed efficacia musicale. Buone le parti di fianco a cominciare dal preciso e calibrato Spoletta di Paolo Antognetti, dell’ottimo Sciarrone di Nicolò Ceriani, il bravo carceriere di Romano Dal Zovo, il corretto pastorello di Federico Florio, meno incisivo l’Angelotti di Deyan Vatchkov.
Lo spettacolo di Hugo de Ana, autore anche di scene costumi, è tuttora uno dei migliori allestimenti presentati in Arena negli ultimi anni. Tradizionale ma imponente, la scena è delimitata da una grande grata apribile sul retro, al centro una grande testa d’angelo, ai lati una mano con appoggiato un rosario e un’altra mano che impugna una spada. In questo gioco di simbolismo, potere, destino, autorità, vendetta, si muovono con grande realismo teatrale i personaggi. Di grande effetto i cannoni che sparano a salve nel Te Deum. Non si saprebbero trovare aggettivi superlativi per descrivere gli splendidi costumi, in particolare quello di Tosca, rosso porpora con lunghissimo strascico, nel secondo atto.
Anfiteatro con parecchi vuoti per un titolo di repertorio come Tosca, il pubblico ha comunque tributato un buon successo a tutta la compagnia.

TOSCA [Lukas Franceschini] Milano, 27 giugno 2015.
Tosca di Giacomo Puccini è il terzo titolo in cartellone al Teatro alla Scala nell’ambito della programmazione “La Scala per Expo”.
Lo spettacolo, alla terza ripresa milanese, è quello creato nel 2010 Luc Bondy, Richard Peduzzi e Milena Canonero in una coproduzione tra Scala, Metropolitan e Opera di Stato della Baviera. Il giudizio sull’allestimento non è differente da quanto scrissi al tempo della prima scaligera, un’ambientazione poco affascinante, una chiave di lettura registica con molte scivolate di gusto, che nell’insieme non rendono giustizia al capolavoro pucciniano. Luc Bondy nelle note di regia spiega che l’opera si erge su tre elementi: sesso, intrigo politico e passione femminile. Non possiamo che concordare, tuttavia come sono risolti tali aspetti dal regista, pongono molte perplessità. La frenesia del barone Scarpia è stata volgarizzata da una scena di sesso esplicito nel secondo atto, la sua sala da pranzo è frequentata da ragazze squillo dedite al piacere carnale. Che Scarpia non fosse un moralista ma un potente monarchico del Papa e con morale corrotta era evidente e rendere questa visione è alquanto scontata e senza senso. Non è risolta la sua figura ambigua, la quale è ridotta ad affamato e allupato uomo, visione poco rispettosa del ruolo nobile che impersona. Il potere temporale ecclesiastico è poco rilevato da un Te Deum non enfatizzato ma realizzato in misura ridotta. L’aspetto passionale dell’amore tra Cavaradossi e Tosca appena abbozzato, infine ridicola la scena che un condannato a morte abbia voglia di giocare a scacchi nell’attesa dell’esecuzione. Richard Peduzzi ci ha da sempre abituato a grandi spazi con muri, in questo caso del tutto superfluo, le chiese di Roma sono principalmente barocche, e la solita visione a mattone ormai è superata da oltre trent’anni. Poco funzionali le luci di Michael Bauer. Unica autrice di rilievo è Milena Canonero, che disegna costumi di gran pregio, sovente monocromatici ma di rilevante fattura e pregio sartoriale. Uno spettacolo che non piacque a suo tempo e non convince neppure ora, ma purtroppo la Scala dovrà utilizzarlo ancora qualche anno per ammortizzare i costi.
Il direttore Carlo Rizzi era più ispirato in questa direzione rispetto ai recenti Cavalleria-Pagliacci, perché almeno ha avuto il coraggio di far respirare l’orchestra e trovare alcuni spunti drammatici ma resta tuttavia nel solco della routine che sovente scivola nella noia per non aver inciso particolari colori e una drammaticità musicale doverosa negli spartiti pucciniani.
Protagonista era Béatrice Uria Monzon, mezzosoprano che avevamo udito in alcune Carmen oltre un decennio addietro e che pensavamo sparita dai cartelloni teatrali, almeno quelli di rango. E’ stata riesumata per questa ripresa ma la signora ormai ha una voce molto compromessa, dura, gutturale e sovente poco intonata. Troppo poco per una delle eroine più sensuali e veementi del teatro d’opera. Scenicamente era anche credibile ma era poca cosa.
Zeljko Lucic si esibiva nel suo solito Scarpia volgare e con voce ormai ridotta, che gli consente solo un canto di forza senza accenti e colori. Pertanto emergeva il Cavaradossi di Fabio Sartori, il quale ha dalla sua una tenuta vocale sicuramente prodigiosa, ma come espresso più volte manca di colore, scansione, fraseggi, per un personaggio come il pittore è un po’ riduttivo, ma almeno non abbiamo udito suoni brutti e nel complesso realizzava un personaggio credibile.
I veri bravi cantati di questa produzione erano le parti secondarie. Matteo Pierone era un sagrestano di rango ben realizzato che non cadeva nella solita macchietta. Alessandro Spina e Blagoj Nacoski rispettivamente un Angelotti e un Spoletta di lusso, precisi, musicali e ottimi attori. Non da meno il Sciarrone di Frano Lufi, il carcerire di Ernesto Pannariello e il pastore di Emma Gori. Ottima la partecipazione del Coro della Scala e del Coro Voci Bianche ben istruiti da Bruno Casoni.
Tosca è titolo di repertorio, pertanto teatro esaurito in ogni ordine, pubblico sostanzialmente soddisfatto al termine.

JUDITHA TRIUMPHANS [Lukas Franceschini] Venezia, 30 giugno 2015.
Al Teatro La Fenice di Venezia è stato rappresentato in forma scenica l’oratorio militare sacro Juditha Triumphans Devicta Holofernis Barbarie di Antonio Vivaldi.
E’ la seconda volta che la composizione è rappresentata a Venezia sempre in forma scenica, la prima fu nel 1958 nella revisione di musicale di Vito Frazzi e diretto da Renato Fasano.
Quasi tutti gli oratori sono adattabili alla forma scenica, poiché la drammaturgia è sviluppata nella tipica forma dell’opera. La prassi vorrebbe che l’esecuzione fosse in forma concertante, ma a mio avviso è molto più suggestiva la realizzazione teatrale, bene ha fatto dunque il direttore artistico della Fenice, Fortunato Ortombina, a programmare lo spettacolo.
Juditha è uno spartito “di propaganda” come ben evidenziato nel programma di sala da Tarciso Balbo. Nel 1716 la Repubblica Veneziana era nuovamente in guerra con turchi, conflitto che vide vittoriosi i veneti con l’aiuto dell’Impero Asburgico. La Musica a Venezia era uno strumento portante della cultura e pertanto anche il più autorevole compositore del tempo contribuisce allo sforzo bellico con un oratorio in latino che tratta le vicende della biblica Giuditta la quale seduce il condottiero assiro Oloferne decapitandolo nel sonno, in tal modo riesce a liberare la città israelita di Betulia. Il soggetto non era nuovo a composizioni operistiche ed oratoriali, prima di Vivaldi si erano adoperati Marc’Antonio Ziani, Alessandro Scarlatti, dopo Nicolò Jommelli e Wolfgang Amadeus Mozart. Il pubblico di Venezia che nel 1716 assistette alla prima rappresentazione di Juditha nella Chiesa della Pietà, sede delle “Figlie di Choro dell’Ospedale della Pietà” e per loro composta, coglieva da subito il parallelismo tra i personaggi della vicenda rappresentata e le fazioni nella guerra reale tra turchi e veneziani. Come citato nel poemetto allegorico posto alla fine del libretto Giuditta rappresenta Venezia, Oloferne il sultano di Costantinopoli, Ambra (ancella di Giuditta) e Vagaus (servo eunuco di Oloferne) incarnano rispettivamente la fede e il comandate delle truppe turche. Betulia rappresenta la Chiesa, Ozias il sommo pontefice e il coro delle vergini la cristianità.
Esiste un solo manoscritto superstite dell’oratorio, conservato nel Fondo Foà della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, nel quale manca una sinfonia introduttiva, riportando invece due versioni alternative per le arie di Vagaus. Vivaldi in questa composizione utilizza un ensemble strumentale grandioso e che al tempo costituiva orgoglio per l’ospedale della Pietà. Sono presenti trombe e timpani che evidenzino il tono militare, oltre ai consueti archi e fiati, una viola ‘amore (strumento ricercato al tempo), tiorbe, cembalo, salmoè (strumento ad ancia simile al clarinetto), un mandolino solista, due claeren, (prototipo di clarinetto da suono aspro) e cinque viole “all’inglese” (simili alla viola d’amore con l’aggiunta di corde di risonanza).
L’allestimento ideato dalla regista Elena Barbalich è stato efficace nella sua semplicità, soprattutto nel cercare una pulizia drammaturgica con movenze classiche rivisitate su molteplici citazioni pittoriche. Più efficace e coinvolgente la seconda parte, mentre nella prima si denotava una sostanziale staticità. Tuttavia il lavoro della regista è rilevante anche per aver voluto imprimere una dimensione evocativa, sovente sottolineato con bellissime luci, ottimo in tal senso l’apporto di Fabio Berettin.
Come dalla stessa Barbalich scritto nelle note la contrapposizione tra mondo Cristiano e quello infedele turco non è completato per non creare possibili riferimenti alla drammatica attualità delle guerre di religione. Scelta opinabile e non del tutto condivisibile, ma comprendiamo il gesto di non voler gettare “benzina sul fuoco”. Lo scenografo Massimo Cecchetto ha creato una scena fissa, di ambientazione astratta ma efficacemente aiutata da variegati fasci di luci. Ai lati delle passerelle che fanno da cassa armonica all’orchestra, la quale è posta al livello della platea come di consuetudine nel ‘700. Anche i costumi di Tommaso Lagottolla sono ispirati al classicismo e denotano fine mano sartoriale con colori appropriati.
Il direttore Alessandro De Marchi ha diretto con mano anche pertinente e filologica ma preferendo tempi lenti in un taglio drammatico pomposo ed equilibrato piuttosto che privilegiare la strumentazione barocca. H aggiunto una sinfonia per ricostruire la struttura originale, pur non avendo a disposizione uno spartito completo, ma come è noto sovente gli autori attingevano a propri lavori precedenti inserendoli nelle nuove composizioni. L’orchestra della Fenice, che in questi anni è migliorata molto, è ancora acerba per la scrittura barocca, infatti, abbiamo udito soventi stonature e una linea orchestrale molto discutibile ai giorni nostri, avrebbero dovuto implementarsi con strumentisti più consoni al repertorio. Il coro femminile ha fornito una prova più che onorevole.
Protagonista era Manuela Custer, la quale presumo non sia stata in particolare serata di grazia. L’artista che conosco da anni era quasi irriconoscibile in un canto non stilizzato e con suoni gravi marcatamente forzati. Validissima dal punto di vista interpretativo, spero sia stato un momentaneo periodo non felice vocalmente. Teresa Iervolino, Holofernes, si disimpegnava sufficientemente ma dovrebbe trovare più armonia nei colori. Vera trionfatrice della serata è stata Paola Gardina, Vagaus, la quale attraverso la sua duttile voce, tutta omogenea nei registi, e una solida tecnica vocale nelle agilità, ha disegnato un personaggio superlativo, e nell’aria “Armatae face et abguibus” ha ottenuto un meritato trionfo. Precisa e musicale l’Abra di Giulia Semenzato mentre ha destato qualche perplessità la voce intubata e non perfettamente appoggiata Francesca Ascioti che interpretava Ozias.
Teatro esaurito in ogni ordine di posto e successo pieno al termine delle due ore e mezzo di rappresentazione.

DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Verona, 4 luglio 2015.
Ritorna all’Arena l’opera Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart nell’allestimento curato da Franco Zeffirelli per l’inaugurazione del 2012.
Affronto per primo un argomento che ha fatto molto discutere: la messa in scena di tale titolo in un luogo all’aperto, in aggiunta con recitativi accompagnati al clavicembalo. Per nessuna opera lirica l’ideale sarebbe uno spazio all’aperto, poiché sotto l’aspetto musicale molti particolari vanno perduti, tuttavia vi sono luoghi che possono essere definiti storici nei quali la tradizione è ultra consolidata e pertanto non è il caso di porre limiti troppo restrittivi. Coloro i quali criticano la programmazione di un’opera come Don Giovanni, magari sono gli stessi che egualmente rilevano il repertorio troppo restrittivo proposto dalla Fondazione Arena nell’anfiteatro, pertanto ben vengano proposte non convenzionali anche in considerazione che la produzione era stata utilizzata solo una stagione ed è doveroso riutilizzarla per ammortizzare i costi, i tempi lo impongono.
Lo spettacolo creato da Zeffirelli ricalca pressoché un suo precedente allestimento per il Teatro Metropolitan, nel quale colpisce a prima vista l’imponente scenografia barocca, che ricalca più uno squarcio napoletano piuttosto che una visione di Siviglia. Non è fondamentale che si abbiano riferimenti sulla città spagnola, sicuramente negativo è la totale assenza di una regia drammaturgica, un inserimento superfluo di comparse, un cambio scena complicato che rallenta la narrazione, inserimenti banali e troppo coreografici, una scena dove gli assiemi sono sovraffollati nel tipico stile zeffirelliano. Tuttavia al pubblico areniano tali peculiarità piacciono, tanto da riscuotere più volte un applauso a scena aperta. I costumi di Maurizio Millenotti sono anche apprezzabili, ricchi e sfarzosi per i protagonisti, altrettanto per le comparse con livree rosse e parrucche bianche, il tutto però molto ridondante. Desta perplessità lo stile degli abiti dei contadini più consono ad una macchietta del presepe napoletano.
Dal punto di vista musicale in questa produzione abbiamo quanto di meglio ascoltato in questa stagione areniana. Stefano Montanari, maestro concertatore ed accompagnatore al cembalo, coglie un vero successo al suo debutto nello spazio dell’Arena di Verona. Lettura analitica raffinata con tempi serrati, sempre attento e preciso rende al meglio, anche in considerazione dello spazio aperto, un vibrante e piacevole ascolto con sonorità controllate e ricche di sfumature. Oltre all’abilità nella direzione non meno è la perfezione nell’accompagnare i recitativi nei quali azzarda delle improvvisazioni molto calibrate e bellissima fattura. Molto buona la prestazione dell’orchestra che ha avuto una duttile e plasmata sonorità contrassegnata dalla precisione, presumo perché trascinata dal carisma del direttore, cui la va sommata l’ottima prova del coro, istruito da Salvo Sgrò, nei brevi interventi, nei quali si è esibito.
Carlos Alvarez è un Don Giovanni di assoluto spessore, voce solida ben timbrata che gli permette un canto duttile, fantasioso e ricercato. Al pari dell’ottima prova musicale è anche la resa scenica, sempre controllata ma ricca di sfaccettature, sensualità, arroganza, utilizzata nei momenti opportuni. Al suo fianco il servo Leporello, interpretato da Alex Esposito, si colloca sullo stesso piedistallo di alto livello artistico. Voce scura e ben calibrata contenuta in una linea di canto di rara ricchezza di sfumature e colori, cui si somma un’interpretazione scenica rilevante che lo classifica oggigiorno probabilmente come la migliore scelta posibile del personaggio.
Irina Lungu, Donna Anna, debuttava il ruolo in questa serata con esiti molto positivi. La voce è luminosa e ben proiettata, cura con grandi risultati un recitativo raffinato e supera brillantemente l’ardua prova con colori vibranti, vocalizzazione precisa, realizzando un personaggio di grande fascino teatrale.
Il tallone d’Achille del cast era rappresentato dalla Donna Elvira di Maria José Siri, la quale ha poco da spartire con il canto mozartiano soprattutto in fatto di vocalità. Sovente si sono riscontrate scivolate nell’intonazione, e in alcuni passi il legato e le agilità erano raffazzonati, tuttavia il personaggio era credibile. Samir Pirgu ha offerto una bellissima prova pre stile di canto, dunque molto meglio Mozart che Verdi. Supera brillantemente le sue due arie, in particolare la seconda eseguita con proprietà d’accento e tecnica encomiabili, un Don Ottavio in possesso di una bella voce piena, rotonda e pastosa.
Natalia Roman era una corretta Zerlina, precisa e abbastanza musicale, purtroppo leggermente povera di civetteria e fascino vocale, mentre Christina Senn è stato un Masetto vigoroso e ben cantato. Il Commendatore di Rafal Siwek completava la locandina senza grandi pretese, la voce è piuttosto gutturale, ma nel complesso non sfigurava.
Successo pieno al termine della rappresentazione e teatro quasi al completo, il che per un Don Giovanni è di per sé un successo a priori, e ripeto s’è ascoltato il miglior assieme musicale della stagione.

TOSCA [Simone Ricci] Roma, 6 luglio 2015.
Dopo sette anni l’immortale capolavoro di Giacomo Puccini torna alle Terme di Caracalla per inaugurare la stagione estiva 2015.
Per l’apertura della stagione estiva 2015 del Teatro dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla la scelta è ricaduta su “Madama Butterfly”, opera che mancava dall’incantevole scenario all’aperto da sette anni. L’opera di Giacomo Puccini è stata rappresentata in una versione molto moderna dal regista catalano Àlex Ollé, uno dei direttori artistici de La Fura dels Baus, prestigiosa e innovativa compagnia teatrale con oltre trent’anni di esperienza. Il tema dell’immortale capolavoro è stato considerato talmente universale da ambientare la storia ai giorni nostri, cercando di stravolgere il meno possibile la trama. A parte qualche stranezza scenica, l’obiettivo è stato raggiunto bene: questa recensione si riferisce alla prima recita in cartellone, quella del 6 luglio.
Non è mancata la cura dei particolari per quel che riguarda le scenografie: il Giappone del XIX secolo immaginato da Puccini è sparito completamente, lasciando spazio a un paese più moderno ed emancipato. In questo contesto si è mossa una Cio-Cio-San meno timida del previsto, una giovane ragazza che potremmo incontrare ovunque oggi, ingenua per essersi innamorata dell’uomo sbagliato, ma con un carattere più forte di quello che si è abituati a pensare. Nel primo atto c’è stato grande spazio per eleganti giardini nipponici, lanterne di carta e moderna cucina asiatica da servire ai due sposini Butterfly e Pinkerton.
Si è poi proseguito con il cemento, metafora dello stato emozionale della protagonista praticamente devastato: la dolce e tranquilla casetta in cui la giovane attende il ritorno di suo marito sembrava più una di quelle abitazioni in cui Stephen King ha ambientato la maggior parte dei suoi romanzi, un tipico sobborgo americano. Il trionfo a stelle e strisce era certificato dall’abbigliamento di Cio-Cio-San, una t-shirt bianca con la bandiera statunitense raffigurata e jeans cortissimi, una tipica teenager anni ’80. Gli altri personaggi erano più sobri, soprattutto Pinkerton e Suzuki, ma comunque ben inseriti nel contesto. Quasi pittoreschi, invece, risultavano lo zio Bonzo, il principe Yamadori e Goro.
Dal punto di vista vocale ci si aspettava molto da Asmik Grigorian, soprano lituano che ha tratteggiato una Butterfly coraggiosa e mai banale. Il ruolo impervio della protagonista è stato affrontato con una voce sopranile svettante e un timbro che sembrava più a suo agio nella fase sognante dell’opera. C’è però da dire che anche nella drammaticità del finale non sono mancati lo spessore vocale e l’intensità d’accento. Emozionante il suo Un bel dì vedremo, arrivato al cuore di molti spettatori. La prima recita dell’opera prevedeva Sergio Escobar nel ruolo di Pinkerton: una indisposizione ha dato spazio ad Angelo Villari, tenore siciliano tecnicamente sicuro e dal fraseggio accurato. La dizione era chiara e asciutta, una qualità che oggi è piuttosto rara, in particolare se si tiene conto dell’importanza del fraseggio pucciniano.
Decisamente buono e psicologicamente coinvolto è stato lo Sharpless di Alessio Arduini, capace di far emergere il carattere di un personaggio che viene troppo spesso sottovalutato. Il Goro affettato e ironico di Saverio Fiore ha strappato qualche sorriso con la sua goffa fuga in bicicletta. La Suzuki di Anna Malavasi risultava dolce e discreta senza mai strafare, senza dimenticare il tonante zio Bonzo di Fabrizio Beggi, l’estroverso Yamadori di Andrea Porta e l’affidabile Kate Pinkerton di Anastasia Boldyreva. Completavano il cast i dignitosi Federico Benetti (Commissario Imperiale), Leo Paul Chiarot (ufficiale del registro), Silvia Pasini (la madre di Cio-Cio-San) e Cristina Tarantino (la cugina).
Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma è stato abilmente preparato dal maestro Roberto Gabbiani, composto ed educato nel coro a bocca a chiusa che accompagna la veglia insonne della protagonista sul tetto di casa. La direzione musicale, invece, era affidata a Yves Abel, bacchetta franco-canadese che ha guidato con piglio l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, sempre molto duttile: i colori dei tre atti di Puccini erano resi in maniera vivida, all’insegna di un percorso musicale che è rimasto sempre coerente ed equilibrato (apprezzabile la capacità di saper assecondare i tempi del canto).
Alla fine il pubblico (a dire la verità non molto numeroso e con una folta rappresentanza di turisti, soprattutto americani e giapponesi) ha tributato applausi che sono stati inizialmente timidi, ma poi sempre più convincenti. Dopo un’assenza che durava dalla stagione estiva del 2008, “Madama Butterfly” è tornata a commuovere Roma e le Terme di Caracalla, un inizio promettente della stagione 2015 che proseguirà con le restanti cinque recite di quest’opera e altri due capolavori di Giacomo Puccini, vale a dire “Turandot” e “La Bohème”.

OTELLO OSSIA IL MORO DI VENEZIA [William Fratti] Milano, 7 luglio 2015.
È una vera sorpresa, a pochi anni da La donna del lago, trovare un altro titolo del Rossini serio al Teatro alla Scala, il grande assente assieme al resto del belcanto italiano con Bellini e Donizetti; chissà poi perché si preferisca fare cultura con sconosciuti titoli d’oltralpe eludendo completamente una grossa parte del melodramma italiano, quando si potrebbe fare sia l’uno che l’altro.
La locandina sulla carta è delle migliori, ma le luminose attese presentano purtroppo molte ombre a partire dallo spettacolo di Jürgen Flimm che dice proprio nulla. I soli momenti in cui cerca di dare vita a delle idee personalissime, scendono decisamente nel ridicolo: tra questi le due cortigiane che amoreggiano con Jago e Rodrigo; Emilia che cerca di istruire Desdemona al corano o alla lingua araba; Elmiro che porta due piante fiorite in vaso e rinsecchite a simbolo dell’unione tra Desdemona e Rodrigo; altre due cortigiane che spargono il veleno di Jago come fosse verderame sul ring di battaglia di Otello e Rodrigo.
Insomma, inutilità infantili a riempire un allestimento vuoto, da un’idea di Anselm Kiefer, che si sarebbe potuto usare in un teatro di provincia nel momento in cui si fosse trovato senza denaro per poter produrre l’opera. Tre tende, tre tavoli di rumoroso metallo, qualche decina di sedie da giardino e un po’ di sabbia sono tutto ciò che c’è in scena per tre ore. E per riempire un po’ il vuoto cosmico arriva la grande novità del catafalco di Desdemona a simboleggiare la sua morte imminente, su di una gondola, al tempo dell’arietta del gondoliere. Al centro diurno dell’oratorio avrebbero saputo fare di meglio.
Di buona fattura sono i costumi di Ursula Kudrna, pur senza novità, poiché numerose sartorie avrebbero potuto procurarne di simili a noleggio. Abbastanza centrate, nella loro semplicità, le luci di Sebastian Alphons.
Con tale premessa, qualunque colpa interpretativa non può essere imputata ai solisti, che hanno certamente dovuto sopperire alle mancanze del regista con le loro esperienze personali.
Lo zero assoluto della scena è equiparato al nulla del podio, occupato da Muhai Tang che sbaglia nei tempi, nei pesi e nelle misure. Riguardo ai tempi non è chiaro se la noiosa lentezza di alcune parti sia causata dal volere del direttore o di alcuni cantanti, in ogni caso il risultato è vergognoso, poiché se la musica diventa una lagna inesorabile, cantanti agili come Florez e Peretyatko si trovano a dover prendere fiati lunghissimi oppure costretti a spezzare frasi troppo lunghe per cercare aria. Riguardo ai pesi, dove i piani sono troppo piani e i forti sono troppo forti, presumibilmente Tang si è trovato a dovere fare i conti con un’orchestra decisamente al di sopra delle sue possibilità: sembra un adolescente neopatentato seduto sul sedile di una Ferrari, col risultato di sembrare scollato, privo di colori e sfumature, leggendo una mastodontica partitura che di intenzione rossiniana ha ben poco. Infine pure le misure sono assenti, i cantanti sono costretti a prendere gli attacchi dal suggeritore e gli strumentisti suonano da soli, perché altro non possono fare. Un grande plauso al corno, al flauto, all’oboe e all’arpa.
Gregory Kunde, che negli ultimi anni ha trovato una seconda primavera con ruoli spinti, nel tornare a Rossini compie un passo decisamente falso. Le note ci sono, ma slegate; l’elasticità e la duttilità mancano e le agilità sono quasi imbarazzanti. Sarebbe stato meglio rendersene conto per tempo, rinunciare alla parte e tenere le glorie meritatissime dell’Otello verdiano, di Enea e di Vasco De Gama.
Olga Peretyatko, cantante vittima di lodi eccedenti da una parte della critica, eccessivamente controbilanciate da disapprovazioni che certamente non merita, è un’eccellente interprete rossiniana e questo dovrebbe bastare. Il fatto che la voce non sia particolarmente stentorea e i sovracuti siano punte di spillo non dovrebbe essere un problema, poiché la raffinatezza, la precisione, la pulizia del suono, lo stile del pesarese, la bravura nelle agilità sono tutte caratteristiche che non le mancano. Il canto della sua Desdemona è elegantissimo in primo atto, tecnicamente accurato in secondo, angelico e soave in terzo.
La accompagna il superbo Rodrigo di Juan Diego Florez, superlativo sotto ogni punto di vista, a partire dalla morbidezza e dall’omogeneità della linea di canto, presentata con grande classe e forma perfetta, eccellendo nel fraseggio. La piattezza della direzione non gli permette di sciorinare i consueti cromatismi, ma è poca cosa nei confronti di una prova comunque eccelsa.
Edgardo Rocha è un bravo cantante e il suo Rossini funziona, anche se andrebbe riascoltato in una parte più importante per comprenderne meglio lo stile: un conto è cantarlo da tradizione, un altro conto è cantarlo secondo l’intenzione pesarese. In ogni caso il suo Jago, seppur ben impostato, sembra aver poco spessore drammatico.
Roberto Tagliavini veste i panni di un Elmiro raffinatissimo, dal fraseggio espressivo, dotato di bei colori. Lo stesso vale per l’elegante Annalisa Stroppa nel ruolo di Emilia, che mostra una vocalità rotonda e ben omogenea.
Efficace il tremolante Doge di Nicola Pamio e l’evanescente Gondoliere di Sehoon Moon.
Come sempre bravissimo il Coro del Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni.

AIDA [Lukas Franceschini] Verona, 7 luglio 2015.
La Fondazione Arena di Verona ha riproposto per il 93° Festival la produzione di Aida di Giuseppe Verdi, realizzata da Franco Zeffirelli nel 2002, dopo alcuni anni in cui erano allestiti due spettacoli differenti.
Anche in questo caso, come in Don Giovanni, ci troviamo di fronte ad un ottimo impianto scenico, maestoso, imponente, costituito da una piramide girevole, e da alcune grandi scale laterali di formazione tubolare, mentre sulle gradinate sono collocate due grosse sfingi. Tale idea, poi riproposta in formato ridotto alla Scala nel 2006, ha solo il pregio di un effetto poster, poiché la regia è totalmente assente, entrate ed uscite a caso, senza un minimo di drammaturgia e talvolta di credibilità oltre ad aver occupato tutto il palcoscenico e non poter appunto svolgere una necessaria movimentazione, si pensi ai balletti e alla celebre marcia trionfale, entrambi soffocati in minuscolo rettangolo. Zeffirelli di suo ha l’abitudine di utilizzare numerosissime comparse, e anche questo penalizza la visione, tante ed inutili sono le persone in scena, in ogni momento dell’opera. Del resto non è cosa nuova per il regista fiorentino, più buon scenografo, le sue ultime realizzazioni hanno sempre rasentato il kitsch. Si ammirano invece i bellissimi costumi di Anna Anni, colorati, sfarzosi, e di gran pregio sartoriale. Fortunatamente è stato eliminato quasi completamente il personaggio Akmen inventato di sana pianta da Zeffirelli e che con Aida non c’entrava nulla. Per questo riallestimento abbiamo avuto invece la pregevole mano del coreografo Renato Zanella, e direttore del corpo di ballo della Fondazione Arena, che ha ideato delle nuove coreografie, frizzanti, innovative senza dimenticare l’estrazione esotica dell’opera, che fortunatamente andavano a sostituire quelle ormai soporifere di Maria Grazia Garofali. Altro pregio, l’esecuzione è suddivisa in due intervalli, anche se sarebbe ottimale con una sola pausa magari più lunga.
Direttore e maestro concertatore era il veronese Andrea Battistoni, il quale ha fornito un’ottima prova guidando con precisione in un’incisiva e vibrante lettura il complesso orchestrale. Rispetto al Ballo dello scorso anno è notevolmente migliorato, oppure con lo spartito di Aida trova una sua interpretazione di livello. L’Orchestra dell’Arena di Verona lo segue diligentemente e con bruna precisione, nella quale il maestro trova anche lo spazio di piccole ma azzeccate rifiniture seppur nel contesto di uno spettacolo all’aperto, ma ancor più rilevante è come ha saputo realizzare le scene d’assieme con ottimi concertati e una pulizia di suono di grande fascino.
Protagonista assoluta di questa recita era l’Amneris di Anita Rachvelishvili, la quale si sta imponendo in questo repertorio con autorevolezza. Voce bellissima, piena, uniforme nei registri, sicura con un settore acuto ragguardevole, una zona centrale molto compatta e sensuale, trovando anche una particolare felice interpretazione con il personaggio.
Monica Zanettin è una corretta Aida, la quale riesce più sul piano interpretativo che vocale, trovandosi spesso non puntuale nel medio- grave e un acuto non particolarmente afferrato. Lo scorso anno nello stesso ruolo aveva sfoderato degli ottimi pianissimi, che quest’anno non si sono uditi.
Carlo Ventre è il tenore eroico che imposta la sua interpretazione sul tono muscolare, poiché una voce anche interessante non gli permette tecnicamente di fare altro. Il suo Radames è decoroso e con i tempi che corrono è già un positivo aspetto, senza pretendere particolari raffinatezze.
Leonardo Lopez Linares non lascia traccia nel ruolo di Amonasro, risolto con superficialità e poco carisma ma occorre riconoscere anche senza gravi danni. Carlo Colombara era un Ramfis molto sottotono, quasi parlante ed irriconoscibile. Presumo non fosse in serata, ma non si era fatto annunciare, oppure il caldo (38°) opprimente della serata abbia inciso in lui come forse per altri. Buona la prova di Carlo Cigni nel ruolo del Re, corretti il messaggero di Francesco Pittari e la sacerdotessa di Stella Zhang.
Il Coro, istruito da Salvo Sgrò, e il Corpo di Ballo dell’Arena di Verona hanno avuto un meritato successo. Anfiteatro ovviamente non esaurito ma con folto pubblico per una recita infrasettimanale, il quale ha decretato al termine un ottimo successo a tutta la compagnia.

OTELLO OSSIA IL MORO DI VENEZIA [Lukas Franceschini] Milano, 10 luglio 2015.
Dopo ben 145 anni il dramma per musica Otello ossia Il Moro di Venezia di Gioachino Rossini ritorna al Teatro alla Scala, in una nuova produzione in collaborazione con la Staatsoper Unter den Linden di Berlino.
Scorrendo la cronologia delle rappresentazioni scaligere colpisce la separazione netta che avvenne alla fine nel XIX secolo tra l’omonimo titolo di Rossini e di Verdi. Infatti, l’Otello rossiniano vanta ben tredici edizioni dal 1823 fino al 1870, in seguito sono ben più numerose le edizioni dell’opera di Verdi, la quale fu eseguita in prima assoluta il 5 febbraio 1887. Non è da sottovalutare che purtroppo il repertorio serio di Rossini cadde nell’oblio per molti anni, salvo alcuni limitati titoli. Otello “risorse” in una pioneristica edizione americana alla fine degli anni ’50, per poi trovare una sua riabilitazione cominciando dall’edizione Rai del 1960 cui seguirono recite sia all’opera di Roma sia al Metropolitan. Tuttavia fu negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso che ebbe un vero e proprio exploit soprattutto per l’eccellenza dei cast che si potevano scritturare nella difficile distribuzione delle parti. La Scala ha avuto “la colpa” di ignorare tale periodo propizio lasciandosi sfuggire l’occasione di proporre titoli rossiniani seri di alto livello e registrando un ritardo rilevante se si considera che ad esempio Semiramide non sia più stata rappresentata dopo l’edizione del 1962.
La produzione del Teatro alla Scala è andata in scena con molti inciampi e presumo che questo abbia in parte condizionato l’esito finale. Il direttore previsto era John Eliot Gardiner, il quale già da qualche mese si era ritirato dall’incarico, sostituito dal maestro cinese Muhai Tang. Anche la struttura scenica ha subito delle variazioni dall’impianto originale ideato dall’architetto Anselm Kiefer, poi defilatosi, pertanto dalla sua idea è stato lo stesso regista Jurgen Flimm a ricavarne una versione alternativa. Tutto questo non ha contribuito a rendere lo spettacolo degno di nota. Chi scrive ammette le sue lacune, ma questo spettacolo m’è parso quasi completamente incomprensibile, con trovate di dubbio gusto rasenti al ridicolo. L’Otello di Rossini non è esattamente come lo scrisse Shakespeare, e il librettista ha parte primaria per ingarbugliare la vicenda, tuttavia, sappiamo esattamente cosa accade e che figura drammaturgica assumono i protagonisti. Jurgen Flimm sembra non aver idee precise, o forse troppo artefatte. Una scena fissa spoglia delimitata da tre fondali di stoffa per nulla suggestivi al centro un tavolo da banchetto o riunione politica e attorno i personaggi che intervengono con trovate assurde. Non si capisce perché nel primo duetto Roderigo-Jago questi debbano amoreggiare con due probabili prostitute. Si sorride quando a Desdemona e Rodrigo, in segno di probabili nozze, è posto loro in capo un vaso di fiori. Nel secondo atto non si capisce cosa significano le gesta di due comparse che innaffiano il prato con tanica e spruzzino per vigne. Il catafalco di una gondola funge da letto mortale per l’omicidio, con tanto di arpa su carrello a rotelle che attraversa il palcoscenico. La lavagna che portata da Emila con scritte in arabo quale lettura potremo individuare? Forse che la protagonista si dovrebbe convertire all’Islam per compiacere l’amato? Non saprei! Il doge è affetto da un tremante morbo di Parkinson, chissà il perché! Nel finale le tre brutte tele che compongono la spoglia scenografia cadono a terra, facendo vedere in retropalco della Scala con le scene di Tosca, che si alterna ad Otello, sul fondo mentre si alza una grande stampa di una città moderna anni’30. Un senso logico non riesco a trovarlo. Tanta confusione, poche idee, o tante secondo la comprensione, che non rendono giustizia all’opera. Ursula Kudrna, costumista, ci mette del suo a rendere le cose ancor più complicate. Non esiste una linea storica dei costumi, ci sono coristi in frac ottocentesco, e coriste che sembrano uscite da “Piccolo mondo antico”, tutti in nero, poi arrivano altri che indossano costumi cinquecenteschi, e nel finale ce li troviamo tutti in abito nero stile mafia americana, le donne in tailleur sempre in tinta, per non parlare dell’abito piumato di Desdemona che rasentava una goliardica parodia della “Cage aux Folles”. Proprio questo spettacolo non è stato centrato, alla recita cui ho assistito, il pubblico mugugnava solo negli intervalli, alla prima ha contestato, pare, con un certo vigore.
Altra delusione arriva da Muhai Tang, un direttore purtroppo molto inerte che con Rossini proprio non c’entra. Mancano scansioni orchestrali, gioco di colori, ritmo, narrativa musicale. I passi più concitati mancano di mordente e le poche cabalette non rispettano il ritmo. I recitativi sono così noiosi e lenti che sembrano interminabili, la grande scena di Otello al III atto è di una mediocrità allucinante che toglie tutta la tensione del dramma trasformandosi paradossalmente in un racconto liederistico.
Con questa direzione è ovvio che tutto sia ridimensionato, a cominciare dal Coro del Teatro alla Scala, diretto da Bruno Casoni, che sappiamo essere di qualità, qui per nulla espressa ma non per difetti loro.
Gregory Kunde è un tenore anomalo, ormai è cosa risaputa e non pare sia il caso di fare troppi appunti anche in considerazione di una carriera onorevole ora giunta a traguardi temporali molto avanzati. La voce non è certo seducete, anzi piuttosto sgranata e le mezzevoci approssimative. Tuttavia è un interprete e sa quello che canta, gli acuti ancora presenti anche se non squillanti come un tempo, le variazioni e lo stile idonei. Gridare al miracolo mi pare eccessivo, affermare che ci troviamo di fronte ad un grande artista giunto a quest’appuntamento scaligero ormai in parte usurato è ovvio ma è lecito considerare che non ci sia alternativa al ruolo.
Olga Peretyatko ritornava al ruolo di Desdemona dopo le non felici recite pesaresi del 2007. Il risultato non cambia poiché la signora avrebbe anche una bella voce di soprano lirico-leggero ma trovo sia completamente fuori parte nei cosiddetti ruoli Colbran. Infatti, abbiamo ascoltato una voce educata ma sicuramente poco adatta al personaggio, sia per spessore ma soprattutto per accenti e fraseggio limitati dalla natura. I passi più ostici, finale atto II e l’intera scena del III atto, “Assisa a’ piè d’un salice”, sono risolti insufficientemente mancando anche una partecipazione interpretativa che poco le appartiene.
Juan Diego Florez cesella a meraviglia il ruolo di Rodrigo, suo cavallo di battaglia. Voce sempre inappuntabile, acuti splendidi, proiezione di gran lustro. Sarei imparziale se affermassi che le agilità non sono quelle di un tempo, ed è vero ma è cresciuta la resa psicologica dell’innamorato e non dimentichiamo che con una simile direzione era difficile eseguire funamboliche suggestioni vocali, resta tuttavia il miglior cantante rossiniano di oggi.
Edgardo Rocha era un buon Jago, vocalmente molto dotato e ben proiettato nel registro acuto dimostrando anche una ragguardevole predisposizione al canto rossiniano, e nei duetti con gli altri due “mostri” è riuscito a farsi onore.
Roberto Tagliavini è stato un Elmiro molto vissuto ed interpretato cui si aggiunge un buon materiale vocale che gli ha permesso di emergere come ottimo cantante. Note positive per Annalisa Stroppa, un’Emilia precisa e con buona voce, eccellente il Doge di Nicola Pamio e rilevante il gondoliere di Sehoom Moon dell’Accademia del Teatro alla Scala. Il quartetto dei seguaci di Otello ha reso con onore la professionale prova: Davide Baronchelli, Guilllermo Esteban Bussolini, Alberto Paccagnini, Vincenzo Alaimo. Successo incontrastato al termine riservato alla parte musicale, con ovazioni per Kunde e soprattutto Florez.

THE BEST OF ITALIAN OPERA [Margherita Panarelli] Torino, 9-10-11-12 Luglio 2015.
Grande affluenza di pubblico e cast di doti eccellenti per The Best of Italian Opera dedicato dal Teatro Regio al pubblico di Expo: quattro titoli conosciutissimi a giorni alterni per tutto il mese di Luglio.
Primo titolo della rassegna è La Bohème. Il capolavoro Pucciniano è stato messo in scena con la delicata regia di Vittorio Borrelli e sono stati ripresi i fiabeschi bozzetti e figurini storici di Eugenio Guglielminetti. La compagine canora è di ottimo livello, in questa come in tutti e quattro gli allestimenti della rassegna. Barbara Frittoli è una Mimì fragilissima a cui manca un poco di passione pur essendo il canto corretto, la sua è una Mimì già sconfitta dalla tisi nel primo atto. La presenza di un occasionale eccessivo vibrato non hanno inficiato una comunque buonissima prova all’insegna dell’eleganza nel fraseggio e nella recitazione. Stefano Secco, nel ruolo di Rodolfo, ha squillo e un discreto tonnellaggio coronati da mezzevoci particolarmente belle. La Musetta di Maria Teresa Leva è coquette al punto giusto e pur con una voce dal timbro poco attraente ha tratteggiato una ragazza energica e di cuore. Eccellenti Markus Werba, Simone del Savio e Riccardo Zanellato rispettivamente Marcello, Schaunard e Colline. Quest’ultimo ha reso una toccante ” Vecchia Zimarra”. Ottimo anche Guadalberto Silvestri come Parpignol. Alle redini dell’Orchestra del Teatro Regio è Andrea Battistoni al debutto operistico al Regio di Torino. La sua è una lettura decisa e suggestiva, non sempre precisa nel dialogo tra buca e palcoscenico ma personale e energica: giovane, come i protagonisti della vicenda e lui stesso.
Secondo titolo in cartellone è invece Il Barbiere di Siviglia. Anche in questo caso la regia è di Vittorio Borrelli ma le piastrelle blu che caratterizzavano l’allestimento la scorsa stagione sono state sostitutite con alti pannelli splendidamente decorati a rappresentare ambienti esterni e interni che hanno consentito cambi scena snelli e rapidi. Splendida prova da parte dell’Orchestra del Regio diretta da Giampaolo Bisanti con accuratezza e gusto. I tempi scelti sono vivaci ma non frenetici il che permette agli interpreti di mettere in mostra le proprie qualità e alle atmosfere rossiniane di risaltare appieno. L’Almaviva di Antonino Siragusa è sicuramente uno dei migliori che si possano apprezzare al momento. La partitura di Rossini non ha segreti per la sua voce dal timbro caratteristico e per le sue rapidissime colorature. Di pari caratura il Figaro di Roberto de Candia. Eccellente proiezione, timbro brunito e omogeneità tra i registri accompagnati da perfetto tempismo comico ne hanno fatto il mattatore della serata. Squisita anche Chiara Amarù nella parte di Rosina. Ha dato il giusto pepe al ruolo senza renderla eccessivamente capricciosa. Molto buona la sua prova vocale pur con qualche incertezza nelle note del registro più grave che non hanno comunque impedito la riuscita del ruolo.
Non manca di distinguersi il Don Basilio di Nicola Ulivieri: esemplari il fraseggio e la presenza scenica. Plauso meritatissimo anche per Marco Filippo Romano nel ruolo di Don Bartolo che non gigioneggia eccessivamente e dimostra il valore della sua voce di baritono per tutta la durata del ruolo portando a compimento “A un dottor della mia sorte” con un ottimo sillabato. Eccellente la Berta di Lavinia Bini, bravo Lorenzo Battagion come Fiorello, bene anche Carlo Rizzo come ufficiale. Esilarante l’Ambrogio del mimo Antonio Sarasso.
Terzo titolo, e fiore all’occhiello di questa rassegna, è La Traviata nel noto, affascinante, allestimento di Laurent Pelly collocato su parallelepipedi di vari dimensioni che diventano divani, tavoli da gioco e letti all’occorrenza.
Desirèe Rancatore è una Violetta completa e toccante. La scelta di far notare la malattia di Violetta già dal primo atto più di quanto sia solito dimostra il lavoro dell’artista sul personaggio. Vocalmente ineccepibile nel primo atto, come ci si aspetta dalla Rancatore, è in “Dite alla giovine”, “Alfredo, Alfredo di questo core” e “Addio del passato” che veramente stupisce, affascina e commuove. Il suo uso della parola scenica è preciso così come la sua intonazione. Il canto è legato e morbido e il personaggio prende vita attraverso il fraseggio curatissimo e vivido. Piero Pretti presta la sua ottima voce tenorile al ruolo di Alfredo. La bellezza del timbro, la corposità e omogeneità dell’emissione e la schiettezza del suo canto lo rendono un Alfredo ideale. Anche lui coniuga le doti canore alla recitazione che risaltano in particolar modo nel finale del Secondo Atto. Luca Salsi possiede voce dal timbro di rara bellezza e volume. Il suo Germont è spietato,calcolatore,manipolatore. Un baritono eccellente dalla carriera promettente. Completano dignitosamente il cast Samantha Korbey come Flora, Francesca Rotondo come Annina, Luca Casalin come Gastone, Paolo Maria Orecchia come Douphol, John Paul Huckle nel ruolo del Marchese d’Obigny e Davide Motta Fré nel ruolo del buon Dottor Grenvil. Francesco Ivan Ciampa alla direzione offre una lettura intensa e dinamica del capolavoro Verdiano accompagnando i cantanti ed il coro egregiamente.
Quarto ed ultimo titolo: Norma di Bellini. La messa in scena è tradizionale e davvero avvincente con costumi molto belli ed un cast nel complesso valido e preparato. Con Roberto Abbado alla guida il suono dell’orchestra è corposo, cangiante, entusiasmante. Non sempre entusiasmante invece la Norma di Maria Agresta che è al suo meglio in “Casta Diva” e soprattutto in “Qual cor tradisti” che in “Ah,di qual sei tu vittima” o “Vanne,si,mi lascia indegno”. Colorature non sempre precise e registro acuto a tratti faticoso rendono la Norma di Maria Agresta piuttosto dimenticabile, almeno fino all’entusiasmante seconda parte del Secondo Atto dove sembrano uscire fuori le potenzialità inespresse del soprano Salernitano. Ottima l’Adalgisa di Veronica Simeoni la cui voce pastosa e avvolgente, dagli acuti luminosi, dà vita al coraggioso personaggio di Adalgisa. Roberto Aronica è un Pollione irruente e generoso negli slanci canori quanto in quelli amorosi: ben si addice il suo timbro robusto al personaggio del Proconsole fedifrago. Ritroviamo l’ottimo Riccardo Zanellato, qui nei panni di Oroveso, dove ha modo di riconfermare le sue qualità. Molto bravo Andrea Giovannini nel ruolo di Flavio.
Sfida superata, e con ottimi risultati, per il Teatro Regio di Torino che ribadisce e consolida la sua crescente influenza e la qualità dei propri allestimenti sulla scena operisitica internazionale.

ORFEO ED EURIDICE [Lukas Franceschini] Vicenza, 11 luglio 2015.
Il Festival “Vicenza in Lirica 2015” realizzato dall’Associazione Concetto Armonico, diretta da Andrea Castello, si è concluso trionfalmente con l’esecuzione scenica al Teatro Olimpico dell’azione teatrale di Christopher Willibald Gluck Orfeo ed Euridice.
“Vicenza in Lirica” è un Festival che nel periodo di venti giorni ha organizzato nella città veneta vari appuntamenti musicali e due importanti masterclass tenuti da Katia Ricciarelli e Sara Mingardo. Quest’ultima si è occupata di selezionare e preparare musicalmente tre giovani voci per l’esecuzione dell’opera citata.
La storia artistica della signora Mingardo parla da sola e la disponibilità per dedicarsi ai giovani non solo le fa onore ma rileva l’encomiabile disponibilità verso altri cantanti con suggerimenti e consigli.
Lo spettacolo realizzato al Teatro palladiano è denominato semistage a due mani realizzato da Andrea Castello e Francesco Erle. E’ noto che all’interno del teatro non è possibile realizzare una scenografia vera e propria, la sovrintendenza ai beni artistici lo vieta, pertanto lo spettacolo è stato brillantemente incentrato sullo splendore del palcoscenico reale, che ogni qualvolta si ammira si resta sempre sbalorditi. Una sola riproduzione scenica al centro, ispirata secondo chi scrive da un capitello visibile nel giardino esterno, rendeva lo spazio onirico ed ideale per una drammaturgia ricercata nei movimenti composti sia dei solisti, i quali spesso utilizzavano anche la gradinata del pubblico, e del coro. Il tutto è reso con assoluto rispetto della musica e del testo senza cercare soluzioni scellerate, alle quali purtroppo siamo abituati. Una movenza mimica ricercata, visualizzata in un’espressività di gesto accennata, esprime eleganza ed interpretazione di assoluto livello. Roberta Sattin disegna costumi sobri ed eleganti che ottimamente si coniugano con la concezione registica.
Francesco Erle, ora direttore e maestro concertatore, sceglie la versione viennese del 1762 del capolavoro di Gluck, il quale fa storicamente da spartiacque nella produzione operistica barocca. L’edizione potremo definirla filologica, poiché Erle sceglie una realizzazione con parti reali, un solo esecutore per ogni strumento, realizzando cosi un aspetto poco conosciuto dell’opera, intimistico ma anche di adesione all’idea classica del teatro del tempo. Su questa scelta pesa anche una prassi esecutiva del XVIII secolo, in seguito abbandonata, come ad esempio i timpani “assordati” (ricoperti da un velo nero) creando un fascinoso effetto armonico. Sono state inserite invece le articolazioni e le legature del manoscritto soprattutto per il gusto di ornamentazione che si creava appositamente ad ogni esecuzione. Grande talento, grande musicista, il maestro Erle guida con esperta conoscenza la bravissima Orchestra Schola San Rocco, solo sedici elementi, che hanno reso in maniera efficace la loro professionalità. Una particolare menzione per Alberto Maron, professore al clavicembalo, per l’encomiabile contributo continuo all’intera partitura. Altro pregio del direttore è stato quello di ricercare una perfetta sonorità strumentale timbrica adatta al luogo d’esecuzione.
Rilevante l’apporto del Coro Schola San Rocco, che in Orfeo ha parte predominante reso con assoluta professionalità.
Il terzetto delle soliste era ben amalgamato e la mano della signora Sara Mingardo si è fatta sentire soprattutto nella realizzazione di un recitativo particolarmente curato, la parola era raffinata e di un’intensità rarefatta.
Francesca Biliotti, il protagonista, è una cantante musicale e con una precisa tecnica che le permette un canto ricercato, d’intensità uniforme e drammatica. Unico appunto potrebbe essere il volume e il colore vocale, che chi scrive preferirebbe più intenso, ma la prassi esecutiva odierna è orientata verso voci poco profonde, e la prova della cantante è stata realizzata con ottima poeticità.
Molto brava anche l’Euridice di Mina Yang, la quale esprime un segno drammatico vocale di buon effetto, senza sbavature e calibrata musicalità. L’Amore di Benedetta Corti trovava un’ottima realizzazione nell’eliminazione di superflue prassi interpretative, trovando pertinenti accenti e una brillante esecuzione.
Un successo pieno la realizzazione di questa produzione, con l’auspicio di altre magiche serate nelle prossime edizioni. Il pubblico che gremiva il teatro ha tributato un lungo e prolugato applauso a tutti gli artisti al termine della rappresentazione.

DAFNE [Lukas Franceschini] Venezia, 13 luglio 2015.
Il Festival “Lo Spirito della Musica” organizzato dal Teatro La Fenice in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia ha presentato in prima esecuzione moderna il dramma pastorale per musica Dafne di Antonio Caldara.
Una scoperta musicale molto interessante, anzi elettrizzante, sia perché fuori dal logoro repertorio sia perché composta da uno dei migliori musicisti del ‘700. Antonio Caldara (Venezia 1670) era pressoché coetaneo dell’altrettanto celebre compositore della laguna Antonio Vivaldi. Seppur la loro formazione fosse simile, le carriere si diversificarono come le loro vite di musicisti, Vivaldi sempre legato alla natia città, Caldara itinerante in Europa come maestro di Corte o di Cappella legato a nobili famiglie o corti. Arrivò in seguito a Vienna, dopo essere passato per la Mantova dei Gonzaga, la Roma dei Ruspoli e gli Asburgo spagnoli. Proprio dalla corte viennese ottenne nel 1716 il titolo di Vicemaestro di Cappella di Sua Maestà e da quella carica poté estendere la sua influenza, la quale arrivò fino a Salisburgo per alcuni lavori per il principe arcivescovo tra cui Dafne che fu composta in occasione dell’inaugurazione del Teatro di Verzura nel giardino del Castello di Mirabell.
La fiaba pastorale in oggetto si distingue musicalmente, ma anche l’intera produzione di Caldara, per la vivace arte del contrappunto cui va sommata una ricercata ispirazione melodica e un’invenzione aggraziata vocale che determina il mondo barocco nel quale il compositore operò. L’eccezionale riscoperta veneziana mette ancora una volta il Teatro La Fenice nel ruolo di Fondazione attenta e produttrice di tesori musicali da riscoprire soprattutto per il pubblico oggigiorno troppo abituato ad uno stantio repertorio.
L’esecuzione è stata realizzata nella splendida Sala dello Scrutinio del Palazzo Ducale di Venezia, luogo ricco di storia e di emozioni incontrastate nel volgere lo sguardo alle decorazioni della sala, culminate dal celebre dipinto della “Battaglia di Lepanto”. Il pubblico è stato immerso in mondo barocco di corte, nel quale è stato in parte rinverdito il clima della prima esecuzione. Il regista Bepi Morassi, intelligentemente, non ha voluto imporre uno spettacolo estraneo all’ambiente ma ha ricreato una macchina “fantastica” in legno approssimativa a quelle che erano costruite nei secoli XVII e XVIII per sbalordire il pubblico, ovviamente nei limiti dello spazio e del luogo. Abbiamo avuto pertanto tre pedane fisse sulle quali agivano gli interpreti, un ascensore manuale ed effetti scenotecnologici che potremo definire originali, come il mare azionato manualmente da rulli con stoffe sovrapposte. Se a questo aggiungiamo lo splendore dei costumi rigorosamente d’epoca di Stefano Nicolao, e una credibile recitazione abbinata ad una funzionale drammaturgia, lo spettatore d’oggi ha avuto l’occasione di immergersi in un mondo arcaico scomparso ma ancora validamente rappresentativo.
Maestro concertatore e direttore dell’Orchestra del Festival è il bravissimo Stefano Montanari, che si è diviso il difficile compito facendo spola con Verona ove era impegnato con Don Giovanni. In tale repertorio Montanari è carta non solo vincente ma garanzia di estrema perfezione direttoriale e potremo azzardare il paragone che la sua presenza è identificata quale gamba di un tavolo che altrimenti non reggerebbe. Egli è una delle migliori bacchette italiane barocche, in questo caso anche eccellente virtuoso al violino, con squisiti interventi concertanti e con variazioni che animavano l’ascolto. L’impeccabile direttore coordinava sia la preziosa Orchestra Barocca del Festival, solo dodici elementi, che erano brillanti quanto in perfetta armonia di suono sia la giovane compagnia di canto di ottimo livello.
Francesca Aspromonte, nel doppio ruolo di Dafne e Venere, è stata soprano di brillante qualità vocale e puntuale precisione. Il controtenore Carlo Vistoli ha fornito una prova brillantissima nel suolo di Febo, con tecnica mirabile e una voce ben amministrata nelle diverse sezioni. Kevin Skelton, Aminta e Mercurio, tolta una sommaria dizione ha dimostrato buona precisione nei suoi interventi e una spiccata musicalità anche se con una voce poco emozionante. Renato Dolcini, Peneo e Giove, è stato ottimo interprete e raffinato cantante particolarmente a suo agio nel repertorio barocco.
Successo trionfale al termine, e aggiungo meritatissimo per un’esecuzione di alto livello che ha compensato il torrido caldo della Sala, anche se genialmente al pubblico è stato offerto un ventaglio e una bottiglietta d’acqua. Ascoltare musica barocca in tale ambiente è stata esperienza di rara emozione e immedesimazione in un mondo ove ci sono capolavori ancora da riscoprire.

COSì FAN TUTTE [Mirko Gragnato] Padova, 24 luglio 2015.
Un girotondo di palazzi, costruzioni e rovine che dal medioevo ad oggi hanno via via circondano quella che oserei definire una radura urbana, il cortile di Palazzo Zuckermann che durante l’estate presta il nome al teatro giardino.
Come al Waldbuhne di Berlino, in una versione tagliata su misura per la città di Padova, le fronde degli alberi ad alto fusto fanno da contorno al palcoscenico, sul quale si muove la trama.
Il tutto secondo una semplice regia, fatta di poche cose ma ben pensate rispondendo alle esigenze del teatro giardino, che porta la firma di  Federico Bertolani.
Quattro spazi contigui mettono in forma il mondo in cui si svolge l’azione: due letti, un paravento, un tavolino e, probabilmente in onore al luogo che le ospita, un tappeto erboso a far da cornice e delimitare il palco.
Ma l’orchestra dov’è? Non c’è buca e i musicisti sono nascosti dietro alla scena da una trina di tessuto, in un gioco di vedo non vedo, per il quale, purtroppo tranne che per l’ouverture, l’orchestra sarà poco o nulla protagonista, anzi delle volte ci si dimentica che realmente ci sia, cosa che invece non si può dire di Don Alfonso, il basso Maurizio Muraro, padovano, che si dimostra subito il vero pilastro di questo “Così fan tutte”.
Se Don Alfonso è deus ex machina nella vicenda del libretto di da Ponte, il basso Muraro è la solida presenza musicale nelle note di Mozart. La voce spesso possente e piena, nel canto d’insieme non porta però ad una vera intesa musicale che invece è molto forte nel senso scenico. Ciò forse è dovuto alla mancanza di un direttore più presente e visibile che ahimè invece non c’è, o meglio, è dietro da qualche parte a condurre l’orchestra, perdendo così maggiore dominio sui cantanti e non riuscendo a raggiungere il giusto equilibrio tra le stesse voci e con l’orchestra.
Il Maestro Andrea Albertin, il cui gesto, si intravedeva un po’ agitato e ampio, ha mancato nel trasmettere quella certezza e sicurezza all’orchestra che purtroppo a parte qualche momento è sempre rimasta nascosta e non solo visivamente.
Nel corso della giocosa vicenda tra scambi e travestimenti un po’ bizzarri, ma che riscuotono simpatia, la coppia di amici Ferrando-Gugliemo tra il tenore Paolo Fanale e il baritono Marco Bussi era bene equilibrata; già dal primo duetto c’è aria di intesa “La mia Fiordiligi capace non è” purtroppo un po’ adombrati poi dall’ingresso della voce di Muraro.
Se poi prendiamo singolarmente l’uno e l’altro, Bussi forse si manifesta essere il più maturo, con un timbro scuro che si mantiene pieno anche sulle note verso l’acuto, la voce di Paolo Fanale invece, seppur di bel timbro ed elegante fraseggio, non sembra mai realmente uscire fuori, anche se nel finale ” Sani e salvi agli amplessi amorosi” sembra finalmente mostrarsi quasi per magia; una bella voce, leggera ma allo stesso tempo solida. Una voce che si direbbe essere ancora in boccio per poter manifestarsi nella sua pienezza, quindi tempo al tempo perché arrivi la stagione della maturità.
Le due sorelle Fiordiligi (Anna Krainikova) e Dorabella (Laura Polverelli) vittime dei loro stessi fidanzati sono un duo curioso: l’una bionda, dalla pelle candida e leggiadra mentre l’altra più mediterranea, mora e dalla carnagione scura. Quasi una metafora che la fisionomia gioca col timbro chiaro del soprano e della voce più scura del mezzosoprano a cui Mozart affida i ruoli delle due dame.
L’intreccio vocale segue il solco delle differenze tra Anna Krainikova: voce bella, aperta e chiara, ma con qualche inciampo sulle agilità; e Laura Polverelli: voce più chiusa con un timbro più offuscato con un vibrato più spinto sulle note lunghe, ma che sulle parti più incalzanti si mostra sicura e diretta, tanto da permetterle osare.
Nell’insieme le due improbabili sorelle giungono ad un buon risultato, frutto dell’ottima affinità scenica, che la presenza del già di Muraro adombra, infatti il bel terzetto “Soave sia il vento” né risulta  sbilanciato senza quel ben equilibrato impasto di voci, che lo rende uno dei pezzi più gradevoli di tutta l’opera, un dislivello di intensità che purtroppo non ha permesso di far risaltare tutta la magia di Mozart, cosa che i legni dell’orchesta di Padova e del Veneto, invece, hanno dato prova di saper dare.
Ma sebben le due sorelle oltre che gabbate siano messe in secondo piano dal personaggio e dalla voce di Don Alfonso, il gentil sesso non viene messo tutto alla mercé dei sotterfugi maschili, eh no… Despina la cameriera delle due, interpretata da una ben congegnata Diletta Rizzo Marin, dimostra vocalmente e scenicamente di saper il fatto suo. Sulle scene ha totale dominio della parte e anche di quel Muraro, al quale di certo non cede il passo, anzi “paga d’ugual moneta questa malefica razza indiscreta” con una voce bella e capace di vezzi virtuosi. La cara Despina, grazie alla mimica e alla gestualità sensuale, che ne arricchiscono la presenza scenica, si guadagna le preferenze del pubblico.
Uno spettacolo che è stato ben accolto nel Teatro Giardino di palazzo Zuckermann, a Padova, con un cast di nomi di rilievo nel panorama musicale,  oltre al famoso basso anche Krainikova e Polverelli.
Certo il caldo e l’afa di fine luglio non hanno giocato a favore del delicato strumento dei cantanti che hanno dovuto soffrire di qualche difficoltà, ma il pubblico era numeroso ed ha affollato la platea dello Zuckermann.
Ben vengano infatti queste iniziative che permettono alla città di Padova, spesso un po’ troppo incentrata sul binomio Giotto e Santo, di stimolare un dialogo tra i cittadini, i luoghi storici e i monumenti attraverso eventi di rilievo e spessore per qualità degli artisti coinvolti.Soprattutto con politiche che puntano ad offrire qualcosa di bello alla portata di tutti, 30 euro il costo del biglietto che dava accesso alla platea e permetteva di ascoltare un’opera bella per musica e per libretto a pochi passi da casa.

IL BARBIERE DI SIVIGLIA [Lukas Franceschini] Milano, 31 luglio 2015.
La più celebre opera di Rossini, Il barbiere di Siviglia, è stata riallestita al Teatro alla Scala nello storico allestimento di Jean-Pierre Ponnelle.
Spettacolo nato a Salisburgo nel 1968 sotto la bacchetta di Claudio Abbado, fu poi portato alla Scala e riutilizzato in numerosissime repliche ed esportato in tutto il mondo, resta uno degli spettacoli più azzeccati della storia teatrale del ‘900. Descriverlo ancora oggi pare superfluo, forse solo i giovani sono ignari della bellezza e nello stesso tempo della semplicità di quest’allestimento, il quale regge ancora il tempo e supera notevolmente tante altre alternative, spesso astruse, che l’estro sterile dei registi ha voluto inventare in seguito. Una struttura girevole classica disegna una Siviglia a tratti fantastica, interni ed esterni mutevoli in pochi secondi che accomodano un libretto vivace e frizzante. Colori e giochi di luci contribuiscono al meglio nel calibrare una regia di classe, stile ed eleganza. Costumi tradizionali ma di ottima fattura. Un’azione teatrale nel vero senso della parola ove ogni personaggio assume una caratteristica precisa nel solco della commedia, brillante il gesto, ironica la situazione, ancora divertenti le trovate, in un insieme che rasenta la perfezione. Lorenza Cantini ha ben ripreso lo spettacolo rispettando al massimo le linee tracciate dal creatore.
L’edizione odierna rientra nel “Progetto Accademia” del Teatro alla Scala. L’Orchestra il Coro e tutti i solisti sono stati scelti tra i frequentatori del Corso di Perfezionamento, ad eccezione di Leo Nucci e Ruggero Raimondi, i quali oltre ad assumere il ruolo di collaboratori alla preparazione dei giovani cantanti si sono esibiti in alcune recite. Il curriculum dei due cantanti parla da solo, pertanto anche se oggi entrambi sono arrivati al traguardo di una carriera quasi cinquantenaria, il giudizio deve essere distinto rispetto i giovani “quasi” debuttanti.
Nucci e Raimondi erano in splendida forma vocale e scenica. Superfluo fare le pulci a due artisti che ancora calcano la scena, seppur in differente frequentazione, la voce non sia certo fresca e qualche compromesso causa usura ed età è d’obbligo. Tuttavia per Nucci Figaro è un personaggio che ha nel sangue, istrionico, brillante, spassoso, senza mai debordare (ne sarebbe capace, ma la regia lo tiene al guinzaglio), scende ancora la pertica come un ragazzo, ricama un recitativo di classe e canta ancora Rossini nei modi della vecchia scuola, centellinando ogni nota con perizia sbalorditiva. Raimondi ritornava sulle scene dopo qualche tempo di silenzio, onestamente chi scrive, pensava che si fosse ritirato, invece ha sfoderato ancora una volta la sua arte scenica in un ruolo che gli calza a pennello e riuscendo anche in un canto equilibrato e ben rifinito sia in zona grave sia acuta. Osannatissimi dal pubblico dopo le loro arie e al termine della recita.
La “squadra” dei giovani era capeggiata dal Conte di Edoardo Milletti, un tenore che seppur con voce non particolarmente proiettata ha nel suo carniere frecce importanti come lo smalto, il colore, un gusto elegante e una perizia interpretativa ragguardevole. Era omesso, giustamente, il rondò finale ma Milletti è cantante da tenere in considerazione auspicando progressi nel futuro. La Rosina di Lilly Jorstad, di ottima figura e gusto teatrale, era abbastanza vivace e con una voce molto interessante anche se le roulades e il canto fiorito non sono ancora ben calibrati. Miglior risultati si avevano dal Bartolo di Giovanni Romeo, cantante già in possesso di tutte le qualità per diventare un sicuro interprete in tale repertorio. Bravissimo nel sillabato utilizzato con perizia, voce ben proiettata cui si somma un’innata vis teatrale di assoluto rilievo. Molto pertinenti il Fiorello di Kwanghyun Kim e la simpatica e precisa Berta di Fatma Said, la quale si esibiva nella sua aria con dovuta precisione. Simpaticissimo l’Ambrogio di Michele Nani e corretto l’ufficiale di Petro Ostapenko.
Sul podio abbiamo trovato il maestro Massimo Zanetti, che nello spartito rossiniano trovava miglior ispirazione rispetto alla precedente Carmen. I tempi erano fluidi e ben calibrati, il ritmo molto incalzante ed equilibrato. Il direttore guidava la giovane orchestra dell’Accademia, la quale si faceva valere per impegno ed entusiasmo decisamente palpabile ad effetto teatrale. Di ottima fattura anche il Coro, sempre dell’Accademia, preparato ed istruito da Marco De Gasperi.
Teatro esaurito in ogni suo ordine, in una serata caldissima di fine luglio! Successo trionfale al termine, con particolare entusiasmo per le vecchie glorie ma altrettanto per le giovani promesse.

IL BARBIERE DI SIVIGLIA [Lukas Franceschini] Verona, 1 agosto 2015.
L’opera rossiniana Il barbiere di Siviglia vanta solo quattro edizioni all’Arena di Verona, in effetti, veramente poche per un simile capolavoro, tuttavia, è da considerare che il melodramma buffo poco s’addice agli spazi aperti e con l’aggiunta di recitativi accompagnati al cembalo. La ripesa dell’allestimento di Hugo de Ana contraddice in parte le considerazioni sopraesposte, almeno per quanto riguarda il pubblico, il quale è accorso numerosissimo alla prima recita.
La Fondazione Arena di Verona ben ha fatto a riprendere uno dei migliori allestimenti degli ultimi anni realizzato dal bravissimo regista, ma anche scenografo, costumista e progettista luci, Hugo de Ana. Egli ci trasporta in un mondo onirico costituito da siepi e interni girevoli, facendo il verso alla commedia dell’arte. Imposta il suo spettacolo sull’eleganza non solo di scene azzeccatissime e costumi variopinti e brillanti ma soprattutto su una recitazione che non trasborda mai negli eccessi e trova una giusta misura ed equilibrio tra ironico e divertente, dosando tutta la drammaturgia della commedia su personaggi credibili, maliziosi e spiritosi. Un piacere immenso assistere a spettacoli così ben fatti, nel solco della tradizione ma con qualche sprizzata di novità (il corpo di ballo che mima molte situazioni su coreografie di Leda Lojodice) e fuochi artificiali nel finale a coronare l’inizio della storia d’amore tra Rosina e Almaviva.
Sul podio dell’Arena debuttava Giacomo Sagripanti, giovane direttore ma con già molte affermazioni artistiche rilevanti, ad esempio lo stesso titolo al Rossini Opera Festival nel 2014. Le impressioni così favorevoli dello scorso anno non sono registrabili in quest’occasione, chi scrive presume che gli spazi areniani abbiano in parte limitato il gesto e le intenzioni del direttore. Infatti, abbiamo avuto una direzione anche accurata, forse troppo nel dettaglio che sovente si perde, a scapito di una non omogenea linearità nei tempi, ora pertinenti ma sovente molto lenti e talvolta slegati. Il piglio intuitivo si notava ed era nel solco della buona concertazione, mancava in generale di un rapporto più coinvolgente tra buca e palcoscenico, e a tal proposito è da registrare anche una non brillantezza nel settore ottoni dell’Orchestra dell’Arena di Verona. Il coro istruito da Salvo Sgrò, seppur nei brevi interventi, è stato professionalmente corretto.
Il cast radunato per questa ripresa di Barbiere, almeno nei nomi è di prim’ordine nei giorni nostri, anche se qualche ingranaggio non ha funzionato alla perfezione.
Il Figaro di Mario Cassi è sostanzialmente corretto ma cantato con una generale piattezza interpretativa ove manca quel tratto sornione ed ironico che contraddistingue il frizzante personaggio. Debuttava nel ruolo di Rosina, e nell’anfiteatro veronese, Jessica Pratt, una delle più acclamate cantanti degli ultimi anni. Il risultato è stato deludente sotto molto aspetti. Non ho nulla da obiettare ad una Rosina soprano, anzi ne sono testimoni passate illustri primedonne, ma per tale operazione ci vorrebbe gusto, malizia, sensibilità interpretativa che nella signora Pratt non ho riscontrato. Innanzitutto vocalmente, poiché la zona grave è molto latente quella sovracuta non eccezionale rispetto a sue performance precedenti. Non ha centrato il personaggio troppo austero che sovente pareva spaesata. Nel secondo atto non ha cantato l’aria “Contro un cor” ma le celeberrime Variazioni di Proch, cavallo di battaglia di tutti i grandi soprani di coloratura. Tale operazione poteva anche essere annunciata nel recitativo precedente, come in genere si usa, ma è piccolo dettaglio, quello che invece ha colpito negativamente è stata la scarsa esibizione di un’aria di bravura, che dovrebbe essere suo terreno fertile, rimediando una mediocre esibizione sia dal punto di vista interpretativo (mancanza di colore) e soprattutto nelle variazioni e nel registro acuto assolutamente ridimensionato.
Antonino Siragusa era per l’ennesima volta il Conte d’Almaviva, anche per lui si trattava di un debutto areniano del ruolo. Egli ha fornito una prova convincente sotto molti aspetti, colore, linea di canto, pertinenza nel legato e nelle variazioni. Personaggio molto elegante e di ottima resa scenica. Ha eseguito il rondò “Cessa di più resisitere” che lo mette in parte in difficoltà nelle variazioni spinte, ma nel complesso se l’è cavata con onore.
Lodi unanimi per Bruno De Simone che ancora una volta ci ha deliziato con il suo Don Bartolo strabiliante. Perfetto nella recitazione, canto precisissimo, sillabato puntale. Non saprei cosa aggiungere sennonché oggi probabilmente è il migliore in questo repertorio ed è sempre un piacere ascoltarlo, e vederlo in scena per una vis comica simpaticissima e forbita.
Molto buona la prova di Roberto Tagliavini nel ruolo di Don Basilio, ove il cantante emiliano ha trovato un giusto dosaggio d’ironia e canto raffinato in un ruolo che potrà dargli molte soddisfazioni, come quelle che ha regalato al pubblico in questa serata. Aggiungo, con rispetto, che visti i risultati dovrebbe pensare a frequentare più assiduamente i ruoli brillanti-comici, credo che gli siamo molto adatti.
Nel doppio ruolo di Fiorello e Ambrogio si è fatto valere Nicolò Ceriani, ormai colonna portante in questi personaggi del Festival Areniano, Silva Beltrami ha ben caratterizzato Berta e ha avuto il suo momento nell’aria cantata con ottima professionalità. Completava la locandina, l’ufficiale corretto di Victor Garcia Sierra.
Al termine applausi scroscianti e numerosissime chiamate alla ribalta per tutta la compagnia.

IL TROVATORE [Natalia Di Bartolo] Orange, 4 agosto 2015.
(Following excerpts of French and English translation) Il Trovatore è un colosso verdiano difficile da affrontare: quale capolavoro, esige una direzione adeguata, una schiera di grandi interpreti, una messa in scena credibile e coinvolgente.
Ottenere tutto questo insieme è un miraggio: ci si può solo avvicinare alla perfezione, ma meglio se ci si avvicina, innanzitutto, con una adeguata direzione d’orchestra.
Alle Chorégies d’Orange il 4 agosto 2015 il M° Bertrand de Billy aveva per le mani la grandiosa Orchestra National de France. E si è sentito in pieno: corpo, volume, risposta, qualità del suono.
Direzione dichiaratamente italiana, quanto a dinamiche, ma così dichiarata da esserlo anche troppo. I tempi erano corretti, a volte s’impennavano addirittura, mostrando un Direttore inflessibile con gli interpreti, lanciato, padrone di una direzione a volte data a staffilate…Ma mancava qualche nouance, e l’espressione dell’insieme risentiva di un’eccessiva “quadratura”.
Mai sfilacciare la partitura verdiana, ma neanche inquadrarla in un quadrato troppo perfetto, anche perché, in occasioni come queste, gli interpreti, alle Chorégies, sono svantaggiati pure dai fattori climatici e ambientali legati all’utilizzo teatrale delle stupende vestigia augustee.
Sull’immenso palcoscenico, lontanissimi dall’orchestra e quindi dalla fonte dell’accompagnamento e dai gesti vivi del Direttore, gli interpreti di questo Trovatore francese hanno dato il meglio di sé fin dove hanno potuto e, quindi, tutti meritano preventivamente in questa sede apprezzamento incondizionato.
Protagonista quale Manrico, nei panni un po’ da brigante che gli erano attribuiti dalla messa in scena, Roberto Alagna, che ha dimostrato ancora una volta come un valido interprete possa focalizzare l’attenzione dell’ascoltatore anche su momenti del capolavoro verdiano meno celebri ma altrettanto, se non più belli, della “pira”, croce e delizia dei tenori più blasonati.
Iniziando ad Orange interpretativamente quasi in sordina, sia pure imponendosi vocalmente, Alagna è andato crescendo, soprattutto dal punto di vista introspettivo del personaggio, fino alla fine dello spettacolo, lì dove, all’ultimo atto, si è tuffato completamente nella figura di figlio, amante ipoteticamente tradito, acerrimo nemico e quant’altro, nella resa di un carattere scenico i cui stati d’animo e reazioni, nel finale dell’opera soprattutto, si sfaccettano e si rendono più interiorizzabili e nello stesso tempo recitativamente più esprimibili.
Ha dimostrato così, ancora una volta, di dare il meglio di sé più nei ruoli che consentano espressioni variegate dell’animo umano che in quelli prettamente “eroici”, ritagliandosi a misura i momenti a lui più congeniali, anche vocalmente, e superando con impeto quelli più impervi per la propria vocalità. Dizione piuccheperfetta, fraseggio impeccabile, le note c’erano tutte, erano ben emesse, ben proiettate ed erano tutte al proprio posto e senza alcun difetto.
Lode ad un magnifico “leone” che aggredisce le parti più ostiche e le fa proprie senza azzannarle, ma affrontandole a viso aperto e vincendo con l’arte vocale e scenica che è propria dei grandi.
Hui He, invece, la bellissima interprete cinese, al debutto alle Chorégie nel ruolo di Leonora, ha avuto del filo da torcere e ne ha dato ai colleghi in scena con lei, poiché, pur possedendo un impasto vocale bruno, sensuale, dalle ombre avvolgenti, non ha risposto alla parte acuta con la stessa brillantezza e, soprattutto, probabilmente condizionata dalla situazione scenica all’aperto, ha mostrato diversi problemi vocali. E’ come se la sua voce negli acuti, che pure negli staccati si mostravano brillanti, fosse esitante, priva di squillo e ingolata: in una parola, calante.
Anche scenicamente la sua presenza si è dimostrata poco convincente. Eppure l’avvenente soprano cinese ha tutte le doti, anche fisiche, per essere una grande interprete. Probabilmente dovrà ancora calibrare innanzitutto la propria vocalità, volgendosi ad un’emissione più aperta, ma nello stesso tempo più coperta, evitando di brunire ancora i gravi e la zona centrale e tirando fuori con maggiore intraprendenza quegli acuti squillanti e intonati che certamente possiede. Le si augura in questo senso ogni successo in avvenire.
Marie Nicole Lemieux, insolitamente procace Azucena, ha dato prova di un’esperienza vocale assolutamente di tutto rispetto con qualità di spicco.
Scenicamente sempre reattiva e presente, ha fornito, soprattutto ad Alagna, nei duetti, coesione musicale ed appoggio scenico sicuri.
Padrone assoluto della parte del Conte di Luna, George Petean si è prodotto in una interpretazione che vocalmente può definirsi da antologia. Un gran richiamo a Piero Cappuccilli, ma anche con un orecchio ed un occhio a Giorgio Zancanaro e soprattutto capace di rievocare i tempi d’oro baritonali in cui certe prodezze acute d’epoca ancora precedente, scritte o non scritte che siano, erano all’ordine del giorno. Le ha eseguite tutte, con perfetta padronanza del mezzo vocale, a proprio agio nell’intera parte, voce robusta, bellissimo colore, ottimi fraseggio e dizione, nessuna esitazione, mostrandosi decisamente più Conte di Luna che Rodrigo, così come recentemente lo si era visto a Vienna nel Don Carlo. Grandissimo baritono verdiano: chapeau.
Corretti il Ferrando di Nicolas Testé, sia pure con qualche pretesa un po’ roboante, e la Inés di Ludivine Gombert; altri comprimari tutti un po’ calanti, Coro triplice dei teatri di Avignone, Nizza e Tolone, diretto da Emmanuel Trenque, in qualche difficoltà nella dizione.
Discutibile la messa in scena di Charles Roubaud, che ha collocato la vicenda trobadorica nella Spagna franchista e che a tratti, con i fondali di Dominique Lebourge, ha coperto la scena di pietra, provocando sicuramente problemi di sonorità ambientale agli interpreti. Il regista ha pure scambiato “la zingarella” per zingara bambina….sarà stato il diminuitivo…ma tra danze d’infanti gitane, zingari chitarristi, coltelli a serramanico e moschetti, ha spiazzato alla grande l’atmosfera cavalleresca di un Trovatore che richiede liuti, spade e, se proprio necessario, pugnali.
Pressoché indefiniti nella foggia e nell’epoca, nonostante gli sforzi lodevoli per avvicinarli al periodo storico prescelto dalla messa in scena senza snaturarne le origini, i costumi di Katia Duflot, che non giovavano all’atmosfera dell’opera, valorizzata invece dalle luci sfumate di Jaques Rouveyrollis, che riuscivano a contenere visivamente l’ipertrofico spazio del teatro romano di Orange.
Nell’insieme un Trovatore di tutto rispetto, comunque, e che dal punto di vista della presa sugli spettatori si è dimostrato vincente, sottolineato da applausi a valanga da parte di una immensa schiera di appassionati, esperti e habitué presenti alle Chorégies d’Orange, nonché dal plauso di milioni di spettatori che hanno assistito in diretta alla trasmissione televisiva ed in streaming del capolavoro verdiano.
CHRONIQUE | IL TROVATORE (04/08/2015) | “Un magnifique lion”
Extrait : “Roberto Alagna, a démontré ses très belles qualités d’interprète, séduisant aussi le spectateur dans les passages où le chef d’œuvre de Verdi est moins célèbre mais aussi beau, sinon plus que le « Di quella Pira » […] A Orange, Alagna est allé crescendo jusqu’à la fin du spectacle s’imposant tant vocalement que scéniquement dans son expressivité et introspection du personnage. |…] Il a prouvé si besoin était, qu’il donne le meilleur de lui-même dans les rôles les plus variés qui lui permettent d’exprimer toutes les dimensions de l’âme humaine jusqu’aux plus héroïques et de surmonter vocalement les plus grandes difficultés. Sa diction est plus que parfaite, le phrasé impeccable. toutes les notes étaient là, le tout bien projeté et en place. […] Félicitations à un magnifique “lion” qui s’attaque aux parties les plus difficiles avec le talent vocal et scénique des plus grands.” (par Natalia Di Bartolo pour operaeopera.com – 13/08/2015)
REVIEW | IL TROVATORE (04/08/2015) | “A wonderful lion”
Excerpt: “Roberto Alagna has demonstrated his beautiful performer’s skills, also thrilling the audience in the pieces where Verdi’s masterpiece is less famous but as beautiful, if not more, than the “Di quella Pira” [ …] In Orange, Alagna went crescendo until the end of the show, impressive both vocally and scenically by his expressiveness and introspective way to portray his character. | …] He proved if needed that he gives the best of himself in the most varied roles, which allows him to express the human soul in all its aspects, to the most heroic, and overcome the greatest vocal difficulties. His diction is more than perfect, his phrasing impeccable. All the notes were there, all well rendered and projected. […] Congratulations to a wonderful “lion” that tackles the most difficult parts with the vocal, acting and operatic talent of the greatest.” (by Natalia di Bartolo for operaeopera.com – 08/13/2015)

LA GAZZA LADRA [Lukas Franceschini] Pesaro, 7 agosto 2015.
Il Rossini Opera Festival 2015 si inaugura con una ripesa, La Gazza Ladra creata in loco nel 2007 da Damiano Micheletto cui fu in seguito attribuito il premio Abbiati.
Adriatic Arena, 7 agosto 2015 (prova generale). Diversamente dal consueto il Festival inaugura la rassegna con uno spettacolo allestito in precedenza poiché il programma è stato negli ultimi tempi cambiato di continuo causa tagli ai fondi economici, tuttavia, avrebbe potuto proporre come primo titolo La Gazzetta poiché si trattava di nuovo allestimento e alla luce di recenti scoperte musicologiche con un quintetto mai eseguito.
Quando assistetti alla prima esecuzione dello spettacolo di Damiano Michieletto, con scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti, non ne rimasi particolarmente colpito. Rivisto prima Bologna, poi a Verona e oggi nuovamente a Pesaro lo spettacolo si rivela funzionale almeno per la parte drammaturgica che è ben analizzata dal regista veneziano.
La vicenda della protagonista Ninetta è realizzata come un sogno tipo “Alice nel paese delle meraviglie”, durante la sinfonia assistiamo ad una fanciulla che dapprima non riesce a prendere sonno, poi si trasforma in gazza e ci conduce nella vicenda non proprio ordinaria poiché Ninetta è processata e condannata a morte per aver rubato una posata. In questa visione, che spazia nell’onirico ma anche nel desolante squallore della prigione invasa da acqua vera, s’intersecano gli altri protagonisti che sono il suo promesso sposo, il Podestà che senza mezzi termini tenta di violentarla, e il padre creduto disertore che cerca in incognito di salvare la figlia. L’ottimo effetto luci di Alessandro Carletti contribuisce ad un effetto visivo di statuaria semplicità ma la recitazione accurata determina uno spettacolo molto apprezzabile cui si aggiungono pochi elementi movibili, tubi, i quali hanno un’ottima resa scenografica, che ammetto oggi apprezzo più di ieri.
Sul podio dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna abbiamo trovato Donato Renzetti, che al Rof è un veterano. La sua lettura odierna m’è sembrata molto alterna e non del tutto soddisfacente, egli ha preferito sonorità enfatiche nella sinfonia e sovente è emersa una pesantezza generale sia nelle introduzioni sia nei pezzi solistici chestrali. Più efficace l’accompagnamento vocale, ma in generale si notavano scollamenti nella lettura generale che non era sostenuta da una narrazione musicale precisa. Diversamente trovava slanci e felici intuizioni, a lui molto consone, nei concertati e nei finali di scena o d’atto.
L’Orchestra e il Coro bolognesi, quest’ultimo istruito a dovere da Andrea Faidutti, erano forma smagliante e hanno offerto la loro riconosciuta professionalità.
Il cast era capitanato dal bravo Alex Esposito nel ruolo di Fernando, unico interprete anche nelle edizioni precedenti. Egli si è guadagnato meritatamente la più calorosa ovazione della sala. Il cantante ha sfoggiato una voce ben rifinita, morbida, intensità nel fraseggio, e capacità facile di modulazione in tutti i settori cui va sommata un’innata predisposizione teatrale.
Nino Machaidze è anche una cantante corretta, nulla più, ma questo ruolo la mette sovente a disagio per mancanza di spessore vocale. Infatti, il ruolo di Ninetta è più attribuibile ad un soprano lirico con predisposizioni anche nelle agilità. Aspetto che il materiale della Machaidze non ha di suo, anche se il virtuosismo è discreto, ma la tessitura è spesso arbitraria e il personaggio non del tutto realizzato.
René Barbera, Giannetto, è cantante troppo esile vocalmente e con tecnica precaria, le agilità appena abbozzate e i limiti nel settore acuto troppo evidenti. Il basso Marko Mimica, Podestà, mi aveva colpito favorevolmente in un recente Turco in Italia ma la sua esibizione pesarese ha mostrato limiti nel dosaggio dei fiati e perplessità nel canto sostenuto. Il materiale è di prim’ordine e sarebbe auspicabile un maggiore rodaggio in ruoli meno impegnativi.
Simone Alberghini ha disegnato un Frabizio corretto ma senza colori, mentre Teresa Iervolino, Lucia, che si è distinta per classe vocale rilevante, l’avrei preferita nel ruolo di Pippo. Infatti, quest’ultimo era interpretato da Lena Belkina cantante educata, ma troppo chiara e deludente nel brindisi per scarsa attitudine alle vorticose note prescritte, però anche per una direzione troppo slegata.
Ottima la prova del tenore Matteo Macchioni nel ruolo di Isacco, musicale e con voce ben rifinita. Completavano la locandina con ottima professionalità Alessandro Luciano, Antonio, Riccardo Fioratti, Giorgio, e Claudio Levantino nel doppio ruolo di Ernesto e Pretore. Una particolare menzione all’acrobata Sandhya Nagaraja, la “gazza”, la quale ha dimostrato ottime capacità ginniche accumunate ad una rilevante presenza scenica.

LA GAZZETTA [Lukas Franceschini] Pesaro, 8 agosto 2015.
Il secondo titolo del Rossini Opera Festival è stato La Gazzetta, opera non nuova a Pesaro, fu allestita nel 2001 e ripresa nel 2005, ma l’edizione odierna riveste il carattere di una prima ripresa moderna.
Teatro Rossini, 8 agosto 2015 (prova generale). Il dramma per musica in due atti fu composto nel periodo napoletano del compositore e ivi rappresentata al Teatro de’ Fiorentino il 20 settembre 1816. Fu un successo ma non paragonabile ad altri titoli buffi o giocosi come Barbiere, Italiana e Pietra del paragone, tuttavia non è da sottovalutare l’aspetto comico partenopeo che contraddistingue l’opera, anche se ambientata a Parigi. Le repliche furono a Napoli e in qualche altra città, come Palermo, vedremo dopo il perché, poi l’oblio. Qualche riesumazione isolata alla gloriosa Rai di Napoli nel 1960 e una alla Radio Svizzera nel 1977, per arrivare al Rof del 2001 con l’edizione critica. Qui iniziano i problemi poiché nella Gazzetta manca un quintetto autografo nel primo atto. Gli studiosi, del calibro di Philip Gossett, Fabrizio Scipioni e Stefano Piana, che si sono cimentati nell’arduo lavoro, hanno costatato che il quintetto non esisteva in quanto a spartito, ma era stato pubblicato come libretto anche da un editore parigino. Il fatto consiste che a livello drammaturgico senza questo insieme l’opera subisce una pesante mutilazione, la quale rende incomprensibile o almeno non lineare la trama. Nella prima ripresa moderna con edizione critica si decise di far declamare i versi del quintetto mancante dai personaggi sostenuti da un fortepiano che suonava la melodia della celebre canzone “La danza” tratta dalle Soirées musicales di Rossini. Soluzione pertinente e anche divertente, assistetti alle recite e la soluzione funzionò, anche in virtù della fantasmagorica regia di Dario Fo. Quando compose l’opera, Rossini si avvalse di molti autoimprestiti, la sinfonia sarà quella della Cenerentola, brani o concertati da Barbiere, Torvaldo e Dorliska, Scala di seta, non presi sé stanti ma modificati nel contesto del nuovo lavoro, cambiamenti di tono o incipit che anche un non esperto ascoltatore potrebbe comunemente riconoscere. In questa funzione una nuova revisione critica curata da Stefano Piana e allestita a Wildbad nel 2007, realizzava il quintetto con “nuova” musica presa a prestito dalle opere citate e rielaborate musicalmente per la metrica del libretto. La notizia shock arrivò nel 2011, apparsa in qualche trafiletto sui quotidiani ma rilevata con risonanza mondiale sulle riviste musicali, quando a Palermo negli archivi della Collezione del Conservatorio il bibliotecario Dario Lo Cicero trovò il manoscritto autografo originale del famigerato “Quintetto”. Come quest’autografo sia finito nella città siciliana, è mistero, si potrebbe supporre che fu lo stesso Rossini a mandare la musica in previsione di alcune recite nel 1828 al Teatro Carolino, unica ripresa durante l’ottocento, ma è pura ipotesi. Purtroppo a Palermo è stato ritrovato solo il manoscritto del quintetto ma nulla dei recitativi delle scene precedenti e successive, i quali sono essenziali per qualsiasi esecuzione dell’opera. Sono stati quindi interamente musicati da Philip Gossett per completare la lacuna. Tutto questo per far capire l’importanza di questa nuova edizione de La Gazzetta che con il contributo della Fondazione Rossini e degli studiosi ha offerto al pubblico italiano una nuova luce musicale dell’opera.
Per tale premiere il Rof ha voluto allestire un nuovo spettacolo affidato alla bravura di Marco Carniti, il quale ha creato una regia briosa e calzante con molte scene ispirate ad un teatro partenopeo d’altri tempi ma coerente e apprezzabile. Tutti i personaggi sono stereotipati in una Parigi anni ’30, ma sempre con eleganza e mai trovate banali, anzi sviluppando tocchi divertentissimi come quando i tre protagonisti maschili escono dalla scena dopo un terzetto minando i ballerini classici. La scena scarna, di Manuela Gasperoni, è composta di fondali bianchi apribili, da dove entrano i cantanti e il coro, e un grande bancone che è utilizzato in diverse situazioni come la reception dell’hotel o la passerella per una sfilata di moda, sempre lineare e nel segno dell’eleganza. Bellissimi i costumi di Maria Filippi, la quale ha avuto modo di sbizzarrirsi in colori sgargianti e mise, soprattutto per le donne, di grande classe.
Inutile nel finale l’entrata dell’attore-mino Tommasino con il cartello “con la cultura si mangia?”, epiteto ormai logoro ed abusato, soprattutto per coloro i quali tale concetto non vogliono concepirlo.
Bellissima la direzione di Enrique Mazzola, che trova collaborazione dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna di alto rango. Tempi serrati, crescendo frizzanti, linea narrativa d’incalzante briosità, il tutto nell’ottimo rapporto con i cantanti che nell’insieme ha portato a risultati uditivi più che ottimi.
Le tre figure maschili protagoniste hanno portato al successo l’opera con esiti quasi trionfalistici. Nicola Alaimo, Don Pomponio, era irresistibile nel ruolo, simpatico, spigliato e sornione. Dotato di voce rilevante e ben dosata nel fraseggio, per non parlare dell’ottimo recitativo, ad essere puntigliosi dovrebbe raffinare talune puntature acute non sempre calibrate, ma nel complesso una gran bella prova. Altrettante lodi per l’Alberto di Maxim Mironov, il tenore russo ha corretto alcuni difetti che avevamo rilevato in occasioni precedenti, oggi si presenta come cantante rifinito, sciolto nelle agilità, dizione perfetta, accento e colore molto pertinente. Ha conseguito un particolare successo personale al termine dell’esecuzione dell’aria del II atto.
Completa il terzetto il simpatico Vito Priante, il quale unisce presenza scenica di prim’ordine ad un’esecuzione vocale rilevante perché dotato di voce robusta ma duttile, afferratissimo nelle agilità e con fraseggio eloquente.
Lascia perplessi la scelta di Hasmik Torosyan nel ruolo di Lisetta, che riesce nella sua esibizione più per arte scenica che vocale. Manca di comunicativa vocale ed accento precario, con notevoli mancanze nel settore acuto.
Raffaella Lupinacci realizza una Doralice garbata quanto civettuola esibendosi in un canto forbito mentre José Maria Lo Monaco si ritaglia un successo personale nell’aria che apre il secondo atto eseguita con soave garbo.
Molto bravi i cantanti di contorno quali Andrea Vincenzo Bonsignore, Monsù Traversen, ed Anselmo interpretato da Dario Shikhmiri.
Eccezionale la presenza dell’attore Ernesto Lama, le lodi si sprecano per una resa teatrale di grande effetto.
Molto preciso e corretto il contributo del Coro del Teatro Comunale di Bologna diretto da Andrea Faidutti.
Successo trionfale al termine per tutta la compagnia.

L’INGANNO FELICE [Lukas Franceschini] Pesaro,9 agosto 2015.
Il terzo titolo del Rof è come di consueto una farsa, una delle cinque che Rossini compose per Venezia nei primi anni di carriera quale compositore. L’inganno felice è il titolo scelto per questa estate pesarese in un allestimento che debuttò al Rof nel 1994 curato da Graham Vick.
Teatro Rossini, 9 agosto 2015 (prova generale). Le farse Rossiniane sono dei piccoli gioielli musicali dal sapore notevolmente gradevole, nelle quali si trovano personaggi, poco meno di mezza dozzina, scolpiti nella loro drammaturgia, sempre a lieto fine, ai quali nell’arco di circa novanta minuti è loro data possibilità di emergere in un canto variegato e sovente non privo di difficoltà. A differenza delle altre, L’inganno felice, è la meno “farsa”, uscendo dal cliché del comico o buffo, rasentando un dramma vero e proprio ovviamente con lieto fine. Anche i personaggi assumono una veste differente, il tipico buffo rossiniano qui trova uno spazio più umano, e assume a pieno titolo un ruolo che dal compositore sarà sviluppato con maggior impegno e profondità in lavori successivi. Probabilmente l’intenzione era di creare sulla struttura delle farse un’opera con una maggiore drammaticità rasentando il dramma serio a lieto fine. Richiami a personaggi buoni e cattivi sono evidenti ma in forma meno strutturata, anche per la brevità del testo.
Il Rof ha centrato appieno il proprio allestimento con la regia di Vick, il quale contrariamente a quanto si crede, non sempre è registra rivoluzionario, in questo caso è molto tradizionale e lo spettacolo è tra i più belli di questo tipo visti non solo a Pesaro. Una scena fissa che delimita una sorta d’isola sabbiosa con miniera semi-dismessa, una tenda costruita al momento sul lato destro e qualche pianta. Attorno ad uno spazio infinito di mare. Pare poco, realizzato da Richard Hudson con somma mano disegnatrice, ma con l’aggiunta di luci molto ben focalizzate (di Matthew Richardson) e dei meravigliosi costumi sempre di Hudson la visione è assolutamente perfetta, e non denota minimamente la sua ventennale anzianità. A tutto questo bisogna aggiungere la grande mano di Vick che crea una lettura agile, elegante con raffinata intelligenza, tale da rendere gratificato lo spettatore e appagato il gusto interpretativo.
L’orchestra Sinfonica Rossini, utilizzata sempre negli ultimi tempi per il terzo titolo in cartellone, è emersa professionalmente per precisione e accurato suono, l’esperienza al Festival ha portato i suoi frutti. Tale risultato è avuto soprattutto alla giovane bacchetta di Denis Vlasenko, direttore a me finora sconosciuto, ma preciso nei tempi, nello stile e capace di una lettura sia brillante sia poetica di ottima finitura. Speriamo di ascoltarlo ancora.
Il cast era abbastanza omogeneo e professionale, tuttavia s’imponevano Davide Luciano e Carlo Lepore. Il primo con voce bella e tipicamente baritonale trovava nel ruolo di Batone un fertile terreno per sfoggiare fraseggio di livello, una musicalità raffinata e un canto sempre controllato e ben amministrato tecnicamente. Il secondo pur con mezzi inferiori riusciva ad essere convincente quale Tarabotto per una sensibilità d’interprete e un fraseggio di grande mestiere.
Mariangela Sicilia pur nella corretta precisione del canto, mancava di vivacità e piglio interpretativo, superando senza drammi i suoi compiti ma pur sempre rasentando la modestia per mancanza di personalità musicale. Accettabile il Bertando di Vassilis Kavayas ma l’esile voce non trova una rotondità interpretativa ed è spesso nasale. Meglio l’Ormondo di Giulio Mastrototaro, il quale era leggermente ruvido in alcuni passi ma professionale nel complesso ed efficace nel ruolo. Successo entusiastico al termine.

RIGOLETTO [Simone Ricci] Macerata, 9 agosto 2015.
Rigoletto in versione tetra e pulp allo Sferisterio di Macerata: il capolavoro verdiano conquista il pubblico con un cast vocale di primo livello.
Quentin Tarantino alla corte del Duca di Mantova: si può riassumere in questa maniera il Rigoletto “pulp” e tetro messo in scena all’Arena Sferisterio di Macerata: la stagione lirica 2015 del capoluogo marchigiano, giunta ormai all’edizione numero 51, ha puntato su un tema legato indirettamente all’Expo milanese (“Nutrire l’anima”) e oltre al titolo verdiano ha inserito nel cartellone “Cavalleria Rusticana-Pagliacci” e “La bohème”. La recensione del sottoscritto si riferisce all’ultima serata della stagione, quella che è coincisa con la recita conclusiva del “Rigoletto”. Non sono mancati gli applausi a scena aperta e i momenti emozionanti, con qualche stonatura eccessiva per quel che riguarda la regia.
Federico Grazzini ha deciso di far sparire la Mantova del XVI secolo e l’intera corte del duca per dare spazio a un buio luna park sgangherato e abbandonato, luogo ideale per il ritrovo del duca, capo di una banda criminale dedita al sesso e alla violenza, e dei suoi narcotrafficanti. Rigoletto si è invece trasformato nel pagliaccio del luna park, una leggera forzatura che però poteva anche essere tollerata. Gilda è stata confinata in una squallida roulotte, mentre Sparafucile e Maddalena sono diventati, rispettivamente, un paninaro-killer e una escort avvenente. Non sono mancate nemmeno orge fuori scena, una scenografia dominata da un grosso e inquietante clown in cartapesta  e colpi di pistola indirizzati a dei palloncini lanciati in aria da Rigoletto.
Grazzini ha cercato di sottolineare soprattutto l’ambigua personalità del protagonista del titolo e gli aspetti più profondi del male. Apprezzabile è stata l’aggiunta al coro di sei ballerini che hanno dato movimento e sinuosità alle azioni dei cortigiani, senza dimenticare che gli abiti non sono stati sopra le righe: Rigoletto indossava grandi e lunghe scarpe da pagliaccio, mentre gli stessi cortigiani si facevano notare per i loro abiti scuri (i costumi erano di Valeria Donata Bettella). Le incongruenze, però, erano dietro l’angolo. Ad esempio, il finale faceva storcere il naso con il sacco lasciato al buffone dentro cui ci aspetterebbe la presenza di Gilda morente.
La figlia di Rigoletto, invece, appariva magicamente in piedi al suo fianco, quasi una visione angelica, ma che non faceva intuire la morte imminente. Il Mincio stilizzato da una semplice luce blu, poi, non dava l’idea del fiume, così importante e misterioso in quest’opera. Qualche gesto volgare poteva essere evitato, i cortigiani mimavano spesso il simbolo fallico con le bottiglie oppure davano sfogo alla loro trivialità con chiarissimi gesti dell’ombrello. Se c’è stato qualche elemento incoerente con la drammaturgia verdiana, invece il versante vocale ha conquistato pienamente il pubblico maceratese.
Vladimir Stoyanov ha mostrato grande esperienza nel tratteggiare l’animo complicato e tormentato di Rigoletto: l’esecuzione era intensa e ben calata, con un fraseggio morbido e adeguato al personaggio, in particolare è riuscito a trascinare Gilda nel finale del secondo atto con una “Vendetta” euforica e rabbiosa. Jessica Nuccio ha convinto pienamente e sembra quasi incredibile che questa sia stata la sua prima interpretazione nel ruolo. Caro nome ha scatenato il pubblico del loggione grazie a una vocalità delicata e preziosa che è riuscita a cogliere l’evoluzione psicologica, arricchendola di sfumature davvero intense. Non è stata da meno la performance di Celso Albelo, tenore possente e sicuro dei suoi mezzi.
Il cantante spagnolo aveva la giusta tempra, oltre al piglio e all’arroganza sfacciata che sono tratti caratteristici del Duca di Mantova: gli acuti sono stati nitidi e pieni, soprattutto si è notato come fosse a suo agio nel celebre quartetto Bella figlia dell’amore, con note innamorate e spavalde. Molto efficaci sono stati anche Gianluca Buratto, uno Sparafucile che non vorremmo mai incontrare in una notte buia e tempestosa e in grado di spaventare con suo timbro cupo, e Nino Surguladze, una Maddalena seducente e con incredibile freschezza giovanile. Un cenno lo merita anche il Monterone di Mauro Corna, inquietante e intenso al punto giusto.
Completavano il cast Leonora Sofia, una Giovanna precisa e puntuale, i vivaci Alessandro Battiato (Marullo) e Ivan Defabiani (Matteo Borsa), Giacomo Medici (Conte di Ceprano), Rachele Raggiotti (Contessa di Ceprano), Vladimir Mebonia (uscire di corte) e Silvia Giannetti (paggio della duchessa). La direzione di Francesco Lanzillotta era sicura e partecipe, nonostante qualche accelerazione di troppo, ma i chiaroscuri dell’opera sono stati resi con intensità drammatica: l’Orchestra Regionale delle Marche sapeva accompagnare e valorizzare tutti gli interpreti, mentre il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” ha dominato con sicurezza le scene. La stagione si è dunque chiusa degnamente, nel 2016 il tema del festival maceratese sarà il Mediterraneo.

LA SERVA PADRONA – STORIE DI CAVALLI ORSI E VEDOVE INCONSOLABILI [Simone Ricci] Camerino, 11 agosto 2015.
Il Teatro Marchetti di Camerino ha unito l’operina di Pergolesi con una novità assoluta del mondo dell’opera, accoppiata curiosa ma interessante.
Uno dei punti fermi della storia dell’opera lirica e una novità interessante: l’edizione numero 29 del Camerino Music Festival ha dedicato due serate a un’accoppiata curiosa ma dalle ottime potenzialità, “La serva padrona” di Giovan Battista Pergolesi e “Storie di cavalli, orsi e…vedove inconsolabili”, breve atto unico del compositore contemporaneo Marco Pontini, messo in scena per la prima volta in assoluto al Teatro Marchetti di Camerino. Le note buffe e scanzonate dell’intermezzo settecentesco si sono fuse con quelle più moderne di un’opera che ha preso molta ispirazione dalla musica di Giacomo Puccini. Questa recensione si riferisce alla seconda e conclusiva serata.
Il pubblico camerinese non è stato spiazzato da una intuizione unica nel mondo del melodramma: l’orchestra, infatti, era composta esclusivamente da clarinetti (per la precisione undici clarinetti, tre corni di bassetto, due clarinetti basso e un clarinetto contrabbasso), quelli dell’Orchestra Italiana di Clarinetti che si è formata all’Accademia della città marchigiana, una vera e propria istituzione. Non si è sentita la mancanza dell’orchestra tradizionale e la direzione dello stesso Marco Pontini, intenzionato a far ben figurare la sua “creatura”, è apparsa sicura e spigliata. La regia di Gabriella Medetti ha puntato su una rivisitazione moderna dell’operina di Pergolesi, con un arredamento appariscente e in grado di esaltare le schermaglie tra Serpina e Uberto.
Vespone era forse il personaggio più moderno di tutti, con tanto di cappellino con visiera all’indietro e grosse cuffie alle orecchie. In questo caso si è deciso comunque di non affidargli alcune scene che negli anni passati sono state aggiunte, tanto da far parlare di “intermezzo nell’intermezzo”. “La serva padrona” può sopportare queste introduzioni, ma a Camerino si è puntato sulla versione originaria del 1733 con il personaggio completamente muto (a parte qualche risata o lamento).  Le gag esilaranti avevano un effetto sicuro, senza banalità o trovate scontate.
Alessio Magnaguagno e Fausta Ciceroni erano due protagonisti adeguati: negli occhi si potevano notare le intenzioni comiche e la volontà di essere assolutamente pertinenti all’azione. L’Uberto di Magnaguagno era burbero e tenero allo stesso tempo, senza mai andare sopra le righe e cercando di rendere credibile l’affetto nutrito nei confronti di Serpina. Quest’ultima era ben interpretata da Fausta Ciceroni: il personaggio è tipico dei soprani leggeri, in questo caso è stata mostrata anche una grinta invidiabile e una capacità attoriale in grado di coinvolgere. Il Vespone di Andrea Fermi strappava sorrisi per la sua andatura ciondolante e gli accenni di danza moderna che accompagnavano gli stratagemmi di Serpina.
“Storie di cavalli, orsi…e vedove inconsolabili” ha destato una discreta curiosità: nei quasi 40 minuti di questo atto unico sono tre i personaggi che entrano in scena, Elena (la vedova apparentemente inconsolabile), l’antipatico Grigorij e il servo Lucas. Si intuisce subito che Elena ha perso da tempo l’amato marito, per il quale nutre un sentimento profondo, nonostante i tradimenti da lei scoperti. Grigorij si presenta invece in uniforme russa con la pretesa che la donna gli saldi un debito, mostrandosi sprezzante e sdegnoso, salvo poi innamorarsi, ricambiato, della vedova. Come già sottolineato, la musica faceva pensare al Puccini più sperimentale e non era mai eccessiva ma in grado di esaltare soprattutto il ruolo del tenore.
In una stanza che poteva far pensare alla Russia di fine epoca zarista, addobbata con gusto, Andrea Fermi ha preso progressivamente confidenza col personaggio di Grigorij: una piccola emozione iniziale non ha compromesso la performance, caratterizzata da una dizione chiara e pulita e da un interessante registro medio grave. Fausta Ciceroni (Elena) sapeva fronteggiare con coraggio il suo ostile creditore, in un duetto continuo che ha ricordato da vicino quello tra Germont e Violetta ne “La traviata”, convincendo nei momenti più commoventi. Il Lucas di Magnaguagno poteva sembrare un ruolo marginale, ma è stato creato per cercare di rafforzare la drammaticità di alcune scene e per concludere degnamente l’opera.
L’Orchestra Italiana di Clarinetti si è trovata a suo agio sia nel tratteggiare le buffe litigate de “La serva padrona”, sia nell’accompagnare i momenti lirici dell’atto unico di Pontini. Puntuale ed elegante, poi, è stata Marsida Koni al cembalo e pianoforte. Nessuno può prevedere il futuro e non si può certamente sapere se l’accoppiata verrà riproposta nel teatro camerinese oppure in altri palcoscenici, il voto per la prima volta è senza dubbio positivo, se non altro per aver proposto con convinzione un titolo nuovo, quello di cui l’opera ha bisogno.

LA GAZZETTA [William Fratti] Pesaro, 17 agosto 2015.
Teatro Rossini, 17 agosto 2015. Come ogni anno la Fondazione Rossini e di conseguenza il Rossini Opera Festival sono impegnati nello studio, nella ricerca e nella messa in scena di un Rossini quanto più originale possibile e questa esecuzione de La gazzetta si avvale di un importante ritrovamento che va a completare l’edizione critica già pubblicata una quindicina di anni fa. Si tratta indubbiamente della produzione meglio riuscita del Festival, equilibrata sotto ogni punto di vista: musicale, vocale, scenico.
Il nuovo spettacolo di Marco Carniti, con scene di Manuela Gasperoni, è estremamente funzionale senza essere pretenzioso, elegante e ben costruito senza scendere mai nella macchietta e nel buffo a tutti i costi, sapientemente supportato dai bellissimi e raffinati costumi di Maria Filippi e dalle luci suggestive di Fabio Rossi. La direzione musicale di Enrique Mazzola è di buon gusto, non particolarmente prodiga di colori, ma efficacissima nell’amalgama tra buca e palcoscenico e soprattutto di autentico sapore rossiniano, coadiuvato dal bravo maestro collaboratore responsabile Gianni Fabbrini. La sinfonia presenta un piccolo intoppo nei fiati, mentre il quintetto ritrovato è eseguito molto bene, soprattutto nella terza sezione.
Nicola Alaimo è un eccellente Don Pomponio, brillante nella vocalità, sicuro nel canto, preciso nelle agilità, misurato nella recitazione, quasi troppo elegante per vestire i panni di un tal personaggio, ma forse riesce ancor più a sottolineare la trasformazione da Pandolfo a Pompionio voluta da Rossini.
Hasmik Torosyan è una brava cantante da un punto di vista tecnico, soprattutto nelle colorature della prima aria e nella dolcezza del duetto col padre, ma la voce è acerba, il suono è acidulo e gli acuti non sono tutti puliti. Ottiene infine un buon risultato con “Eroi li più galanti” anche se c’è qualche notina fuori posto.
Vito Priante è un bravissimo Filippo, in possesso di una bella linea di canto limpida e ben proiettata, correttamente focalizzato sull’intenzione rossiniana, soprattutto nell’eccellente duetto con Lisetta, dove Priante e Torosyan danno un’ottima prova di canto. Buonissima la resa di “Quando la fama altera”, particolarmente nelle colorature.
Superlativa è la resa musicale di Maxim Mironov nei panni del raffinatissimo Alberto, che si prodiga in un tripudio di colori fin dall’introduzione. Il tenore, pur non possedendo una voce particolarmente ampia, è dotato di omogeneità invidiabile, supportata da acuti saldi e svettanti, note basse solide e timbrate e mai appesantite, fraseggio espressivo ed elegante, nonché una classe innata e naturale che si fa notare anche nei passi di danza del bel terzetto con Alaimo e Priante.
Altrettanto fine è la prova di Raffaella Lupinacci nel ruolo di Doralice, che rende la non autografa “Ah, se spiegar potessi” con gusto e stile quasi mozartiani. Buona, ma molto semplice, la resa di Josè Maria Lo Monaco nelle vesta di Madama La Rose. Ben adeguati Monsù Traversen di Andrea Vincenzo Bonsignore e Anselmo di Dario Shikhmiri. Simpaticissimo Ernesto Lama nei panni del servitore Tommasino, che conclude l’opera con addosso un cartello che reca scritta la domanda provocatoria e quanto mai usurata: “con la cultura si mangia?”.
Ottimo il Coro del Teatro Comunale di Bologa guidato da Andrea Faidutti.

MESSA DI GLORIA [William Fratti] Pesaro, 18 agosto 2015.
 Appuntamento imperdibile del XXXVI Rossini Opera Festival è la Messa di Gloria, il cui forte richiamo ha spinto la direzione a spostare il luogo dell’esecuzione all’Adriatic Arena, che dispone di molti più posti del Teatro Rossini, dove era stata inizialmente annunciata. Motivo principale di tanta rincorsa al botteghino è indubbiamente la presenza di Juan Diego Florez che non solo è depositario di un certo sapere rossiniano, ma ne è anche abilissimo esecutore e perciò non dovrebbe mancare ad alcuna edizione del Festival, come pure altri interpreti non oggetto di questa recensione che invece sono assenti da diversi anni.
Il celebre tenore non rende la sua consueta prova superlativa nel “Gratias”, mentre eccelle ed incanta sia nel “Qui tollis” sia nella successiva cantata Il pianto d’Armonia sulla morte d’Orfeo. Ricorrere ai soliti elogi nei suoi confronti sarebbe un’inutile ripetizione, mentre in questa occasione è giusto sottolineare quanto di più evidente ha apportato la sua performance priva di rappresentazione scenica, ovvero il saper dare vita ad ogni singola parola attraverso una bellissima e chiarissima pronuncia, un fraseggio armonico, la capacità di cantare tutte le consonanti, prendendo ogni lettera e ogni vocabolo girandoli e impastandoli solo a favore del gusto musicale rossiniano.
Lo accompagna un’altra stella, Jessica Pratt, che si prodiga in una buona riuscita della Messa di Gloria, ma risulta migliore ne La morte di Didone. Ciò che emerge dalla sua esecuzione, come già notato in precedenti occasioni, è una certa forma di pigrizia nel volersi superare pur possedendone i mezzi, forse consapevole di essere già interprete di primissimo livello. In questo caso specifico la si sente caricare troppo in basso e ciò causa una velatura di tre o quattro note sulla prima ottava. Certamente qui si sta discutendo di piccolezze che probabilmente passerebbero inosservate per cantanti qualunque, ma poiché si sta scrivendo di Jessica Pratt, di una delle più belle voci dell’attuale panorama lirico internazionale, brillantissima, tecnicamente preparata, neppure questi dettagli sono perdonabili, poiché da lei ci si aspetta solo il meglio. In conclusione va notato che talvolta cambia la posizione di alcune note lunghe, col risultato di produrre suoni altalenanti che potrebbero sembrare poco intonati pur non essendolo.
Le due star sono accompagnate dalla bravissima Viktoria Yarovaya, dotata di buona tecnica, dall’efficace Dempsey Rivera e da Mirco Palazzi che sempre più spesso brilla in acuto come un baritono, mentre si trova un poco impacciato nelle note basse.
Eccellente la prova del Coro del Teatro Comunale di Bologna preparato da Andrea Faidutti, approssimativa invece è quella della Filarmonica Gioachino Rossini diretta da uno svogliato Donato Renzetti.

L’INGANNO FELICE [William Fratti] Pesaro,18 agosto 2015.
Teatro Rossini, 18 agosto 2015. La ripresa della storica produzione di Graham Vick de L’inganno felice, che ormai compie più di venti anni, si rivela essere una scelta molto fortunato di questo Festival. L’impianto scenico di Richard Hudson, il progetto luci di Matthew Richardson, ma soprattutto il lavoro di regia e sull’interpretazione di Vick funzionano ancora molto bene, non solo per la continua modernità dello spettacolo, ma soprattutto per la chiarezza d’esposizione dell’intenzione rossiniana nel carattere semiserio dell’opera, pur trattandosi di una farsa. Il dramma di Isabella, l’ingenuità di Bertrando, la cattiveria di Ormondo, l’ansia di Batone sono resi con grande pregio e maestria, legati tra loro dal solo buffo presente nella vicenda: Tarabotto.
L’eccellenza di questo amalgama la si riscontra anche in ambito musicale, presumibilmente grazie alla preparazione del maestro collaboratore responsabile Sabrina Avantario, se si tiene in considerazione il gesto un poco approssimativo di Denis Vlasenko, cui va comunque il merito di aver saputo fare squadra e che può rappresentare una promessa per il futuro.
Carlo Lepore è un Tarabotto davvero eccellente e sa far sentire la sua lunga esperienza in campo rossiniano, sia nell’invidiabile vocalità, piena e agile, sia nella resa di un personaggio misurato, in grado di inserire a perfezione il carattere buffo all’interno di un dramma. Il suo canto è di livello sempre alto e sovrasta notevolmente i colleghi nei pezzi d’assieme.
Mariangela Sicilia, nel ruolo di Isabella, parte subito col piede sbagliato, poco intonata e molto infossata. Durante il corso della vicenda si riprende piano piano, arrivando all’aria finale con impostazione soddisfacente, soprattutto tecnica, ottenendo un risultato accettabile.
Vassilis Kavays è un Bertrando molto leggero ed incerto, ma musicale.
Davide Luciano è un bravo Batone, più che meritevole nel virtuosismo rossiniano e nel personaggio, ma in difficoltà sulle note gravi. Apprezzabile anche l’Ormondo di Giulio Mastrototaro.

LA GAZZA LADRA [William Fratti] Pesaro, 19 agosto 2015.
Per il titolo d’apertura del Festival ci si aspettano sempre faville, ma la XXXVI edizione presentava già parecchi dubbi nei nomi in cartellone, perplessità poi riscontrate all’ascolto di questa opera mastodontica e che avrebbe meritato maggior attenzione nella scelta degli interpreti.
I soli artisti veramente meritevoli di questa inaugurazione sono il regista Damiano Michieletto, coadiuvato da Paolo Fantin alle scene, Carla Teti ai costumi e Alessandro Carletti alle luci – che ripropone lo spettacolo prodotto nel 2007, rivelandosi essere ancora molto funzionale e ben chiaro nell’esposizione alternata tra buffo e tragico della vicenda – e il basso baritono Alex Esposito nel ruolo di Fernando, reso con grandissimo spessore drammatico, stile rossiniano eccellente, espressività centratissima nel fraseggio e soprattutto nelle variazioni, decisamente uniforme nella linea di canto.
Si difendono, senza primeggiare, la bella voce morbida di Matteo Macchioni nei panni di Isacco; il timbro scuro della Lucia di Teresa Iervolino che, a discapito di una sortita dalle figurazioni davvero mediocri, si riprende notevolmente in secondo atto e dà mostra delle sue capacità nella buona resa di “A questo seno”; il bel carattere del Fabrizio di Simone Alberghini e la giusta efficacia dei comprimari Alessandro Luciano, Riccardo Fioratti e Claudio Levantino nei panni di Antonio, Giorgio ed Ernesto/Pretore.
Il resto è dozzinale e scadente, a partire dalla Ninetta di Nino Machaidze, bellissima donna dotata di buon carisma e di carriera davvero invidiabile, ma decisamente inelegante, con un canto disomogeneo, discontinuo, impreciso e spesso urlato. Il suo debutto al ROF poteva essere risparmiato, come pure quello di René Barbera, che nel ruolo di Giannetto presenta una bella voce chiara e limpida, ma notevolmente precario nelle agilità e con variazioni lontane dal gusto rossiniano; assolutamente improponibile la frase, da tutti attesa, “Ed io la credea l’istessa onestà!”.
Lena Belkina, che lo scorso anno aveva parzialmente convinto nel ruolo di Arsace in “Aureliano in Palmira”, in questa occasione compie decisamente un passo falso, quasi imbarazzante nel brindisi iniziale, tanto da essere contestata a scena aperta; fortunatamente migliora col proseguire della vicenda. Altrettanto dubbia è la presenza di Marko Mimica, dotato di voce scura, ma pachidermica e si trova prima in serie difficoltà sulle agilità, poi nell’appoggio e arriva al finale secondo con la temibile “Qual fremito! Qual gelo” con intonazione molto precaria.
Soddisfacente, seppur non esaltante, la direzione di Donato Renzetti alla guida della bravissima Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, accompagnata dall’eccellente Coro diretto da Andrea Faidutti.
Esemplare la presenza dell’acrobata Sandhya Nagaraja, una gazza davvero divertente.

LA CAMBIALE DI MATRIMONIO [Lukas Franceschini] Venezia, 19 settembre 2015.
Il teatro La Fenice ha da anni instaurato una collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Venezia per produrre alcuni spettacoli della stagione che in seguito andranno a far parte del repertorio del teatro e utilizzati nel corso delle stagioni successive.
In tale progetto rientrano la realizzazione delle cinque farse di Gioachino Rossini, opere che il compositore scrisse nei primi anni di carriera e furono tutte rappresentate a Venezia tra il 1810 e il 1813. Peculiarità della farsa in musica, genere popolarissimo nel ‘700 e primi ‘800, fu quello dell’atto unico, comunemente senza utilizzare il coro, tre o quattro protagonisti e un paio di ruoli minori, una trama leggera e brillante a lieto fine, presenza fissa della primadonna e del basso buffo.
La ripresa veneziana di questa fine estate è stata La Cambiale di matrimonio (1810), con la regia del grande artista Enzo Dara e già allestita al Teatro Malibran nel 2013.
Deliziosa e brillante partitura cui il regista ha dato un tocco di personalità vivace ed istrionica, caratterizzando i personaggi nella loro veste comica o sentimentale con gusto e pertinenza. Unica pecca, se così si può dire, l’aver inserito quali mini molte maschere della commedia che a mio parere disturbavano l’azione ed erano decisamente superflui. Probabilmente anche Dara ha avuto paura nell’osare una regia più stilizzata, preferendo un riempimento della scena per cerare più effetto.
Ben realizzata la scenografia fissa, di Stefano Crivellari, che ricordava un emporio di tessuti ottocentesco, con scaffalatura apribile utilizzata per le diverse uscite ed entrate dei cantanti. Sullo sfondo lo scorcio di una Venezia antica, ricordando cosi quanto la città sia stata per lungo tempo fulcro di scambi commerciali per tutta l’Europa. Ambientazione storica originale all’epoca di composizione, con costumi di gran sartoria realizzati da Federica Miani.
Uno degli aspetti rilevanti di questa ripresa è stata la direzione del giovane Lorenzo Viotti, figlio d’arte, il cui padre, Marcello, per qualche anno fu direttore stabile proprio alla Fenice prima dell’improvvisa e prematura scomparsa. Viotti possiede già le competenze che parrebbero presagire un futuro più che roseo, spero confermi questa mia prima impressione. Egli ha un senso teatrale perspicace, tenendo un ritmo vivace e ben controllato sia con l’orchestra sia con il palcoscenico. Inoltre, ha ben compreso il “gioco” teatrale rossiniano e lo esegue con cura ammirevole.
Nel cast primeggiava Omar Montanari, Tobia, uno dei migliori bassi buffi della nuova generazione e ogni occasione di riascoltarlo, tre consecutive in pochi mesi, ne confermano le doti, contraddistinte da ottima voce ben rifinita i tutti i settori, tecnica eloquente e una vivacità teatrale di gran rango.
Lo Slook di Filippo Fontana, non può dirsi così rifinito, soprattutto nel registro grave e una vocalizzazione non scioltissima, tuttavia, la sua performance sebbene iniziata sottotono abbia preso vigore nel corso della recita portando a termine una performance onorevole.
Monica Bucciarelli, Fanny, pur vantando una spiccata musicalità e zona acuta solida, non destava particolare sensazione quale primadonna brillante, avendo avuto anche l’opportunità di una grande aria (Vorrei spiegarvi il giubilo) risolta decorosamente ma anche sommariamente monotona.
Più equilibrata la prova di Francisco Brito, tenore di talento capace di usare la mezzavoce e dell’ottimo fraseggio.
Discontinue le parti di fianco, Rossella Locatelli, Clarina, avrebbe voce anche rilevante ma non bene amministrata, mente Claudio Levantino, Norton, evidenziava una voce troppo nasale e un’inespressività teatrale.
Felice e caloroso successo al termine.

L’ELISIR D’AMORE [Lukas Franceschini] Milano, 23 settembre 2015.
Dopo la curiosa e riuscitissima rappresentazione all’aeroporto di Malpensa, trasmessa da Rai 5, L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti torna nella sede tradizionale al Teatro alla Scala..
Il melodramma giocoso fu composto in soli quattrodici gironi e gli arrise un successo travolgente sin da subito. Il deus ex machina è il ciarlatano dottor Dulcamara che scuote un paese di campagnoli, in apparenza creduloni, con il suo elisir miracoloso, ma gli eventi fanno capire che le persone seppur soggioghiate non sono poi così stolte. Altro ruolo buffo è quello dello sbruffone sergente Belcore, il quale in fondo è facile alla consolazione, di donne ne trova quante vuole. Tuttavia, i veri protagonisti sono la giovane coppia d’innamorati: lei Adina civettuola ma simpatica anche se maliziosa, lui Nemorino appartiene al lungo elenco dei ragazzi timidi e sentimentali, un po’ sciocco ma di buon cuore e sentimenti autentici, la sua aria, che è la più famosa dell’opera, è un cesello di lirismo vocale. Con questi ingredienti non è difficile spiegarsi il successo dell’opera, il quale è incontrastato nel corso dei quasi due secoli di vita, soprattutto per quel genere di finale inteso come idillio sentimentale o romantico che commuove ma piace. Inoltre anche l’aspetto cosiddetto “rustico”, che esce dai canoni dei personaggi nobili, il trionfo della semplicità e del candore sono indelebili sia in un ottimo libretto, di Romani, sia nella deliziosa musica di Donizetti.
L’allestimento odierno è una ripresa del 1998, la regia oggi è stata affidata a Grischa Asagaroff, le scene e i costumi sono gli originali di Tullio Pericoli. In linea su quanto espresso sopra scenografo e regista non si scostano dallo spettacolo “favolistico”. La scena bellissima disegnata da Pericoli rasenta il ricordo di antiche fiabe, colorata, illustrativa e di gande effetto. Non da meno i costumi, peraltro di mirabile fattura, che fanno il verso ad un’eleganza “rurale” ormai dimenticata. Il regista Asagaroff si attiene a questo principio e non porta sue soluzioni troppo estranee all’ambiente già creato. Con mano solida realizza una drammaturgia teatrale di pregio, contraddistinta dall’eleganza e con qualche gags gustose mai sopra le righe. I personaggi sono correttamente inquadrati nella loro peculiare personalità, il tutto è piacevole alla visione e aggiungo senza dover riparare in incomprensibili realizzazioni.
In origine questa produzione doveva segnare il rientro al teatro alla Scala del direttore Nello Santi, poi per quale motivo ignoto il progetto non si è compiuto. Sul podio abbiamo trovato Fabio Luisi, eccellente bacchetta e raffinato musicista, che per la prima volta ascoltavo in un’opera comica-buffa. La sua lettura è stata precisa ed attenta ai dettami dell’autore, suono sempre nitido, pregevoli realizzazioni degli assoli strumentali e buon rapporto con i cantanti. Tuttavia, a Luisi manca la brillantezza e il gusto brioso che contraddistingue l’opera. In molti momenti mancava quel guizzo di spavalderia orchestrale, quel colore brioso che rende il melodramma incalzante, ma ripeto trattasi sempre di direzione molto accurata.
Mattatore della serata è stato il protagonista Vittorio Grigolo, un Nemorino molto calato nel personaggio e vocalmente in gran forma. Egli si è preso alcune licenze personali ma sempre con gusto e di spiccata musicalità, capace di sfaccettare il contadino credulone sia sotto l’aspetto patetico sia sentimentale e oggigiorno credo sia la carta più spendibile in questo ruolo.
Eleonora Buratto, Adina, ha dimostrato un’ottima professionalità in un canto lineare e abbastanza preciso, mancava talvolta di civetteria e il registro acuto non è prefetto. Michele Pertusi, Dulcamara, è stato il cantante che conosciamo, ottimo cesellatore della parola, istrionico ed elegante (mai cialtrone vocalmente) capace di interpretare un personaggio rilevante e divertente. Strano che questo ruolo l’abbia frequentato così poco nel corso della carriera. Il giovane Mattia Olivieri, Belcore, è un cantante di grandi promesse, voce ben rifinita anche se non potente, tecnicamente afferrato e ottimo fraseggiatore, oltre a rendere un personaggio ben calibrato e raffinato. Completava la locandina la brava e puntuale Giannetta di Bianca Tognocchi. Una menzione particolare va al coro istruito da Bruno Casoni che si è espresso in maniera eccellente, mentre l’orchestra della Scala ha puntualmente offerto la sua elevata professionalità. Successo entusiastico al termine.

HYPERION [Lukas Franceschini] Rimini, 26 settembre 2015.
Nell’ambito della 66ª Sagra Malatestiana è stata prodotta una nuova versione di Hyperion di Bruno Maderna, in collaborazione con Muta Imago, la quale in seguito sarà riproposta in diverse città italiane ed estere.
Il catalogo teatrale di Maderna comprende solo cinque titoli, dei quali due soltanto, Hyperion e Satyricon, sono destinati alla scena, mentre gli altri nacquero come opere radiofoniche. Hyperion è un work in progress, un’opera “aperta” che ha avuto forme diverse a ogni sua rappresentazione, se ne contano quasi una ventina, e per sua natura è estranea da ogni sorta di classificazione. La prima versione, che si riferisce all’esecuzione al Teatro La Fenice il 6 ottobre 1964 con Severino Gazzelloni al flauto, differenzia dalle successive di cui sono catalogate anche quattro diverse versioni da concerto e due suites. L’opera nasce dalla collaborazione di Maderna con Virginio Puecher, il quale mise in scena in precedenza alcune composizioni “autonome” del musicista.
L’azione, ideata da Muta Imago che non si scosta dal lavoro originale, è un’esplicita metafora della condizione alienata dell’uomo contemporaneo nella realtà che lo circonda. Essa si svolge nella Sala Pamphili del Complesso degli Agostiniani, luogo anche suggestivo ma claustrofobico e che può ospitare solo una cinquantina di persone. La versione scelta è quella per flauto, soprano, voce recitante e nastro magnetico; pertanto eliminati orchestra e coro. Il caldo lirismo del canto della donna sembra pessimisticamente prefigurarsi come l’unico rifugio per l’uomo contemporaneo. E’ questo, per alcuni aspetti, il “messaggio” conclusivo di Hyperion, un nucleo drammatico che garantisce organicità ai materiali musicali ideati ‘dentro’ quel clima poetico ed esistenziale di Hölderlin nelle diverse stesure del suo romanzo. Maderna pare individuare nel poeta l’emblema del lacerante isolamento dell’individuo nella società.
Di grande effetto lo spettacolo ideato da Muta Imago con la regia di Claudia Sorace e la drammaturgia di Riccardo Fazi. Essi creano uno spettacolo crudo e tetro ove è emblematica la lotta dell’uomo che vuole combattere per riuscire ad afferrare frammenti d’unità per cercare intorno a sé lo spazio e il tempo che possa sollevarlo dall’alienazione del disperato finalismo del mondo in cui vive. Questo ricercare non è tranquillo ma impervio ed ogni volta destinato a ricominciare. Lo spettacolo è incentrato su un danzatore, lo strabiliante Jonathan Schatz, con il suo logoro e continuo affannarsi nella ricerca di materiale circoscritto nello spazio disegnato con il gesso sul pavimento e in perenne rielaborazione. Bravissima Karyn de Fleyet, flauto solista magistralmente usato in una musica d’effetto e di difficile tecnica, cui si aggiunge l’unica voce di buona fattura di Hanne Roos. Spettacolo ed esecuzione di valore, che esplorano un mondo musicale poco eseguito, Maderna, il quale meriterebbe più attenzione da parte delle istituzioni musicali. Il ristretto pubblico che gremiva la sala ha decretato un autentico e meritato successo al termine della recita durata circa settanta minuti.

LE NOZZE DI FIGARO [Marco Benetti] Como, 26 settembre 2015.
Si è aperta la Stagione notte del Teatro Sociale di Como con Le nozze di Figaro di W. A. Mozart, nell’allestimento del Teatro San Carlo di Napoli con la regia di Mario Martone (ripresa da Raffaele Florio), in coproduzione coi Teatri di OperaLombardia (Bergamo, Brescia, Como, Cremona e Pavia). Sul podio Stefano Montanari ha diretto l’orchestra de I Pomeriggi musicali. Lo spettatore che entra in sala scopre che il palco straborda nella platea: una pedala circonda la buca d’orchestra e attraverso due scalette, una destra e una a sinistra, permette di accedere direttamente alla scena. Il sipario resta sempre aperto, una tavolata con sedie parzialmente apparecchiata, sul fondo una porta al centro e due scalinate mobili che portano ad una sorta di terrazza rialzata. Ai lati due finti muri, dalle decorazioni neoclassiche, praticabili. Si ha l’impressione che lo scenario si riferisca sì al passato, quello settecentesco in cui l’opera è ambientato, ma che esso sia sbiadito, in decadenza, coperto di polvere e cosparso di foglie appassite cadute dai rami degli alberi colti dall’arrivo dell’autunno.
Il M° Montanari si presenta in buca senza frac, dissacrando il mito del direttore elegante e distinto, sostituito da quello che potrebbe essere una star della popular music. La bacchetta diventa una spada infilata nella schiena quando si deve accompagnare i cantanti al cembalo.
I personaggi si muovono spesso con movenze stereotipate, che ricordano i personaggi della commedia dell’arte: eccessivamente drammatici quando si lamentano ed esageratamente buffi quando si divertono. Si enfatizza il loro essere tipi umani più che risaltare la loro essenza psicologia.
Lo spettacolo viene diviso in due parti: la prima comprende I e II atto, mentre la seconda i restanti III e IV. Per il I atto i cantanti vacillano, tutti. La causa palese è la voce fredda che viene a più riprese sovrastata dall’orchestra. Il pubblico avverte molto probabilmente la situazione e applaude molto poco tra un pezzo chiuso e l’altro. Già nel II atto iniziano a distinguersi alcuni ruoli come il Cherubino di Cecilia Bernini nella celeberrima Voi che sapete. Il Finale dell’atto, grazie alle trovate drammaturgiche, permette a Martone di movimentare l’azione e ad accentuare il gioco degli equivoci su cui questo momento dell’opera è costruito. Con il III atto è la volta della Contessa di Federica Lombardi in Dove sono i bei momenti, particolarmente apprezzata.
Il ruolo di Figaro si addice perfettamente ad Andrea Porta che oltre alle buonissime doti canore palesa una presenza scenica davvero adatta alla parte. Da menzionare Vincenzo Nizzardo nel ruolo del Conte, Lucrezia Drei come Susanna e la Marcellina di Marigona Qerkezi.
Stefano Montanari si dimostra un direttore attento ed esperto della partitura mozartiana (la sua opera d’esordio), spavaldo ed eterodosso, il cui talento dimostra come l’abito non sempre faccia il monaco.

OTELLO [Lukas Franceschini] Parma, 1 ottobre 2015.
Il Teatro Regio di Parma inaugura con Otello l’edizione 2015 del Festival Verdi.
Il Festival Verdi di Parma è stato inaugurato con una nuova produzione di Otello, penultima opera del compositore di Busseto. Salvo errori chi scrive è la prima volta che il titolo è inserito nel Festival autunnale.
Il Festival Verdi sta tentando di riprendere quota con una nuova direzione dopo un periodo non particolarmente felice, e l’auspicio, ma anche l’augurio, è che presto ritorni ad essere quella rassegna annuale di rango che merita di nome, anche se i tempi non sono certo facili, per un teatro situato in una regione con altre realtà quasi identiche.
L’odierno Otello ha avuto un problema molto rilevante a ridosso della prima rappresentazione. Il protagonista doveva essere Roberto Aronica, il quale dopo alcune prove in teatro ha sciolto il contratto che lo legava alla produzione. Non conosco con certezza la motivazione di tale comportamento non è il caso di criticare nessuno, tuttavia le voci di corridoio riportavano che le prove erano esigue e non quelle concordate, Aronica debuttava il ruolo. Vero o meno che sia, il festival si è trovato in serie difficoltà per rintracciare un altro interprete, che come tutti possono immaginare, non abbondano nel panorama internazionale. Scritturato Lance Ryan, anche questo lascia, o è invitato a lasciare, nel giro di due giorni. Al termine di tutta questa complicata situazione appaiono in locandina il nome di Rudy Park e Carlo Ventre che si dividono le quattro recite previste. Considerata la situazione, che probabilmente avrebbe messo in forse l’andata in scena dello spettacolo, è stata una fortuna aver trovato due sostituti all’ultimo.
Rudy Park è un cantante in possesso di mezzi non comuni, voce brunita e squillante e con una certa facilità nel registro acuto. I mezzi oggi si sono ridimensionati ma l’impostazione generale resta, anche se l’acuto in parecchie occasioni risulta strozzato. Il tenore credo sia arrivato a Parma due o tre giorni a ridosso della prima, pertanto poche prove e catapultato in scena. La valutazione è positiva nel complesso, almeno è riuscito ad arrivare fino in fondo all’arduo compito. Tuttavia il personaggio non è rifinito, non c’è fraseggio e colore vocale ma solo una decorosa prova che va plaudita per le condizioni cui sopra descritte. Interpretativamente la traccia è quasi nulla, non c’è in Park per natura la qualità richiesta, e non è certo stato aiutato dallo spettacolo, di cui parlerò dopo, e dal regista.
Delude la Desdemona di Aurelia Florian, già sommaria Amalia qui al Regio. Desdemona sarebbe sulla carta stato terreno più fertile ma problemi d’intonazione e una precaria tecnica ne hanno preclusa la performance che è da valutare con modestia. Resta la considerazione che se il Festival Verdi abbia l’aspirazione di diventare la Bayreuth di Parma occorre più oculatezza nella scelta dei cast e dei titoli da rappresentare, sia di consolazione che se Parma non è felice la città d’oltralpe certo non ride.
Marco Vratogna ha tutte le carte in regola per essere un rilevante Jago, scavo psicologico di alto livello, scansione del fraseggio eccellente, ricchezza di sfumature ed intenzioni. La pasta vocale non è di prim’ordine ma con tali prerogative abbiamo avuto uno Jago di valore, inoltre rispetto a sue recenti prove estive abbiamo avuto un cantante molto più rifinito e in gran forma. Peccato che nel terzo atto abbia avuto un’incertezza sulla frase “Il fazzoletto” e il loggione abbia rumoreggiato, ma al termine è stato premiato con un sincero applauso.
Abbastanza buoni i ruoli di fianco a cominciare dal Cassio di Manuel Pierattelli puntuale e preciso vocalmente e il Roderigo efficace di Matteo Mezzaro. Corretti il Montano di Stefano Rinaldi Miliani e l’Emilia di Gabriella Collecchia, però esuberante nel concertato. Una menzione particolare al giovane Romane Dal Zovo che si è distinto per timbro e impostazione vocale nel breve ruolo di Lodovico.
Daniele Callegari dirige con professionalità ma senza particolari sfumature, tiene un buon rapporto tra buca e palcoscenico e probabilmente il continuo cambio cast avrà inciso sulla resa globale. Buona la prestazione del coro diretto da Martino Faggiani, anche se non ben calibrato nel volume rispetto la sala soprattutto nel primo atto.
Pier Luigi Pizzi firma il suo primo Otello nella regia, scene e costumi, e delude non poco. Scena minimale, come di sua solita cifra, claustrofobica, avvolta in triviali pareti gialle e un discutibile atto III con portali rinascimentali. La regia manca di uno scavo drammaturgico soprattutto sul personaggio di Jago, e il tutto si realizza sul più banale e convenzionale. La scena non permette un fluire teatrale ai protagonisti e al coro, costretto quest’ultimo a scivolare in due stretti corridoi laterali. Anche i costumi non lasciavano traccia, tuniche mediterranee colorate e qualche corazza, dozzinale l’unica veste di Desdemona, una sorta di camicia da notte bianca.
Al termine applausi di cortesia da parte di un Teatro, stranamente non al completo, un paio di contestazioni al soprano e “buh” più marcati all’uscita del regista.

OTELLO [William Fratti] Parma, 1 ottobre 2015.
Dopo la nomina della nuova dirigenza, quello del 2015 avrebbe dovuto essere il Festival del rilancio e invece sembra essere il Festival delle beffe, annunciato e presentato da continui cambi di cast, lettere e articoli alla stampa locale, con attacchi, smentite e scusanti.
Parma, che un tempo era la capitale della musica, il solo teatro di tradizione a reggere il confronto con gli enti lirici, se non addirittura superiore in qualità, oggi è solo l’ombra di se stesso. Si vuole continuare a fare i grandi col nome del più popolare compositore di tutti i tempi, ma il livello è quello della provincia, esattamente come accade agli altri festival fittizi italiani, poiché di vero festival ne esiste uno soltanto ed è quello di Pesaro. E come giustamente ha fatto notare qualche loggionista accanito, uno dei pochissimi rimasti, la colpa non è solo delle dirigenze fallimentari che si sono susseguite, presidenza compresa, ma anche del pubblico: senza andare troppo indietro nel tempo, ai famosi tempi d’oro, ma restando nel XXI secolo, il rumore sollevato dagli spettatori durante un disastroso Rigoletto del 2005 ha costretto molti alle dimissioni; un’altrettanto rovinosa Aida nel 2012 ha fatto molto meno scalpore; l’Otello di oggi, che andrebbe benissimo su un altro palcoscenico provinciale tranne che a Parma, ha provocato solo qualche flebile mormorio, molto ben coperto dagli applausi e dalle acclamazioni di approvazione. Non sussisterebbe alcun problema se tutti fossero contenti; ma il problema c’è ed è enorme, poiché la città si lamenta per strada invece che in sala, ammettendo di non fischiare per paura che il teatro chiuda; i biglietti di platea della prima costano 250 euro e 140 per le repliche e i pochi turisti che sono rimasti – poiché le date delle opere non sono adeguatamente incastrate per permettere di assistere a tutti gli spettacoli in pochi giorni – si trovano a pagare prezzi altissimi, credendo di trovare a Parma il vero Verdi, e poi non si suona nemmeno l’edizione critica dell’opera restando nel solco della tradizione.
La parte musicale di questa inaugurazione è sicuramente la migliore di tutta la produzione, pur senza faville determinanti. La Filarmonica Arturo Toscanini se la cava molto bene, anche se il suono non è particolarmente cristallino e sul podio Daniele Callegari compie un buon lavoro di amalgama tra buca e palcoscenico, ma non si prodiga in una profonda lettura alla ricerca del colore.Una mancanza ancora più profonda nei cromatismi, nelle sfumature, nel fraseggio, nell’espressività, nell’accento, nel saper cantare con classe ed eleganza la si ritrova in Rudy Park. La voce c’è ed è bella, ma poggia quasi esclusivamente sulla natura e non sulla tecnica, natura che è generosa nell’emissione, ma mortalmente noiosa mancando in tutto ciò che può rendere una minima emozione all’ascolto. Rudy Park canta le note di Otello – quelle alte, poiché nelle basse talvolta perde fiato – ma non il ruolo. E il loggione lo lascia passare indenne, pur debole negli applausi.
È invece accolta in maniera contrastante la Desdemona di Aurelia Florian, che attira su di sé qualche leggero mormorio, presto zittito dai parmigiani che l’hanno adottata e che la mettono in palcoscenico per la terza volta consecutiva in un ruolo sbagliato. Le note scritte per Desdemona sono semplici, è un ruolo privo di particolari difficoltà, ma è troppo centrale per la voce di Florian, che è costretta a scurire e imbrunire i suoni al di là di ogni misura, risultando del tutto innaturale e ciò la spinge, in alcuni punti, a essere velata e opaca.
Il migliore dei tre protagonisti è Marco Vratogna e ciò può dare la misura del livello artistico della produzione. Il baritono, già bastonato dal loggione nello stesso ruolo nel 2007, torna in forma migliore, ma comunque lontano dall’essere uno Jago di riferimento. La dizione è sinceramente eccellente, ma non così eloquente è il fraseggio; i piani sono eleganti, ma sbaglia in toto “il fazzoletto” e fa risvegliare “il leone” che in questo caso non è Otello bensì la galleria; bellissimi gli acuti della grande aria di secondo atto, ma inconcepibili le agilità macchinose e piene di “h” in “Innaffia l’ugola!”. È però doveroso notare che è il solo interprete ad interpretare! Dunque a lui soltanto va il nostro plauso.
Adeguato al resto del cast è il Cassio di Manuel Pierattelli, che ha cantato meglio in altre occasioni; si è fatto notare positivamente anche il Lodovico di Romano Dal Zovo. Gli altri comprimari sono il Roderigo di Matteo Mezzaro, il Montano di Stefano Rinaldi Miliani, l’Emilia di Gabriella Colecchia e l’araldo di Matteo Mazzoli.
Eccellente la prova del Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani, affiancato dal bravo Coro di voci bianche e giovanili Ars Canto guidato da Gabriella Corsaro.
Il più contestato è Pier Luigi Pizzi, che con questo spettacolo non fa certo onore alla sua lunga e brillante carriera. Bruttina, seppur funzionale, era La battaglia di Legnano del 2012, molto brutto è l’Otello di oggi. Prima di tutto la regia è inesistente; non si può neppure dire che abbia seguito la tradizione, poiché non c’era alcuna cura dei movimenti e della gestualità negli interpreti; i soli che abbiano reso un minimo di recitazione solo coloro che hanno già cantato più volte questi ruoli. L’impianto scenografico, oltre ad essere pericolosamente scivoloso con un declivio pronunciatissimo, è fatto di cubi e quadrati che hanno poco significato e del medesimo colore betulla dei mobili Ikea, che con l’aggiunta delle porte nere negli ultimi atti sembra di essere nelle stanze di un ostello scandinavo. I costumi sono così sbagliati da sembrare presi all’ultimo minuto dalle casse di una soffitta: tuniche nelle varie tonalità di sabbia e fango in stile Nabucco per il coro uomini, contro colori inadeguatamente vivaci per le donne; pelle fin troppo già vista e rivista per tutti gli uomini d’arme eccetto Otello, intunicato e scalzo come se non avessero fatto in tempo a preparagli un costume; Desdemona ed Emilia sembrano vestite coi due costumi di Lida da La battaglia di Legnano.
Apparentemente buone le luci di Vincenzo Raponi, ma non si può ben capire con tutto quel giallino betulla. Da dimenticare le coreografie di Gino Potente.
E per fortuna che a Parma c’è il miglior fotografo di teatro, che con la sua macchina sa ingentilire la qualunque.

MACBETH [Lukas Franceschini] Bologna, 8 ottobre 2015.
Dopo la pausa estiva, il Teatro Comunale di Bologna riprende l’allestimento di Macbeth di Robert Wilson che debuttò al Comunale due anni or sono, stesso direttore, Roberto Abbado, e cast in parte simile.
Come ebbi modo di scrivere allora, la regia di Robert Wilson non si annovera nel convenzionale. Il poliedrico artista statunitense agisce con un linguaggio del tutto personale integrando suono, luce, spazio, azione e danza. La scena è minimalista ma caratterizzata da un gioco di luci di straordinaria efficacia su una base d’oscurità continua che potrebbe significare la losca e truce vicenda. La recitazione inconsueta ed astratta nel simbolismo pone i personaggi agire uniformemente con gesta ripetitive e pose manierate, adottando come di sua norma un linguaggio che non si limita alla sola drammaturgia, ma coniuga tra loro elementi che denotano più uno spazio mentale rispetto alla fisicità.
Rappresentativo che i protagonisti siano sempre quasi alla ribalta del palcoscenico mentre gli altri in penombra avanzano di colpo come in un’evoluzione inesorabile, a tal scopo, il primo personaggio a comparire è la Lady durante il preludio del primo atto. Quello di Wilson non è un Macbeth classico, lo sapevamo, ma trova in questa forma di linguaggio una simmetria e un’originalità d’indiscussa forma elevata di teatro, e aggiungo di chiara ed immediata percettibilità, senza sconfinare nell’astrusa incoerenza oggi molto in uso nelle regie d’opera. Avvincente lo scorrere d’immagini e sculture simboleggianti l’azione momentanea cui i cantanti si “avvolgono” in una gestualità coreografica d’indiscussa presa. Non meno riusciti i costumi spettrali di Jacques Reynaud, peccato che le luci scure ne coprano la fattura. Essendo il teatro di Wilson basato sull’estetica e la danza ci pare strano aver eliminato il balletto, poiché si eseguiva la versione del 1865, ed elemento di disturbo era la fascia di luce al neon sul proscenico rivolta al pubblico, per chi stava in platea alla lunga accecava.
La direzione di Roberto Abbado è stata bellissima come in occasione della prima esecuzione. Il direttore milanese, assecondato da un’orchestra in forma splendida, restituisce alla ruvida partitura del primo Verdi tutto il cromatismo sonoro necessario, tempi stringati ma incalzanti, drammaturgia tesa ed esemplare. Mai un momento la sua bacchetta ha perso il controllo con il palcoscenico portando a termine un lavoro di concertazione teatrale ad grandissimo livello. Altrettanti lodi si devono esprimere per il bravissimo coro diretto da Andrea Faidutti.
Il cast era molto onorevole pur non vantando esibizioni mirabili che oggigiorno richiamerebbero ad un passato ormai lontano. Dario Solari, stesso protagonista di due anni or sono, ha maturato enormemente il personaggio. Abbiamo avuto un Macbeth più rifinito nel fraseggio, emotivamente convincente nel dramma e di solida professionalità vocale. Amarilli Nizza, Lady Macbeth, ha impressionato per la sbalorditiva psicologia del ruolo creato scenicamente con sguardi, accenti e pose di grande attrice. Vocalmente in piena luce vocale, rifinita in scansioni e colori, anche se alcuni passaggi erano palesemente sorvolati, ma proprio quelle note così ardue oggi nessun’altra è in grado di risolvere.
Di ottima fattura il Banco di Riccardo Zanellato, voce non potentissima ma rifinita e molto musicale, anche Lorenzo Decaro ha fornito buona prova nel ruolo di Macduff, forse l’accento da rivedere ma preciso e ben preparato. Buone le parti di fianco, a cominciare dalla Dama puntuale di Marianna Vinci, al Malcom di Gabriele Mangione e le tre apparizioni Michele Castagnaro, Chiara Alberti e Alice Bertozzo. Completavano la locandina con solida professionalità il medico di Alessandro Svab, il domestico di Michele Castagnaro, il sicario di Sandro Pucci e l’araldo di Luca Visiani.
Allo spettacolo e a tutto il cast è stato tributato un caloroso e sostenuto applauso al termine.

ELISABETTA REGINA D’INGHILTERRA [William Fratti] Sassari, 9 ottobre 2015.
Opera poco rappresentata del belcanto italiano, Elisabetta Regina d’Inghilterra di Gioachino Rossini non ha nulla da invidiare alle sue sorelle maggiori, se non nell’efficacia del recitativo, poiché il gusto musicale e teatrale è di indubbia levatura. L’Ente Concerti Marilisa de Carolis presenta un nuovo allestimento di Marco Spada, coadiuvato alle scene da Mauro Tinti, ai costumi da Maria Filippi e alle luci da Fabio Rossi, spettacolo che ha i medesimi pregi e difetti di alcuni suoi lavori precedenti. È elegante e giustamente contemporaneo, poiché la lotta di potere di Elisabetta I con gli uomini della sua corte non differisce molto dalle problematiche vissute da Elisabetta II con alcuni dei suoi governi, naturalmente in chiave più attuale e meno sanguigna, ma non per questo meno interessante. Gli ingressi e le uscite delle masse sono sempre ben gestite, ma il vuoto monotono che contraddistingue i momenti di canto e le pagine di intermezzo musicale, in cui accade il nulla assoluto, è davvero noioso. Lo stesso vale per i protagonisti: chi ha esperienza o doti interpretative naturali sa come comportarsi; viceversa chi ha bisogno di un disegno di regia più puntuale non sa come muoversi. In generale è uno spettacolo efficacie, valido e piacevole che andrebbe ripreso anche su altri palcoscenici, ma coi giusti accorgimenti per scongiurare la noia e il sonno. Esito completamente diverso per la parte musicale, decisamente disastrosa. L’orchestra, tendenzialmente poco pulita e poco precisa, viaggia abbastanza bene negli archi, ma ha una sezione dei fiati da rivedere, soprattutto nei corni e la bacchetta di Federico Ferri sembra dirigere una composizione sacra barocca dedicata ai defunti anziché Rossini. Lo stile del pesarese è totalmente assente, manca nel fraseggio, nell’accento, nel colore, nell’intenzione, nelle dinamiche, persino nelle scelte di orchestrazione e concertazione. Ma ciò che è peggio è che risulta evidente che non comprende le singole abilità degli interpreti e non è in grado di valorizzarle, anzi tende a metterli in difficoltà con tempi assurdamente lenti in alcuni punti – costringendoli a prendere fiati lunghissimi o più numerosi, andando a ledere l’omogeneità del loro canto e stancandoli oltre ogni limite – poi addirittura troppo veloci in altri, facendo pasticciare le loro agilità. Lo sguardo di Ferri non è mai rivolto al palcoscenico, c’è totale assenza di dialogo, mentre dovrebbe imparare l’umiltà di fare gioco di squadra al fine di raggiungere il miglior risultato possibile con le capacità di tutti. Fortunatamente ogni tanto si vede sbucare dalle quinte qualche maestro collaboratore e presumibilmente va a loro il merito degli attacchi corretti. Ma ciò deve essere da monito per tutte le dirigenze che durante le prove devono saper riconoscere gli artisti inadeguati e sostituirli, direttore compreso. Come pure bisogna imporre la riapertura delle buche dei suggeritori, inventate a suo tempo per una serie di nobili motivi. Il Coro diretto da Antonio Costa è purtroppo poco incisivo e leggermente approssimativo; mentre i cantanti solisti sono tutti di buon livello e sono certamente gli autori del buon esito della serata.
Silvia Dalla Benetta, reduce da un intero anno dedicato a Rossini, arriva al suo debutto di questo difficile ruolo Colbran con la consapevolezza e la preparazione tecnica che si addice al Rossini serio e drammatico, puntuale nel fraseggio e nelle variazioni per sottolineare adeguatamente il senso musicale del dramma. Nonostante l’inadeguatezza della bacchetta riesce a sopravvivere a una situazione professionale che ne ha del surreale, con perizia e dedizione, interpretando una regina giustamente misurata in primo atto, per poi tirar fuori denti e unghie nel secondo, esplodendo in un feroce “Fellon, la pena avrai”, sciogliendosi in una dolcezza emozionantissima in “Bell’alme generose” ricca di pianissimi e cromatismi raffinati, abilissima nel legato e concludendo con un efficacissimo “Fuggi amor” dove la Dalla Benetta è una vera macchina di coloratura.
Alessandro Liberatore è un Leicester svettante nella voce e nel personaggio, dotato di un bellissimo timbro e un bel fraseggio, anche se un poco più donizettiano che rossiniano. Brillanti gli acuti, seppur poco precisi quelli più estremi.
Sandra Pastrana è una bravissima Matilde, tecnicamente accurata, anche nell’intenzione e nello stile di Rossini. Eccellenti le agilità, ma non limpidissime le note più alte.
Il Norfolc di David Alegret è forse il personaggio meno riuscito, ma il tenore contraltino è in possesso della giusta vocalità e perizia tecnica per vestire i panni del terribile parente di Elisabetta, grande del regno, leggero e insidioso come il veleno di un serpente. Ottime le agilità e gli acuti, un poco mancante nelle note basse, soprattutto al termine delle frasi che il direttore gli tiene troppo lunghe.
Ottima interpretazione anche per Olesya Berman Chuprinova nel panni di Enrico. Autorevole al punto giusto il Guglielmo di Nestor Losan.

DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Treviso, 9 ottobre 2015.
La Stagione Lirica al Teatro Comunale “Mario del Monaco” è iniziata con l’opera di Wolfgang Amadeus Mozart Don Giovanni, alla quale partecipano i vincitori del XLV Concorso Internazionale per cantanti lirici “Toti Dal Monte”.
Il Concorso di canto, intitolato alla celebre cantante trevigiana, anche quest’anno è fucina di nuove voci alle quali è data la possibilità di debuttare il ruolo in teatro. Personalmente penso sia una delle migliori soluzioni quando si organizza un concorso di canto, serviranno anche premi e targhe, talvolta assegni in denaro, ma quello che più necessitano i giovani si chiama esperienza teatrale, la possibilità di calcare il palcoscenico e offrire al pubblico la loro capacità. In seguito saranno altri fattori a decidere della loro carriera, ma l’elenco d’illustri cantanti che negli anni hanno partecipato al Concorso di Treviso è lunghissimo e speriamo sia d’auspicio anche per coloro che si sono cimentati quest’anno.
Lo spettacolo utilizzato non era nuovo ma creazione di anni passati a cura, nelle scene e nei costumi, di Eugenio Monti Colla che allora utilizzò anche le celebri marionette che tanto lo resero famoso. Pertanto è stato difficile e problematico il lavoro del regista Lorenzo Regazzo, il quale ha dovuto riprendere uno spettacolo d’altri, adattarlo ad un nuovo corso, istruire i giovani cantanti, molti dei quali con pochissima esperienza, ed individuare una chiave di lettura pertinente ed attuale. L’esperienza del cantante veneziano ha sicuramente giovato alla buona riuscita del progetto. L’impianto scenico è di solida tradizione seicentesca, cui Regazzo dispone una mano sapiente servendosi della commedia dell’arte e del teatro picaresco. Non cerca soluzioni registiche di estrazione filosofica o di particolare fattura, affronta il dramma come deve essere fatto incentrando il ruolo del protagonista come un corruttore di anime, poi anche come gran seduttore più predisposto ad incrementare il catalogo. Tutti gli altri ruotano attorno a lui, in maniera variegata e in situazioni diverse, ma pur sempre succubi di un uomo che non indugia nel male. A tale impostazione molto marcata e giusta non mancano tutti gli aspetti giocosi che contribuiscono alla vicenda, il divertente servo, il catalogo che diventa un libro sempre grande nelle proporzioni, il continuo interrogatorio di Don Giovanni nei confronti di Leporello se ricorda esattamente il numero delle sue conquiste, la civettuola Zerlina. Le tinte sono tutte rispettate in una scorrevole narrazione, la quale si adatta alle diverse situazioni e non di rado strappa un sorriso ironico. La gestualità dei cantanti era misurata e ben rifinita e qui la personalità di Regazzo si è notata con particolare resa teatrale di giusto ed azzeccato spirito comico-drammatico. I costumi erano di buona fattura e con varianti cromatiche, mentre le luci di Roberto Gritti potevano essere più distinte.
Altro artefice di questa buona riuscita è stato il direttore Francesco Ommassini, il quale si è impegnato in una lettura integrale, è stata eseguita la versione di Praga con l’aggiunta delle due arie viennesi. La sua concertazione era incalzante e ben solida, spronando l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta in momenti efficaci di alto spessore drammatico ma senza mai calcare la mano e tenendo in perfetto equilibrio il dramma che è anche giocoso. Sicuramente qualche tempo era un po’ allentato ma bisogna tenere conto che il cast era per la maggior parte composto di giovani e pertanto questa è una lode che esprimo al direttore, in altre parole la capacità di tenere bene saldo il rapporto tra orchestra e palcoscenico in considerazione delle peculiarità della produzione, in definitiva significa saper concertare per raggiungere il miglior obiettivo, il quale è stato sicuramente raggiunto.
Positiva la prova del coro Iris Ensemble, istruito da Marina Malavan, abbastanza preciso e di rifinita partecipazione.
Il cast è d’obbligo dividerlo in due sezioni: i cantanti vincitori del concorso e quelli scritturati poiché il ruolo non fu assegnato tramite la competizione. Tra questi ultimi s’impone il Don Giovanni di Luca Dall’Amico, perfetto nel ruolo di seduttore sprezzante. La voce non ha timbro particolare ma il cantante si disimpegna in tutta la partitura senza incertezze, forse il canto a fior di labbro non è proprio terreno fertile ma il fraseggio è brillante e rifinito con accenti e colori davvero emozionanti. Davide Giusti, Don Ottavio, è un tenore tipicamente lirico e si discosta notevolmente dall’usanza odierna di utilizzare voci di tenore leggere o sfibrate e biancastre. Il cantante ha bel timbro e nel complesso abbastanza squillante ma i limiti tecnici gli impediscono una resa efficace e continua: sovente ci sono problemi d’intonazione e manca di uno stile appropriato, tuttavia le doti ci sono ed appare strano che il suo momento migliore sia stato l’esecuzione della difficilissima aria del II atto. Il Commendatore di Federico Benetti è apprezzabile vocalmente ed interpretativamente anche se il volume molto limitato.
Tra i giovani del concorso emerge su tutti la Donna Anna di Valentina Varriale, brava cantante, rifinita tecnicamente, buon fraseggio e una notevole presenza scenica. Gioia Crepaldi, Donna Elvira, necessita ancora di studio più approfondito per affrontare la parte che sovente la mette a disagio soprattutto nella zona di passaggio, il personaggio era credibile, anche se personalmente penso che la sua voce sia troppo leggera per tale ruolo. Di grandi speranze il Leporello di Lorenzo Grante, giovanissimo soli ventitré anni, ma già in possesso di mezzi non comuni, simpatico e nel complesso preciso cantante con forbita recitazione. Diamogli tempo! Corretta, ma talvolta troppo maliziosa, la Zerlina di Letizia Quinn, mentre seppur con voce interessante il Masetto di Roberto Maietta sia risultato ancora un po’ acerbo.
Successo franco ed incoraggiante per tutti al termine, purtroppo non è mancato un dissenso isolato ad una giovane, credo che tale comportamento sia stato poco elegante. Non nego il diritto di dissentire, tutt’altro, ma sapendo che si assisteva ad una recita con i vincitori del concorso, anche se non rientravano nei propri gusti vocali, si poteva evitare. Anche il regista Lorenzo Regazzo alla sua uscita finale ha ricevuto un caloroso applauso, tuttavia questi era mescolato a due-tre “buh”, in questo caso un po’ più plausibile ma non condivisibile.

IL DIARIO DI UNO SCOMPARSO – LA VOIX HUMAINE [Lukas Franceschini] Venezia, 10 ottobre 2015.
Da alcuni anni il Teatro La Fence ci ha abituato alla proposta di dittici, serate in cui sono rappresentati due lavori operistici o dello stesso autore o con tematiche simili. Quest’anno è il caso di Zápisník Zmizelého (Il diario di uno scomparso) di Leoš Janáček e La voix humaine di Francis Poulenc.
Il diario di uno scomparso non è propriamente un’opera lirica, bensì un ciclo di liriche composte tra il 1917 e il 1919 che rivestono un carattere simile all’opera solo per la carica drammatica, infatti raccontano la vicenda del giovane Jan, contadino introverso e religioso, e della sua ammaliatrice, la zingara Zefka. La Voix humaine invece è una tragedia lirica tratta dall’omonima pièce teatrale di Jean Cocteau, e narra dell’ultima conversazione telefonica di una donna con l’amato che ha deciso di lasciarla, rievocando i cinque anni passati assieme. Il trait d’union delle due opere è l’abbandono ma visto da prospettive diverse. Nella sequenza lirica di Janáček il giovane Jan abbandona, non senza tormento, una vita contadina di solide tradizioni per fuggire verso un nuovo destino, una vita diversa da quella tradizionale anche imposta dalla famiglia, senza timori ma con passione poiché l’amata l’ha reso anche padre. Ne’ La voix humanine la donna è parte di un dialogo telefonico a senso unico, poiché non si sentono le risposte dell’uomo e frammentato dal continuo disturbo della linea telefoniche, circa la disperazione dell’unica protagonista, sola in scena con il telefono, abbandonata dall’amante.
Temi forti, in parte attuali, drammatici e per nulla scontati. A Venezia il regista Gianmaria Aliverta consapevole che l’amore è il sentimento che lega i due brevi lavori decide che diventeranno dramma musicale unitario attraverso una “lente” speciale nella quale li ha voluti leggere. Operazione ardua e non riuscita, almeno per chi scrive. Nel primo atto di Janáček si assiste inizialmente alla scena di una donna piangente (quale?) e alla perquisizione di una da parte di un poliziotto intento a cercare le prove che giustifichino la scomparsa di Jan. Parallelamente si vede una coppia di mini, in apparenza due sposati, che dormono in un letto matrimoniale. Da questi l’uomo fugge di nascosto per incontrarsi con la zingara e poi dedicarsi alla passione con lei. E’ la linea principale che non condivido, il giovane Jan è già spostato? O convive con un’altra donna? Questo punto di vista non coincide né con il carattere della vicenda né con il comportamento del giovane. La donna è la stessa che piange all’inizio, eventualmente dovrebbe essere la madre o la famiglia a disperarsi per la sua scomparsa. In aggiunta la giovane zingara è abbigliata come una prostituta da marciapiede, scelta troppo azzardata e logora come intenti. Nella seconda parte la telefonata, che si svolge attraverso un cellulare (poco pertinente perché nel testo c’è anche un breve colloquio con la centralinista) nella sala d’attesa di un ipotetico pronto soccorso. La donna ha un flebo al braccio, un calmante per il suo elevato stato d’ansia, e per i quaranta minuti della vicenda interagisce con l’amato dall’ospedale, talvolta aiutata dalle infermiere. Solo al termine si capisce che il suo amato è lo stesso Jan dell’opera precedente che lei uccide per non essere lasciata, rientra lo stesso poliziotto del primo atto che ha scoperto il delitto e prima di poter arrestare la donna questa si toglie la vita con un colpo di pistola. Pertanto tutto il colloquio era una sorta di dramma in stato di delirio. Tale posizione registica è assolutamente fuorviante poiché l’abbandono non può essere capovolto in omicidio, i caratteri del testo sono ben chiari. Tuttavia, sarebbe ingiusto non valutare l’operazione anche con uno studio e una ricerca personale che però inevitabilmente sfocia nel paradossale. Ottima la recitazione sia dei cantanti sia del mimo, anzi quest’ultimo Francesco Bortolozzo, di una bravura strepitosa. Funzionali le scene di Massimo Checchetto, costituite da un interno di abitazione moderna molto lineare, e bellissimi i costumi di Carlos Tieppo.
La parte musicale invece stata di elevata professionalità. Le liriche di Janáček sono state accompagnate magistralmente al pianoforte (seminascosto da una tenda) da Claudio Marino Moretti, maestro del Coro della Fenice. Jan era Lonardo Cortellazzi, un tenore sempre in ascesa. Voce squillante e duttile ha reso alla perfezione la difficoltosa parte, con ampia varietà di accenti e nessuna sbavatura nel registro acuto. Ottima la prova seppur breve anche di Angela Nicoli, la zingara, voce profonda e molto espressiva.
Nell’opera di Poulenc abbiamo avuto l’ottima direzione di Francesco Lanzillotta, che ha scavato con maestria la difficile partitura, rendendola in maniera efficace soprattutto nelle tinte e nei colori, forti ed emozionanti. Ottima prova anche dell’orchestra che ha seguito le istruzioni del podio. Strabiliante sia la prova attoriale sia canora di Angeles Blanca Gulin, cantante immedesimata nel ruolo ad alta tensione drammatica con risultati a dir poco eccezionali.
Pubblico poco numeroso quello accorso al dittico, interessante e poco rappresentato, ma molto caloroso di applausi al termine.

IL VIAGGIO A REIMS [Margherita Panarelli] Novara, 11 Ottobre 2015.
Un cast giovane per una rappresentazione fresca e simpatica de Il Viaggio a Reims di Gioacchino Rossini al Teatro Coccia di Novara per la regia di Giampiero Solari e la direzione di Matteo Beltrami.Le scenografie minimaliste di Angelo Linzalata formano un’adeguata cornice a questa produzione della Fondazione Coccia di Novara la quale merita sicuramente numerose lodi per aver messo in scena, e squisitamente, un’opera con le caratteristiche di Il Viaggio a Reims in un teatro di dimensioni relativamente ridotte quale quello Novarese.
Il versante femminile del cast sicuramente riserva più soddisfazioni del versante maschile ma ecco nello specifico: La Corinna di Alexandra Zabala è avvolgente quanto lo strascico del suo vestito. Voce calda, corposa, sempre ottimamente calibrata e ricca di fascino. Eccellente la Marchesa Melibea di Teresa Iervolino, volitiva e energica. Benissimo anche Francesca Sassu nel ruolo di Madama Cortese. Il gusto e l’eleganza di quest’artista la confermano una delle eccellenze odierne nel canto lirico. Maria Aleida nel ruolo della Contessa di Folleville può sfoggiare sovracuti eccellenti ed è sempre corretta ma il volume della voce è davvero molto piccolo. È udibile a malapena nei momenti solistici e nei duetti e scompare nei concertati.
Non delude invece Giulio Pelligra nel ruolo del Cavalier Belfiore. Lo squillo non manca al tenore catanese che interpreta con generosità. Convince anche Francisco Brito nel ruolo del russo Libenskof e fa molto bene anche Paolo Pecchioli nel ruolo di Lord Sidney. Bravo, ma acerbo per il ruolo, Pietro di Bianco che veste i panni di Don Profondo. Sprigiona ancora carisma in quantità Bruno Praticò ed ha il perfetto phisique du role per il Barone Trombonok. Agile vocalmente e felino nei movimenti il Don Alvaro di Gianluca Margheri. Simpatico il Don Prudenzio di Rocco Cavalluzzi e eccellente Carlotta Vichi come Maddalena. Molto bene infine Murat Can Guvem com Don Luigino, Manuela Ranno nei panni di Delia, Sofio Janelidze: Modestina, Nicola Pisaniello come Zefirino e Stefano Marchisio: Antonio.
Eleganti i camerieri sui pattini che hanno dato movimento alle scene con le loro graziose corografie e molto interessante la scelta di affidare il “cembalo” al violoncello. Belli e spiritosi i costumi di Ester Marcovecchio.
Diligente l’Orchestra del Conservatorio Cantelli che ha accompagnato egregiamente i solitsti anche se a tratti era auspicabile una maggiore brillantezza di suono. Nel complesso una messa in scena ben riuscita della quale è facile dimenticare le pecche. Calorosi gli applausi del pubblico presente, in un teatro purtroppo non gremito, e l’intera compagnia di canto, a cui si è aggiunto persino lo stesso direttore, ha concesso il bis della scena XIX° “Signori ecco una lettera”

MACBETH [William Fratti] Bologna, 15 ottobre 2015.
Dopo il successo ottenuto in occasione del Bicentenario Verdiano, il Macbeth nello spettacolo interamente ideato da Robert Wilson torna sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna.
Ciò che accade spesso nelle produzioni meticolose, studiate nel dettaglio sotto ogni punto di vista, è che le riprese a distanza di tempo funzionano ancora meglio delle prime; ed è ciò che è successo sul palcoscenico bolognese, dove la poesia, l’arte pura ed elegante del regista statunitense è stata sapientemente ripresa, sotto la sua personale supervisione, dal bravo Gianni Marras con la collaborazione di Nicola Panzer. La precisione dei movimenti coreografici, dove nulla è lasciato al caso, la raffinatezza della gestualità, l’espressività della mimica, la coerenza dello sviluppo drammatico, l’accuratezza degli effetti luce – ideati dallo stesso Wilson e messi a punto da AJ Weissbard – fanno di questo spettacolo un’eccellenza nell’arte del teatro. Lo stile e il gusto possono non piacere, ma il lavoro deve essere stimato col massimo dei voti. Bellissimi e accuratissimi i costumi di Jacques Reynaud, il trucco e le parrucche.
Altrettanto superlativa è la prova di Roberto Abbado, che trova all’interno della partitura verdiana dei colori e delle sfumature che fanno sentire suoni nuovi, fin nei singoli strumenti. Straordinario è il dialogo con il palcoscenico, giocato tra pianissimi e fortissimi di orchestra e cantanti proprio come indicato nello spartito, a totale effetto del senso teatrale verdiano. Come sempre eccezionali l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna e il Coro guidato da Andrea Faidutti.
Dario Solari, che in altre circostanze non abbiamo sentito primeggiare, in questa occasione esprime un fraseggio davvero sorprendente, soprattutto in primo atto, dove “Mi si affaccia un pugnal!” e il successivo duetto “Fatal mia donna!” sono resi con un’incredibile efficacia drammatica. La linea di canto è morbida e sicura.
Ma la vera protagonista assoluta è la Lady di Amarilli Nizza, dotata di un’espressività oltre ogni misura che si rivela in ogni singolo sguardo, accentuata dalla sapiente immobilità raffinata voluta da Wilson. La tecnica di canto è salda e le permette i salti vocali tra gravi e acuti previsti dalla parte, eloquente il fraseggio, timbratissimi i pianissimi – davvero belli e suggestivi sono quelli del concertato – speciali i sussurrati, degni della cantante attrice che si sta imponendo come una delle migliori interpreti verdiane.
Ben centrato il Banco di Riccardo Zanellato, ben omogeneo nella vocalità.
Buona la prova di Lorenzo Decaro nel ruolo di Macduff, dove mostra maggiore sicurezza negli acuti rispetto a occasioni precedenti, anche se si nota ancora leggermente il rischio che non siano posizionati bene in avanti, ma va sempre notata la bellezza del timbro.
Ottima la Dama di Marianna Vinci e particolarmente efficaci il Malcolm di Gabriele Mangione, il Medico di Alessandro Svab, il domestico e prima apparizione di Michele Castagnaro, il sicario di Sandro Pucci, l’araldo di Luca Visani e le apparizioni di Chiara Alberti e Alice Bertozzo.
Eccellenti i mimi: Jacopo Trebbi, Valentina Vandelli, Simone Susani, Nicole Guerzoni, Leonardo Bianconi, Carlo Alberto Brunelli.

NORMA [Lukas Franceschini] Padova, 16 ottobre 2015.
La Stagione Lirica al Teatro Comunale “G. Verdi” è iniziata con la tragedia lirica Norma di Vincenzo Bellini, partitura assai ostica da allestire oggi per la scarsa presenza di protagoniste adeguate, nella maggior parte dei casi si tratta di soluzioni frutto di adattamento.
E’ il caso accaduto anche nella città veneta, dopo alcune sostituzioni dalla pubblicazione del programma, abbiamo avuto la presenza di Saioa Hernandez. La signora, che credo di origini spagnole, ci ha offerto una prova canora non del tutto convincente, anche se gli organizzatori hanno continuamente sbandierato che trattasi dell’allieva prediletta di Montserrat Caballé ma questo non vuol dire nulla, mi si permetta di affermare che frequentare quale docente un celeberrimo cantante del passato non equivale ad avere le stesse caratteristiche. La voce è sicuramente importante, di spessore drammatico e potrebbe essere anche un mezzo ideale per affrontare il ruolo, tuttavia un registro acuto piuttosto stridulo e un canto d’agilità raffazzonato non offrono il segno peculiare per una performance dignitosa, anche se il fraseggio era variegato ed espressivo.
Molto meglio l’Adalgisa di Annalisa Stroppa, la migliore del cast, sensibile interprete, puntuale cantante rifinita e con accenti partecipati. Luciano Ganci, Pollione, ha espresso buoni mezzi e anche intenzioni apprezzabili, peccato che qualche caduta dell’intonazione e uno stile non sempre omogeneo hanno remato contro. Ritengo che se il ruolo sarà più focalizzato ed eseguito in futuro, in altra situazione potrebbe riservare migliori risultati.
Accettabile l’Oroveso di Cristian Saitta, anche se manca dell’ampiezza nobile del ruolo e di una scansione vocale più penetrante. Ottima, anzi quasi sprecata, Alessia Nadin nel piccolo ruolo di Clotilde, precisa e molto musicale, altrettanto si deve registrare del bravo Antonello Ceron nel ruolo di Flavio.
Il vero tallone d’Achille di questa produzione è stato il direttore Tiziano Severini, il quale con il titolo belliniano ha pochissima dimestichezza poiché dirige sempre con estrema lentezza ampliando i tempi in maniera monotona e non trovando un’efficace e convincente interpretazione. Tale aspetto ha compromesso in generale l’esito della serata ma soprattutto l’esibizione dei solisti, i quali se fossero stati sorretti in altra concezione, forse, avrebbero potuto offrire risultati migliori. Esecuzione nella quale sono stati omessi tutti i da capo. L’Orchestra di Padova e del Veneto non brillava particolarmente per precisione e omogeneità, si può ipotizzare perché attenta alle disposizioni del podio, tuttavia della stessa formazione ho ascoltato prove ben superiori.
Molto buona la prova del Coro Città di Padova, diretto da Dino Zambello, preciso e omogeneo.
Lo spettacolo era una creazione di Paolo Miccichè, autore di regia, scene e visual graphic, le quali sono delle proiezioni che accostano a una scenografia ridotta al minimo. Avevo già assistito a questo tipo di spettacolo realizzato dallo stesso Miccichè all’Arena di Verona nel 1999. In tale occasione non mi aveva particolarmente colpito anzi, direi annoiato. La Norma odierna è stata leggermente migliore, forse perché trattasi di uno spettacolo al chiuso e più raccolto. Le proiezioni erano anche godibili, seppur notevolmente iconografiche, ma il vero disturbo consisteva nel continuo scorrere delle immagini, il quale provocava disturbo nella visione e una sorta di stordimento nello spettatore, a questo si aggiunga che il colore dominate era il nero e pertanto la scena era sempre scura e plumbea, per nulla affascinante. La mano registica era quasi assente, banali i movimenti, soprattutto del coro, e poca perizia nei momenti più drammatici, come il finale atto primo e la scena prima del secondo, nella quale la tensione raggiunge l’apice quando Norma ipotizza di assassinare i suoi figli. Costumi, tradizionali ma decorosi, di Alberto Spiazzi e luci non sempre azzeccate di Graziano Albertella.
Applausi al termine, a chi scrive apparsi più di cortesia che di vero successo.

PELLEAS ET MELISANDE  [Margherita Panarelli] Torino, 16 Ottobre 2015.
Una entusiasmante rappresentazione in forma di concerto del dramma lirico di Claude Debussy dà il via alla nuova stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.
Un cast di fuoriclasse dà vita all’evocativa partitura di Claude Debussy con gusto e sentimento sostenuto egregiamente dall’ Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Juraj Valčuha. Sandrine Piau è ottima nei panni di Mélisande e trasmette alla perfezione le traversie emotive della fanciulla lungo tutti e cinque gli atti attraverso un canto appassionato e sempre perfettamente aderente al testo. Soprattutto grazie alla mancanza di scenografie si è potuto apprezzare il suo dipingere le emozioni con la voce.
Non da meno è stato Guillaume Andrieux il quale ha interpretato Pelléas in modo sensibile e generoso. Apprezzabili lo squillo e l’intonazione precisissima del baritono francese insieme al timbro e alla generosità del suo canto. Paul Gay è un Golaud energico e dal volume possente quanto la sua persona. Qualche occasionale eccesso di veemenza non ha inficiato una eccellente performance. Robert Lloyd convince nei panni del buon Arkël con una emissione solida e accento accorato. Delizioso e frizzante l’ Yniold di Chloè Briot. Bene anche la Geneviève di Karan Armstrong e Mauro Borgioni come dottore e pastore dal timbro ambrato.
L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai si conferma una tra le migliori orchestre in attività specialmente nelle sezioni degli archi e delle percussioni. La compattezza dell’insieme e la assoluta precisione che non vengono mai a mancare accompagnate alla direzione ispirata di Valčuha non fanno rimpiangere l’assenza di un allestimento completo, anzi permettono di concentrare l’attenzione sulla bravura degli interpreti, del direttore e dei professori dell’Orchestra.

RIGOLETTO [William Fratti] Busseto, 18 ottobre 2015.
Prosegue anche quest’anno il Festival Giovane, l’opera messa in scena a Busseto in collaborazione con il Concorso Internazionale Voci Verdiane e la Scuola dell’Opera del Teatro Comunale di Bologna, ed è un vero successo sotto ogni punto di vista.
Lo spettacolo firmato da Alessio Pizzech, che il prossimo anno approderà sul palcoscenico bolognese, rende omaggio ai grandi interpreti del passato in una giusta commistione di modernità e tradizione. Si avvale di scene, di Davide Amadei, minimaliste: un declivio, qualche fondale a riproduzione fotografica del piccolo Teatro Verdi, pochissima attrezzeria. Ulteriori oggetti scenografici sarebbero da impedimento all’eccellente lavoro di regia svolto sui singoli interpreti, cantanti solisti e mimi, così bravi e credibili da togliere il fiato. Gli sguardi, i gesti, le controscene sono incredibilmente efficaci, al solo scopo di sottolineare le emozioni che legano tutta la vicenda: il dolore e la pietà. Non c’è spazio per il divertimento e la leggiadria neppure a corte, neppure quando riesce lo scherzo a Rigoletto: il padre è disperato e chi l’ha giocato non ne gode, bensì è tormentato dai sensi di colpa. Eccellenti i costumi, sempre di Amadei; ottime le luci di Claudio Schmid.
L’amalgama interpretativo si avvale fortemente del collante musicale: Fabrizio Cassi sul podio dell’Orchestra del Conservatorio di Musica Arrigo Boito di Parma respira con buca e palcoscenico con un fiato unico, un solo ritmo ed è proprio così che avviene la magia dello spettacolo, dove ogni pezzo del puzzle sa di essere un tassello, grande o piccolo, di un singolo tableau. Il concertato “Ah sempre tu spingi” è davvero emozionante e sinceramente toccante è “Cortigiani, vil razza dannata”.
Il Rigoletto di Hayato Kamie, che a Busseto ha già cantato ne Il trovatore e a Parma in Stiffelio, è davvero eccellente nel personaggio e supera di gran lunga molti interpreti in carriera. La giovane vocalità, ben impostata ed intonata, ha solo bisogno della naturale maturazione.
Daniela Cappiello veste i panni di Gilda con altrettanta efficacia nella recitazione e la bella voce morbida, se opportunamente corretta nella tecnica, saprà farsi risentire in futuro. Ciò che occorre è maggiore sicurezza nell’appoggio e nelle posizioni, in modo da scongiurare piccoli intoppi nell’intonazione e nella proiezione.
Il tenore portoghese Carlos Cardoso, che ha già mosso i primi passi della sua carriera al Filarmonico di Verona, alla Scala di Milano e al Festival di Wildbad, è la vera scoperta della serata. Vocalità luminosa e salda, è talmente morbido da nascondere perfettamente dove arriva la natura e dove parte la tecnica. È sicuramente un artista da seguire e riascoltare.
Buono il canto dello Sparafucile di Myeongjun Shin, anche se sorride un po’ troppo e sbaglia nell’intenzione. Altrettanto piacevole la Maddalena di Siqi Li.
Eccellente la recitazione di tutti i comprimari. Da un punto di vista vocale sono adeguati al loro livello di preparazione: Elyar Tahouri è Monterone, Michele Patti è Marullo, Da Mi Lee è Giovanna, Manuel Amati è Borsa, Nicolò Donini è Ceprano, Marianna Mennitti è la Contessa e il Paggio.
Buona la prova del Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani.

IL CORSARO [William Fratti] Parma, 20 ottobre 2015.
Un vero festival lirico dovrebbe avere una missione ben precisa, quella culturale o quella turistica, possibilmente entrambe come accade al ROF. A Parma si sono succeduti innumerevoli e fallimentari esperimenti a partire dal 1990 e poiché se ne è già discusso in precedenti occasioni non è questa la sede per ripetersi. È forse invece arrivato il momento di capire se ha ancora un senso portare avanti questa idea che la metà dei melomani considerano una pagliacciata, oppure se rivederne completamente il contenuto e l’apparato organizzativo, magari smettendo di volere fare tutto da soli, ma coproducendo con altri teatri della regione, essendo l’Emilia-Romagna la più ricca di teatri di tradizione funzionanti e frequentati. Con i tempi che corrono una piccola città come Parma non può più essere in grado di mettere in piedi due stagioni all’anno – e la prova sta nelle miserie calendarizzate negli ultimi tempi – e ha forzatamente bisogno dell’aiuto delle città vicine e della regione. Tanto più che Giuseppe Verdi ha a che fare con Parma molto poco, comunque in egual misura con cui ha a che fare con Piacenza.
L’edizione 2015 non rispetta i criteri turistici, poiché non è possibile restare in città tre giorni e assistere a tutti gli spettacoli d’opera – il teatro non fa il tutto esaurito anche se le recite sono in abbonamento – come pure non rispetta quelli culturali, avvalendosi solo in minima parte delle edizioni critiche o comunque di nuovi spunti o riscoperte musicali. E riguardo Il corsaro, opera sprovvista di fonti autografe, quasi priva di letteratura, tramandata esclusivamente attraverso la tradizione, senza alcun controllo diretto del compositore e senza il rispetto delle sue intenzioni, ci sarebbe molto da scoprire.
Il corsaro è opera romantica; Corrado è personaggio romantico; pertanto la giusta vocalità in grado di esprimere correttamente il carattere e le note volute da Verdi è più assimilabile a ciò che sarà Manrico de Il trovatore, come vuole la tradizione, o Edgardo di Lucia di Lammermoor e Fernando de La favorita? La voce di Gulnara dovrebbe anticipare Aida e Un ballo in maschera o essere più vicina ad Anna Bolena e Lucrezia Borgia? Seid è equiparabile al futuro baritono drammatico di Jago e Simon Boccanegra, o al baritono cantabile di Belisario? Medora dovrebbe essere un soprano leggero di coloratura, un lirico o addirittura un mezzosoprano acuto di stampo rossiniano? Sono tutte scelte tutt’altro che semplici e andrebbero prese con molta cautela, soprattutto cercando di dare un senso univoco e ben amalgamato al gruppo di artisti. Certamente ciò non è stato possibile in questa occasione: se i cambi di cast hanno inficiato la resa di Otello, quelli di Corsaro hanno rasentato il ridicolo, non certo per i professionisti coinvolti che si sono tutti adoperati per rendere il meglio in una situazione organizzativa davvero deprimente, ma per chi non è stato in grado di scegliere fin da subito gli artisti adeguati con un’altrettanto appropriata copertura o secondo cast, considerando la rara esecuzione del titolo, poiché cercare all’ultimo minuto Corrado e Gulnara non è come andare alla ricerca del Duca e di Gilda.
E il pubblico della prima del 14 ottobre, dopo aver pagato un biglietto che andava dai 250 euro della platea ai 50 euro del loggione, depresso da Otello e stanco dei continui annunci di cambio e indisposizione, ha deciso di esprimersi come non faceva da anni. La recita del 20 ottobre ha sicuramente sortito migliori effetti, pur con l’ennesima sostituzione.
Innanzitutto ciò che manca a questa produzione è il nervo, quel vigore verdiano che tiene incollato il melomane alla sedia. In questa situazione è difficile capire dove risieda la colpa: la Filarmonica Arturo Toscanini sembra svogliata già dalla produzione precedente, anche se corretta, il Coro del Teatro Regio di Parma appare un poco pigro, seppur ben preparato come al solito, gli interpreti vanno e vengono e la bacchetta del bravo Francesco Ivan Ciampa non riesce nell’ardua impresa, se non impossibile, di mettere insieme questo gran vespaio al fine di creare la magia. Non resta che godere del fatto che la sua direzione dialoga col palcoscenico, lasciando mai soli i cantanti.
Dopo l’ennesima indisposizione che ha fatto inferocire i loggionisiti – erroneamente comunicata a metà della prima – Diego Torre abbandona la seconda recita della produzione. Il tenore portoghese Bruno Ribeiro, titolare del ruolo di Corrado a Busseto nel 2008 poi ripreso a Bilbao nel 2010, è stato catapultato in palcoscenico senza prove in un ruolo che non cantava da cinque anni. Naturalmente paga le conseguenze della mancata preparazione e della sostituzione al cardiopalma, ma perlomeno sa farsi notare nell’essenza dell’artista, dando un’interpretazione e cercando un minimo di colori. Deve inoltre essere premiato per la professionalità, poiché nel terzetto finale lo si vede cercare il suggeritore con lo sguardo rivolto alle quinte, ma il suggerimento non arriva e invece di farfugliare frasi insensate che avrebbero rischiato di mettere in difficoltà i soprani, tace finché qualcuno non se ne accorge e finalmente arrivano le parole che lo conducono al termine dell’opera. Ma come mai non è stato indicato a qualche maestro collaboratore di restare a disposizione dei sostituti per tutto il tempo della recita? Si sono già spese molte parole a favore della riapertura delle buche dei suggeritori e questa è l’ennesima sede per ribadire il concetto.
Silvia Dalla Benetta, anch’ella titolare del personaggio di Gulnara a Busseto nel 2008 poi ripreso a Bilbao nel 2010, è stata buttata in scena alla prova generale meno di 24 ore dopo avere cantato un ruolo Colbran a Sassari, con alle spalle sette mesi di esclusivo repertorio rossiniano. Il soprano vicentino si esibisce nella cavatina con un recitativo dal forte temperamento, un’aria dall’encomiabile legato e conclude l’ardua cabaletta con vigore, districandosi come si deve nella terribile, aspra e brusca tessitura, che forse Verdi ha scritto in questo modo per esprimere il carattere insoddisfatto e frustrato della schiava, con una serie di salite al do ben più ardue dei trilli e dei picchettati di Traviata. Ottimo il fraseggio e l’uso dei colori di tutto il terzo atto.
Ivan Inverardi canta la parte di Seid con indiscutibile ampiezza di voce e tanta buona volontà, ma la mancanza di eleganza non lo aiuta certamente a rendere le finezze previste dalla partitura, ricca di pianissimi e sfumature che andrebbero dalla dolcezza alla rabbia.
Jessica Nuccio non possiede lo spessore adeguato a risolvere opportunamente un ruolo verdiano, anche dei più semplici come questo e soprattutto è precaria nell’intonazione e nell’uso dei fiati. Che abbia una bella voce morbida è indubbio, ma non sufficiente. Considerando la sua folgorante carriera, che ciò le sia da monito al fine di sistemare le pecche tecniche per poter cantare ancora mezzo secolo e non pochi anni come accade a parecchie meteore sconsideratamente usate dagli agenti.
Buona la resa di Matteo Mezzaro nei panni di Selimo, Luciano Leoni in quelli di Giovanni e Seung Hwa Paek come schiavo ed eunuco.
Sempre avvincente, anche se parzialmente compromesso dalla generale situazione, lo spettacolo di Lamberto Puggelli ripreso da Grazia Pulvirenti Puggelli.

AIDA [Margherita Panarelli] Torino, 20 ottobre 2015.
In occasione della riapertura del Museo Egizio il Teatro Regio di Torino inaugura la Stagione d’Opera 2015-2016 con Aida, riproponendo il fortunato allestimento di William Friedkin, in chiave classica e tradizionale.
Un’Aida all’insegna dell’intimità pur con una resa realistica dei fasti della corte del Faraone. Scenografie e costumi di grande effetto, ideati da Carlo Diappi, accompagnati dalle aggraziate coreografie di Marc Ribaud completavano un allestimento di classe, mai appesantito da pacchianerie inutili allo svolgersi del dramma.
Nei panni di Aida il soprano statunitense Kristin Lewis che offre un’Aida dal carattere forte con una dignità degna della principessa Etiope. Anche nei momenti più disperati la sua Aida mantiene compostezza. La prova canora della Lewis non delude ma non entusiasma, è disturbante il vibrato costante, specialmente fastidioso nel registro acuto, nonostante un timbro pastoso e caldo e l’intonazione quasi sempre precisa.
Particolarmente precaria invece è l’intonazione del Radames interpretato da Marco Berti. Una prova discontinua che provoca nell’ascoltatore un grande senso di sconforto viste le qualità e le possibilità della voce del tenore comasco. “Celeste Aida” risulta approssimata, splendidi invece i recitativi e “Pur ti riveggo” è una vera perla di manuale di canto ma la bellezza di alcuni momenti non ha potuto prevalere sull’impressione negativa lasciata.
Vera trionfatrice della serata vocalmente è Anita Rachvelishvili nel ruolo di Amneris. Il timbro avvolgente e vellutato del mezzosoprano georgiano, accompagnato al suo perfetto padroneggiamento della parola scenica verdiana, hanno reso la sua Amneris efficacemente potente nella sua facciata pubblica e fragile nell’intimo dei suoi appartamenti senza trascurare però la forza del suo amore espresso sì dalla musica verdiana, ma interpretato dalla Rachvelishivili con convincente vigore interpretativo.
Sufficientemente energico è Mark S. Doss nei panni di Amonasro. Eccellente “Rivedrai le foreste imbalsamate”. Il terzo atto è per i quattro interpreti principali, salvo Anita Rachvelishvili che ha brillato in ogni suo intervento, il momento di miglior riuscita.
Eccellente il Ramfis di Giacomo Prestia: da dimenticare i bassi dal vibrato caprino e intonazione imprecisa, Prestia è scrupolosamente accurato e adeguatamente imponente. Molto bene anche In-Sung Sim nei panni del Faraone. Soave e leggiadra la sacerdotessa di Kate Fruchterman.
Ottima prova dell’Orchestra del Teatro Regio, qui diretta da Gianandrea Noseda. Vigorosa la lettura di Noseda quando occorre ma finalmente concentrata sul dipanarsi di una vicenda prevalentemente privata comunemente sovrastata dai pochi momenti di pubblico gaudio, su tutti il Trionfo nel secondo atto.

FALSTAFF [Lukas Franceschini] Milano, 21 ottobre 2015.
L’opera Falstaff, commedia lirica e ultimo spartito di Giuseppe Verdi, torna al Teatro alla Scala nel bellissimo spettacolo creato da Robert Carsen nel 2013.
Ecco il caso di una produzione riuscita a trecentosessanta gradi, e senza voler stilare una classifica è evidente che si tratta del miglior spettacolo della stagione in corso, sia musicalmente sia visivamente.
Quando Verdi, sollecitato da Ricordi e dall’ottimo libretto di Boito, decise di comporre Falstaff non fu certo per “recuperare” quel lontano tonfo de Il Giorno di Regno, bensì la volontà di scrivere un’opera non tragica, che nel suo catalogo era totalmente assente. Il prodotto fu, e resta, uno dei capolavori teatrali operistici di tutti i tempi, un perfetto equilibrio di commedia brillante con accenti variegati. Impressionante l’inventiva musicale di un “vecchio” ottantenne ma ancora giovane d’idee, brillante nelle scelte ritmiche e nel contrappunto. Robert Carsen sposta l’azione negli anni ’50 del secolo scorso, con precisa impostazione tra classe sociali diverse e un sofisticato ricordo dell’era edoardiana orma sorpassata. L’ironia, sempre elegante e mai sopra le righe, beffarda e ricercata è rappresentata ai massimi livelli teatrali. Geniale nell’aver trasformato l’osteria della Giarrettiera in un esclusivo club londinese, ove il panciuto protagonista vivacchia senza denaro, mantenendo però lo status di Sir nei modi e nei gusti. La locanda, esclusivo ristorante borghese, è luogo bellissimo nel quale iniziare il buffo intrigo tra le comari e il quartetto maschile. Lascia mozzafiato la scena seconda del secondo atto, una bellissima e immensa cucina moderna, quella sognata da tutte massaie ma per tante solo sogno restò. Alice in abito griffato si muove in maniera così elegante da parafrasare ironia e simpatia. Nel finale manca la grande scena della foresta con quercia, ma non è gran danno, l’azione si svolge nel parco delle scuderie e l’effetto notturno è garantito, tutti i protagonisti nel cantare la stupefacente fuga s’incamminano in abiti da gran sera, la borghesia che prende possesso nel gradino sociale, a una tavola imbandita a festa. Carsen cesella ogni passo, ogni azione, sia singola sia di gruppo, con un’eleganza e una vena ironica travolgente. Nulla è fuori luogo e il filo conduttore sempre teso e preciso. Le scene di Paul Steinberg sono trionfali e di accurata immedesimazione anglosassone, Brigitte Reiffenstuel disegna dei costumi straordinari, curatissimi e di una bellezza sconcertante. In definitiva un grande spettacolo.
Il versante musicale non è da meno. Daniele Gatti firma una delle sue migliori direzioni (assieme al Pelléas fiorentino del giugno scorso). E’ ammirevole la precisione del passo orchestrale, condiviso dagli ottimi complessi scaligeri, una tavolozza di colori stupefacente, marcata da una concertazione sempre leggera ed elegante, precisa, narrazione drammaturgica raffinata e un equilibrio perfetto tra buca e palcoscenico. Quest’ultimo era particolarmente efficace nel suo complesso proprio per il lavoro certosino di Gatti, il quale ha voluto trovare equilibri e risultati complessivi che hanno permesso ad ognuno di emergere ma sempre in un contesto musicale serrato ed incalzante.
Il cast dimostrava una sostanziale compatta uniformità d’interpretazione seppur con qualche distinguo. Protagonista era il giovane Nicola Alaimo, il quale, ipotizzo, debuttava nel ruolo. Ha dimostrato un’ottima resa scenica accomunata con una prova vocale ragguardevole, soprattutto nel fraseggio e nel colore. Credo che se in seguito saprà calibrare ancor meglio i colori potremo aspettarci un’interpretazione d’alto livello. Ragguardevole anche il Ford di Massimo Cavalletti che in questo ruolo segna un passo molto elevato per quanto da me ascoltato. Impeccabile sotto tutti i punti di vista l’Alice di Eva Mei, una comare molto lady di sofisticata eleganza, dimostrando una precisa e gustosa vocalità. Al suo livello la straripante e simpaticissima Quickly di Marie-Nicole Lemieux dotata di corposa voce ben amministrata. Molto brava Irina Lungu, la quale all’ultimo momento sostituiva l’indisposta Eva Liebau, delicata nell’accento e musicalissima, puntuale seppur non molto incisiva la Meg di Laura Polverelli. Il Fenton di Francesco Demuro pur dimostrando una limitata tecnica nel complesso non sfigurava nell’insieme del cast. Divertenti e puntuali i due seguaci di Falstaff, che Patrizio Saudelli e Giovanni Battista Parodi hanno reso con molta efficacia e partecipazione. Strepitoso il Dr. Cajus di Carlo Bosi, eccellente cantante e stupefacente attore. Il coro del Teatro alla Scala ha come di consueto dimostrato l’ottima professionalità, in particolare per la precisissima “fuga” finale. Applausi scroscianti e prolungati al termine con numerose chiamate  per tutta la compagnia.

AIDA [William Fratti] 23 ottobre 2015.
Lo spettacolo è ancora molto efficace nell’impianto di Carlo Diappi, anche se difetta in quanto ad efficienza non avendo cambi scena predisposti tecnologicamente, obbligando il pubblico a ben tre pause che non aiutano certamente ad entrare nel dramma. Eccellente l’uso delle masse, appropriati ingressi e uscite, opportune le posizioni, ma poca cura nella recitazione dei singoli interpreti che sembrano lasciati a se stessi, rendendo il loro bagaglio interpretativo personale piuttosto che un volere unico della regia. Resta comunque uno dei migliori allestimenti di Aida degli ultimi 15 anni, pulito e raffinato, pur non portando alcuno spunto.
Esemplari le coreografie di Marc Ribaud riprese da Anna Maria Bruzzese, semplici ed elaborate al tempo stesso, mai banali, mai eccessive, misurate dove occorre. Altrettanto bravissimi i ballerini, elegantissimi nelle braccia e nelle mani, bellissime le gambe.
La direzione di Gianandrea Noseda alla guida della sua Orchestra del Teatro Regio si contraddistingue, come sempre, per la pulizia e la precisione del suono, per l’ottimo gusto e l’alta classe, per l’omogeneità che lega buca e palcoscenico. I momenti migliori sono il ballabile del trionfo, il concertato dopo l’ingresso di Amonasro ed interamente terzo e quarto atto. Invece le prime pagine sembrano eseguite con eccessiva misura, come se si temesse che l’iniziale grandeur nascondesse la successiva intimità, col risultato che l’accento verdiano sembra mancare un poco .
Anna Pirozzi è una brava Aida, dotata di timbro morbido e caldo nelle note centrali, leggermente aspra in certi acuti, dove peraltro non sempre appoggia per bene e le sfugge qualche nota calante. L’interpretazione non è delle più vivaci, ma il livello è certamente buono e sistemati quei pochi accorgimenti tecnici che le mancano, sicuramente otterrebbe risultati migliori e successi ancora maggiori.
Massimiliano Pisapia, titolare del ruolo di Radamès nella sola recita del 16, sostituisce l’indisposto Riccardo Massi. Non c’è dubbio che il tenore si trovi più a suo ago in ruoli dalla scrittura meno pesante e qui sembra fuori ruolo. Il suo solito bel materiale si fa sentire solo in alcuni punti, mentre in tanti altri appare limitato, con poco spessore, tendente al parlato nelle zone gravi.
Eccellente è l’Amneris di Anna Maria Chiuri. Voce brunita, colore interessante, timbro piacevole, linea di canto omogenea, dalle note basse mai snaturate agli acuti ben sostenuti, pregevoli i piani. Emozionante tutto il quarto atto, da “L’aborrita rivale” a “Pace t’imploro”.
Encomiabile è l’Amonasro di Dimitri Platanias che, dotato di voce piena, squillante e ben timbrata, sa fraseggiare, dosare gli accenti e usare la parola alla maniera verdiana.
Molto buona è anche la prova di Giacomo Prestia nei panni di Ramfis, anche se si fanno notevolmente sentire i segni della stanchezza di una produzione così lunga e senza riposo, soprattutto nelle note acute e nell’appoggio.
Buona la prova del Re interpretato da In-Sung Sim, del messaggero di Roberto Guenno e della sacerdotessa di Kate Fruchterman.
Come sempre eccellente il Coro del Teatro Regio guidato da Claudio Fenoglio.

AIDA [Mirko Gragnato] Torino, 25 ottobre 2015.
In onore al rinnovato Museo Egizio, la città ha abbracciato con eventi e iniziative il palazzo al numero 6 di via Accademia delle Scienze.
Il Teatro Regio non da meno ha deciso così di inaugurare la stagione operistica con Aida, riproponendo l’allestimento di stampo tradizionale ideato dal regista premio oscar William Friedkin.
Quest’ allestimento di Aida segna un ritorno agli esordi dell’ opera nel 1870: quando Verdi e lo studioso e archeologo Mariette lavoravano con musica, parole e disegni per ricreare l’antico Egitto, dopo quasi 5000 anni, per il palco del teatro de Il Cairo, che con Aida ha visto il suo battesimo.
Il binomio tra Torino e l’Egitto, ritorna più forte che mai, in duplice collaborazione tra teatro e museo, unendo interesse per  storia antica e musica, due binari paralleli che si intrecciano in questa prima d’opera, oggi come allora.
Il Regio, infatti, per quest’apertura di stagione ha visto muoversi tra le sue sale reperti venuti dalle collezioni del Museo Egizio.
Il colosso della dea Seckmeth, metà donna metà leone, ha trovato alloggio nell’atrio ponendosi quale nume tutelare a guardia delle porte del Teatro dove un disegno di geroglifici e non un red carpet ci indica la via per l’ingresso, sotto l’alto sguardo della dea leonessa.
Non poteva mancare poi una delle protagoniste di quest’ opera, “la venerata Iside” la cui statua in pietra nera ha trovato dimora nella grande sala da ballo del teatro, dando un tocco di antica sacralità ai luoghi di vita mondana.
Dopo tutto come diceva il grande studioso che ha interpretato e tradotto il geroglifico dalla stele di Rosetta, Jean-François Champollion, ” la via per Memfi e Tebe passa da Torino” e da Torino ci porta ai luoghi di Aida, alla scena prima del primo atto, nel palazzo del Re, a Menfi.
Le scene di Carlo Diappi si mostrano mirabili nella loro semplicità: grandi colonne, colossi, e fondali blu, trapunti di stelle; manca forse lo sfarzo che le tombe dei faraoni hanno custodito fino ai giorni nostri, forse per ricordare quella che è la sobrietà dei tempi, toccando oltre che al nostro immaginario la consapevolezza del presente.
Interessante la scelta di allestire per la scena del secondo atto, ambientata negli appartamenti della principessa Amneris, una visione ridotta, uno spazio limitato, che si apre come una finestra ritagliata nel palcoscenico. Davanti a noi un’antica camera con affreschi e arredi ancora intatti, conservati dal tempo, appena rinvenuti in un qualche scavo, dove lo sguardo dello spettatore si assimila a quello dell’archeologo.
La cura che vi è però nelle scene è mancata invece alla regia del premio oscar William Friedkin: lo smuoversi dell’azione è statico, sembra che i cantanti siano sul palcoscenico senza una vera consapevolezza, i ruoli livellati sullo stesso piano, lasciando appena un’impronta di riflessione nel IV atto, nel quale le invettive di Amneris contro il giudizio dei sacerdoti non sembrano un appello al cielo ma un dialogo alla pari con il gran sacerdote, che dovendo applicare la legge secondo il principio “dura lex sed lex” si limita a rispondere, senza emozioni, “traditor, morrà”.
La direzione musicale invece è affidata al direttore di casa al Regio, il Maestro Gianandrea Noseda che sin dalle prime battute si mostra misurato, con una gestualità fluida e pulita, con dei tempi leggermente più dilatati per dare un impronta più intimistica e sostenendo con la bacchetta il peso della tensione; ecco che con le note del preludio siamo cullati e condotti in Egitto.
Nel primo atto Aida, impersonata da Kristin Lewis, ha mostrato una voce poco convinta e presente, che si è pian piano disvelata per mostrarsi con bel timbro e intensità, troppo tardi per l’aria “ritorna vincitor”. Bisogna aspettare il secondo atto, affinché la voce si scaldi, per un’Aida più solida nel duetto faccia a faccia con Amneris, dove l’intreccio vocale è pregno di pathos e segue la tensione del libretto.
Ottimo Giacomo Prestia, nel ruolo di Ramfis, tanto bravo da riuscire a farsi odiare nel ruolo che impersona: quello del perfido sacerdote che rimanda tutto al volere dei numi e alla dura legge d’Egitto.
Il re interpretato dal basso In-Sung Sim, segue la parte pedissequamente senza troppo apparire, restando nel ruolo di semplice burattino in mano ai sacerdoti e senza la giusta impronta regale, che forse una regia più attenta avrebbe potuto dare.
Mark S. Doss nei panni del Re Etiope Amonasro non tocca cime di bravura restando, nonostante il ruolo chiave, un po’ nell’ombra.
Pregevole, anche se nella breve apparizione, il messaggero interpretato da Dario Prola.
Del Radamés interpretato da Marco Berti nulla da elogiare, sono bastati i “buu” che l’hanno accolto a sipario calato, per comprendere che di questa produzione non è certo la stella.
Cosa che invece si deve dire di Anita Rachveslishvili, forse la più brava Amneris dei nostri tempi, acclamata da scrosci di applausi anche a scena aperta e dai “brava” che a fine opera hanno riempito la sala di Mollino.
Dodici le Aida eseguite in 14 giorni, una produzione lunga e intensa, che inframezzata dall’esecuzione della seconda sinfonia di Gustav Mahler non ha fatto i conti con le energie del capitale umano, soprattutto nel caso di chi per strumento usa il proprio corpo.
In generale una Aida pregevole con un IV atto indimenticabile: tutta la qualità e la forza dei cantori del regio si mostrano nel coro a cappella dei sacerdoti, esponendo tutte le cure che il Maestro Claudio Fenoglio vi presta, a differenza del trionfo dove, contrastato dall’orchestra spinta oltre misura da Noseda, il coro risultava un po’ infossato e smarrito. L’Amneris di Rachveslishvili presenta una forza drammatica che riempie da sola il palcoscenico, facendo mancare il fiato sia al melomane più esperto sia allo spettatore neofita, impersonando la cattiva della storia a cui però ci si affeziona, alla quale comunque si presta compassione, perché colpita dalla maledizione del dolore e della solitudine, vittima delle passioni umane, mentre la coppia Aida – Radamés si avvia a morire insieme rinchiusa nella tomba-prigione con il duetto “oh terra addio”, ad Amneris resta la preghiera “pace t’imploro”, quella pace a cui anche lo spettatore commosso la affida.

DIE ZAUBERRFLOTE [Lukas Franceschini] Venezia, 28 ottobre 2015.
C’era grande attesa per l’ultimo titolo della Stagione Lirica al Teatro La Fenice: Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart nella nuova produzione firmata da Damiano Michieletto. Curiosa la scelta di chiedere e aprire la nuova programmazione con lo stesso autore, infatti, a novembre si inzia con Idomeneo.
Il flauto magico è un singspiel in due atti, ultima opera in cronologia del salisburghese, su libretto di Emanuel Schikaneder, colui che risollevò le sorte del compositore dopo l’ascesa al trono di Leopoldo II e la chiusura delle logge massoniche. E’ noto che l’argomento dell’opera si rifà alla mitologia antica dell’Egitto in un clima culturale in cui Iside e Osiride avevano una peculiare influenza sulle religioni, i quali inneggiano i sacerdoti iniziati che si nutrono di cultura ma sono sofferenti alle luci. L’opera spazia in una variegata ambientazione orientale (l’Egitto è solo una parte), una varietà di costumi esotici, intersecati tra loro, raffiguranti il rituale massonico, ma soprattutto il divertimento favolistico della gioventù nel quale Mozart costruisce il tempio della concordia, potremo rilevare che le pulsioni sono regolate da una legge di saggezza e bontà che dovrebbe essere il comune denominatore del vivere terreno.
Damiamo Michieletto, regista sempre stravagante ma assolutamente originale, intelligente e studioso di ogni suo spettacolo nel minimo particolare, ambienta l’opera in una scuola, tralasciando l’ambientazione orientale. La drammaturgia si sviluppa in una sorta di “buona e cattiva scuola” o “scuola laica e religiosa” nella quale il passaggio all’età adulta di Tamino e Pamina deve svincolarsi tra il bene e il male superando le prove e la libera erudizione che sarebbe, ed è, il trampolino dell’essere illuminista. Concettualmente il filo conduttore è calzante e realizzato, in parte, con assoluta innovazione e precisione. Già nell’overture si assiste alla proiezione sulla lavagna scolastica di frasi in latino, formule matematiche e fisiche, elaborazioni chimiche, lo svogliato studente Tamino cancella producendo così la comparsa del serpente malefico. Anche la giovane Pamina è una ragazza molto adolescente, troppo vincolata da una madre che vive nella notte conflittuale degli dei, una sorta di convento che è ancorato a schemi religiosi ed estraneo alla cultura e al sapere. Caratteristiche le tre dame, le quali sono suore molto “di Monza” e poco predisposte alla spiritualità, e Monostatos, bulletto e sadico studentello poi convertito alla buona scuola dello studio. Sarastro è il custode del sapere, pertanto sommo e anziano docente, che con fermezza saprà aiutare i giovani ad affrontare una vita adulta basata sulla cultura. Bellissima la scena in cui Monostatos è esorcizzato dal suono del glockenspiel di Papageno e subisce una vera e propria scena di bullismo da parte dei suoi stessi complici. Papageno è ridotto a vecchio e ingobbito bidello della scuola, personaggio discutibile tuttavia focalizzato nel ruolo di uomo confusionario, voglioso ma sincero e commuovente. Sensazionale la scena del rogo dei libri del sapere, che richiamano a un passato orrendo ma anche con rigurgiti odierni, prontamente salvati da Sarastro. Fin qui tutto bene, tante idee coerenti, bel linguaggio drammaturgico ma in fondo quest’allestimento non coinvolge. Perché? A chi scrive, è parso che il regista abbia volutamente tralasciato l’aspetto favolistico della storia per concentrarsi solo su quello drammatico. E’ strano perché Michieletto è un attento studioso di tutto quello che realizza, ed eliminare tale aspetto è grave errore perché elemento imprescindibile del singspiel. Dopo aver impostato la “sua” idea, seppur accattivante e originale, non ci resta altro che una continuità moderata che rasenta il prevedibile e tralascia la poetica. La Regina della notte ricorda un’austera Frau Rothermeier, Papageno in grembiule per tutta l’opera, i saggi impersonati da vecchi e moribondi, come che il sapere sia fonte solo di esperienza e vecchiaia, sono concetti non del tutto condivisibili e soprattutto già visti. Il senso del dejà vu ha reso un secondo atto noioso, poiché le carte erano già tutte scoperte, e ripeto mancava totalmente l’allegorico e il fiabesco.
Paolo Fantin ha sempre mano felice nel creare scene azzeccate e originali, in particolare la grande lavagna scorrevole che fa spazio al mondo austero e dogmatico della Regina della notte, oppure la meravigliosa foresta nel secondo atto, anche se la tenda canadese da boyscout era ridicola. Non particolarmente ispirata Carla Teti, anche per l’impostazione registica, la quale ha disegnato grembiuli e convenzionali abiti che non lasciano traccia. Bravissimi i video disegnatori Carmen Zimmermann e Roland Hovarth nel creare un segno virtuale di altro livello, affascinanti le luci di Alessandro Carletti.
Antonello Manacorda, direttore e concertatore, non segue di pari passo la partitura, che interpreta in maniera anti mozartiana con passo veloce, talvolta troppo perdendo alcuni cantanti, accento marziale e sonorità accese che sovente non sviluppano la magia della partitura anche se sempre dettagliate nel singolo elemento. L’imitazione di alcuni maestri talvolta non è molto producente. Ottima la prestazione del coro istruito da Ulisse Trabacchin.
Il cast era di sommaria ordinarietà ad eccezione del Papageno di Alex Esposito, vocalmente preciso, strepitoso scenicamente e punto di riferimento odierno per tale ruolo e repertorio. Peccato era costretto in una figura scenica così gretta e limitata.
Antonio Poli era un Tamino anche solido con bella voce lirica, purtroppo limitato alla sola zona centrale perché non appena tenta di salire il suono si strozza e diviene sfibrato. Onesta la Pamina di Ekaterina Sadovnikova, anche se non sarebbe guastato qualche fraseggio più curato, e appena accettabile la Regina di Olga Pudova, troppo leggera e lirica per il ruolo tuttavia abbastanza precisa ma senza sbalordire. Il Sarastro di Goran Juric era autorevole solo scenicamente poiché vocalmente doveva fare i conti con notevoli problemi tecnici e uno strumento che mancava di pastosità e autorevolezza. Spigliata e simpatica la Papagena di Caterina di Tonno, eccellenti i tre geni fanciulli del Müncher Knabenchor, preciso e ben risolto il Monostatos di Marcello Nardis. Brave, seppur non sempre omogenee, le tre dame cantate da Cristina Baggio, Rosa Bove e Silvia Regazzo, purtroppo inascoltabile l’Oratore di Michael Leibundgut, professionali e precisi William Corrò (primo sacerdote e secondo armigero) e Federico Lepre (secondo sacerdote e primo armigero).
Sull’esito musicale anche il pubblico ha percepito che la resa non era del tutto lusinghiera (dal Teatro La Fenice ci si aspetterebbe di più), infatti, in tutta l’opera mai un applauso dopo le arie ad eccezione per le celebri arie della Regina della notte e il duetto Papageno-Papagena, il che la dice lunga. Al termine tuttavia non è mancato un unanime consenso a tutta la compagnia.

SIMON BOCCANEGRA [William Fratti] Genova, 28 ottobre 2015.
Il rapporto che lega la città di Genova al Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi è particolarmente intenso, intriso di quel sano campanilismo che inorgoglisce l’antica repubblica e i suoi odierni cittadini. Il bell’allestimento originariamente ideato per il Teatro la Fenice di Venezia da Andrea De Rosa soddisfa l’onore dei genovesi mettendo in scena città e palazzi solo lontanamente accennati nell’architettura, ma sfogandosi nei fondali animati da proiezioni del mare, delle coste e dei borghi visti dall’alto. Anche il lavoro sui personaggi e sul coro è di pregio, risultandone un’omogeneità che rende lo spettacolo elegante ed efficace. Piacevoli e adeguati i costumi di Alessandro Lai, eccellenti le luci di Pasquale Mari.
Stefano Ranzani, chiamato a sostituire Andrea Battistoni – il male comune che ultimamente ha unito Genova e Parma – dirige la difficile partitura con polso deciso, talvolta troppo determinato, comunque di buon livello, poiché sempre ben amalgamato al palcoscenico, che risponde in maniera più che positiva. Migliore del solito la prova dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice, che si esibisce con suono particolarmente limpido, anche nelle sezioni dove la concertazione si fa più complessa. Decisamente ottima anche la prova del Coro preparato da Pablo Assante, che si distingue soprattutto nella scena del consiglio.
Franco Vassallo – in sostituzione di Carlos Alvarez – debutta il difficile ruolo verdiano con gran classe e mette in mostra la sua consueta bella voce brillante e il buon fraseggio. La maturazione del suo Simone sicuramente lo porterà a migliorare nell’accento e nell’uso della parola scenica e renderà certamente un personaggio di altissima levatura.
L’Amelia di Barbara Frittoli – anch’ella in sostituzione della precedente titolare – invece non soddisfa pienamente. In alcuni momenti si è fortemente gratificati dalla consueta pasta della vocalità del celebre soprano, arricchita dall’eleganza e dalla raffinatezza che l’hanno sempre contraddistinta, timbro caldo e interpretazione scenica di gran classe, ma l’organo sembra in parte compromesso – risultando talvolta disomogenea nella linea di canto a causa di un passaggio talora forzato o arrancato verso acuti un poco urlati, non ben poggiati e traballanti – come se fosse usurato e ciò è praticamente impossibile considerando la grande intelligenza dell’artista che ha sempre frequentato un repertorio adeguato alla sua voce. C’è da sperare che si tratti di una problematica passeggera.
Molto buona nell’interpretazione, nell’intenzione e nella fibra la prova di Gianluca Terranova nei panni di Adorno, che sa regalare forti emozioni con le doti naturali che sono il segno distintivo della sua bella voce squillante. Purtroppo non accennano a cambiare le problematiche legate alla tecnica, di cui è inutile discutere per l’ennesima volta, che se non risolte lo porteranno ad una precoce e veloce senescenza.
Eccellente è il Fiesco di Marco Spotti. Timbro scuro, note saldissime dalle più basse alle più alte, omogeneità su tutta la linea di canto, voce che corre dal palcoscenico alla sala, cantante attore, la sua interpretazione è sicuramente una di quelle da prendere come riferimento.
Buono, seppur senza lodi, il Paolo di Gianfranco Montresor. Appena accettabili il Pietro di John Paul Huckle, il capitano di Antonio Mannarino e l’ancella di Kamelia Kader.
Successo per tutti al termine di una bellissima serata a cui ha assistito un pubblico sempre meno numeroso, i cui applausi si perdevano in un flebile fragore – anche in questo caso è male comune che ultimamente ha unito Genova e Parma.

WOZZECK [William Fratti] Milano, 3 novembre 2015.
Se la scelta del Teatro alla Scala di chiudere la Stagione 2014-2015 con Wozzeck è stata un ripiego, sicuramente si tratta di un rimedio eccellente, un colpo nel segno della cultura. La ripresa dello storico spettacolo di Jürgen Flimm ad opera di Giovanna Maresta è altra soluzione vincente, poiché l’allestimento – che non ha alcun costo aggiuntivo – è validissimo ed estremamente esplicativo e significativo della travolgente musica di Berg, dell’inevitabile caduta nel baratro di Wozzeck. Sempre efficaci le scene di Erich Wonder e i costumi di Florence Von Gerkan; davvero azzeccate le luci di Marco Filibeck.
Indiscutibilmente ottima la bacchetta di Ingo Metzmacher alla guida della superlativa Orchestra del Teatro alla Scala che qui si trovano ai loro massimi livelli, con suoni pulitissimi, ritmi incalzanti, sonorità davvero sorprendenti, soprattutto nel formidabile finale.
Michael Volle è un Wozzeck quanto mai insuperabile, interprete encomiabile nella linea di canto, nell’accento e nel fraseggio, soprattutto nella recitazione sempre sorprendente.
Lo accompagna un’altrettanto brava Ricarda Merbeth nei panni di Marie, ottima soprattutto nel registro acuto che sa tenere morbido anche dove la scrittura tende all’urlo.
Molto positive anche le altre parti, dal bravissimo Tambourmajor di Roberto Saccà all’efficacissimo Dottore di Alain Coulombe e all’esperto Hauptman di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke; dal buon Andres di Michael Laurenz all’opportuno Matto di Rudolf Johann Scahsching. Adeguati anche i due apprendisti di Andreas Hörl e Modestas Sedlevicius e la Margret di Marie-Ange Todorovitch.

WOZZECK [Lukas Franceschini] Milano, 6 novembre 2015.
Trionfale conclusione della stagione operistica al Teatro alla Scala con la ripresa di Wozzeck composto da Alban Berg nello storico allestimento di Jurgen Flimm. Lo spettacolo andava a sostituire Fin de partie di Gyorgy Kurtag, rimandata al prossimo anno per problemi personali dell’autore. Alban Berg fu allievo di Schonberg e diventò sin dagli inizi un autorevole esponente del cambiamento musicale che si orientava verso la dodecafonia. Wozzeck, il suo capolavoro, resta una pietra miliare in tal senso: musica ed elevata teatralità, strutturato in forme classiche su di un materiale quasi verista di disfacimento e si distingue nel periodo musicale (1925) quasi alla deriva. Identificato nel dramma del soldato protagonista e della sua compagna Marie, pur basandosi sulla comune traccia dell’adulterio, assume posizioni del tutto inedite nel teatro moderno anni ’20 con personaggi ai limiti della società che sviluppano le conseguenze della cattiva organizzazione di quest’ultima. La forma strumentale, ora come suite, passacaglia, marcia, è la cornice del canto declamato o sprechgesang, pertanto una linea vocale dura e spigolosa nella quale l’orchestra suggerisce un’inquietante trasposizione della realtà. Peculiare che rispetto alla forma verista italiana o francese, quella di Berg è estremamente più agghiacciante, sviluppata anche in un’assurda morbosità. La tecnica dello sprechgesang, della declamazione, è studiata ed elaborata in procedimenti dodecafonici, cui molteplici riferimenti al grottesco, spietato, paralizzante, di protesta sociale. Tale protesta è una chiara rappresentazione della psiche umana che è subita dai personaggi pur in una visione ancora ottocentesca di classificazione tra “buoni e cattivi” piegati dagli eventi, anche se puniti e senza appello nella frustrazione.
Se si scorre l’elenco dei direttori che hanno diretto l’opera al teatro alla Scala, sin dalla contestatissima prima milanese del 1952 con Dmitri Mitropoulos, si evince immediatamente la continua prestigiosa scelta. Ingo Metzmacher, che abbiamo ammirato anche in Die Soldaten a inizio stagione, si deve ascrivere senza dubbio all’elenco. Eccelsa personalità di teatro, il maestro concertatore, ha profuso una singolare sonorità allo spartito accentuando in particolare l’aspetto cameristico, graffiante e truce. Egli evidenzia il dettaglio evitando frastuoni spesso abusati. Accurato cesellatore, Metzmacher ha esposto una tavolozza di colore orchestrale e ritmico di assoluta rilevanza sia tecnica sia interpretativa, offrendo uno spettacolo di rilevante, per non dire magistrale, bellezza ed emozionante teatralità. Assecondato in tale concezione da un’orchestra in forma smagliate, soprattutto gli ottoni ma anche gli archi solisti che si sono esibiti in una scena sul palcoscenico, e da un preciso Coro istruito da Bruno Casoni.
Azzeccatissimo il cast, cominciando dai due protagonisti, Michael Volle (Wozzeck) e Ricarda Merbeth (Marie). Bravissimi sotto l’aspetto teatrale, impressionante la resa dell’allucinato soldato, non sono stati da meno anche vocalmente utilizzando una vocalità molto espressiva, puntuale e non risparmiandosi nelle difficili variazioni dodecafoniche della partitura. Roberto Sacccà era un Tamburmaggiore di spiccata sciatteria e ben rifinito nel canto, non meno autorevoli erano l’Andres di Michael Laurenz e lo straordinario e viscido capitano di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, quest’ultimo impressionante per lo stile e le varietà d’accento nello spreachgesang. Molto bravi anche il Dottore di Alain Coulombe e la grintosa Margret di Marie-Ange Todorovich. Completavano con altra professionalità la locandina: Andrea Hor e Modestas Sedlevicius (i due garzoni), Rudolf Johann Schasching (il pazzo) e Sascha Kramer (un soldato), taluni di questi interpreti erano solisti dell’Accademia di Perfezionamento per Cantanti Lirici del Teatro alla Scala. Una menzione speciale per il piccolo Alberto Galli (figlio di Marie), il quale ha offerto una prova di assoluta bravura e una resa drammaturgica emozionante.
Lo spettacolo, firmato da Jurgen Flimm con scene di Erich Wonder e costumi di Florence von Gerkan, è una delle migliori realizzazioni del maestro tedesco, che nulla ha in confronto con la “caduta” estiva dell’Otello rossiniano. L’opera come di consueto si esegue in atto unico e la scena è delimitata da una sorta di parete concava, la quale rende forma alla conseguenzialità delle scene in modo efficace e molto drammatico. Scena unica ma volubile di forte impatto e costumi molto azzeccati, contribuiscono alla felice realizzazione. Una precisa e angosciosa caratterizzazione dei personaggi rende questo spettacolo imponente e di assoluta valenza teatrale, come un pugno nello stomaco, effetto probabilmente voluto dal regista, è il caso delle ultime parole del bimbo che mima il cavallino dopo che crudelmente gli amichetti lo informano che la madre è morta.
L’allucinato protagonista è sviluppato come uno zimbello alla mercé dei superiori, tutti gli interpreti sono all’altezza del ruolo, forse estremizzati ma ben rifiniti. La disagiata Marie è una donna anche in cerca del riscatto sociale che purtroppo resterà irraggiungibile, immersa e condizionata da un ambiente sociale che non le permette di voltare pagina. Memorabile!

LA SCALA DI SETA [William Fratti] Cremona, 6 novembre 2015.
Mettere in musica un’opera di Gioachino Rossini fuori da Pesaro, soprattutto se chi ascolta è assiduo frequentatore del ROF, è impresa assai difficile, poiché i titoli del grande repertorio necessitano di essere sfoltiti dalla tradizione che li ha snaturati, mentre i lavori meno conosciuti hanno bisogno delle lezioni di chi è depositario, grazie ad anni di studio ed esperienza, del nuovo sapere rossiniano che sempre di più si sta scoprendo dal 1980 nella città marchigiana.
Detto questo e tenendo altresì in considerazione i mezzi di cui dispone il Circuito Lirico Lombardo, oggi OperaLombardia, il Teatro Ponchielli di Cremona riesce a produrre uno spettacolo dignitoso, che non passerà certamente negli annali della storia, ma almeno avrà avuto l’ardire di far conoscere un giovane Rossini, da cui si evince, per chi è attento all’ascolto, da dove arriva tutto il primo romanticismo italiano.
L’allestimento è quello prodotto a Pesaro da Damiano Michieletto nel 2009, qui ripreso da Andrea Bernard, ed è ancora molto funzionale, moderno ed attuale al punto giusto, sempre filologico al libretto, ma senza tutte quelle dinamiche polverose da farsa settecentesca. Completano adeguatamente il bello spettacolo le scene e i costumi di Paolo Fantin. Purtroppo la provincia lombarda decide di aggiungere una pausa a metà dell’atto unico, spezzando quel crescendo rossiniano che non è solo insito nelle singole pagine musicali, ma spesso fa da filo conduttore di intere vicende comiche o buffe.
La direzione di Francesco Ommassini ha il grande pregio di essere pulita ed equilibrata, ma manca del giusto accento, della giusta intenzione e appare un poco appesantita e rallentata; inoltre l’Orchestra I pomeriggi musicali di Milano non è nella sua serata migliore, soprattutto nelle varie sezioni dei fiati e nel finale del quartetto si crea una grande confusione.
Giulia è Bianca Tognocchi che rende un buon personaggio e mostra un’altrettanto buona linea di canto il cui pregio sta nell’omogeneità. La voce è ancora poco proiettata e corre poco in sala, ma saprà certamente migliorare.
Lucilla è Laura Verrecchia, eccellente nell’interpretazione, dotata di voce particolarmente morbida e ben salda e naturale anche negli acuti.
Francisco Brito è un Dorvil luminoso, brillante, al tempo stesso caldo e piacevolissimo all’ascolto. Qualche accorgimento tecnico, specificamente nella tecnica rossiniana, lo renderebbe certamente un ottimo professionista di questo repertorio.
Leonardo Galeazzi è il bravo artista di sempre che sa equilibrare adeguatamene il canto alla recitazione. In questa occasione è interprete di “Occhietti miei vezzosi” provenienti da L’equivoco stravagante, cavatina resa molto bene anche se si direbbe che il baritono è più donizettiano che non rossiniano, ma si tratta di sottigliezze su cui sorvolare.
Meno positiva è la prova di Filippo Fontana nella parte di Germano, probabilmente affetto da qualche indisposizione, poiché spesso cede nell’intonazione ed è in difficoltà nelle note basse.
Di buon contorno il Dormont di Manuel Pierattelli.

GIORDANO BRUNO [Marco Benetti] Milano, 7 novembre 2015.
Il teatro musicale ritorna nella programmazione del 24° Festival di Milano Musica con Giordano Bruno, opera in due parti e dodici quadri di Francesco Filidei, su libretto di Stefano Busellato e Nanni Balestrini e regia di Antoine Gindt, andato in scena al Piccolo Teatro Strehler con il Reminx Ensemble diretto da Léo Warynski.
Bruno Maderna e l’umanesimo possibile. Il festival ha deciso di omaggiare così uno dei maggiori compositori del XX secolo e nel solco del suo ritorno all’umanità viene a collocarsi la figura di Giordano Bruno, forse uno degli emblemi dell’Umanesimo, bruciato in Campo de’ Fiori a Roma il 17 febbraio 1600.
L’opera è divisa in due parti, la prima ambientata a Venezia e la seconda a Roma, per un totale di dodici secene che sviluppano parallelamente due piani. Mentre le scene dispari ripercorrono le vicende relative al processo, ricostruito sulla base dei pochi documenti sopravvissuti, le scene pari invece espongono a grandi linee le idee fondamentali del filosofo nolano, basate su una rielaborazione di testi originali effettuata da Nanni Balestrini, già impegata da Hans Werner Henze nella sua cantata Novae de infinito Laudes. Il compito di unire le due dimensioni è toccato a Stefano Busellato che ha composto il libretto definitivo.
Dal punto di vista puramente musicale l’opera si pone in un punto di svolta nell’estetica del compositore pisano, come da lui stesso ammesso. Se nelle opere fino ad ora prodotte l’attenzione era rivolta alla gestualità e alla sua teatralità (si pensi alla prima opera N.N. o a lavori da camera come Concertino d’autunno), ora il compositore sfrutta ancora quel bagaglio di esperienze precedenti ma più che sul gesto in sé si concentra dal suono prodotto dal gesto. La gestualità orchestrale risulta infatti in secondo piano, messa a servizio del dramma potremmo dire, anche con una scelta scenica: l’orchestra è sul fondo del palco, separata dal luogo d’azione dei cantanti- attori da un telo semitrasparente. Agli strumentisti, oltre al loro strumento tradizionale che può essere prerato, è richiesto l’utilizzo di molteplici oggetti, fischietti, richiami per uccelli, sassi, bicchieri pieni d’acqua e intonati da suonare con le dita o il battito delle mani efficacissimo nel rendere il rogo (Scena XI).
La parte vocale permette di fare alcune considerazioni. Traspaiono le ascendenze sciarriniane nell’uso di un canto che lascia spazio sia al virtuosismo che alla comprensione del testo. Di particolare difficoltà risulta la parte di Papa Clemente VIII, interpretato dal controtenore Guilhem Terrail. La percussività e l’ossessione tellurica, anch’esse ritrovabili in Sciarrino (cfr. Macbeth), ottenute dalla ripetizione delle sillabe freneticamente, viene a galla nell’orgia del carnevale (Scena II) dove i dodici cantanti si improvvisano ballerini dando prova di una grandissima capacità di intrecciare la parte vocale ai movimenti concitati richiesti dalla regia di Antoine Gindt, o nella scena della tortura (Scena VII) dove per altro l’orchestrazione accuratissima riproduce il movimento di torsione delle macchine del supplizio, effetto sfortunatamente non colto dalla regia. L’ultimo elemento legato alla scrittura vocale è legato ad un certo diatonismo della parte corale, soprattutto nelle scene di argomento filosofico, e al vero elemento di citazione: durante la scena della condanna (Secna IX) linee cromatiche si sovrappongono a gregoriani quando, con un colpo di scena abbastanza riuscito, tutti tacciono lasciando comparire per poche misure un Agnus Dei in rigoroso stile palestriniano.
Il cast vocale risulta eccellente. Lionel Peintre, baritono nel ruolo del protagonista, convince perfettamente e si destreggia senza problemi nella parte, assai impegnativa, perché sempre in scena dall’inizio alla fine dell’opera. Si distinguono anche Jeff Martin, tenore, e Ivan Ludlow, basso, che interpretano i due inquisitori. Come già accennato sopra, il controtenore Giulhem Terrail risulta perfetto nella seppur breve parte, ma sicuramente la più impervia, di Papa Clemente VIII.
Dietro il velo che lo separa dalla scena, Léo Warynski dirige perfettamente Reminx Ensemble riuscendo a tenere saldo l’insieme e facendo decretare il pieno successo alla rappresentazione che si rimpiange sia stata l’unica messa in programma nel capoluogo lombardo.

ORFEO [Mirko Gragnato] Versailles (Parigi) 8 novembre 2015.
L’Orfeo di Monteverdi torna a Versailles, nella splendida cornice della galleria degli specchi, con la bacchetta di Sir John Eliot Gardiner, il Monteverdi Choir e l’English Baroque Orchestra.
Se pure in forma di concerto l’azione scenica non è venuta meno dialogando con gli splendidi spazi della galleria degli specchi riempiendo, nonostante gli strumenti antichi, con la forza della toccata iniziale tutta la sala. Nel prologo la Musica, interpretata da Francesca Aspromonte, stupisce nella sua poliedricità che oltre al canto la vede abilmente suonare la chitarra a guisa di cetra nel solo e il cembalo nel vivace coro del balletto di ninfe e pastori. Alla stessa Francesca viene affidato il ruolo della messaggera che giunge dal fondo della sala accompagnata dalla tiorba dimostra ancora una volta come l’acustica del luogo si sposi perfettamente con la musica barocca, unendo stili musicali e artistici.
Dopo la drammatica notizia della morte di Euridice alla fine del 2 atto il coro lascia la scena. Nel ruolo di uno dei pastori troviamo Andrew Tortoise che senza brillare mostra anche una pronuncia con vari inciampi.
I violini a pochette a cui sono affidate le parti dei violini piccoli fanno tenerezza con il suono da strumentino che li fa sembrare un giocattolo.
Possente il Caronte di Gianluca Buratto: la forza di una voce venuta dalle profondità dell’averno e con un fiato così lungo da farlo sembrare uno spirito d’eternità, anche se i trilli del nocchiero infernale un po’ affaticati mostrano le incombenze di una voce possente ma poco agile mentre nel crescendo sostenuto dalla messa di voce fa tremare le vene ai polsi per l’intensità emotiva accompagnata anche dal cromorno dell’organo positivo rendendo acusticamente il galleggiare e l’equilibrio precario del traghetto nelle acque dello Stige. Pregevoli i violini per un’agilità degna di lingue di fuoco seguite dalle sonorità dell’arpa tripla di Gwineth Wentick, che accompagna con languidi pizzicati gli sconsolati lamenti di Orfeo facendo poi salire la preghiera al nume, muovendosi tra lunghe note degli archi. “Rendetemi il mio ben tartarei numi” in un solo sottovoce, che pochi luoghi come la galleria degli specchi possono permettere di apprezzare con una risonanza naturale.
Veramente di qualità, per timbro e perizia tecnica, i cornetti nella sinfonia che anticipa il coro di spiriti.
Ed ecco che il Monteverdi Choir cambiato di nero ricompare per quel che è una pregevole corale di voci forti e virili mancando il celeste timbro dei soprani.
I cornetti ancora, strumenti così vicini alla voce umana, anticipano l’umano sentimento della compassione della regina dell’Ade, Proserpina. La voce celeste del soprano Francesca Boncompagni, di nero vestita, porta quell’amorosa dolcezza e limpidezza che scalda il cuore, ed ancora Buratto che nel profondo potere della sua voce vede affidarsi anche il ruolo di Plutone, facendo così risiedere nelle corde vocali le forze delle divinità infernali, mostrando sulle note medie e meno scure più sicurezza nelle agilità degli abbellimenti.
Un Orfeo, quello di Krystian Adam, che convince poco sulle note più acute mentre si mostra più solido nel timbro medio-basso.
Si perde purtroppo in questa versione da concerto il picco emotivo della scena in cui Orfeo disattende la prescrizioni di Plutone facendo sparire Euridice tra le ombre di morte; resta solo il ripieno dell’organo per destare e arricchire il momento di tensione drammatica.
Sublimi i cornetti – Helen Roberst, Richard Thomas e Michael Harrison – che ad ogni entrata anticipano con una breve sinfonia l’ingresso degli spiriti, smuovendo gli umani affetti cosa anche nella quale il coro si mostra abile artigiano.
Certo un lavoro di luci avrebbe reso migliore la percezione coinvolgendo di più il pubblico che, nonostante l’esecuzione da capo a fine senza intervalli, sebbene un po’ affaticato non ha mancato di fragorosi applausi agli interpreti.
Al ritornello dell’atto quinto, nel quale il solo degli archi mostra il pregevole impasto timbrico che arco barocco e corde di budello permettono, segue un Orfeo (Adam) molto più sicuro, raggiungendo ne ‘in questi campi di tracia” l acuto del “lacrimerò” con pieno pathos.
Tenera la voce fuori scena di eco le cui risposte sono affidate al tenore Gareth Treseder, in questo equilibrio di tenue canto Adam come Orfeo si mostra la scelta migliore.
Veramente pregevoli i tromboni in mezzo piano che assieme al suono di una campanella annunciano l arrivo di Apollo cui presta la voce Tortoise, che con pronuncia insicura e timbro un po’ chiuso e affaticato, quasi acerbo, risulta poco vivace nelle agilità del “saliam cantando”, che porta i due cantanti ad attraversare la lunga galleria degli specchi per l’ happy ending della salita al cielo. Il dramma e la tensione del finale del mito, in cui Orfeo viene smembrato da furie e baccanti, è come passata sotto censura e resta tutt’oggi un mistero il perché Monteverdi e il librettista Striggio abbiano optato per il lieto fine lasciandoci solo qualche annotazione per l’idea di un finale drammatico che oggi andrebbe sotto il genere Splatter.
Ma ecco che a darci il miglior congedo il coro, con al cembalo sempre la vivace Aspromonte, che con allegria e battiti di mano fan da ripieno alle percussioni in una leggera tenuta d’assieme che con delicatezza ci saluta.
Il pubblico nonostante l’esecuzione da capo a fine senza intervalli non ha mancato di calorosi applausi soprattutto per Francesca Aspromonte, Krystian Adam e Buratto mentre per il “deus ex macchina”, il maestro John Eliot Gardiner, una standing ovation.

IL FLAUTO MAGICO [Lukas Franceschini] Verona, 12 novembre 2015.
La stagione Lirica al Teatro Filarmonico si è conclusa mirabilmente con la nuova produzione di Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart, opera che mancava dal lontano 1991.
Interessante, se possibile, paragonare nell’arco di cinque mesi tre spettacoli differenti della stessa opera: Bologna, Venezia e Verona, senza voler stilare una classifica che sarebbe inutile e prosaica, piuttosto rilevare tre diverse letture del capolavoro mozartiano.
Mariano Furlani, regista, Giacomo Andrico, scenografo (entrambi anche costumisti) assieme a Masbedo (videoproiezioni create da Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) hanno costruito un lavoro di grande efficacia teatrale basata soprattutto sul racconto fiabesco. Il team punta la carta vincete del meraviglioso attraverso un linguaggio di stupore in stampo contemporaneo. Un mondo umano nel quale bisogna creare qualcosa di nuovo, coloro che guidano i giovani sono coloro che già hanno vissuto quella parte di vita, infatti, le fatidiche prove si sviluppano con due realtà contrastanti, quella seria di Sarastro e quella superstiziosa della Regina della notte. Le belle scene, stilizzate ma eleganti, e le proiezioni, favolistiche e portatrici di bellezza, ben s’intersecano con la complicata vicenda, senza andare a ricercare spunti estremi psicologici ma rendendo la visione e soprattutto la comprensione immediata. La chiave “in favola” è anche portatrice di bellezza e appendice esistenziale di formazione focalizzando momenti come stupore, paura, angoscia e magia. Il mondo visivo di Masbedo è orientato verso l’arte contemporanea perciò lo spettatore è invitato ad avere una predisposizione innovativa d’interconnessione con figure artistiche alternative, ma quando quest’ultime sono così chiare e precise, il piacere è assicurato. La drammaturgia sviluppata in linguaggio stilistico veloce e razionale e i costumi di ricercata fattura contribuiscono alla splendida riuscita dello spettacolo, il quale è certamente uno dei migliori proposti negli ultimi anni al Teatro Filarmonico.
Sul podio abbiamo ritrovato il maestro tedesco Philipp Steinaeker, che sostituiva il previsto Andrea Battistoni. Esperto conoscitore del repertorio mozartiano infonde un equilibrio preciso tra buca e orchestra, attento al dettaglio, molto solenne e con tempi ampi. La sua direzione pur precisa e manierata mancava in non pochi momenti di brio e stacco incisivo adagiandosi su un compiacimento sonoro caratterizzato da una generale lentezza. L’orchestra dell’Arena di Verona era in forma splendida, positiva la prova del coro istruito da Andrea Cristofolini.
Il Tamino di Leonardo Cortellazzi si confermava come una delle migliori certezze del panorama tenorile italiano. Squisitamente lirico e incisivo, elegante e con una linea di canto di forbita raffinatezza. Altrettanto si può affermare per Ekaterina Bakanova, una Pamina con voce robusta ma ben armonizzata, intensa interprete e mirabile vocalista. Molto incisivo il Sarastro di Insung Sim, nobile, elegante con pregevole voce, meno convincente la Regina della Notte di Sofia Mchedlishvili, la quale non possiede la caratura drammatica che il ruolo richiede e carenze tecniche la mettono a disagio negli estremi acuti. Azzeccata la coppia di “Papageni”, Christina Senn sfodera una caratura brillante e gioviale alla quale si unisce nel celebre duetto la precisa e simpatica Lavinia Bini. Le tre dame, Francesca Sassu, Alessia Nadin ed Elena Serra, erano precise e molto musicali, note positive anche per i tre fanciulli ben caratterizzati e cantati da Federico Florio, Maria Gioia e Stella Capelli. Non particolarmente riuscito il Monostatos di Marcello Nardis ma veramente professionali le parti di fianco, autorevole l’Oratore di Andrea Patucelli, molto calibrati i sacerdoti e uomini corazzati di Romano Dal Zovo e Cristiano Olivieri.
Teatro gremito al limite del tutto esaurito, come raramente capita a Verona, lunghi e convinti applausi hanno salutato l’intera compagnia al termine.

ELEKTRA [Lukas Franceschini] Bologna, 17 novembre 2015.
Dopo quasi mezzo secolo la tragedia straussiana torna finalmente sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna. Elektra, tragedia lirica Op. 58, è un’opera in un atto di su libretto di Hugo von Hofmannsthal, che lo sviluppò dalla sua tragedia omonima, la quale si rifà alla stessa di Sofocle. L’opera fu rappresentata in prima assoluta al Königliches Opernhaus di Dresda il 25 gennaio 1909, diretta da Ernst von Schuch, ottenendo uno scarso successo. La fortuna iniziò l’anno seguente il 10 febbraio 1910, quando fu eseguita alla Royal Opera House Covent Garden di Londra diretta da Thomas Beecham.
Insieme a Salomè (1905) rientra nel primo periodo del teatro musicale di Strauss, caratterizzato in chiave espressionista: l’orchestra, estremamente arricchita, tiene i fili di un discorso musicale caratterizzato da aspre dissonanze e sonorità parossistiche, spesso travolgendo le voci alle quali è affidato un canto declamatorio e particolarmente difficile nell’esecuzione (al limite del possibile per la voce umana) e nella straordinaria tenuta drammaturgica. Un interessante saggio di qualche anno addietro a cura di Michele Girardi, mette in relazione Strauss con il nazionale Giacomo Puccini. Musicisti ma non meno uomini di teatro, attenti e prolifici in spartiti di grande impatto orchestrale e a un senso teatrale di spettacolo che ha una propria configurazione storica nella fine del XIX secolo e ancor più nel successivo. Doveroso rilevare che con Strauss il mondo operistico tedesco aveva trovato un valido, se non unico, interlocutore con l’opera italiana, in primis quella di Puccini e probabilmente è anche ipotesi veritiera una naturale rivalità. Tuttavia, Strauss e Puccini ebbero in comune l’attenzione quasi esclusiva per le protagoniste femminili e lo scaltrito impiego del leitmotiv, cui va annesso il senso del dramma e l’istinto per il coup de théâtre. Gli stessi musicisti, assieme al francese Jules Massenet, il ceco Leoš Janáček e il tedesco Alban Berg, furono tra gli ultimi autori a possedere un autentico istinto per la narrazione in musica, opere che nella naturale distinzione si accomunano con il genere scaturito dalla tradizione.
Bellissimo spettacolo quello visto a Bologna creato al Théâtre de La Monnaie di Bruxelles nel 2010. Il regista Guy Joosten sposta l’azione negli anni ’40 (o forse primo dopoguerra) e centra il personaggio di Elektra identificandola come un’emarginata della società militaresca della reggia. Donna introversa, rabbiosa, vendicativa, accecata nel suo vivere solo ispirato alla vendetta. Personaggio unico e focalizzato in tutte le sue sfaccettature. Mirabile e sconvolgente la scena di Patrick Kinmonth, il quale realizza una sorta di “angolo” esistenziale di Elektra, crudo e spoglio, ispezionato dalle ancelle, impersonate come delle Kapò. La crudezza del testo era parallelamente delineato da altrettanta scena spoglia e glaciale, in parte discutibile la scena finale, nella quale alzandosi una specie di sipario il pubblico può osservare i corpi trucidati dell’intera corte di Micene. Bellissimi i costumi, sempre di Kinmonth, soprattutto quello di Klytamnestra, regale ed emozionante regina nel gesto e nell’interpretazione.
Direttore era Lothar Zagrosek, una bacchetta sicura ed efficace in sonorità rigogliose ma anche molto enfatiche, e in questo punto ha sovente “coperto” le voci. Il maestro ha tuttavia reso la difficile partitura con autorevolezza e una chiara visione interpretativa, scansionando in particolar modo un aspetto teatrale in molte occasioni di spessore. L’orchestra del Teatro Comunale ha risposto con una buona preparazione e una partecipazione volenterosa anche se in qualche occasione ha dimostrato qualche leggera sfasatura.
Cast omogeneo e ben calibrato, nel quale emergeva Elizabeth Blancke-Biggs una protagonista autorevole nella difficile parte, capace di un’interpretazione scenica rilevante e istrionica accomunata da una vocalità portentosa, non sempre controllata, ma di professionismo certo. Anna Gabler, Chrysotemis, offriva una buona prova centrando il proprio compito sulla fragilità del personaggio e puntualissima nel canto. Impressionante la statura scenica di Natascha Petrinsky una Klytamnestra mozzafiato attraverso un costume sbalorditivo riempiva la scena da grande attrice, il canto pur non essendo sempre omogeneo era supportato da un fraseggio importante e di assoluto coinvolgimento. Molto bene l’Oreste di Thomas Hall, finemente cantato con bella voce e di forbito colore, Jan Vacik era un Aegisth molto pertinente. Rilevanti le parti di fianco a cominciare da Luca Gallo, magnifico Precettore di Oreste e un vecchio servo, mentre Alena Sautier ci offriva una Confidente emozionante. Brave le cinque ancelle, ancora la Sautier, Eleonora Contucci (anche ancella dello strascico), Constance Heller, Daniela Denschlag ed Eva Oltivany. Completa con professionalità il cast, il bravo Carlo Putelli nel ruolo del giovane servo.
Successo incontrastato al termine per tutta la compagnia, con particolari ovazioni per la protagonista e il direttore. Non posso esimermi da una nota finale. Il teatro Comunale era semivuoto, il pubblico era inferiore alla metà della capienza, aspetto sconcertante poiché la serata era il turno A di abbonamento. Il motivo di tale defezione è inspiegabile poiché Bologna è sempre stata città assidua frequentatrice del suo teatro d’opera. Forse il titolo, non proprio facile? L’attentato di Parigi ha spaventato il pubblico? Non saprei cosa rispondere ma la delusione per una così indicativa assenza è pesante.

ELEKTRA [William Fratti] Bologna, 19 novembre 2015.
Elektra potrebbe essere definita un “one woman show” ed Elisabeth Blancke-Biggs riesce veramente a catturare lo spettatore su di sé con un carisma tale da desiderare che i suoi monologhi e i suoi dialoghi non finiscano mai. L’interpretazione è avvincente, da togliere il fiato, supportata da un accento e un uso della parola che fanno invidia al teatro shakespeariano. La vocalità da lirico spinto, calda e suadente, calza a pennello col ruolo e la bravissima professionista sa tenere suoni brillanti e limpidissimi nella zona centrale e nel bel registro acuto, per poi cercare maggiore efficacia drammatica sporcando i gravi e i medio bassi, pur senza togliere musicalità nel difficile ruolo ricco di parlati, sussurrati e forti tendenti all’urlo.
La affianca un altrettanto eccellente Natascha Petrinsky nei panni di una Klytämnestra elegantissima, che trasmette il suo gelo dall’alto del comando, pur essendo sola come un’imperatrice inavvicinabile. In Elektra non cerca una figlia, bensì un’intima confidente cui porgere l’estrema sua solitudine. La vocalità piena e rotonda contribuisce a mantenere morbidezza nella linea di canto tutt’altro che semplice, donando una certa grazia autorevole al personaggio.
Bravissima anche la Crysothemis di Sabina Von Walther, che col suo canto raffinato e al tempo stesso impaurito, cerca di mantenere un collegamento stabile tra l’ira accecante di Elektra e la rabbia intimorita della madre. Davvero pregevole la resa dei cantabili nel primo duetto con Elektra.
Ottima anche l’esecuzione di Thomas Hall nei panni di Orest. Buona quella di Jan Vacik nel ruolo di Aegisth.
Efficacissima l’interpretazione delle parti di contorno: Luca Gallo, Alena Sautier, Eleonora Contucci, Carlo Putelli, Paola Francesca Natale, Constance Heller, Daniela Denschlag, Eva Oltivanyi.
Superlativa è la prova di Lothar Zagrosek alla guida della bravissima Orchestra del Teatro Comunale di Bologna: suoni limpidissimi, pulitissimi e cristallini; accenti drammatici e ritmi incalzanti; senso del dramma musicale compatto ed omogeneo; perfetto dialogo tra buca e palcoscenico.
Lo spettacolo firmato da Guy Joosten con scene e costumi di Patrick Kinmonth è accattivante, ma non entusiasmante. L’introduzione è elettrizzante, con le ancelle e la sorvegliante che ricordano le secondine di una prigione femminile mentre indossano le uniformi da lavoro negli spogliatoi del carcere. Anche la prigione di Elektra, costruita nell’ala fatiscente e in disuso di un palazzo classico, con impalcature di ferraglia e lamiera, ha un buon senso contemporaneo ed effettivamente angosciante, ma l’attrezzeria ad uso della protagonista che rimanda all’antica Grecia ha un che di polveroso e quasi disturba il completo immedesimarsi in una tragedia che altrimenti sarebbe perfettamente impostata. Buono l’andirivieni dei vari personaggi, soprattutto di quelli secondari. Sufficientemente adeguate le luci di Manfred Voss.

LE CONVENIENZE ED INCONVENIENZE TEATRALI [Lukas Franceschini] Treviso, 20 novembre 2015.
Interessantissima la proposta al Teatro Comunale “Mario Del Monaco: la farsa di Gaetano Donizetti Le convenienze ed inconvenienze teatrali in una versione peculiare.
L’autore compose lo spartito intorno all’ottobre-novembre 1827 durante il periodo napoletano, infatti, l’opera fu rappresentata per la prima volta al Teatro Nuovo il 21 novembre 1827, Giuseppe Frezzolini interpretava Mamm’Agata. In seguito Donizetti elaborò una seconda versione in due atti e possiamo affermare che nessuna delle opere, non solo donizettiane, riuscì a conquistare le scene del mondo teatrale operistico come questa satira che si sviluppa sulla prova di un’opera lirica. Il testo, al quale contribuì lo stesso compositore (senza accredito), è un inciso di chiarezza, sintesi e umorismo con tutti i libretti comici del tempo. L’opera che si tenta di rappresentare è Romulo ed Ersilia, un titolo fittizio perché nei fatti si tratta della più conosciuta Elvida (sempre di Donizetti) titolo che il pubblico napoletano ascoltò dall’anno precedente e avrebbe sicuramente riconosciuto. La brillantissima idea di usare un baritono travestito per il ruolo di Mamm’Agata, pare essere stato suggerito da una memorabile prestazione di Antonio Tamburini che nell’opera Elisa e Claudio di Saverio Mercadante al Teatro Carolino di Palermo, per farsi udire da un pubblico molto rumoreggiante comincio a cantare in falsetto, che sapeva utilizzare con grande maestria, tale pratica scatenò l’entusiasmo del pubblico facendo abbandonare il palcoscenico all’infuriata primadonna. A quel punto per continuare lo spettacolo, lo stesso Tamburini canto anche il ruolo della collega, indossando addirittura il costume. Il successo fu clamoroso e pur dubitando che tale avvenimento sia veritiero, è possibile rilevare che il travestimento in tal senso abbia interessato il grande istinto umoristico di Donizetti. La seconda versione in due atti fu sviluppata utilizzando altro materiale della commedia di Antonio Sografi (da cui proviene la farsa in un atto). Caratterizzando i personaggi su se stessi con le loro vanità, lamentele, presunzioni, rivalità, questi corrispondono esattamente ai cantanti di tutti i tempi che solcano i palcoscenici di tutto il mondo. Non da meno sono efficacissimi gli imprestiti di opere di altri compositori, sapientemente elaborati nel testo per rendere ancor più briosa la drammaturgia e aggiungendo ancor più legna al fuoco. Nel corso degli anni le due versioni, pur essendo presenti le partiture autografe, sono state spesso mescolate per effetti teatrali e drammaturgici, o per esigenze canore.
La versione eseguita a Treviso è una ricostruzione probabilmente prossima alla ripresa che Donizetti curò per il Teatro del Fondo di Napoli nel 1831 La situazione delle fonti è così intricata da rendere impossibile, oggi, una definizione certa della struttura in base alle molte riprese e rivisitazione d’autore. Trattasi di una farsa in un atto caratterizzata da dialoghi invece dei recitativi, uso del dialetto napoletano, un terzetto e un sestetto totalmente nuovo. Questa versione, basata sull’edizione critica di Roger Parker e Andres Wiklund, è frutto di ripensamenti e revisioni artistiche d’autore e ha il pregio di presentare insieme tre fra i migliori pezzi d’assieme comici di Donizetti. Dalla versione del 1827 deriva invece l’aria di Procolo, che rafforza il personaggio. Gli autori hanno scelto come pezzi di baule due cavalli di battaglia d’epoca: l’aria di Sofia da Il Signor Bruschino di Rossini, e l’aria di Amina da La sonnambula di Bellini.
Molto divertente e garbato lo spettacolo presentato a Treviso, il quale era in coproduzione con il Theater Biel Solothurn e in collaborazione con il Consorzio tra i Conservatori del Veneto e il Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia.
Regia, scene e costumi erano di un’unica mano, quella di Pierre-Emmanuel Rousseau, il quale ha impostato la vicenda agli inizi del ‘900 in un classico teatro d’opera. Scena quasi fissa, con alcuni cambi a sipario e visualizzazione anche nel retropalco tale da rendere veritiera e funzionale la “prova”, ma ben contestualizzata nell’ambiente teatrale che poi non è molto diverso da quello odierno. Costumi di ottima fattura con bei cromatismi e un tocco di opulenza che in tale situazione imprimevano una leggera gioiosità. I personaggi erano ben focalizzati nei loro ruoli e mai sopra le righe. Non sono mancate, doverosamente, gags divertenti e situazioni di battibecchi sempre sul filo della più credibile simpatia. Particolare rilievo hanno avuto i personaggi di Mamm’Agata che pareva una copia di Jack Lemmon da Billy Wilder, e Procolo, marito della primadonna, assai convinto nella parte del cavalier servente. Un vero spasso per questo spettacolo, comico, brillante, accattivante, che sarebbe potuto essere rappresentato senza intervallo poiché la drammaturgia era incalzante e la scena sempre diversa.
Sul podio abbiamo trovato Franco Trinca, solida e precisa bacchetta che ha saputo cogliere appieno il senso umoristico della farsa, e da esperto musicista ha equilibrato buca e palcoscenico con risultati davvero lusinghieri. Inoltre, è doveroso precisare che parte del cast era composto di giovani del Conservatorio del Progetto Opera Studio e l’Orchestra e il Coro del Consorzio dei Conservatori. Tali risorse ha saputo farle fruttare al meglio, reggendo tempi brillanti e nitidi per i cantanti e realizzando un ottimo lavoro di preparazione con gli orchestrali raggiungendo un risultato cui va il plauso più lusinghiero.
Michele Govi, Mamm’Agata (artista non del Progetto Opera Studio), ha dato una particolare rilevanza al personaggio più divertente senza mai cadere nella solita e stucchevole macchietta. Voce rigogliosa e piena, ben calibrata nei registri, alla quale univa una vis comica straripante d’indiscussa simpatia.
Gli altri interpreti, non di Opera Studio, erano i precisi Francesco Basso (Cesare Salzapariglia) e Michele Soldo (Impresario.)
Tutti gli altri cantanti provenivano dai Conservatori e nell’insieme hanno fornito un’ottima professionalità e soprattutto l’intera compagnia marcava un affiatamento molto apprezzabile. Erika Tanaka, Primadonna, è un soprano di buone qualità con particolare portamento nei ruoli brillanti di coloratura, Procolo, era un simpaticissimo Paolo Ingrasciotta, il quale metteva in luce l’ottima vocalità baritonale sempre misurata ed espressiva cui va aggiunta un’innata caratterizzazione teatrale di livello.
Ilenia Tosatto, Seconda donna, faceva da contraltare all’altro soprano con buone proprietà espressive e Askar Lashkin era un Biscroma molto preciso e divertente. Simpatico e disinvolto il Guglielmo di Andrea Biscontin e molto musicale Valeria Girardello nel ruolo en travesti di Pippetto, a loro si affianca con professionalità l’Impresario di Diego Rossetto.
Uno spettacolo veramente bello e ben realizzato, al quale il pubblico del Teatro Comunale di Treviso ha tributato un giusto e indicativo successo. Peccato che questo tipo di esperienza e di coproduzione non preveda una circuitazione, almeno regionale, più ampia.

IDOMENEO [Lukas Franceschini] Venezia, 22 novembre 2015.
Il teatro La Fenice inaugura la stagione d’opera 2015-2016 con Idomeneo di Wolfgang Amadeus Mozart, una nuova produzione che segna la continuità con il recente Die Zauberflöte nella ripetitiva proposta del medesimo autore. Anche alla recita cui abbiamo assistito, sono stati eseguiti gli inni nazionali italiano e francese in memoria delle vittime di Parigi e a due giorni dai funerali laici della ragazza veneziana perita nell’attacco al Teatro Bataclan.
Mozart desiderava da tempo comporre una grande opera seria, l’occasione arrivò nel 1780 con la commissione del Teatro di Corte di Monaco di Baviera per il carnevale successivo. Anche se lo stile è nello schema dell’opera classica del tempo, l’autore apportò alcune novità rivoluzionarie. Dapprima trasformò i recitativi accompagnati in autorevole dialogo vocale con una strumentazione raffinata, l’orchestra fu ampliata conferendo ai fiati un rilevante primo piano. E’ soprattutto l’invenzione e l’espressione musicale innovativa che colpisce anche l’ascoltatore moderno, seppure con un testo librettistico di non eccelso valore. Con Idomeneo Mozart ci offre la sua prima vera composizione completa in forma drammaturgica-musicale, di questa in particolare sono esemplari il colore e la forza orchestrale assommata al grande respiro compositivo e una linea melodica di altissimo valore.
Il libretto di Giambattista Varesco è sommario e mediocre e la drammaturgia latente, compito ingrato del regista, sotto taluni aspetti, è inventarsi un lineare racconto. Questa prospettiva nello spettacolo di Alessandro Talevi non c’era, tutto era astratto, senza una linea guida efficace e molte inutilità. Affiancare moderno e antico senza senso e coerenza potrebbe indurre a pensare che mancassero idee concrete, oppure le idee c’erano ma non sono state focalizzate al meglio. Troppi elementi e situazioni astratte, greci, troiani, vincitori ed esuli, banchetti con cibo vero (ridicoli i vassoi con spaghetti allo scoglio), incomprensivi gli ammiccamenti del coro nella scena iniziale. Poca chiarezza, tanta confusione e situazioni indecifrabili. La scena creata da Justin Arienti non fa di meglio, troppo uguale e spoglia, quando ci sono elementi, questi sono ingombranti in una sorta di studio-biblioteca con tanto di statua di Nettuno imperante. Nel complesso noiosa e stantia, cui contribuisce un ipotetico “mare” su rulli a mano, come nel teatro del settecento, che parafrasava i burattini e poco si conformava alla situazione visiva. Poco da dire sui costumi scialbi e brutti, di Manuel Pedretti, resterà nella memoria la giacca in lustrini di Idamante, più adatta a un veglione di capodanno.
Migliore, in parte, era l’aspetto musicale per la presenza di Jeffrey Tate, direttore esperto che ha forgiato un suono pieno e variegato nei colori, complice l’attenta, ma non sempre precisissima, Orchestra della Fenice. Tate è eccellente accompagnatore, il recitativo è da manuale, ma è efficace anche la variegata dinamica, sempre morbida e di altro spessore.
Molto precisa ed encomiabile la prova del Coro istruito da Claudio Marino Moretti. Il cast è parso non adeguato alle attese ad eccezione di Monica Bacelli che ha disegnato un Idamante efficace con un ottimo fraseggio nel recitativo e un’adeguata vocalità stilizzata. Brenden Gunnell è un protagonista anche volenteroso ma la voce è aspra, la dizione mediocre, il canto sommario, anche se dobbiamo riconoscergli che ha eseguito l’ardua aria del II atto con impegno ma scarsi risultati. Insignificante, noiosa e monocorde l’Ilia di Ekaterina Sadovnikova, decisamente fuori posto l’Elettra di Michaela Kaume per spessore e tecnica vocale, non per intenzioni. Si ritagliava un successo personale il bravo Anicio Zorzi Giustiniani, Arbace, che esegue anche la seconda e virtuosistica aria “Se la su ne’ fai è scritto”. Poco incisivo e grossolano il Gran Sacerdote di Krystian Adam, scialbo Michael Leibundgut, la voce,  per giunta amplificato con megafono si ipotizza per scelte registiche. Efficaci le parti di fianco nei ruoli dei due cretesi e due troiani.
Al termine il pubblico che gremiva il teatro ha tributato un lungo applauso a tutto il cast, ma la sensazione primaria era la noia.

DIDONE ED ENEA [Margherita Panarelli] Torino, 24 Novembre 2015.
Il secondo titolo della Stagione 2015/2016 è Didone e Enea di Henry Purcell che dà il via al Progetto Opera Barocca del teatro subalpino.
Protagonista il mare nel Dido & Aeneas del Teatro Regio di Torino: onde che uniscono, onde che separano e onde che soffocano. Un allestimento frutto di una collaborazione tra il teatro dell’Opera di Roun e il Teatro Regio che per prima volta si vede in Italia. Progetto che porterà il teatro nei prossimi anni a proporre almeno un titolo del vasto repertorio barocco al pubblico torinese. L’allestimento scelto per presentare Didone e Enea è quello dell’Opéra de Rouen Haute-Normandie con la regia, le scene, i costumi e le coreografie di Cécile Roussat e Julien Lubek, che viene messo in scena per la prima volta in Italia. L’ambientazione marina dell’allestimento non può non ricordare “The Tempest” di William Shakespeare – La Maga è inequivocabilmente una piovra e le sue sorelle ingannevoli sirene.
E’ stato scelto inoltre di affidare il ruolo del marinaio allo stesso interprete della Maga, questo ha reso chiaro fino a che punto le malvagie creature desiderino vedere compiuto il loro malefico piano. La vicenda terrena di Didone e Enea si dipana in un paesaggio di coste rocciose e grotte inospitali sempre in conveniente contrasto con i colori dolci e rilassanti del cielo dipinto sui fondali alle loro spalle. Struggente il finale quando il vestito di Didone stessa rivela la stoffa celata al suo interno e si trasforma nel mare nel quale la Regina decide di terminare la propria vita. Eccellenti le danzatrici e gli acrobati che hanno aggiunto grande fascino a questo bellissimo allestimento.
Perfettamente riuscita anche l’integrazione di alcuni ballabili ricavati da altre composizioni dello stesso Purcell e di alcuni brani “in stile” composti dal direttore, Federico Maria Sardelli seguendo la prassi esecutiva dell’epoca.
Roberta Invernizzi è una Didone orgogliosa, fiera e molto decisa in ogni suo atto – solida anche l’emissione, il fraseggio sempre improntato a una grande dignità che poteva lasciare spazio ad una vena di dolcezza per la Regina cartaginese. Molto elegante anche When I am laid in earth. Benedict Nelson ha portato un attraente timbro scuro al suo Enea e ha infuso spessore drammaturgico al suo personaggio nonostante l’esiguità del ruolo.
Emissione limpida, intonazione cristallina, colorature e abbellimenti eseguiti perfettamente e senza sforzo – questi solo alcuni dei pregi dell’eccellente Belinda di Roberta Mameli. Molto bravi i tre membri del trio stregonesco, ulteriore reminescenza Shakespeareana: Carlo Allemano, Maga e Marinaio, dal grande carisma vocale e scenico e le altre due streghe Sofia Koberidze e Loriana Castellano.
Risultano apprezzabilisimi anche la seconda donna di Kate Fruchterman e lo spirito di Carlo Vistoli.
Ottimo il lavoro svolto dall’orchestra intera diretta da un esperto del repertorio come Federico Maria Sardelli. I tempi scelti sono sempre al servizio della vicenda e si è potuta apprezzare la ricchezza della partitura Purcelliana. Eccellente il sostegno agli interpreti e al coro, anche in questo caso in splendida forma. Soddisfatto il pubblico, accorso numeroso, della recita a cui si è assistito, ha tributato a tutti gli interpreti numerosi e prolungati applausi.

DIDONE ED ENEA [Mirko Gragnato] Torino, 26 Novembre 2015.
Vero protagonista di tutta la vicenda è il mare, tutto avviene lungo le sue rive, tutto è spinto e condotto dalle sue onde.  La città di Cartagine è solamente evocata in questo alternarsi di lidi e profondi abissi, la grande città dell’antichità e il suo popolo si manifestano solo grazie alle parole del libretto tant’è che lo stesso coro, senza mai solcare il palcoscenico, è immerso con l’orchestra nel buio del golfo mistico.
Scene fatte di scogli, di lunghi panneggi che svolazzando richiamano i flutti del mare: sirene, mostri abissali, e volteggi acrobatici popolano le scene e l’allestimento di Cècile Roussat e Julien Lubeck.
Nel primo atto Didone, interpretata da Roberta Invernizzi, non rende nel mostrare la sua tristezza alla dolce Belinda di Roberta Mameli, la quale cerca di spronarla ad aprire il cuore al giovane principe Aeneas, interpretato da Benedict Nelson, di bell’aspetto ma dalla voce un po’ anonima che resta parecchio nell’ombra senza mai spiccare. La vasta sala del Teatro Regio si mangia la delicata musicalità di Purcell, resa dal maestro Federico Maria Sardelli un po’ secca e asciutta, troppo a metronomo senza quei sospiri e senza tempi rubati nelle danze corali o nei pezzi dei soli. Laddove il lamento cerca di dilatare il tempo e prendersi il suo spazio il maestro contiene tutto in una proiezione ortogonale di gesti che poco concedono e per nulla osano. Forse il teatro Carignano, più intimo e raccolto avrebbe potuto abbracciare meglio questa Didone bisognosa di affetto e tenerezza.
Le scene restano sempre appena accennate senza coinvolgere il pubblico, limitandosi a paesaggi di lidi rocciosi e scogli nonostante i vortici di panneggi blu e azzurri svolazzanti sul palcoscenico.
Il gran coinvolgimento si ha nel secondo atto, nella caverna della strega, messa in scena in un antro abissale dove la maga a guisa di piovra, una citazione Disney forse, con i suoi tentacoli si dimena e si stringe su di una roccia del fondale, quasi a mostrare la forza manipolatrice di questa antagonista.
Carlo Allemano rende benissimo sulla scena, convincente e coinvolto nella parte della malvagia strega, restando forse uno dei ruoli che come resa scenica primeggiano in questa rappresentazione, superato in qualità vocale però dalle altre due streghe, che vengono rappresentate come due sirene ammaliatrici, sospese a mezz’aria e condotte nello spazio del palcoscenico fluttuando come se nuotassero. 
Altro che incantesimi, Sofia Koberizde e Loriana Castellano, nel corso di volteggi e passaggi volanti, hanno dato veramente prova delle abilità vocali e della capacità di concentrazione, nonostante lo sforzo richiesto durante i voli scenici, non sembra facile mantenere un’emissione e intensità vocale costanti facendosi librare a mezz’aria.
Speciale nota meritano il gruppo di acrobati che, come famigli infernali della strega, popolano il palcoscenico come inquietanti creature abissali. La scelta di far interpretare ad abili circensi queste creature li rende spaventosi nel loro contorcersi senza limiti, nel passare da una posizione all’altra, quasi fossero entità senza scheletro, senza vera sostanza terrena. La resa è quella di mostri senza identità che vivono nell’ombra per cogliere di sorpresa la loro inconsapevole vittime, esattamente come le terribili creature che popolano le tenebrose profondità degli oceani.
Le risate a scalette del coro alle invettive della malvagia strega, vengono impersonate in scena da questi oscuri figuri con scariche quasi epilettiche dei loro corpi, con un effetto coinvolgente e straniante al tempo stesso.
Questa genia infernale resta, in questo allestimento, l’unica manifestazione di “popolo” e l’unica realtà sociale di tutta la rappresentazione quasi ad indicare la solitudine di Enea e Didone, quali rappersentanti di alto lignaggio, potenti, ma soli, lasciati a sé stessi nelle gravi decisioni, portati al sacrificio delle cose più care per compiere quello che è un dovere non scelto, non voluto ma imposto dai natali regali, dagli Dei.
Ed è qui che si manifesta la forza di quest’opera e del suo libretto, in una Didone salda, che non cede mai alla passione, ma che resta implacabile nella fede per la patria e abnegata al dovere.
Altro protagonista della vicenda è l’Amore, Eros si manifesta in scena con le ali e gli attributi che l’iconografia classica conferiscono a Cupido ma lo si pone in equilibrio su di un trapezio o un cavo in tensione come ad indicare le difficoltà spesso funamboliche che la passione deve affrontare e la sua vicinanza con thanatos, la morte; un passo falso, un inciampo e poi la caduta: la fine.
La manifestazione dell’amore in vesti acrobatiche lascia spazio a pensieri e riflessioni ma resta quasi svincolata dalla vicenda, senza realmente trovare un nesso con l’intreccio narrativo, restando uno spettacolare effetto di contorno che distrae un po’.
La presenza della Galea, la grande nave che sconfina sin dietro le quinte, nell’ultimo atto resta spettacolare ma il momento più topico è quello dopo il famoso lamento di Didone “Remember me”.
Nonostante la voce mai uniforme ma sempre tesa verso i gravi o gli acuti della Invernizzi, la regina di Cartagine si fa avvolgere dalle onde di panneggi blu-azzurri, che evocano il mare, lasciando lo spettatore commosso, Didone consumata dal dolore svanisce nei flutti come la sirenetta di Andersen .
Grande star di questa rappresentazione resta il Coro del Teatro Regio, che nonostante fosse defilato e nascosto nella buca non ha mancato di dare prova delle proprie qualità. Nonostante alla prima il pubblico non si fosse esposto in una sala un po’ gelata tranne che per tiepidi applausi, questa sera grandi ovazioni per i cantanti specialmente per Enea, Benedict Nelson.
Ed ovviamente per gli acrobati fortissimi e calorosissimi applausi per essere riusciti a mostrare la metafisica delle paure e dei sentimenti

ANNA BOLENA [Lukas Franceschini] Bergamo, 27 novembre 2015.
La tragedia donizettiana torna a Bergamo in una nuova edizione critica a cura di Paolo Fabbri. Il Teatro Donizetti ha notevolmente cambiato impostazione in seguito al cambio della direzione del Teatro cittadino. L’arrivo del nuovo direttore Francesco
Micheli ha in parte rivoluzionato la programmazione della stagione lirica che da quest’anno si unisce al circuito Aslico della regione Lombardia.
Il secondo titolo donizettiano del 2015 è stata Anna Bolena, opera che tuttavia non era così assente dal Donizetti poiché è stata rappresentata recentemente nel 2000 e nel 2006. La motivazione della riproposta va intesa in funzione della nuova revisione critica musicale curata da Paolo Fabbri, il quale si è adoperato in un lavoro di sicuro interesse, ma è doveroso rilevare che l’opera fu già rappresentata, e incisa, nella sua integrità, semmai sono molte sfaccettature musicali (tonalità, orchestrazione ecc.) che hanno fatto notare nuove forme di ascolto. Questa nuova versione critica accentua ancor più il contesto storico sia ottocentesco e lo stile del canto, sia drammaturgico nell’ambiente della corte Tudor. Una fatica di grande pregio e stile quella di Fabbri, la quale è da sommare allo studio e al progetto di rivalutazione in sede musicologica dell’intero catalogo donizettiano.
Anna Bolena, composta da Gaetano Donizetti nel 1829-30, fu rappresentata nella Stagione di Carnevale 1830 al Teatro Carcano di Milano con cast stellare, nel quale si annoverano i nomi di Giuditta Pasta, Giambattista Rubini e Filippo Galli. Fu un successo pieno che andò consolidandosi nelle recite successive e nelle riprese in altri teatri. Verso la fine dell’Ottocento purtroppo l’opera cadde in un incomprensibile oblio fino al 1948 con la prima “riesumazione” a Barcellona (nel cast Sara Scuderi, Giulietta Simionato e Cesare Siepi), poi Bergamo nel 1956 (protagonista Renata Heredia Capnist) e l’edizione più riuscita e strepitosa nel 1957 al Teatro alla Scala con Maria Callas diretta da Gianandrea Gavazzeni. In seguito l’opera sarà sempre presente nei cartelloni internazionali soprattutto perché il ruolo è di grande fascino per primedonne belcantiste che sarebbe qui superfluo elencare.
Non da tutti considerato capolavoro, ebbe in tutte le epoche solerti denigratori, comunque là si pensi, chi scrive cede trattasi di uno dei vertici operistici del bel canto, è anche l’opera che segna l’inizio della maturità compositiva nella carriera di Donizetti.
Casualmente nello stretto intervallo di una settimana ho avuto occasione di assistere a due spettacoli operistici la cui regia era firmata dalla stessa mano. Infatti, sia il “nuovo” Idomeneo veneziano (cui ho scritto recentemente) sia questa “Anna Bolena”, “vecchia” perché allestimento proveniente da Cardiff, erano di Alessandro Talevi. Due spettacoli completamente diversi e con il senno di poi posso affermare che il titolo di Donizetti si colloca su un piano molto superiore rispetto l’opera mozartiana.
Una scena quasi fissa, di Madeleine Boyd, delimita una corte tetra e truce come sappiamo fosse quella di Enrico VIII, cambi veloci e repentini, supportati da un ottimo studio di luci curate da Matthew Haskins. Registicamente la funzionalità è sovente alterna. Due grandi cadute di gusto: durante l’overture si assiste al parto della protagonista e alla successiva delusione per la nascitura femmina; durante il duetto Seymour-Enrico del I atto questo mima un rapporto sessuale con tanto di feticismo nel passare la lingua sullo stivale della nuova amante. Nel primo caso il regista sarebbe dovuto essere più erudito dell’ambiente storico, nel quale la maternità femminile è marginale rispetto la condanna al patibolo, anche se un escamotage fu di far passare la regina per adultera, nel secondo caso mi è parso del tutto inutile questo tipo di regia ormai logoro e abusato e in particolar modo durante un duetto ad alta tensione drammatica. Per il resto la narrazione scorre limpida e drammatica come si conviene, magari ci saremo aspettati più scavo psicologico sul personaggio di Enrico, ma nel complesso il risultato è positivo. La stessa Boyd è artefice anche dei costumi, meno felici della scena, che si sviluppano in uno stile ibrido, anche se la fattura è pregevole, peccato perché il contesto storico avrebbe meritato altro per una più completa omogeneità.
Per la prima volta sono stati chiamati I Virtuosi Italiani all’arduo compito di ensemble orchestrale, e il risultato è stato molto positivo, ascoltare quest’orchestra di gran valore ha contribuito a risollevare le sorti dell’opera. In effetti, la precedente formazione, probabilmente per scarsa esperienza, sovente denunciava appariscenti mancanze. Ottima la riconferma del Coro Donizetti istruito da Fabio Tartari, che ha atteso al proprio compito senza sbavature e dimostrando ottima professionalità. Una menzione la merita anche la banda di palcoscenico che era formata da giovani del Conservatorio cittadino, ovviamente intitolato a Donizetti.
Sul podio abbiamo ritrovato con gran piacere un maestro concertatore di ottime caratteristiche: Corrado Rovaris. Egli ci ha pienamente convinti con la sua direzione precisa, una lettura plastica che ben si adattava alle diverse situazioni della lunga partitura. Tutti i recitativi erano curati con maniacale dinamismo, i cori erano vibranti e ripetuti. La bacchetta seguiva i “da capo” con ottime variazioni, e tenendo sempre un perfetto equilibrio tra buca e palcoscenico, non perdendo mai di vista le difficili esigenze dei cantanti. Un lavoro molto preciso di scavo musicale e d’ottima preparazione nello stile della partitura.
Il cast era una proposta attendibile nell’odierno panorama. Protagonista era Carmela Remigio che ha interpretato una combattuta e fiera Anna Bolena, ha saputo affrontare il difficilissimo ruolo con temperamento e una buona esecuzione di scrittura, molto efficace sia nei passi concitati sia in quelli più patetici.
Talvolta alcuni portamenti non erano del tutto precisi o quantomeno accomodati ma si può sorvolare, quello che invece mi ha deluso è stata, nella grande scena finale, l’imitazione palese di altra celebre collega con tutti i suoi difetti in un canto articolato, poco espressivo, prevalso da accenti languidi e un fraseggio estremizzato in volumi vocali non lineari. A mio parere, fosse stata se stessa avrebbe avuto maggiore convinzione. Sofia Soloviy, Giovanna Seymour, è cantante che con il mezzosoprano non ha nulla da spartire, inoltre non possedeva nemmeno una voce, peraltro neppure bellissima, che marcasse la differenza con la protagonista, tuttavia, nel suo carniere aveva alcune frecce, incisività, dosaggio dei fiati e temperamento, che le hanno permesso di risolvere il ruolo senza pecce clamorose.
Un discorso a parte merita la valutazione del tenore Maxim Mironov che interpretava Lord Percy. Immagino tutti siano a conoscenza che la parte fu scritta per Rubini, pertanto di difficilissima esecuzione soprattutto nel registro acuto. Nella storia del disco, in studio e live, forse due soli tenori hanno saputo realizzare almeno le intenzioni dell’autore, pur con debiti accomodamenti, gli altri, quelli buoni, hanno dovuto abbassare la parte e sotto taluni aspetti ridimensionare vocalmente il tipo di vocalità richiesta pur raggiungendo anche soddisfacenti risultati. Mironov supera la prova, una prova molto ardua poiché ha cantato la parte tutta in tono e integralmente con i da capo. La voce non è delle più suggestive timbricamente ma egli è stato capace di un’interpretazione soddisfacente, utilizzando un canto forbito nel fraseggio e una rilevante musicalità. Ovvio chi si aspettava un Percy eroico e dal timbro pastoso potrà essere rimasto deluso, il nostro risolve sovente i passaggi acuti e le puntature in falsetto, unico modo attraverso il quale può reggere una simile parte e tessitura. Personalmente penso vada lui dedicato un plauso convinto.
Su Alex Esposito, Enrico VIII, non c’è nulla da aggiungere da quanto scritto in altre sue performance, si tratta di uno, dei pochi, migliori cantanti italiani del momento. La voce è bella, tornita, robusta, omogenea, e il canto è sempre raffinato e scolpito con precisione. Spiace notare che invece interpretativamente è monotono e ripetitivo, rifacendosi sempre al suo personale cliché leporelliano. In quest’occasione il Re d’Inghilterra non è emerso.
Molto bene la prova di Manuela Custer, Smeton, che disegna un paggio brioso e veemente accumunando una vocalità precisa e molto forbita nello stile. Pertanto è da considerare che la non felicissima prova veneziana estiva debba essere attribuita a un momentaneo periodo di non perfetta forma fisica. Molto incisivo e particolarmente convincente il Lord Rochefort di Gabriele Sagona, corretta la prova di Alessandro Viola nel ruolo di Sir Harvey.
Teatro gremito in ogni ordine di posto e successo trionfale al termine.

ANNA BOLENA [William Fratti] Bergamo, 27 novembre 2015.
La rassegna dedicata all’illustre Maestro bergamasco negli anni del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti è sempre stata zoppa, sia per motivi organizzativi e di programmazione, ben poco festivalieri e orientati al turismo, sia per ragioni artistiche e culturali, poiché la qualità raramente faceva onore al grande compositore.
Il 2015 è l’anno della svolta, con l’insediamento di un nuovo direttore artistico e l’ingresso nella rete di OperaLombardia. Occorre ancora molto lavoro per raggiungere il livello di un vero festival internazionale, ma non c’è dubbio che la produzione di Anna Bolena sia la migliore dell’ultimo decennio.
Innanzitutto la nuova edizione critica di Paolo Fabbri ridona al pubblico appassionato l’integralità della musica scritta per questa bellissima tragedia, una delle più tagliate e sforbiciate, anche se già in precedenti occasioni era stata presentata una versione poco dissimile. Inoltre, fatto ben più importante, si cerca di ridare un senso di originalità con la scelta di interpreti in grado di eliminare molti stravolgimenti voluti dalla tradizione, sia da quella eccessivamente tragica, sia da quella esageratamente belcantista.
In primo luogo è doveroso segnalare un notevolissimo miglioramento in termini musicali e in tal senso la scelta di scritturare un’orchestra che sa suonare risulta essere vincente. I Virtuosi Italiani, guidati dal loro direttore principale ospite Corrado Rovaris, si presentano con un suono pulito, anche se non propriamente cristallino. La bacchetta sa ricalcare i giusti accenti, i tempi sono ben equilibrati, il fraseggio è adeguato e buono è il dialogo tra buca e palcoscenico, anche se in alcuni – pochissimi – punti si fa prendere troppo la mano e il suono risulta un po’ troppo voluminoso.
Carmela Remigio è interprete di primo ordine e porta in palcoscenico un’Anna musicalmente svuotata dagli eccessi del drammatico spinto della prima tradizione, come pure dalle esagerate variazioni sovracute della seconda, permettendo al pubblico di riascoltare il ruolo della regina il più vicino possibile allo spartito originale scritto da Donizetti. La voce piena e pastosa, non troppo chiara né troppo scura o corposa, musicalmente appropriata, omogenea nella linea di canto, dotata di buon fraseggio, ma soprattutto di un bel legato, sa rendere il personaggio in maniera misurata, passando dalle tinte patetiche a quelle tragiche col giusto equilibrio. Eccellente è il finale primo “Ah! Segnata è la mia sorte” .
La affianca il bravissimo Maxim Mironov, anch’egli impegnato nel difficile compito di ripristinare il più possibile il ruolo autografo di Percy; incarico piuttosto arduo perché molto acuto nella tessitura con numerose puntature sovracute. Il tenore russo risolve vocalmente molto bene il suo incarico – le piccolissime difficoltà riscontrate sono ben scusabili – sommando al canto musicalissimo una tecnica eccellente in ambito virtuosistico. Molto buona anche la resa del personaggio, che sa essere sempre elegante, giustamente mai troppo dirompente.
Nella parte di Giovanna, debuttata giovanissima nel 2006, ritorna a Bergamo Sofia Solovij e la sua prova di buon livello fa scordare altre sue recenti performance poco fortunate. La soprano ucraina si presenta in scena con sicurezza e il suo canto elegante e misurato si confà alla partitura donizettiana slegandosi completamente dalle interpretazioni mezzosopranili drammatiche della precedente tradizione.
Il quartetto dei protagonisti si conclude col canto magistrale di Alex Esposito, in possesso di una linea di canto omogenea e morbidissima, una vocalità brillante dotata di velluto, una capacità di accentare arricchita da un buon uso dei colori, nonché da un fraseggio particolarmente eloquente. L’unica pecca del suo Enrico VIII è che il bravissimo Alex Esposito è sempre se stesso e non è molto diverso da tanti altri suoi personaggi.
Molto buona è anche la prova dello Smeton di Manuela Custer, la cui parte senza tagli è ben più corposa, come pure il Sir Hervey di Alessandro Viola e il Lord Rochefort di Gabriele Sagona.
Buona la prova del Coro Donizetti preparato da Fabio Tartari.
L’ottimo risultato in ambito musicale e vocale è supportato da uno spettacolo discreto che, senza infamia e senza lode, non si inserisce nella polverosità di una visione troppo classica come neppure nell’inutile modernità di un’idea contemporanea, restando un poco astratto tra i caratteri gotici e dark di scene e costumi firmati da Madeleine Boyd, che sembrano più accostabili alla moda che non all’epoca di riferimento. Molto buona la regia di Alessandro Talevi che, pur non portando in palcoscenico idee nuove o coup-de-théâtre, sa districarsi molto bene all’interno della tragedia, creando un movimento continuo anche laddove non accade alcunché. Scene e controscene sono sempre ben presenti e amalgamate tra loro, supportate da un eccellente disegno luci di Matthew Haskins, nonché da posizioni, ingressi, uscite e gestualità ben giocate sui protagonisti e sul coro, arricchite da movimenti coreografici di Maxine Braham.
Applausi davvero entusiastici per tutti al termine della lunga serata.

UN BALLO IN MASCHERA [Marco Benetti] Como, 28 novembre 2015.
Prosegue la Stagione Notte del Teatro Sociale con il titolo verdiano Un ballo in Maschera con la regia di Nicola Berloffa e la direzione musicale di Pietro Mianiti. Tra i protagonisti Sergio Escobar, Angelo Veccia e Daria Masiero.
Lo spettatore entra in teatro e la scena è aperta. Sul palco troneggia, quasi a specchio, un palchetto incorniciato da un’architettura neoclassica, drappi dorati e le bandiere americane. Un uomo si aggira per la scena con una rivoltella in mano.
Si abbassano le luci e nel palchetto fanno il loro ingresso il Presidente Lincoln e signora, più una damigella e una guardia. Al momento dei saluti di cortesia l’uomo con la rivoltella si avvicina sparando un colpo verso il Presidente il quale, come noto, muore sul colpo.
Come giustificare questo teatrino, ancor prima dell’attacco del Preludio?
Ovviamente una scelta registica. La rilettura di Nicola Berloffa si basa sull’identificazione di Riccardo, cioè colui che detiene il potere e lo amministra rettamente secondo giustizia, con il paladino della Rivoluzione americana nonché simbolo dell’unità nazionale e della democrazia  Abraham Lincoln, ingiustamente assassinato, come lo sarà il protagonista dell’opera verdiana. Questo implica lo spostamento della vicenda dopo la Rivoluzione, nel periodo della corsa all’oro, poco prima della Guerra Civile. Verosimilmente le incongruenze nei costumi di Valeria Donata Bettella sono da imputare all’idea originaria di schizofrenia: la varietà nell’abbigliamento spazia infatti dal ‘700 all’800 tardo. La scena si riempie di cowboy senza scrupoli (i congiurati). Ulrica è una sciamana pellerossa cieca, reietta perché indigena con il suo seguito e circondata da emarginati che, se nell’originale era ladri e assassini, diventano qui una comunità amish.
Si accumulano sparatorie senza esito nel tentativo di accumulare la tensione in preparazione della scena finale. Durante la festa, il ballo del titolo, sullo sfondo degli attori mimano per gli invitati l’omicidio di Lincoln, rivelando la correlazione fra gli eventi narrati e la scenetta iniziale.
L’impressione generale non è stata che lo spettacolo non si reggesse in piedi: semplicemente un’idea interessante è stata farcita di scelte alquanto infelici e un po’ forzati.
La situazione sul versante musicale mostra alti e bassi.
Il direttore Pietro Mianiti, per quanto sia apprezzabile negli stacchi di tempo spesso un po’ più incalzanti della norma, si perde in un gesticolare a volte eccessivo col risultato che gli attacchi non sono sempre puliti. A parte resta l’attacco dato a vuoto nel momento in cui una parte del coro si scorda di entrare in scena. 
Il protagonista, Sergio Escobar, sfoggia un volume di voce esuberante, non molto controllato, proponendo una dinamica costante fra il mezzoforte e il forte.  Di contro Angelo Veccia che interpreta Renato è la voce maschile che meglio se la cava per la capacità di dare buoni colori alla parte. Tra i personaggi femminili Daria Masiera, nei panni di Amelia, offre con un’interpretazione molto sobria del personaggio. Le due voci eccellenti restano comunque quelle di Annamaria Chiuri nei panni di Ulrica, che interpreta davvero magnificamente la parte, facendo notare abbastanza lo scarto con gli atri interpreti, e quella di Shoushik Barsoumian, il paggio Oscar, incredibilmente agile e brillante. Il pubblico si accorge di tutto questo a giudicare dagli applausi insistenti tributati a queste ultime due protagoniste. 
Ovviamente una scelta registica. La rilettura di Nicola Berloffa si basa sull’identificazione di Riccardo, cioè colui che detiene il potere e lo amministra rettamente e secondo giustizia, con il paladino della Rivoluzione americana nonché simbolo dell’unità nazionale e della democrazia, cioè Abraham Lincoln, ingiustamente assassinato, come lo sarà il protagonista dell’opera verdiana. Questo implica lo spostamento della vicenda dopo la Rivoluzione, nel periodo della corsa all’oro, poco prima della Guerra Civile. Verosimilmente le incongruenze nei costumi di Valeria Donata Bettella sono da imputare all’idea originaria di schizofrenia: la varietà nell’abbigliamento spazia infatti dal ‘700 all’800 tardo. La scena si riempie di cowboy senza scrupoli (i congiurati). Ulrica è una sciamana pellerossa cieca, reietta perché indigena con il suo seguito e circondata da emarginati che, se nell’originale era ladri e assassini, diventano qui una comunità amish.
Si accumulano tentativi di sparatorie che non hanno mai luogo, in un tentativo di accumulare la tensione in preparazione della scena finale. Durante la festa, il ballo del titolo, sullo sfondo degli attori mimano per gli invitati l’omicidio di Lincoln, rivelando la correlazione fra i gli eventi narrati e la scenetta iniziale.
L’impressione generale non è che lo spettacolo non stesse in piedi, semplicemente un’idea interessante è stata farcita di scelte alquanto infelici e un po’ forzati.

UN BALLO IN MASCHERA [William Fratti] Cremona, 4 dicembre 2015.
Andare oggi all’opera, oltre a ciò che accade in ambito musicale e canoro, significa scontrarsi o incontrarsi con spettacoli più o meno adeguati alla filologia del libretto, al volere del compositore, piuttosto che al desiderio moderno o tradizionalista del regista. I melomani più agguerriti anelano sempre ad allestimenti classici, i giovani attivi in ambito culturale prediligono trasposizioni contemporanee, ma ciò che è davvero importante è che qualsivoglia decisione di regia, scenografia e coreografia, non stravolga l’azione, non disturbi musica e canto, ma serva da filo conduttore, possibilmente da miccia all’effetto esplosivo di quanto già insito in partitura.
Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi è uno dei melodrammi più facili da reinterpretare, sia per la natura della vicenda, sia per i sentimenti umani e politici di cui si narra, sia per il tacito benestare del compositore stesso che, non potendo andare in scena con la trama originale – l’omicidio di Re Gustavo III di Svezia – non si è minimamente scomposto nel dover trovare altro ambiente per scrivere la sua storia.
Nel corso degli ultimi anni si è visto Riccardo essere il governatore di Boston a fine 1600, il Re di Svezia a fine 1700, il Presidente degli Stati Uniti in vari periodi del XX secolo e così via. Al Ponchielli di Cremona, nello spettacolo prodotto sul palcoscenico del Fraschini di Pavia, al momento di accomodarsi in sala e guardando il palcoscenico a sipario aperto, ci si rende conto di essere nell’800, impressione subito confermata dopo l’ingresso del direttore, poiché una breve scena ci racconta dell’attentato a Lincoln, seguito dall’urlo ossesso della moglie del Presidente. Ma se ciò voleva essere un coup-de-théâtre, in realtà ha sortito l’effetto imbarazzante di una barzelletta che non fa ridere, che è perdurato, se non peggiorato, per tutta la durata dello spettacolo.
E così Oscar diventa una donna civettuola – forse si può accettare la sua trasformazione in stagista nelle trasposizioni contemporanee, ma qui non trova alcun senso – Renato uno pseudo gangster, trafficante d’armi, o d’alcoolici, o più presumibilmente di sigari, Samuel e Tom dei cowboy occidentali, Ulrica una nativa americana cieca ascoltata da donne e bambini Amish. Per non citare l’insulso continuo accendersi di sigari ad opera dei congiurati in terzo atto, o il loro travestimento da nativi al ballo con conseguente – e parecchio imbarazzante – danza della guerra, o della pioggia, o di qualunque altra ragione. E la scena finale in cui Amelia e Riccardo si riconoscono dopo alcuni minuti di conversazione pur non avendo alcuna maschera. E Riccardo, ferito a morte, che resta in piedi a perdonare tutti quanti.
Le note di regia sul programma di sala riportano: “il ballo è un insieme schizofrenico” quando i più preparati musicologi della stria lo hanno definito uno dei melodrammi più morbidi, compatti ed ispirati; “scene più leggere con un rimando all’operetta francese ottocentesca; il compito più arduo è cercare di livellare” ma ciò è un gravissimo errore, avendo Verdi inserito tali scene, come ne La forza del destino e da egli stesso dichiarato, per dare un riposo dal dramma, pertanto lo spianamento intaccherebbe il suo volere primario; “da libretto ci troviamo a Boston nel 1700, dove in una lasciva corte capitanata dal Conte Riccardo si scontrano pensieri più puritani e retti” ma da libretto ci troveremmo nella seconda metà del 1600 e la corte non è certamente lasciva e ciò è provato dall’amore puro tra i due protagonisti. La corte di Boston non è quella di Mantova, né la casa di Violetta.
Le incongruenze continuano nei costumi di Valeria Donata Bettella. Difficile esprimersi sull’abbigliamento nativo, amish o pseudo texano o californiano, ma i vestiti europei presentano donne prevalentemente ottocentesche, in linea con l’omicidio di Lincoln, ma uomini in gran parte con abiti di inizio novecento e camerieri in livree settecentesche. Le povere scene di Fabio Cherstich sono formate da due palchi teatrali, poca attrezzeria e dei mezzi fondali.
Se proprio si vuole essere positivi e spezzare una lancia a favore di questo spettacolo, sicuramente non ha disturbato e non ha annoiato, ma va assolutamente dimenticato. Nicola Berloffa ha saputo e sicuramente saprà fare di meglio, ma questa ciambella è riuscita senza buco, bruciata e con troppo zucchero.
La direzione di Pietro Mianiti è un respiro di sollievo. Non solo riesce a compattare l’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano, ma anche a rendere gli spazi emotivi verdiani con un accento suo personale che permette di sentire qualcosa di nuovo e piacevole al tempo stesso, senza cadere nel melenso pur attento al pathos, evitando gli effetti bandistici pur concentrato sul vigore del Cigno di Busseto. Si comporta ben anche il Coro OperaLombardia diretto da Antonio Greco ed è un vero piacere assistere ad una rappresentazione del Ballo con le voci bianche – spesso sostituite dal solo coro donne – in questo caso ad opera del Civico Istituto Musicale Vittadini di Pavia diretto da Giuseppe Guglielminotti Valetta.
Il protagonista è Sergio Escobar, una delle più belle voci tenorili udite negli ultimi anni, calda, rotonda e pienamente squillante, ma con la tecnica approssimativa di un apprendista, mal poggiato, spesso crescente, acuti e gravi omessi troppo di frequente: in altri teatri il loggione non gli avrebbe permesso di finire il primo atto. Il materiale resta comunque di notevole importanza; sarebbe auspicabile un fermo di almeno sei mesi con adeguato studio ad opera di un valido insegnante.
Lo affianca la brava Daria Masiero nei panni di Amelia, ancor più brava di quanto non sappia fare solitamente se si considera che arriva in fondo alla recita senza commettere alcun errore, pur cantando completamente fuori ruolo, mancando dell’accento drammatico e dell’effetto spinto previsti dal personaggio, ma che non la mettono in difficoltà, poiché con molta intelligenza e professionalità la Masiero non va a cercare tinte e colori che non possiede naturalmente.
Anche il Renato di Angelo Veccia se la cava bene, pur dovendo districarsi tra sigari, asce e valigette. La vocalità del baritono non è propriamente elegante e brillante, qualità necessarie per questo ruolo, ma tecnicamente adempie completamente al suo compito, con buona intonazione, linea di canto ed uso delle sfumature.
Annamaria Chiuri è un Ulrica pressoché perfetta nell’esecuzione della parte, pur brillando maggiormente in ruoli più acuti, come Azucena, Eboli ed Amneris. La resa del personaggio è mastodontica: nonostante sia ridicolizzata nei panni di una shamana cieca pagata con le mele e con pentolone fumante alle sue spalle, la Chiuri ha la presenza scenica della grande professionista.
Shoushik Barsoumian è un – o sarebbe meglio dire una Lady – Oscar con la voce di uno spillo che si dispiega bene tra trilli e picchiettati, ma manca della corposità necessaria che dovrebbe avere il personaggio che inavvertitamente fa accadere tutta la vicenda.
Molto buona la resa di Samuel e Tom, interpretati da Mariano Buccino e Francesco Milanese, nonché di Silvano e del Giudice, eseguiti da Carlo Checchi e Giuseppe Distefano.

THE BASSARIDS [Simone Ricci] Roma, 5 dicembre 2015.
Il Teatro Costanzi ha puntato con decisione su un’opera del ‘900, una scelta non molto comune quando si tratta di cartelloni lirici. Il titolo che non ti aspetti per il debutto di una nuova stagione: per il 2015-2016 il Teatro dell’Opera di Roma ha deciso di puntare su “The Bassarids” di Hans Werner Henze, un’opera che la Capitale non aveva mai conosciuto fino ad oggi e che poteva rappresentare un minor richiamo rispetto a un lavoro più conosciuto e affermato. La scelta è stata però premiata e questo atto unico che non ha ancora compiuto il mezzo secolo di vita si è fatto apprezzare per i suoi effetti scenici e l’orchestrazione sofisticata e coinvolgente. Questa recensione si riferisce alla recita del 5 dicembre. La regia di Mario Martone è stata dominata da un gusto spiccato per le scene nude e crude, quasi a voler sottolineare la rovina progressiva della città di Tebe, senza far mancare però alcuni riferimenti moderni.
Martone è riuscito a rendere bene le intenzioni di Henze, in particolare la distinzione netta fra la religiosità intransigente di Penteo, il re di Tebe, e i riti di Dioniso, l’incarnazione della trasgressione eccessiva. Le orge, gli atti di cannibalismo e quelli di satanismo non disturbavano lo spettatore e le soluzioni moderne, ad esempio l’esercito del re con i mitra continuamente spianati e la personificazione di Penteo nei panni di un dittatore hanno reso partecipe il pubblico con dei richiami evidenti all’attualità. I fuochi sacri e gli altri simboli antichi, poi, servivano a rendere il tutto più intimo e spirituale.
Sergio Tramonti ha deciso di affidarsi alle pareti di specchi per la scenografia e soprattutto al sottopalco. Il mondo sotterraneo, pieno di attrazioni trasgressive e pericolose, non era visibile ma intuibile: i protagonisti scendevano proprio per scoprire i segreti di Dioniso e la loro trasformazione psicologica dopo esserne usciti faceva ben capire cosa potesse essere successo. C’è stata anche parecchia attenzione per quel che riguarda la dimensione psicoanalitica di “The Bassarids”. Penteo e Dioniso sono stati contrapposti come rappresentanti della repressione ed espressione sfacciata delle pulsioni, una lotta stravinta dalla divinità, a danno delle donne e delle madri di Tebe.
La punta di diamante del cast vocale era senza dubbio Veronica Simeoni nel ruolo di Agave. La recitazione del mezzosoprano romano è stata intensa ed efficace e non era scontata per un personaggio complesso e articolato come questo. La pienezza del suono e dell’espressione l’hanno fatta apparire giustamente come una autentica regina ferita. Gli applausi più convinti (in altri casi un po’ troppo freddi) sono andati a Russell Braun, i cui acuti sono sembrati quasi un motore diesel: inizialmente ha faticato un po’ a emergere rispetto agli altri cantanti, ma poi ha tratteggiato un Penteo autoritario e dalla sofferenza credibile.
Ladislav Elgr era un Dioniso mai timido e a suo agio nei panni di una divinità sensuale ed esotica: il fisico lo ha di certo aiutato e ovviamente anche i costumi piuttosto azzeccati, il fraseggio è stato il suo punto di forza, grazie a una dizione impeccabile e alla sottolineatura delle parole chiave che ha accompagnato la sua apoteosi. Mark Steven Doss poteva fare affidamento sulla sua lunga esperienza per dipingere la figura di Cadmo. La recitazione appariva talvolta un po’ troppo impacciata e impaurita (l’uniforme indossata sembrava fuori luogo), però il timbro baritonale ben scolpito ha reso perfettamente l’idea del padre tormentato e saggio di Agave.
Il resto del cast era completato dal Tiresia di Erin Caves, mai banale e dall’emissione giustamente eterea, dal Capitano della Guardia Reale di Andrew Schroeder, bravo anche nel sapere gestire il momento di canto con il megafono, dalla Autonoe di Sara Hershkowitz, sensuale e dagli acuti interessanti, e dalla Beroe di Sara Fulgoni, sobria e capace di enfatizzare la saggezza del suo personaggio. Stefan Soltesz ha diretto con sicurezza l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, senza tradire la partitura originale e con una concezione appropriata della timbrica.
In diversi passaggi, poi, la musica ha fatto ricordare la raffinatezza di Britten, nel pieno rispetto del messaggio di Henze. Per quel che riguarda il coro del Teatro Costanzi, infine, ha peccato di eccessiva timidezza nei primi minuti, posizionato ai lati della scena e non troppo partecipe, trovandosi più a suo agio nelle scene truculente e di trasgressione. Alla fine gli applausi sono cresciuti di intensità, non sono mancati i complimenti tra chi commentava: la “scommessa” del Costanzi non ha avuto ripercussioni negative, attirando tra il pubblico Roberto Benigni e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

IL GIOCO DEL VENTO E DELLA LUNA [Lukas Franceschini] Treviso 13 dicembre 2015.
Presentata per la prima volta in teatro, dopo l’esordio al Conservatorio di Venezia nel giugno 2014, la nuova opera di Luca Mosca Il Gioco del vento e della luna su libretto di Pilar Garcia. 
Il soggetto è tratto da una commedia seicentesca Il tappeto da preghiera di carne di Li Yu, un classico vietato della letteratura cinese, il quale narra l’iniziazione alle gioie della carne di una giovane ragazza e in un certo modo rivendica anche con ironia il diritto delle donne alla piena partecipazione all’atto sessuale. Argomenti simili furono vietati sia in età imperiale sia in epoca maoista, poiché il romanzo può essere ascritto nella letteratura erotica d’oriente. Immaginare i protagonisti liberi dai tabù sessuali ed esprimersi nel puro e reciproco piacere porta a immaginare un mondo che intreccia il legame tra erotismo e magia. Il libretto umoristico di Pilar Garcia coglie appieno i significati anche ironici del soggetto in maniera simpatica con leggeri tratti piccanti mai sopra le righe.
Luca Mosca in questa composizione raggiunge un vertice compositivo di elevato spessore e potremo affermare di squisita brillantezza strumentale. Egli ha affermato che era suo desiderio ricreare un mondo musicale orientale straniato ma comico,pertanto ha preferito un’orchestrazione contenuta ma squillante e di difficile impegno nel virtuosismo acuto. Il compositore ha volutamente escluso gli archi per trovare una sonorità tipicamente dell’est e marcatamente lontana dall’occidente. La parte vocale è notevolmente virtuosistica, generalmente Mosca ha una peculiare predisposizione in tal senso nel trattare le voci, mettendo anche a dura prova i solisti in un canto melodico ma d’impegno tecnico di spessore. Infine, è da precisare che l’opera non è per nulla un lavoro didattico ma un vero e proprio spartito che impegna il gruppo strumentale e le voci in una prova di grande contemporaneità musicale.
Francesco Bellotto, regista, firma uno spettacolo molto bello e convincente ispirandosi, molto liberamente, sia al teatro minimalista “alla Wilson” sia alla commedia sexy cinematografica all’italiana. Prendendo come comune denominatore la comicità del libretto della Garcia e la brillante partitura, egli porta in scena gli stereotipi comuni dell’iniziazione al sesso e del tradimento evocando una Cina forse troppo banale ma sicuramente focalizzata sull’immagine che l’occidente non erudito ha di quel paese.
Pertanto vanno ad aggiungersi accessori e modi di fare che rendono l’opera non solo piacevole ma anche elegantemente ironica, riuscendo con garbo e stile a farci sorridere su temi che farebbero divertire qualsiasi etnia quando la consueta convenzionalità è derisa in azzeccati spunti teatrali. Efficace la scena fissa creata da Massimo Cecchetto e bellissimi i costumi di Carlos Tieppo.
Di ragguardevole pregio la direzione di Giovanni Mancuso a capo dell’Ensemble Strumentale e Coro del Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia assieme ai quali ha saputo dare particolare incisività e brillantezza dinamica a uno spartito per niente facile ma ricco di virtuosismo e armonia equilibrando con facile mano pianoforte, chitarra e flauto e percussioni.
Il cast era composto di Allievi ed ex-allievi del Conservatorio Marcello coinvolti nel progetto opera Studio. Un cast molto preciso e professionale, teatralmente validissimo, nel quale spiccano i due protagonisti Fernanda de Araujo Silva e Paolo Ingrasciotta, Nobile Profumo e Chierico, per validissima vocalità canora. Pregevoli le prove di Giulia Bolcato e Francesca Gerbassi (Mamma Liu e Mamma Ma) e il segretario interpretato da Valeria Girardello. Tutta la compagnia merita un plauso: Francesco Basso (servo), Asako Watanabe (Lucchetto di Ferro), Andrea Biscontin (Taoista), Kalliopi Petrou (Perla senza macchia), Marjana Pantelic (Gioiello senza macchia), Urangoo Batbayar (indovino) e Sara Korkmaz (cerimoniere).
Teatro molto affollato, situazione insolita per un’opera contemporanea, e successo giustamente trionfale al termine.

LA SCALA DI SETA [Marco Benetti] Como, 13 dicembre 2015.
La messa in scena della farsa comica La scala di seta di Gioacchino Rossini risulta essere una prima esecuzione al Teatro Sociale. L’allestimento prescelto è quello fortunatissimo ideato da Damiano Michieletto per il Rossini Opera Festival di Pesaro nel 2009. L’orchestra I Pomeriggi Musicali è stata diretta da Francesco Ommassini.
L’appartamento di Giulia, in cui viene trasportata la scena dell’opera, elaborato da Michieletto e qui ripreso da Andrea Bernard, continua a diversi anni di distanza dal suo debutto a convincere il pubblico che si trova seduto ad una rappresentazione dello spettacolo, facendo sparire nelle risate di divertimento l’iniziale diffidenza dovuta al fatto che “l’allestimento è tutto moderno”.
Anche in questa sede, come avvenuto in altre in precedenze (non solo negli altri Teatri di OperaLombardia ma, ad esempio, anche alla Scala), si è scelto di dividere in due parti l’opera in corrispondenza della scena VII. All’inizio della seconda parte, si apprende dal libretto di sala, è stata aggiunta la cavatina Occhietti miei vezzosi da L’equivoco stravagante, sempre di Rossini: l’estraneità dell’aria all’opera è ottenuta registicamente dall’intrusione sulla scena, mentre Blansac canta, di personaggi vari che hanno dimenticato, durante l’intervallo, diversi oggetti sparsi per il palcoscenico.
Il cast vocale si dimostra perfettamente a suo agio con la partitura rossiniana. Bianca Tognocchi interpreta la protagonista Giulia: nonostante alcune sparizioni nel suono orchestrale, la Tognocchi termina con un buon risultato, molto applaudito dal pubblico a fine recita.
Lucilla di Laura Verrecchi è un personaggio frizzante e divertente di cui risaltano sia la presenza in scena che la voce sicura.
Leonardo Galeazzi che interpreta Blansac è la voce davvero più convincente in cui convivono naturalmente, si potrebbe dire, l’abilità canora e il recitare.
Francisco Brito/ Dorvil convince molto, come anche Manuel Pieratelli nei panni del tutore Dormont.
Il personaggio più riuscito è sicuramente quello di Germano, che qui diventa un domestico filippino (sulla falsa riga di Ariel, personaggio di Zelig), interpretato da Filippo Fontana.
La direzione del M° Ammassini purtroppo non si può dire esemplare. Se da una parte mancano di colore le introduzioni orchestrali e manca di una certa spigliatezza la resa della vivace scrittura rossiniana, dall’altra sfugge di mano al direttore la tenuta dei concertati, dove le voci si confondono un po’ alla rinfusa un paio di volte.
Lo spettacolo pomeridiano visto da chi scrive, riesce comunque a convincere il pubblico di famiglie presenti che applaudo molto il cast alla fine dell’opera.

GIOVANNA D’ARCO [Lukas Franceschini] Milano, 15 dicembre 2015.
La stagione d’Opera e Balletto 2015-2016 del Teatro alla Scala è stata inaugurata con l’opera Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi, con la quale inizia ufficialmente il mandato del nuovo direttore musicale del Teatro: il maestro Riccardo Chailly. Giovanna d’Arco fu composta in un breve periodo alla fine del 1844 durante il quale Verdi era impegnato alla Scala per una ripresa de I Lombardi alla prima crociata. Il soggetto fu tratto da Die Jungfrau von Orleans di Friedrich Schiller, dal quale il già collaboratore di Verdi, Temistocle Solera, approntò un libretto e una riduzione molto diversa dall’originale. E’ certo che l’opera fu composta frettolosamente e di malavoglia poiché i rapporti tra Verdi e Marelli si erano incrinati conseguentemente il modo di gestire il teatro di quest’ultimo. Tuttavia, Verdi rispettò il contratto ma oltre a non partecipare all’inaugurazione del 26 dicembre (I Lombardi) decise che dopo Giovanna d’Arco nessun’altra sua opera sarebbe stata eseguita nel teatro milanese. Tale ferma decisione si protrasse per ben un quarto di secolo. La prima esecuzione di Giovanna d’Arco, il 25 febbraio, riscosse grandi favori da parte del pubblico, meno dalla critica. Curioso che quando l’opera fu rappresentata a Palermo la polizia si oppose al soggetto e la musica fu adatta a un nuovo libretto dal titolo Orietta di Lesbo.
Il musicologo Charles Osborn definisce il libretto “…un compendio di come si può immaginare un libretto insulso, il fatto che sia stato derivato da un dramma di Schiller è spesso criticato solo per significare quanto esso contenga di dissacrante e di parodistico”. In effetti, non possiamo dargli torto, la Giovanna d’Arco di Solera non ha alcun punto di contatto con il personaggio storico e tanto meno lo stesso dramma tedesco, tuttavia dobbiamo rilevare che l’interesse di Schiller non era rivolto alla realtà storica ma alla verità poetica, in una verità interiore nella quale il rogo era un inutile supplizio. Verdi comprese tale aspetto e musicalmente produsse anche pagine apprezzabili, purtroppo Solera non ebbe l’intuito di capire che la riduzione non si adattava alla perfezione alla scena lirica. Solera non solo eliminò molte scene, riducendo la trama ai minimi termini con solo tre personaggi protagonisti, ma operò la variante più dannosa che fu quella di far innamorare Giovanna al Delfino di Francia. Lo spartito si ascrive al cosiddetto periodo degli anni di galera verdiani, ma chi scrive preferisce considerarli anni di sperimentazione, magari alterni, perché da un’attenta analisi delle opere del primo periodo emerge una decisa disuguaglianza tra gli spartiti. Giovanna ha tuttavia un fascino “primitivo” ma penetrante in se stesso. Chi coglie appieno tale concezione è il maestro Riccardo Chailly, che per la seconda volta dirige l’opera, la prima fu a Bologna nel 1989. Nell’intervista, inserita nel programma di sala, il direttore fa notare che l’opera è soprattutto metafisica e irreale, imprescindibile nella conoscenza verdiana perché fucina di modi espressivi sul futuro stile del compositore. Essa anticipa Macbeth, Rigoletto, Don Carlo e Aida per lo stile utilizzato e l’ispirazione melodica. Opera anticipatrice che mette in luce un’entusiasmante manifestazione musicale primiera. Credo che il direttore milanese abbia colto nella sua piena eccezione il valore di Giovanna d’Arco, che capolavoro non è, ma credendoci ci regala ancora una volta una concertazione da manuale, qui nell’edizione critica di Alberto Rizzuti. Il grande pregio della bacchetta è stato quello di non volere una sua personale lettura ma si è attenuto in perfetta aderenza allo stile e allo spartito verdiano riuscendo a trovare colori, respiro orchestrale, enfasi, spavalderia ed energia che non si ascoltavano da qualche tempo al Teatro alla Scala. Chailly crede in tale opera e conoscendone bene i limiti cerca di valorizzarli e di farli apprezzare per quello che sono. Una grande lettura nello stile verdiano e non potremo avere di meglio, oggigiorno, da parte di un direttore. La sua eccellente performance è potuta essere tale anche per il contributo di un’orchestra in forma smagliante e precisissima e un coro, diretto da Bruno Casoni, di mirabile e ineguagliata professionalità.
Il cast scritturato dal teatro è la migliore risposta odierna per tali ruoli, e mi pare assurdo dover fare sempre paragoni con il passato, viviamo il presente pur non dimenticando quanto di buono c’è stato ieri, ma guardiamo al presente. Anna Netrebko è una protagonista di assoluto valore che coniuga dolcezze calibrate e rifinite con slanci eroici e drammatici con classe, naturalezza e buon gusto interpretativo. Francesco Meli, Carlo, non è da meno. Egli utilizza una splendida voce nel rifinire una vocalità preziosa ben articolata, generosa nell’accento, rifinita nei colori e di gande pathos interpretativo. Bravissimo nelle melodie dei duetti e incisivo nelle veementi cabalette. Alla recita cui ho assistito, è rientrato il baritono Carlos Alvarez, il quale dovette annullare le prime recite per indisposizione. Il cantante spagnolo ha saputo cogliere appieno la funzione del personaggio paterno ma anche il severo giudice della figlia. Pur percependo che era nel suo standard perfetto si è potuto ascoltare un cantante all’altezza del nome, rifinito nel colore e nell’accento, bravissimo nel fraseggiare una parte anche ostica, vocalmente inappuntabile e sempre di grande fascino. Completavano la locandina i corretti Talbot di Dmitry Beloselskiy e il Delil di Michele Mauro.
Autori dello spettacolo la coppia belga Moshe Leiser e Patrice Caurier alla regia, Christian Fenouillat per le scene, Agostino Cavalca ai costumi, video di Etienne Guiol. Il team parte dalla concezione che tutta la vicenda è un sogno delirante di una ragazza in stato di estasi finale cui il padre cerca qualche cura impossibile. L’opera è sostanzialmente ambientata nella stanza da letto della protagonista, che vediamo già durante l’esecuzione dell’overture, per poi svilupparsi nel contesto storico non troppo attinente ai fatti. L’infatuazione della giovane è il fulcro della lettura che resta narrativa e poco persuasiva poiché tutto è possibile. Ad alcune scene molto belle, come i demoni che inondano lo spirito della protagonista, oppure la salita dal palcoscenico della Cattedrale di Reims un vero momento elettrizzante, si alternano situazioni dozzinali e poco comprensibili. Carlo è dipinto tutto in oro, come un superuomo, forse, non l’ho capito. L’impianto scenico era comunque accurato e sotto molti aspetti di gran fascino, altrettanto si può dire dei costumi, di bella fattura sartoriale, peccato che Giovanna avesse spesso una sorta di camicia da notte. Molto belli i video illustrativi e ottime le luci che creavano uno spazio irreale.
Grande successo per i cantanti e il direttore al termine dell’esecuzione che vedeva il teatro quasi esaurito. Una piccola postilla: all’entrata di Chailly al primo atto, una voce dal loggione ha urlato “abbasso i registi!”. alludendo alle successive polemiche tra questi e il direttore. Il pubblico ha risposto con un acceso applauso mentre il maestro, dimostrando classe eccellente, non si è scomposto dal podio.

HANSEL E GRETEL [Mirko Gragnato] Amsterdam, 15 dicembre.
L’Opera Nationale & Ballet di Amsterdam propone la favola di Hansel e Gretel musica da Humperdink, con una morale profonda e un allestimento sorprendente.
Il Natale è forse il periodo in cui si tende maggiormente a sognare e a sperare, la mente si popola di desideri, soprattutto quella dei bambini e di chi con un po’ di impegno riesce a sentirsi ancora bambino, come appunto lo spirito dei Natali passati di Charles Dickens.
Ecco dunque che la Nationale Opera di Amsterdam allestisce per questo periodo natalizio una favola, Hansel & Gretel di Engelbert Humperdink, ma lo fa con uno stile particolare, quello che unisce il potere immaginifico dei bambini con la sensibilità e l’etica degli adulti.
La storia si svolge in una bidonville, tra le pile di rifiuti che popolano una discarica, un luogo dove solo l’immaginazione dei bambini con il suo potere riesce a trasfigurare il tutto, trasformandolo in un gioco.
Protagonisti i bambini di una realtà povera che si risvegliano nell’ouverture tra i sacchi di immondizia e che per arricchire un giorno come tanti giocando con la fantasia tessono le fila di questa fiaba.
Hansel, Gretel e tutti gli altri personaggi della storia, si materializzano creati dai bambini che vivono in povertà costruiti come pupazzetti; la capacità di mettere insieme pezzi diversi, cianfrusaglia, fili di ferro, resti di plastica e quant’altro si può recuperare in una discarica, essi prendono forma.
È un misto di istallazioni video e scene che ci permette di muoverci tra quello che è il mondo reale e quello della fantasia, quello ricostruito con tante casette fatte di cartone, dove trovano dimora in una scatola dei Corn Flakes Kellogs, simbolo dell’occidente, la famiglia di Hansel e Gretel. Sin da subito il soprano Lenneke Ruiten – Gretel – e il mezzo soprano Kate Lindsey mostrano oltre che un bel timbro chiaro e brillante. Pregevole veramente l’acuto in messa di voce di Lenneke Ruiten sul “Komm” e lo stesso Kate Lindsey che con un incalzante e fresco staccato saltellando tra le lunghe note del soprano.llante anche un’ottima capacità scenica, muovendosi senza difficoltà negli strani costumi frutto della fusione tra arte di spoglio e riciclaggio, oltre che una straordinaria intesa musicale già nella danza con il duetto “bruderchen, komm, tanz mit mir” tra le varie onomatopee di “knap-knap” “tick-tick” e “flick-flick” nel gioco musicale che Humperdink scrive nella partitura.
Ottima l’apparizione della madre, Gertrude, interpretata dal mezzo soprano Charlotte Margiono, ma tra i due genitori dei poveri fanciulli primeggia in qualità il baritono Thomas Oliemans, che sin dal suo arrivo da dietro le quinte con l’aria “Ralalalà” dimostra le qualità di una voce piena, forte e matura.
Il mago della sabbia ai giovani fanciulli addormentandoli, interpretato dal soprano Hendrickje van Kerckhove, che con voce tenue e calda culla le menti dei due fanciulli sgusciando fuori da un grande flacone di Valium cullando
I giovani fanciulli Hansel e Gretel, mandati per punizione a raccogliere fragole nel bosco perdono la via tra quelli che sono una selva di grandi sacchetti di plastica,richiamando chiome di grandi alberi e cespugli di pattume, dove un paio di guanti di plastica, di quelli colorati e vistosi che spesso albergano sui lavelli della cucina, evocano un buoquet di fiori che Hansel raccoglie per la sorella.
Qui bisogna considerare che nulla dice così tanto sulla nostra persona come la spazzatura e questo allestimento – andando nel dimenticatoio dove tutto quello che è superfluo e avanzato va a finire – fa una dura critica alla società attuale e allo stesso tempo omaggia la grande capacità di invettiva dei bambini, che ingenuamente con il gioco sfuggono da una realtà infernale imbottita di pattume. Dalle colline di immondizia a foreste fatte di sacchetti di plastica penzolante si passa tra il secondo ed il terzo ad un viaggio onirico dove, come in “Pomi d’ottone e manici di scopa” i bambini, quelli veri dell’inizio, con un letto magico esplorano il cielo e in compagnia di Hansel e Gretel volano su una città e grattacieli.
Atterrati soffici come piume, accompagnati dai legni dell’orchestra, su di un cumulo di scatole e sacchetti di, tra guanciali e lenzuola ispirando tepore e morbidezza accompagnate da una grande parentesi sinfonica dove i fiati e soprattuto gli ottoni con note lunghe ampie e tenute sembrano sostenere col soffio il lettuccio volante. caramelle, il mondo perfetto per un bambino in povertà. Questa golosa montagna di dolci confezionati da cui i due protagonisti estraggono lecca-lecca e prelibatezze varie diventa l’antro della perfida strega interpretata dal tenore Peter Hoare.
Dai cumuli di caramelle esce fuori un donnone, una drag queen in guepiere, armata di boa di piume fuxia e col fisico fittato. Una macchietta che si manifesta come lo sconosciuto da cui non accettare le caramelle.
Il letto soffice e piumoso atterrato tra i dolciumi si trasforma così per il piccolo Hans in una prigione e gli atteggiamenti equivoci della strega-drag queen fanno pensare al turismo sessuale o al mercato nero degli organi: i tanti bambini tenuti prigionieri della strega fanno la loro comparsa in canottiera e slip con i capelli rasati quasi come abitanti di un lager e dietro ad una grata fanno compagnia alla povera Gretel. Da questo allestimento lo spettatore viene invitato a fare i conti con la propria coscienza pensando alle sofferenze dei tanti bambini che vivono in povertà nel mondo e facendo ripensare al materialismo e consumismo delle pazze spese natalizie. 
Durante l’aria della strega le fiamme del forno escono dalla cima della collina e un lungo comignolo si eleva tra le scatole di caramelle, la strega lo cavalca a guisa di scopa per poi ballarci attorno in una danza delirante.
La storia fortunatamente finisce bene per i due giovani fanciulli e la strega verrà arrostita nel forno, i bambini liberati e l’arrivo dei genitori di Hansel e Gretel conduce tutti ad un lieto fine, facendo apparire sulla montagna di dolciumi un grande albero di Natale.
Una realizzazione veramente di gran pregio se si pensa alla qualità della Nederlands Philarmonisch Orkest sotto la direzione di Marc Albrecht e al cast veramente ben equilibrato e al ricco tocco etico dell’allestimento.
Il coro di voci bianche della Kathedrale Kooschool Utrecht si mostra tra l’altro una delle finezze di questa messa in scena.
Applausi e standing ovation del pubblico che all’uscita è atteso dai cesti per la raccolta fondi dell’associazione Kidright a cui quest’opera è dedicata, per fare di una buona azione un augurio per questo Natale 

LO SCHIACCIANOCI [Mirko Gragnato] Amsterdam, 16 Dicembre 2015.
Uno Schiaccianoci dove si intrecciano le generazioni del HET Ballet d’Olanda, quando la tradizione cresce con i passi dei bambini. La storia si trasferisce sulle rive dei canali di Amsterdam conservando immutata il racconto di E.T.A. Hoffmann.
L’allestimento che la Opera Nationale & Ballet Nederlandese di Amsterdam propone per lo schiaccianoci è sicuramente tradizionale, seguendo passo passo il libretto.
Alcuni credono che ci sia bisogno di cambiare, ma forse, come in questo caso, con le favole è bene seguire il testo senza nessun rischio di diventare monotoni.
I bambini ascoltano le stesse storie cento e mille volte eppure non possono sottrarsi al piacere del racconto, anzi guai cambiare qualcosa, e forse è anche il loro essere immutabili che le rende speciali.
Lo schiaccianoci ci racconta una fiaba che da più di un secolo è conosciuta e riconosciuta. Quando si apre il sipario inizia il racconto. L’allestimento, scene e costumi seguono la tradizione e con magici giochi di incastri, doppi fondi, pareti scorrevoli tutto si evolve in un meccano di movimenti come nell’ingranaggio di un orologio con l’ingrediente speciale dell’immaginazione dei bambini: l’armadio a muro si trasforma in un castello, la spinetta diventa un ariete d’assedio, le pareti si alzano e fanno diventare il mondo come lo vedono i bambini, dove tutto più grande.
Il corpo di ballo dell’opera e balletto nazionale d’Olanda si mostra capace oltre che di essere un fervido esempio di intrecci generazionali: tra allievi dell’accademia, corifei e solisti si hanno ballerini dalla tenera età sino all’età adulta dimostrando come un forte tradizione abbia continuità in teatro. L’allestimento segue la tradizione ma con un tocco domestico.
Le scene si aprono sui canali di Amsterdam, che nel gelo invernale si trasformano in lucide strade di ghiaccio dove l’allegria e lo spirito natalizio scivola sui pattini.
Le coreografie del primo atto di Wayne Eagling, riprendono Lev Ivanov, sono un raffinato esempio di festosa allegrezza, il modo che con semplicità unisce le danze dei bambini a quelle degli adulti e la cura e l’attenzione nel costruire i semplici movimenti di un momento in famiglia. Veramente di pregio le scene corali delle danze per la festa natalizia in casa Stahlbaum, con la neve che cade all’esterno riempiendo il palco di grazia, scaldando il teatro di clima natalizio.
Del primo atto di grand’effetto le scelte per la battaglia tra i il re dei topi e il principe schiaccianoci.
I bambini che prima si esibivano quali vivaci ingredienti di una festa famiglia nella battaglia vanno a rivestire i panni delle squittenti e saltellanti truppe del re dei topi, i soldatini della truppa del principe schiaccianoci.
Chi carica con la spinetta diventata ariete e chi difende la grande credenza diventata castello.
Veramente pregevoli i costumi, specialmente la resa del re dei topi e dei suoi sudditi, bellezza che si è intrecciata con le idee del coreografo e le ottime capacità del corpo di ballo. Con la danza dei fiocchi di neve, nella quale il Kinderkoor de Kickers forse non primeggia, si passa poi al secondo atto
Dove però, seppur l’alto livello dei ballerini, coreografie e scene diventano molto più scarne e semplici senza toccare punte di raffinatezza; puntando forse su una sobrietà spinta, lasciando alla musica di Tchaikovsky, eseguita dall’Het Ballet Orckest diretta dal Maestro Ermanno Florio, tutta la ricchezza e la piacevolezza di questo capolavoro.

CARMINA BURANA [Margherita Panarelli] Torino, 19 Dicembre 2015.
Terzo titolo in cartellone del Teatro Regio di Torino sono i Carmina Burana di Carl Orff nella troppo raramente scelta versione scenica, come era invece desiderio del compositore, con la regia di Mietta Corli.  
Grande protagonista della rappresentazione è naturalmente il coro che qui ha dimostrato ancora una volta di essere una compagine di livello altissimo, duttile nel repertorio e eccellente in scena, le cui capacità espressive sono risaltate appieno nelle pagine Orffiane. Risulta l’elemento migliore del cast il soprano Laura Claycomb che sostituisce l’indisposta Marina Rebeka. Unica riserva l’attacco del “Dulcissime”; riserve ampiamente mitigate dalla presenza di una voce agile in acuto e dal timbro smaltato perfettamente a suo agio in “stetit puella”.
Gli elementi maschili del cast lasciano invece qualche perplessità in più; Thomas Johannes Mayer si presenta in scena con un tutto sommato buono “Omnia Sol temperat” ma è messo seriamente in difficoltà dai due brano della seconda sezione In taberna. Il registro acuto è decisamente sforzato in “Estuans Interius” e la cosa non migliora purtroppo nel brano immediatamente successivo “Ego sum abbas”.
Fa decisamente meglio John Bellemer in “Olim lacus colueram”,dove nonostante alcune piccole pecche di intonazione, cattura l’attenzione del pubblico intero sullo sfortunato cigno che gira sullo spiedo.
Bene anche Marco Sportelli in “Si puer cum puellula”.
Jonathan Webb al timone dell’orchestra ha tendenza a scegliere tempi fin troppo frenetici, elemento che lascia un senso di imprecisione e fretta, specialmente in alcuni momenti iniziali nel dialogo tra buca e coro, ed il suono dell’orchestra è spesso eccessivo.
Piacevole, puntuale e suggestiva, in alcuni momenti, la messa in scena di Mietta Corli che ha curato regia scene e proiezioni video. Particolarmente apprezzabili “O fortuna” accompagnata da una tavola sciaterica di Athanasius Kircher del XVII°mo secolo e la proiezioni su vari livelli di una foresta per “Primo Vere” e “Uf dem anger”. Bei colori sgargianti anche per i costumi di Manuela Bronze e Laura Viglione che hanno aggiunto verosimiglianza al tutto. Nel complesso uno spettacolo riuscito e piacevole, accolto con calore unanime dal pubblico presente, anche se per l’esigua durata, sarebbe stato auspicabile l’accostamento di questa composizione a minimo un’altro dei Trionfi di Carl Orff, se non agli altri due, così raramente eseguiti

NABUCCO [William Fratti] Piacenza, 29 dicembre 2015.
È il Leo nazionale ad essere il protagonista della Stagione Lirica 2015-2016 del Teatro Municipale di Piacenza: dopo l’inaugurazione con L’Amico Fritz nell’ambito del consueto progetto Opera Laboratorio, il celebre baritono posa gli abiti di docente e regista per vestire il costume di uno dei suoi personaggi più cari in due serate sold-out. Leo Nucci è da considerarsi ancora un Nabucco di riferimento. Gli anni passano e tra breve raggiungerà il traguardo di cinquant’anni di carriera, pertanto non è certamente possibile pretendere la freschezza vocale, la fermezza e l’appoggio di un tempo, ma il fraseggio, l’uso dei colori e l’interpretazione sono invidiabili.
Lo affianca la brava Abigaille di Anna Pirozzi, che si impone per la qualità della natura della sua voce, ma come già sottolineato altre volte, continua a commettere errori tecnici che non dovrebbe. Il timbro, l’estensione, l’uso dei fiati, la capacità di fraseggiare sono di primissimo livello e potrebbe seriamene collocarsi tra le migliori cantanti del mondo se aggiustasse un poco l’appoggio – poiché certe note non sono perfettamente intonate – e le agilità – poiché talune riescono ben sgranate, altre un poco pasticciate nonostante si facciano rallentare i tempi.
Zaccaria è Mattia Denti, basso lirico che possiede tutte le note e tutte le competenze tecniche necessarie per risolvere correttamente le insidie del difficile ruolo, ma l’interpretazione è poco autorevole e manca di mordente, oltre a colori e accenti che sono poco presenti.
Elisa Barbero è una Fenena che parte abbastanza in sordina in primo atto, ma si fa sentire sempre di più col procedere della vicenda. Nell’aria di quarto atto mostra una bella morbidezza, pur con fiati un po’ corti.
Leonardo Gramegna ha un bel timbro vocale, ma l’intonazione è troppo precaria. Anna è Alice Molinari, la cui presenza in primo e secondo atto non si afferra. Roberto Carli è un Abdallo opportuno e Paolo Battaglia è un buon Sacerdote di Belo.
Buona la prova del Coro del Teatro Comunale di Modena e del Teatro Municipale di Piacenza preparati da Stefano Colò.
L’Orchestra dell’Opera Italiana, nata in parte dalle ceneri dell’Orchestra del Teatro Regio di Parma, fa il suo debutto sul palcoscenico piacentino, ma la pulizia del suono non è delle più eccellenti, complice anche la direzione piatta e soporifera di Aldo Sisillo, molto povera di accenti e sfumature, nonché avara di colori e fraseggi.
Gran parte della noia deriva anche dallo spettacolo di Stefano Monti, che si produce in una regia abbastanza presente nel coro, ma pressoché assente nei solisti, con un allestimento scenico molto banale, pur essendo stato autore di un grandioso Nabucco a Busseto in occasione del Centenario Verdiano del 2001.
Ma grazie a Leo Nucci e Anna Pirozzi la serata è un vero e meritato successo e il Teatro Municipale di Piacenza conferma che sta cercando di tornare agli antichi splendori.