2011

Spettacoli 2011

DIE ENTFÜHRUNG AUS DEM SERAIL [Lukas Franceschini] Rovigo, 7 gennaio 2011.
La Stagione al Teatro Sociale continua con il Singspiel di Wolfgang Amadeus Mozart Die Entführung aus dem Serail, coproduzione tra il teatro veneto, il Centro Servizi Culturali di Trento e il Teatro Verdi di Pisa.
Questa nuova produzione si lascia gustare per uno spettacolo onirico di Gabbris Ferrari, il quale cura regia, scene e costumi. Trattasi di un teatro minimalista ove la drammaturgia viene sviluppata con semplici cambi scena, un settecento o meglio un mondo islamico stilizzato, con pochi riferimenti ma concreti, ad esempio la cupola d’oro di Gerusalemme. Non vi sono particolari soluzioni, ma la linearità e soprattutto la verve è molto apprezzabile. Ferrari si disimpegna in un mondo immaginario evocando il fiabesco di Calvino, come da lui stesso espresso in una nota nel programma di sala. In effetti, la chiave di lettura è giusta ed accattivante, quanto espresso in questo gioiello operistico è valido in tutti i tempi ed in tutte le società. Belli i costumi, semmai era carente un gioco di luce più appropriato, il tutto si sviluppa al buio, mentre alcune scene avrebbero necessitato di più scrupolosa attenzione recitativa. Note positive sono venute anche dall’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, che ho trovato molto rifinita e ben impostata rispetto ad edizioni passate. Merito sicuramente della bacchetta di Jonathan Webb, una lettura fresca e vivace ma altrettanto melodica e precisa. Puntuale nei suoi brevi interventi il Coro del Teatro Sociale di Trento. Il cast ha mostrato luci ed ombre, come a dimostrare quanto sia difficile eseguire Mozart con voci non solo adeguate ma tecnicamente pertinenti. La Konstanze di Gabriella Costa ha voce sufficientemente scura per il ruolo drammatico, ma i limiti dell’estensione nonché della tecnica rendono la sua performance al di sotto della sufficienza. Le agilità sono al limite dell’accettabile, spesso forzate, i sovracuti, quando tentati, solo abbozzati, con l’aggiunta di qualche stonatura di troppo. Un gradino sopra la Blonde di Sabrina Vianello, molto vivace scenicamente ma sempre con una zona acuta non perfettamente sicura. In campo tenorile è tutto sommato positiva la prova di Paolo Fanale, Belmonte. Il giovane tenore, che tanto mi impressionò favorevolmente nel Roméo et Juliette veronese la scorsa primavera, non trova in Mozart altrettanta sicurezza o meglio identificazione. Possiede mezzi non comuni, di stile, musicalità, ma è carente negli accenti, sovente monocorde e in difficoltà nelle mezze voci pur con un colore vocale bellissimo. Credo che tutto sommato un ulteriore studio e una miglior focalizzazione del personaggio porterà in seguito a risultati più convincenti. C’è da augurarselo, anche se ritengo che il repertorio romantico sia a lui più congeniale in questo momento, considerato che spesso i suoni erano nasali e indietro. Bjarni Thor Kristinsson è un Osmin simpaticissimo, molto ben caratterizzato e dotato di una voce importante ma purtroppo stimbrata. Bravo Krystian Adam, un Pedrillo scenicamente disinvolto e musicalmente puntuale, peccato canti “Im Mohrenalnd gefangen war” a voce piena quando invece dovrebbe essere un pezzo quasi sussurrato e moderatamente recitato essendo un segnale, un avviso per la fuga. Ottima la presenza dell’attore Andrea Zanforlin quale Selim, mentre è superflua la presenza del secondo attore, Mariano Carlini seppur bravo, ma per una sola breve scena. Entusiastiche le accoglienze del pubblico.

DON PASQUALE [William Fratti] Firenze, 13 gennaio 2011.
I numerosi posti vuoti in platea e nelle gallerie durante la seconda serata del Don Pasquale fiorentino evidenziano il crescente malcontento degli spettatori, che hanno scelto il pacifico sistema di protesta di non presentarsi in teatro, nei confronti della presidenza e della sovrintendenza del Maggio.
L’entrata in buca del direttore è pertanto salutata da flebili applausi, che però si fanno sentire spesso durante il corso della rappresentazione. Riccardo Frizza è un concertatore intelligente, indubbiamente esperto del repertorio, che sa fraseggiare con l’orchestra, dipingendo chiaramente le varie situazioni emotive della vicenda, donando colori interessanti tipicamente donizettiani.
L’apertura del sipario sulle belle scene di Isabella Bywater crea una certa aspettativa sulla resa dello spettacolo, ma la regia di Jonathan Miller è pressoché senza contenuto ed inconcludente. Dopo i primi dieci minuti lo spettatore attento già si stanca della casa delle bambole in cui è costruita l’opera, poiché nulla accade se non nei gesti dei mimi chiamati ad impersonare la servitù del vecchio scapolo. Alcuni passaggi sono davvero soporiferi, come il momento in cui Ernesto scopre il matrimonio di Norina e Don Pasquale, tanto intenso musicalmente, quanto vuoto drammaturgicamente. Lo stesso poi accade nel finale del secondo atto.
Andrea Concetti è certamente uno dei bass-barytone di riferimento, soprattutto nel belcanto buffo, ma la partitura di Don Pasquale non sembra essergli troppo congeniale. “Un foco insolito” e il terzetto “Fresca uscita di convento… Mosse, voce, portamento” sono ben eseguiti, ma manca quel valore aggiunto che ci si aspetta da un tale professionista del canto e neppure il fraseggio è dei migliori. Si denotano soprattutto alcune difficoltà nelle note più gravi, purtroppo ben udibili nel duetto “Cheti cheti immantinente”.
Silvia Dalla Benetta è una Norina che sprizza energia, gioia ed entusiasmo da tutti i pori e mostra fin da subito una vocalità che sovrasta di molto tutti i colleghi, in emissione, proiezione, precisione musicale e tecnica vocale. La sua aria di sortita è resa con la giusta dose di comicità belcantista che si differenzia e spezza la noia di un allestimento grandioso ma monotono, con una regia che non si riesce a delineare precisamente. L’intonazione è delle migliori, la linea di canto è sempre omogenea, le agilità e le appoggiature sono ben eseguite, soprattutto nella cabaletta “So anch’io la virtù magica”, ed il personaggio è disegnato con un suo carattere distintivo. Il soprano vicentino sa portare nel suo canto una serie inesauribile di colori, che abbinati alla sua generosità – le cadenze sono cantate per intero, comprese le ripetizioni, al contrario degli altri interpreti – e all’intesa col direttore denotano una professionalità musicale ragguardevole. Il rondò finale è di una precisione e di una musicalità notevole; peccato l’assenza di regia. Sarà certamente interessante udirla nel repertorio donizettiano serio, in altri personaggi più drammatici.
Edgardo Rocha è un giovane tenore dal timbro leggero, morbido, ben intonato e possiede certamente le doti necessarie per migliorare costantemente con la maturità. “Sogno soave e casto”  e la successiva “Povero Ernesto” sono eseguite con grazia e buon uso dei colori, anche se non è molto apprezzabile il suo tacere interamente la cadenza “il tuo fedel” per avere l’energia necessaria per prodigarsi in un acuto – non scritto – strappa applausi.
Enrico Marrucci è un Malatesta dalla vocalità piuttosto intensa e già da “Bella siccome un angelo” mostra una pasta più lirico drammatica, forse più adatta ad un repertorio verdiano. Effettivamente la tessitura della parte sembra essere troppo alta per le sue corde, facendo poi fatica a scendere e nelle note più gravi perde di intonazione. Il personaggio è purtroppo funestato da un’aura molto triste.
Buona la prova del coro diretto da Piero Monti.

TANNHÄUSER [Lukas Franceschini] Bologna, 18 gennaio 2011.
La Stagione Lirica del Teatro Comunale bolognese si apre con l’opera Tannhäuser di Richard Wagner in una produzione del Teatro di Erfurt, nuova per l’Italia. Mentre vado a scrivere un comunicato del Teatro ci informa che Francesco Ernani è stato nominato nuovo sovrintendente.
All’inizio dello spettacolo quale forma di protesta e sensibilizzazione per i tagli alla cultura viene letto l’articolo n. 9 della Costituzione ed eseguito l’Inno Nazionale Italiano, il pubblico scatta in piedi ed applaude calorosamente, ma purtroppo si osserva che molte persone restano sedute. Questo atteggiamento è da ascrivere all’indifferenza verso l’amor patrio? Al disinteressamento della questione culturale? Difficile la diagnosi, certo è che tale condotta lascia molto amaro nell’animo. A Bologna si esegue la versione di Dresda ovvero la prima stesura dell’opera. Un saggio di Franco Serpa, pubblicato nel programma di sala, ci illumina sulle molteplici modifiche e stesure approntante da Wagner sulle vicende del Minnesänger. Uno scritto molto dettagliato e preciso dal quale è possibile non concordare solo sul concetto che l’ultima versione è quella che incarna il vero pensiero dell’autore, le precedenti devono essere considerate un “limbo” inautentico. Proprio nel caso di Tannhäuser, ma anche per opere di altri autori, è risaputo che ripensamenti e revisioni non furono sempre dettati da una volontà di miglioramento, ma spesso dalla logica dell’esecuzione e nel caso specifico sappiamo per certo che il gusto del pubblico di Parigi (seconda versione) era ben differente da quello tedesco. La grande opera romantica, su testo dello stesso compositore, si ispira a due leggende medievali: le gare poetico-canore dei Minnesänger in Turingia e la leggenda popolare sugli amori di Venere e Tannhäuser. Wagner elaborò la vicenda già dal 1842 per poi arrivare alla prima nel 1845, ritornando piu volte sullo spartito, infatti, vi sono partiture plurime che rendono impossibile identificare una versione definitiva. Lo stesso Wagner confidò alla moglie il dispiacere di non averne ultimato una conclusiva. Possiamo oggi considerare le versioni di Dresda e Parigi le più attendibili, pur non sottovalutando le modifiche di Monaco e Vienna. In questo caso optando per la versione di Dresda viene eliminato tutto l’aspetto erotico del primo atto, (il baccanale verrà composto per il pubblico francese) e il ruolo di Venere pesantemente ridimensionato, l’overture è un pezzo a se stante come nella prassi romantica ottocentesca, usanza che lo stesso compositore successivamente cambierà creando un tutt’uno con l’atto seguente.
Il protagonista Richard Decker già dalla prima aria denuncia problemi di intonazione e difficoltà nella zona acuta, in aggiunta ad un fraseggio stentoreo. Egli manca d’incisività ed accomoda la parte alle sue possibilità e tutto sommato è la tenuta vocale alla lunga parte che lo mette spesso alle corde! La Venere di Elena Lo Forte è poco sensuale, la voce ingolata e corta, ma non fa danni eccessivi anche in considerazione che la versione tedesca non le consentirebbe di sconfinare in un eros più accentuato. L’Elisabeth di Orla Boylan è piuttosto alterna nell’aria di sortita, non omogenea nel canto e con qualche acuto dissennato, ma è musicale e darà il meglio nella preghiera del III atto. Alexey Bogdanchikov è un corretto Wolfram peccato non abbia una maggiore ampiezza vocale ma l’aria del III atto è particolarmente sognante. Bravi gli altri cantori tra i quali si mette in luce Gabriele Mangione. Il langravio di Enzo Capuano è molto autorevole. La direzione di Stefan Anton Reck è decisamente romantica e sostanzialmente ben sostenuta nei tempi e nelle sonorità. L’orchestra era in particolare stato di grazia e si è apprezzato il suono compatto ed incisivo, anche se all’avvio del III atto c’è stata qualche confusione. Ottimo il coro guidato da Lorenzo Fratini. Lo spettacolo poggiava su una lettura molto intellettuale dove spiritualità e letteratura erano le linee guida. Nel primo atto è evocato uno scenario marino molto suggestivo ma del tutto privo del fascino passionale. Il secondo è ambientato sui resti della biblioteca di Weimar dopo l’incendio del 2004, una scelta anche azzeccata ma che non lascia spazio a descrizioni del tutto coerenti. Lo spazio è nel complesso atemporale e le luci troppo banali non aiutano invece la grande scena dei pellegrini rappresentata da un insieme a cerchio di scarpe che andranno calzate poi dai redenti viandanti. La pioggia conclusiva è elemento di purezza che lava i mali della società e dietro la quale risorge la nuova biblioteca moderna formato Ikea ma pur sempre fonte di sapere e cultura. Ottime accoglienze al termine.

PAGLIACCI, CAVALLERIA RUSTICANA [Lukas Franceschini] Milano, 20 gennaio 2011.
Le due opere simbolo del verismo musicale italiano tornano, accoppiate, sul palcoscenico milanese a trent’anni esatti dall’ultima edizione. Curiosamente si rappresenta prima Pagliacci, poi Cavalleria Rusticana, invertendo la consumata tradizione che rispettava l’ordine anagrafico.
Entrambe hanno in comune la brevità, circa settanta minuti, sono il successo più clamoroso, sin dalla prima apparizione, dei loro autori che in futuro non si ripeteranno altrettanto, hanno da sempre diviso la critica per efficacia e stile e quale coppia vincente amate visceralmente dal pubblico. Leoncavallo timbra un’opera nel mondo dei saltimbanchi, un mondo ai margini della società con le loro tante debolezze e vi pennella la doppia visione della vita reale e quella del palcoscenico che in fondo non sono poi così differenti. Se la tragedia, un fatto di cronaca reale, che scaturisce da un impeto di gelosia, non è affatto nuova nel teatro d’opera assolutamente originale è il rapporto vita-teatro ove i sentimenti, le passioni, i desideri sono identici, sicuramente accentuati nella scena. La musica inoltre è funzionale e penetrante con accenni a cromatismi d’oltralpe ma decisamente sanguinea, violenta e, sotto taluni aspetti, romantica. Mascagni prende spunto da una novella di Verga, e dipinge la tipica e passionale Sicilia narrando un delitto d’onore. Musicalmente composta a quadri se stanti, è il sottofondo narrativo orchestrale a tratteggiare un ambiente in parvenza sereno e felice ma pronto a scoppiare nella più accesa violenza ed estrema veemenza. Ultimo, ma non secondario, il fatto che entrambe le partiture siano incentrate su personaggi di umile estrazione, della vita di ogni giorno, il che le ha rese ancor più efficaci e soprattutto amate sia dal pubblico sia dagli interpreti che in esse trovano un punto d’arrivo nell’interpretazione scenica e vocale. Il regista Mario Martone produce due spettacoli differenti ma di grande efficacia teatrale. Se i guitti clown dei Pagliacci si accampano sotto una rampa di raccordo di tangenziale, evidenziandone la marginalità rispetto la società, in Cavalleria tutto avviene in una piazza anonima ove il coro, ovvero i paesani, assistono inermi e quasi estranei alle vicende di tradimento e gelosia, tutti sanno ma nessuno vede o vuole vedere. Cupa e struggente Cavalleria, con splendide luci di Pasquale Mari, più cromatici e attuali Pagliacci, costumi azzeccati di Ursula Patzak, ove il palcoscenico è proprio quello del teatro, Silvio nel II atto siede in platea luogo ove Canio lo ammazza per poi uscire dal corridoio centrale. Effetto teatrale di grande impatto. La peculiarità di questa produzione è la presenza di Daniel Harding sul podio. Il maestro inglese poco si è cimentato con il teatro d’opera italiano, soprattutto verista o di fine Ottocento. La sua lettura è molto significativa per linguaggio asciutto, tagliente ma con immense sonorità timbriche che a dire il vero non avevo mai ascoltato, complice soprattutto un’orchestra ai massimi livelli e un coro strepitoso. I cast invece palesavano più ombre che luci, anche se bisogna riconoscere che oggigiorno non sarebbe stato possibile trovare molto di meglio a livello internazionale. José Cura era un ottimo attore ma ahimè vocalmente molto peggiorato se paragonato a sue performance da me ascoltate un decennio addietro. La voce è ingolfata, stentorea e nasale, ma ci mette l’anima e con i mezzi rimasti di più non gli è possibile. Al contrario Oksana Dyka, la quale di voce ne ha tanta e pure importante, decisamente non calata nel personaggio dimostrava vistose lacune tecniche sia nel registro acuto sia nel grave spesso afono e non del tutto intonato. Ambrogio Maestri offre arte scenica non comune e una certa sicurezza vocale anche se il registro acuto lo mette di già in difficoltà. Molto garbato e funzionale Mario Cassi, bravissimo Celso Albelo nella breve parte di Peppe. Nell’opera mascagnana abbiamo avuto il solito Salvatore Licitra dotato da madre natura di materiale molto bello ma sperperato in un canto sempre aperto o urlato, fraseggio e colore non sono poi nel suo vocabolario. Luciana D’Intino all’opposto sa perfettamente cosa sia il canto e come si canta, l’appuntamento scaligero arriva un po’ in ritardo e non è possibile non considerare una certa usura dopo trentennale carriera. Ma ella è passionale, una vera siciliana ferita nell’anima, è attenta a non scoprirsi troppo nel settore acuto ma tutto il suo organo vocale è solido e ancora ben distribuito. Buono l’Alfio di Claudio Sgura, seppur non molto sfaccettato, ma più che decoroso il canto e ancor meglio l’interpretazione. Giuseppina Piunti è un’affascinante Lola, non sempre puntuale ma sicuramente efficace scenicamente, mentre Elena Zilio oltre ad essere caricata e grottesca, dipana ormai mezzi improponibili anche in un ruolo di carattere. Serata delle più gelide a cui io abbia assistito alla Scala, nessun applauso nel corso delle opere, credo che il clima fosse anche teso dopo i tumulti della prima, e pertanto ogni tentativo di applauso anche non a tempo (ma c’è ancora la claque alla Scala?) è stato zittito. Al termine un successo di stima, che comunque nei confronti di qualche cantante e soprattutto del direttore avrebbe dovuto essere più caloroso.

NABUCCO [William Fratti] Busseto, 25 gennaio 2011.
Nell’anno delle celebrazioni per il Centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, il Teatro Giuseppe Verdi di Busseto torna ad avere una propria Stagione Lirica, che debutta con una nuova produzione di Nabucco.
Artemio Cabassi è, come sempre, un artista di alta levatura e firma una regia originale all’insegna del patriottismo. Se il terzo lavoro di Giuseppe Verdi, soprattutto il suo “Va pensiero”, è da sempre considerato un canto risorgimentale, Cabassi trasforma la scena in un salotto milanese degli anni ’40 del XIX secolo, all’epoca della composizione dell’opera e dei primi movimenti che poi portarono alle Guerre d’Indipendenza. Purtroppo la bellissima idea, perfetta per l’apertura dei festeggiamenti per il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia e nel cento decimo anniversario della nascita di Giuseppe Verdi nella sua città natale, è sviluppata con metodi e schemi presi a prestito, gestualità e drammaturgia quasi assenti, nonché scene e costumi in apparenza provenienti da altri titoli, o forse più adatti a tali. Il coro abbigliato all’ottocentesca, con qualche accenno ebraico – perché richiesto dal libretto, ma certamente anche ad omaggiare la comunità ebraica bussetana e ad onorare il Giorno della Memoria – e qualche fastidioso richiamo a I vespri siciliani, è fisso ai lati del palcoscenico e non partecipa alla vicenda che si svolge al centro, se non durante la preghiera di Zaccaria, in cui un levita si avvicina al sacerdote, e nel celebre “Va pensiero” bissato, come di consueto, a gran richiesta del pubblico. Un coro alla greca in Nabucco sarebbe interessante, se non fosse già stato utilizzato nello stesso identico modo in un recente allestimento al Castello di Vigoleno firmato da Paolo Panizza.
I protagonisti vestono costumi d’epoca, ma solo Anna e Zaccaria sembrano appartenere al melodramma verdiano. La corazza armata indossata dal Re babilonese sopra l’abito in velluto, al suo ingresso in scena, assomiglia all’armatura di un guerriero cinese altomedievale; la sopravveste di Fenena sembra essere un chimono più adatto a Liù o Suzuki; il costume di Abigaille ricorda facilmente La ragazza con l’orecchino di perla di Jan Vermeer e in parte La schiava turca del Parmigianino; il vestito e la parrucca di Ismaele fanno pensare a Calaf, mentre i suoi stivali tipici da Trovatore non rammentano affatto i calzari  utilizzati dalle popolazioni israelite dell’epoca. Le poche scenografie baroccheggianti, che nascondono semplicemente le quinte nere, sarebbero più adatte ad un Rigoletto, mentre i tagli luce disegnati da Stefano Gorreri sanno fortunatamente rendere la giusta suggestione.
Marcello Rota guida con polso fermo e ricchezza di colori l’Orchestra del Teatro Giuseppe Verdi di Busseto – nel cui organico si distingue con piacere il flauto di Serena Bonazza – e accompagna i solisti lungo le difficili pagine del dramma verdiano.
Enrico Iori tiene a battesimo i giovani interpreti selezionati in collaborazione con il Dipartimento di canto del Conservatorio Arrigo Boito di Parma, e lo fa col solito vigore e l’intensità drammatica che ovunque lo contraddistinguono. Come già detto in altre occasioni, il basso parmense può essere considerato uno specialista del ruolo di Zaccaria, sia per la vocalità particolarmente adatta a dispiegare le insidie della parte, sia per la ricchezza di accenti e cromatismi, sia per le qualità drammaturgiche che portano alla commozione. Il pubblico bussetano lo accoglie con particolare calore e alcuni ricordano la sua interpretazione di Ramfis di esattamente dieci anni fa, nel celebre spettacolo firmato da Franco Zeffirelli.
Stefano La Colla, nel ruolo di Ismaele, possiede indubbiamente una voce adatta ai ruoli lirico spinti, sia per il timbro, sia per l’emissione, ma l’impostazione e la tecnica vanno migliorate, poiché spesso perde d’intonazione.
Negli altri ruoli protagonisti, ognuno dei giovani interpreti selezionati dal Conservatorio possiede particolari doti naturali degne di interesse, che con il dovuto studio e la necessaria preparazione tecnica potranno essere ulteriormente sviluppate.
Dong Chu Son è un Nabucco dalla voce brillante, ben impostata e con uno squillo potente e sonoro. La pronuncia, il fraseggio, gli accenti, l’uso dei colori ed in generale l’impiego delle espressività necessitano di ingenti miglioramenti, ma il materiale vocale di partenza è certamente importante.
Maria Simona Cianchi è Abigaille, possente, salda e sicura in tutto il registro acuto, ma assente in quello grave. Anche in questo caso i cromatismi devono essere sviluppati, ma la sua buona intonazione può essere un grande aiuto. Il soprano non sembra possedere agilità naturali, ma che sono opportunamente costruite e possono essere indubbiamente perfezionate.
Erika Beretti veste i panni di Fenena e purtroppo lo fa senza partecipazione, quasi assente nel personaggio, come se stesse pensando ad altro. Non la aiutano le scelte di regia, che all’inizio dell’opera la vogliono seduta, come se stesse in un salotto anziché in prigionia. La voce è molto interessante, ma sembra più adatta al registro sopranile. In effetti i passaggi acuti della preghiera “Oh dischiuso è il firmamento” sono resi più che correttamente, dove invece molte professioniste mezzosoprano incontrano evidenti difficoltà, per poi scomparire nelle note più basse.
Se Yun Kim è un baritonale Gran Sacerdote di Belo, Dong Won Woo è un efficace Abdallo e Barbara Aldeghieri è una Anna in possesso di acuti ben saldi.
Successo e applausi per tutti, soprattutto per Enrico Iori e il Coro guidato da Emiliano Esposito.

MANON LESCAUT [Lukas Franceschini] Verona, 25 gennaio 2011.
Al Teatro Filarmonico il secondo titolo della Stagione Lirica è Manon Lescaut di Giacomo Puccini. È davvero sconsolante e sbalorditivo vedere un teatro quasi vuoto quando si rappresenta un titolo di repertorio e per di più oggigiorno di rara esecuzione.
I motivi di tale diserzione andrebbero analizzati in altra sede, ma le molteplici domande che ne scaturiscono spero non abbiano quale unica risposta il disinteresse cittadino verso il proprio teatro. Manon Lescaut è il primo grande successo del compositore toscano e storicamente segna il passo del testimone con Giuseppe Verdi che si congedò con Falstaff, infatti, le due prime avvennero nel 1893 a otto giorni di distanza. Manon ebbe una gestazione difficile e complicata data l’insoddisfazione del maestro nei confronti dei librettisti, tanto da dover considerare anche i vari interventi di altri poeti, alla fine Ricordi, un po’ spazientito un po’ irritato, impose un ultimatum e l’opera venne rappresentata a Torino. Puccini era molto fiducioso di questo lavoro, aveva già composto Le Villi ed Edgar con successo, e le sue intuizioni non vennero disattese, fu un esito trionfale di pubblico e anche di critica. Puccini sapeva che accostarsi a un soggetto già collaudato oltralpe da Massenet dieci anni prima sarebbe stato rischioso, ma era troppo interessato a questa figura femminile per non mettere del suo e staccarsi completamente dal collega francese. Non è risaputo quando iniziò la composizione, di certo si sa che Puccini aveva nel cuore e nella testa Manon da molti anni, anzi è accertato che compose molta musica ancor prima di ricevere il libretto, l’opera era già nel suo intimo. L’allestimento veronese curato da Graham Vick è una coproduzione con il Teatro La Fenice, ove in laguna, lo scorso anno, ebbe violenti e continue dimostrazioni di dissenso. A Verona tutto ciò non è avvenuto considerata probabilmente l’esigua presenza di pubblico. Vick è un artista geniale e anche in questa occasione si riconferma. Egli rappresenta Manon Lescaut in epoca moderna avendo come denominatore “la lezione morale” della vita sregolata di una ragazzina cui le occasioni di vita vengono colte subito ed opportunamente nella maniera più facile. La scena si apre in una scuola (Manon nel romanzo di Prevost ha sedici anni) e si sviluppa poi in un’inarrestabile discesa nel baratro dei due amanti, lasciati al loro destino e osservati da una società inerme, gretta, sempre presente sulla scena. Nel secondo atto la protagonista è una cortigiana di un ricco politico, che al posto di ciprie e parrucche si fa tatuare la caviglia e realizza un book fotografico. Tutti i personaggi sono messi a fuoco in maniera encomiabile, dall’ingenuo ma sincero Des Grieux, all’abbietto Lescaut, fratello di pochi scrupoli nel “vendere” la sorella, al ricco Geronte che nel finale atto II quando Manon è arrestata le strappa la pelliccia di visone per metterla sulle spalle alla sua nuova favorita. Casualmente i fatti di cronaca italiani sono sbalorditivamente simili con quanto avviene in palcoscenico, il quale nel III e IV atto si alza lasciando intravedere una discarica di immondizia dalle alte pareti, insormontabili dal destino che porta gli infelici amanti verso il tragico epilogo. Memorabile infine la scena della deportazione ove Manon e le altre sono appese al soffitto, lei in un’altalena, che si rifà ai giochi della giovinezza perduta, le altre in una gonna-gabbia di settecentesca memoria. Bellissimi i costumi, la scena è efficacemente teatrale. Sul versante musicale abbiamo avuto Amarilli Nizza perfetta nel physique du role, ma assai limitata in quello vocale. Decisamente non efficace per fraseggio ed interpretazione nella prima parte, voce monocorde e debole nel registro grave, trova un limitato riscatto nel finale quando la disperazione prende il sopravvento riesce a calare alcune carte tutto sommato convincenti, ma nel complesso resta un ruolo per lei non misurato. Walter Fraccaro è un sicuro Renato, il quale riesce in tutto con decorosa precisione e supera le molte difficoltà della parte, manca di colori, fraseggio e stile, ma attualmente non vi è un parterre alternativo esteso. Fabio Previati è un Lescaut sbrigativo con pesanti problemi in zona acuta, mentre Matteo Pierone, Geronte, è al limite dell’accettabilità per scarsa intonazione ed emissione. Emerge Saverio Fiore efficace e simpatico Edmondo e anche puntuale lampionaio. Discreto il resto dei comprimari. Riccardo Frizza dirige con diligenza e puntualità, ma una partitura pucciniana abbisogna di colori e sfumature più incisive cui il maestro bresciano non è particolarmente incline, almeno in questa occasione. Regge comunque lo spettacolo con dignitosa efficacia, assecondato da una discreta orchestra e dall’ottimo Coro diretto da Giovanni Andreoli. Successo di pubblico seppur limitato ai pochi presenti.

LA CENERENTOLA [William Fratti] Piacenza, 28 gennaio 2011.
Con il nuovo allestimento de La Cenerentola, coprodotto dai Teatri del Circuito Lirico Lombardo e dalla Fondazione Teatri di Piacenza, Rosetta Cucchi dimostra ancora una volta di saper dare la giusta chiave di lettura alle opere rossiniane, mai polverosa, mai classica, mai troppo tradizionale, ma sempre attenta al giusto equilibrio tra novità e rigoroso rispetto di libretto e musica.
L’artista pesarese porta in scena la fiaba ambientandola in una vecchia biblioteca – i cui colori rimandano al Tempietto Rossiniano custodito nel Conservatorio di Pesaro – abitata da topolini – che ricordano i divertenti Fratelli Marx – sviluppando la vicenda con estrema attenzione ad ogni singola nota, a ciascun momento musicale, alla messa in luce di tutti gli interpreti. Le semplici ma efficaci scene di Paolo Giacchero, i costumi di Claudia Pernigotti e le luci di Daniele Naldi fanno la giusta cornice alla drammaturgia voluta dalla Cucchi.
Come già detto in altre occasioni, la giovane Josè Maria Lo Monaco, che veste i panni della protagonista, possiede le giuste qualità per diventare una grande professionista. La voce dal bel timbro brunito è omogenea e particolarmente interessante nella zona centrale, sia nel canto spianato di “Una volta c’era un Re” che nelle terribili agilità del rondò finale, ma necessita di qualche miglioria a livello tecnico nella zona acuta, che talvolta non sembra essere perfettamente pulita, e di una più adeguata impostazione dell’emissione, soprattutto sul parlato spesso coperto dall’orchestra.
Yijie Shi è un Don Ramiro musicalmente preciso, perfetto nell’intonazione, in possesso di gradevoli piani e acuti pulitissimi. Il tenore rossiniano rivela notevoli miglioramenti nello spessore vocale rispetto a qualche anno fa, dimostrando maggiore sicurezza e solidità fin da “Un soave non so che”, ma soprattutto uno studio tecnico invidiabile, dispiegando con leggerezza le insidie della lunga cavatina “Sì ritrovarla io giuro… Pegno adorato e caro… Dolce speranza”.
Don Magnifico è Omar Montanari, già applaudito dal pubblico piacentino nella recente produzione de Il viaggio a Reims. Il baritono romagnolo possiede un buono squillo, sostenuto da una buona impostazione e una linea di canto ben omogenea. Anche se meno conosciuta delle altre, l’aria “Sia qualunque delle figlie” è quella che strappa un maggior consenso, grazie ad un’esecuzione limpida e brillante, anche nell’interpretazione.
Massimiliano Gagliardo veste i panni di un divertente e spassoso Dandini, in possesso di acuti luminosi e ben saldi e di indubbie qualità nel canto spianato, già riscontrate in altri repertori, ma le agilità poco naturali lo mettono chiaramente in difficoltà, fino a fargli perdere corposità nelle note più basse che vengono coperte dal peso orchestrale.
Umberto Chiummo è un Alidoro un po’ impastato, poco efficace nella voce e nel personaggio.
Completano il cast le divertenti Clorinda e Tisbe di Stefania Silvestri e Alessia Nadin, adeguate ed incisive sia sul piano dell’interpretazione drammaturgica che vocale.
Giacomo Sagripanti, alla guida dell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna, dirige l’opera rossiniana senza particolare sentimento, mantenendosi abbastanza lineare nella lettura dello spartito, ma distinguendosi nell’esecuzione di “Questo è un nodo avviluppato”, conducendo in maniera molto precisa, lungo la difficile pagina musicale, ognuno degli interpreti.
Positiva è la prova del Coro As.Li.Co. diretto da Antonio Greco. Applausi per tutti al termine dello spettacolo.

LA FORZA DEL DESTINO [William Fratti] Parma, 2 febbraio 2011.
Dopo un Festival Verdi 2010 ricco di alti e bassi, il Teatro Regio di Parma torna alla ribalta con una magnifica produzione de La forza del destino, dimostrando di saper ancora essere un centro di produzione internazionale e un palcoscenico in grado di fare la differenza. Stefano Poda firma e crea uno spettacolo elegante ed estremamente contemporaneo con l’accuratezza di chi conosce ogni singola nota dello spartito.
I solisti sono sempre in primo piano, con l’unico neo di non essere quasi mai in proscenio, se non in alcune scene. Coro, mimi e figuranti si muovono con la gestualità impressa da un coreografo degno di Pina Bausch. L’impianto scenico è unico, ma le situazioni create con l’ausilio di due grandi carri dalle sembianze di pareti e con un disegno luci altamente suggestivo, sono delle vere e proprie opere d’arte surrealiste. Questo allestimento de La forza del destino di Stefano Poda è visionario, tragico, carico di carattere, a tratti difficile da comprendere poiché intriso di doppi, tripli, forse quadrupli significati e può non piacere o convincere del tutto, ma ad un’analisi obiettiva non è possibile non riconoscerne l’alto livello artistico. Ad esempio qualcuno potrebbe lamentare la mancanza scenica dei frangenti comici fortemente voluti da Giuseppe Verdi, ma la maniera oscura in cui il regista trentino li ha sviluppati è comunque molto interessante, sia per la continuità contestuale col resto dell’opera, sia per l’effetto tragico che la comicità può avere in momenti drammatici, come la guerra in terzo atto, o la carestia in quarto.
Gianluigi Gelmetti sale per la prima volta sul podio dell’Orchestra del Teatro Regio di Parma e dirige la prima edizione musicale critica de La forza del destino con polso fermo e vigorosa intensità, mettendosi in luce già dalla celebre sinfonia. L’esecuzione integrale dell’opera è precisa e vivace, ricca di colori intensificati da un buon uso dei piani e dei forti.
Dimitra Theodossiou debutta la difficile e lunga parte di Donna Leonora e lo fa con la classe, l’eleganza e la forte presenza scenica che sempre la contraddistinguono. L’interpretazione che il soprano greco decide di dare all’eroina verdiana è molto vicina alla disperazione e alla rassegnazione nei confronti di un destino crudele, che il fraseggio altamente espressivo, i piani pregevoli e raffinati, i cromatismi ben accentuati, contribuiscono a rendere ancor più veritiero. Dimitra Theodossiou si discosta da talune esecuzioni eccessivamente irruenti e drammatiche a favore di un personaggio più misurato, musicalmente accurato, dove la linea di canto morbida ed omogenea e la voce calda e suadente ne escono chiaramente vincitrici. Il primo atto è reso in maniera equilibrata, sia in “Me, pellegrina ed orfana” che nel successivo duetto; nel secondo atto la tensione e l’intensità sono in crescendo, raggiungendo l’apice catartica in “Infelice, delusa, reietta… Se voi scacciate questa pentita” e la resa interiore con “La Vergine degli Angeli”. Ma è nel finale in cui l’artista dona al pubblico un’impareggiabile prova di sé con “Pace, pace, mio Dio” e viene accolta con lunghi applausi e numerose richieste di bis. Pare comunque doveroso segnalare, trattandosi di un’esecuzione in edizione critica molto importante, che nel recitativo “Son giunta! Grazie, o Dio” il verso “L’ho seguito e il perde” è intonato più alto, mentre il celebre “Maledizione! Maledizione! Maledizione!” è ripetuto cinque volte come da tradizione, anziché quattro come da spartito.
Aquiles Machado dimostra di possedere una vocalità dall’accento sempre più verdiano, ricca di interessanti colori e con una buona capacità di fraseggiare. L’emissione non è delle più potenti, ma non è certamente una caratteristica per fare un grande tenore. Ciò che conta davvero, e lo si riscontra nella voce dell’artista venezuelano, sono un’appropriata intonazione, uno squillo luminoso, un passaggio uniforme e un buon controllo dei fiati che permetta un’abile utilizzo di piani e mezze voci, oltre ai già citati cromatismi e fraseggio. La parte di Don Alvaro è alquanto impegnativa, soprattutto nel lungo terzo atto, ma Aquiles Machado sembra dispiegare lo spartito con massima sicurezza ed ottiene un unanime consenso.
Vladimir Stoyanov purtroppo non sembra essere in perfetta forma e ciò lo si nota in tutto il registro acuto, che risulta opaco e smorzato. Il personaggio è elegante e la vocalità da eccellente baritono qual è si riscontra nella zona centrale, ma certi passaggi molto alti, soprattutto in “Son Pereda, son ricco d’onore” e in “Morir! Temenda cosa… Urna fatale del mio destino… Egli è salvo! Gioia immensa”, non sono affatto luminosi.
Roberto Scandiuzzi veste i panni del Padre Guardiano con estrema disinvoltura, forse più attento alla resa vocale che alla recitazione, ma risultando essere sempre un basso verdiano di altissimo livello. La sua interpretazione non è particolarmente intensa, ma l’esecuzione è certamente priva di sbavature, distinguendosi soprattutto lungo le frasi di “Or siam soli”.
Carlo Lepore è un eccellente Fra Melitone, divertente e misurato nel personaggio, brillante nella voce, chiaramente in possesso di ottimo fraseggio, acuti saldi e puliti, oltreché in grado di sviluppare colori e accenti tanto nel canto spianato quanto nel parlato. Pur essendo un basso buffo generalmente attivo in altri repertori, sa vestire i panni del frate verdiano con la giusta interpretazione, sia musicale che drammaturgica, ed ottiene a ragione un grande successo personale, soprattutto per la resa di “Che? Siete all’osteria?”.
Mariana Pentcheva, disapprovata dal pubblico durante la prima recita, porta a casa la pelle, meritandosi il plauso del pubblico. La parte di Preziosilla, pur essendo abbastanza breve, è ardua ed insidiosa, avendo bisogno di un mezzosoprano corposo nella vocalità, in possesso di centri importanti, ma in grado di portarli spesso all’acuto e con le agilità. L’artista bulgara è in parte in difficoltà nello svolgere le difficili pagine della zingara, ma il colore particolarmente caldo e scuro della sua voce e la tecnica ben impostata le permettono di ottenere un risultato più che apprezzabile, soprattutto in “Al suon del tamburo”. Sarebbe stato molto interessante ascoltarla nel ruolo di Azucena durante lo scorso Festival Verdi ed è auspicabile accoglierla nei panni di Ulrica nella prossima edizione.
Ziyan Atfeh, già applaudito nella recente produzione di Attila, è un possente Marchese di Calatrava, Alessandro Bianchini sa mettersi in mostra con un efficacissima interpretazione dell’alcade, mentre Myung Ho Kim è un Mastro Trabuco poco sonoro e Adriana Di Paola, una Curra dalla voce brunita, è in grave difficoltà in tutta la zona acuta. Talvolta apprezzabili (soprattutto le donne in quarto atto), talaltra meno (qualche voce e alcuni soldati in terzo) sono gli interventi solistici dei coristi e del chirurgo Gabriele Bolletta.
Il Coro del Teatro Regio di Parma guidato da Martino Faggiani si distingue sia per la prova vocale sia per la prova scenica e riscuote il giusto e meritato consenso.

INTOLLERANZA 1960 [Lukas Franceschini] Venezia, 3 febbraio 2011.
Cinquant’anni dopo al Teatro La Fenice di Venezia ritorna Intolleranza 1960 di Luigi Nono che fu uno dei momenti musicali più contestati nella storia della Biennale Musica e mai più ripreso in nessun teatro italiano.
Una piccola premessa doverosa: tanto ha fatto piacere notare La Fenice affollata per un titolo così desueto e “difficile” e in serate tutte fuori abbonamento, tanto è stato sconfortante notare il Teatro Filarmonico di Verona vuoto per Manon Lescaut, un titolo d’affermato repertorio. In laguna, forse, c’è più attenzione e amore per la musica? Chissà! Ritornando alla performance si dovrebbe dire che di opera vera e propria non si tratta, ma come specificato in locandina, di azione scenica. I tristi fatti dell’aprile 1961 sono ormai storia musicale italiana. Lo spettacolo, diretto da Bruno Maderna con la regia di Svoboda, fu fortemente criticato e contestato dai fascisti di allora che accusavano il compositore di comunismo, per la truce vicenda dell’emigrante che tornato in patria è coinvolto, suo malgrado, nella manifestazione dei lavoratori, repressa questa violentemente dalla polizia con tortura, i disastri climatici, la resa del popolo operaio. Temi oggi forse non più d’uso comune, ma allora al centro della vita sociale. Se aggiorniamo le vicende all’attualità, potremo intravedere la vertenza dei lavoratori della Fiat, le manifestazioni di protesta che si stanno sviluppando a macchia d’olio nell’Africa settentrionale, la recente alluvione di novembre nel veneto (allora si alludeva a quella del Polesine). È coraggiosa e da lodare la scelta della Fenice di inaugurare con tale partitura contemporanea, opera la quale, assente dai palcoscenici nazionali, ha avuto notevole successo all’estero, ove in Germania è quasi di repertorio e sbalorditivo che una belcantista come Beverly Sills la cantò in America nel 1965. Il linguaggio di Nono è risaputo per l’avanguardia, ma con riflessi madrigalistici, dal punto di vista vocale non si può parlare di canto ma di canto parlato, uno sprechgesang estremo che mette a dura prova le voci in questo stile molto vicino alla dodecafonia di Schoenberg. Il testo, trai cui figurano drammaturghi come Sartre e Brecht, è crudo e drammatico, una sorta di teatro visionario, dove sono sempre i deboli a farne le spese. Lo spettacolo veneziano, pura espressività teatrale di altissimo livello, è realizzato dalla Facoltà di Design e Arti IUAV con il coordinamento d’illustri maestri come Ronconi, Ripa di Meana, Palli, Marzot. L’orchestra, collocata sul palcoscenico su di un’impalcatura, suona egregiamente la difficile ma altrettanto intensa partitura sotto la bacchetta di Lothar Zagrosek, mentre il Coro collocato in buca è magnifico. Tra i solisti emergono per recitazione ed intensità drammatica canora Stefan Vinke e Cornelia Horak. Uno spettacolo assolutamente da non perdere! Ottanta minuti di spettacolo senza intervallo che definire inebrianti è riduttivo, gli entusiastici applausi al termine erano più che meritati.

LA FORZA DEL DESTINO [Lukas Franceschini] Parma, 8 febbraio 2011.
Il Teatro Regio di Parma prosegue il suo cammino nella riproposta dell’integrale operistica verdiana e avvicinandosi al fatidico 2013, anno del bicentenario, Verdi si deve eseguire anche al di fuori del Festival per arrivare puntuali alle celebrazioni.
Oltremodo è curioso parlare di celebrazioni per un autore trai i più eseguiti al mondo se non il più rappresentato. La scelta per l’inaugurazione della stagione invernale è caduta su La forza del destino nella versione critica curata da Philip Gossett. L’opera fu commissionata al compositore dal Teatro Imperiale di San Pietroburgo nel 1862, in seguito Verdi ritornò sulla partitura apportando alcune modifiche per la prima scaligera del 1869, tant’è che oggi siamo alla presenza di due versioni dell’opera, anche se nell’esecuzione è notevolmente preferita la seconda.
A Parma, ovviamente, si opta per l’integralità e ciò è un gran pregio soprattutto per l’ascolto del duetto Alvaro-Carlo “Sleale! Il segreto fu dunque violato” del III atto. Stefano Poda firma in toto lo spettacolo nel quale prevale la sua vena coreografica e scenografica a scapito della drammaturgia. Non si può negare che la visione è molto spettacolare, nella quale sono creati ambienti astratti e cupi delimitati da una bellissima struttura girevole di pregiata incisione di forte impatto. Lo splendido gioco di luci valorizza il lavoro scenografico e in particolare il finale atto II quando con immediato gioco di movenza strutturale si forma una grande croce che funge da cortile del monastero. I costumi sono di ricercata fattezza, altissima sartoria e prodigioso cromatismo. Lascia perplessi l’ambientazione ottocentesca vagamente dickensiana del II atto, dove i villici hanno sembianze di lord e Preziosilla, zingara ed indovina, assomiglia ad una dama reale di corte. Di grande efficacia nella scena della battaglia l’utilizzo dei mimi-ballerini. Allo spettacolo manca purtroppo una vera impronta drammaturgica, forte e decisa, come la vicenda richiede. I cantanti sono spesso lasciati al loro istinto, che non è sicuramente di raffinata recitazione.  Sul versante musicale Gianluigi Gelmetti non crea in Verdi quello che riesce mirabilmente in Rossini, ciò è avvertibile già dalla sinfonia eseguita con molte sbavature e con l’apporto di un’orchestra non particolarmente rifinita. I tempi erano spesso lenti, le sonorità debordanti in taluni momenti, il direttore preferisce gli aspetti lirici ed intimistici eseguiti con polso sicuro ed appropriato. Il cast nel complesso era dignitoso, ma evidenzia oggigiorno l’estrema difficoltà nel recuperare voci idonee al repertorio. Tali lacune rappresentano, in particolare per il Verdi Festival, un ostacolo non indifferente al quale si ovvia con vari compromessi. Dimitra Theodossiou, della quale non mi è dato sapere se debuttante nel ruolo, dimostra un pronunciato logoramento nel settore acuto, pertanto deve ovviare con un falsetto anche musicale ma alla lunga noioso. L’interprete è partecipe, il fraseggio anche appropriato, ma troppi sono gli accomodamenti e le omissioni per parlare di una prova positiva. Altro compromesso è Aquiles Machado, il quale pur in possesso di una dizione efficace e di un ottimo colore vocale non trova appieno una dimensione drammatica poiché il ruolo è oltre il limite delle sue possibilità soprattutto nel settore acuto sempre forzato. Inoltre, l’integralità dell’opera accentua problemi di tenuta. Avrebbe carte più in regola Vladimir Stoyanov per incisività e temperamento, ma ha dato l’impressione di non essere in serata rispetto a sue performance precedenti. Delude notevolmente Roberto Scandiuzzi del quale oltre a registrare un’inevitabile usura si denotano imbarazzanti problemi d’intonazione. Mariana Pentcheva fa quel che può con i mezzi rimasti, il timbro impressiona come sempre, ma il gusto e lo stile sono assenti. Carlo Lepore impersona con simpatia un solido e robusto Melitone, mentre le altre parti erano nella routine. Teatro esaurito e molto plaudente al quale Theodossiou concede il bis di “Pace mio Dio” sostanzialmente non richiesto.

TOSCA [Lukas Franceschini] Milano, 22 febbraio 2011.
Il nuovo allestimento di Tosca proposto al Teatro alla Scala è una coproduzione con la Bayerische Staatsoper di Monaco e il Teatro Metropolitan di New York e in Italia arriva quale terza tappa dopo i debutti esteri.
Curato dal tandem Luc Bondy & Richard Peduzzi, cui va ad aggiungersi Milena Canonero per i costumi, creò molto scalpore al debutto in Baviera per le scene scurrili in esso contenute, tanto che già nell’edizione americana, pare, fu in parte modificato, e secondo alcune voci per Milano ancor più “ripulito”. Chi scrive non ha visto in loco le precedenti edizioni né tanto meno il dvd prodotto durante le recite al Metropolitan, pertanto mi limiterò a quanto visto nella sala del Piermarini. Aggiungo però una doverosa considerazione: per quali motivi un’idea registica è modificata quando in essa vi sono espliciti elementi in parte blasfemi ed erotici? Forse si pensa che il pubblico si scandalizzi? La risposta è ovvia anche in considerazione di quanto passano tutti i giorni i media televisivi e cinematografici. Certe “censure” hanno un sapore e un’allusione che francamente pensavo fossero di tempi passati, qualsiasi sia il risultato artistico dell’operazione. Tornando allo spettacolo milanese devo dire che si è trattato di una Tosca non particolarmente funzionale e sotto certi aspetti noiosa con molti elementi inutili, che visti così, lasciano del tutto indifferenti. Già dal primo atto la scenografia di Sant’Andrea della Valle, capolavoro del barocco romano, è ridotta al solito muro di mattoni. Possibile che un artista come Peduzzi alla Scala da anni presenti solo muri? La camera del Barone è di lineari prospettive non particolarmente seducenti, infine la terrazza di Castel Sant’Angelo sintetizzata in una piattaforma lineare con il bastione posto molto lateralmente. La scenografia era tipicamente moderna, senza una precisa collocazione cui mal si posavano gli anonimi costumi d’epoca non certamente in linea con la fama e la bravura della Canonero, la quale è riuscita in ben di meglio. Dal punto di vista registico vi erano soluzioni anche interessanti ma le più destavano perplessità. Molto spettacolare la scena del Te Deum, non una classica processione ma un avanzare lento verso il proscenio degli ecclesiastici, espressione opprimente del loro potere temporale e giudiziario. Discutibile il finale d’atto quando Scarpia si avvicina a una statua della Madonna, non si capisce il perché, anche se pare che nell’originale la baciasse, pertanto ancor più enigmatico. Nel secondo atto Scarpia è attorniato da tre giovani ragazze “di compagnia” in abiti succinti, anche questa scelta è alquanto banale, scontata se non ridicola, benché rimandi a odierne vicende nazionali fin troppo pubblicizzate. Inoltre, certi comportamenti delle ospiti lasciavano intuire situazioni erotiche le quali seppur banali in un certo ambiente, facessero sorridere nel contesto drammaturgico. La recitazione era nella norma, non avendo il regista a disposizione attori di particolare incisività, sorprendeva la scena in cui Tosca dopo l’assassinio saliva sulla finestra come a buttarsi nel vuoto, deludeva il finale, dove la protagonista si accasciava esausta sul divano, trovando il ventaglio dell’Attavanti, come in uno stato di trance. Faceva ridere invece la partita a scacchi tra Cavaradossi e il carceriere all’inizio del III atto, quanto mai senza senso, e non particolarmente suggestivo il suicidio finale. Omer Meir Wellber, giovane maestro israeliano e promessa direttoriale, debuttava nel massimo teatro italiano. La sua direzione è attenta e scrupolosa, altrettanto nervosa e dinamica, ma totalmente privo di “anima” di fraseggio, passionalità, che in un’opera come Tosca è di basilare narrativa. Non da buttare, ma c’è ancora molto da mettere a fuoco nello spartito pucciniano per quanto da me udito egli riesce meglio in Verdi. Oksana Dyka era una protagonista molto sottotono, dotata di ampia e voluminosa voce ma non di altrettanta tecnica idonea. Insufficiente sul piano scenico, che altre usano a vantaggio di lacune vocali, sperperava assurdamente frasi e caratterizzazione. Jonas Kaufmann, dopo l’indisposizione, rientrava nel ruolo per sole due recite e probabilmente anche in considerazione dei postumi influenzali non faceva in Cavaradossi come in Don José. Il timbro brunito della voce è bello, gli acuti sicuri e svettanti, semmai sommariamente freddino ma comunque capace di forte sensibilità, però, senza mai lasciarsi andare nell’abbandono del giovane innamorato ed idealista politico. Lo Scarpia di Zeljko Lucic non combaciava con l’espressione gretta e sadica ma pur sempre composta di un barone, eccedeva in temperamenti e vocalmente si deve ascrivere nel ristretto compito dell’esecuzione anche perché dotato di voce chiara e non particolarmente espressiva. Composto e piacevole il sagrestano di Renato Girolami, buoni Dejan Vatchkov e Luca Casalin, rispettivamente Angelotti e Spoletta. L’opera non è mai stata interrotta da un applauso ad eccezione del “Vissi d’arte” peraltro in parte fischiato. Applausi cordiali al termine, ma nelle singole uscite qualche contestazione per tutti e tre i protagonisti, con particolare enfasi per la Dyka.

NOS [Lukas Franceschini] Parma, 25 febbraio 2011.
Approda a Parma direttamente da Mosca, con i complessi e i solisti del Teatro Musicale da Camera “B. Pokrovskij” (direttore musicale è Gennadij Rozdestvenskij), l’opera comica di Dmitrij Sostakovich Nos (Il naso) tratta dall’omonimo racconto di Nikolaij Gogol’.
Qualche settimana addietro feci delle critiche al pubblico veronese per la loro assenza teatrale in occasione delle recite di Manon Lescaut, per doverosa par condicio, devo notare che un pubblico notoriamente melomane come quello di Parma ha clamorosamente disertato un’opera di rara esecuzione come quella di Sostakovich. Non oso pensare che esso intenda l’opera solo quando si tratta di Verdi, ciò sarebbe limitativo, ma probabilmente assai veritiero. Peccato, perché le recite di Parma, cui si aggiungo due repliche a Reggio Emilia, sono state una vera occasione musicale di nicchia nell’ascoltare la composizione giovanile del compositore russo, della quale le esecuzioni almeno in Italia si limitano e due addirittura negli anni ’60. L’opera, o meglio satirica, si sviluppa sul personaggio di Platon Kuz’mic Kovalev, maggiore dell’esercito, il quale una mattina si sveglia senza naso. Il compositore aveva solo ventisei anni quando il 18 gennaio 1930 Nos ebbe la sua prima esecuzione al Malyj Opernyi Teatr di Leningrado e lui stesso commentava “Il Naso per me perde ogni significato se ci si accosta ad esso solo sul piano della musica, perché in esso l’elemento musicale scaturisce esclusivamente dall’azione”. In effetti, questo lavoro è un insieme inscindibile di musica e teatro considerato al tempo se non sperimentale quanto meno d’avanguardia e il pubblico e la critica ne restarono posatamente colpiti. Lo spettacolo visto a Parma porta la firma di Boris Pokrovskij, che fu tra i “riesumatori” dell’opera nel lontano 1974, il quale riesce a sfruttare il palcoscenico a tutto tondo con una compagnia di cantanti-attori di prim’ordine. La scena è pressoché fissa ma il grande gesto teatrale regala scene divertentissime e colloca la compagnia ai lati del palcoscenico ove si cambia d’abito secondo della scena da interpretare. Le grandi scene corali, nel secondo atto sono rese con superba inventiva cui si aggiunge una brillante coreografia realizzata da Lilija Talankina. Molto garbati i costumi e le povere di Valdimir Ivakin. L’apporto musicale é di prim’ordine con un complesso orchestrale straordinario, il quale rende memorabile l’intermezzo con percussioni del primo atto. Il direttore Vladimir Agronskij concerta la difficile partitura con gesto sicuro e ritmo travolgente. La numerosissima compagnia dovrebbe essere giudicata nel suo complesso, tante sono le parti e quanto è fondamentale il gesto scenico, pertanto il giudizio non può essere che positivo. Il protagonista è Evgenij Bolucevskij, raffinato cantante sostenuto da ottima musicalità. Tra gli altri emergono Tat’jana Fedotova, la solitaria della cattedrale, Aleksei Mocalov un brillante Ivan, e Aleksandra Martynova, sua moglie, spigliatissima e grottesca. Molto imbarazzante per caratura vocale e intonazione il Naso interpretato da Borislav Molcano. L’esiguo pubblico ha tributato al termine un calorosissimo consenso.

DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Bologna, 4 marzo 2011.
Il Don Giovanni del binomio Mozart-Da Ponte è riproposto al Comunale di Bologna nell’allestimento marchigiano curato nella regia, scene e costumi da Pier Luigi Pizzi.
Il Maestro milanese rilegge l’opera in una cornice astratta e atemporale (come da intervista pubblicata nel programma di sala), dove il tutto è amplificato da grandi specchi nei quali si riflette pure il Teatro e il pubblico. L’idea è molto pertinente ed azzeccata, quello che vi è nel dramma, almeno in parte, rappresenta anche oggi uno squarcio di vita reale e, come afferma Pizzi, protagonista è l’impulso sessuale e non l’amore. Infatti, il protagonista colleziona innumerevoli conquiste solo fine se stesse (matematicamente annotate dal fido Leporello) pertanto non è proprio il caso di scomodare i sentimenti. La concezione registica punta dunque nell’accentuare il lato libertino escludendo giustamente qualsiasi altra analisi, semmai da uno spessore più rilevante agli altri personaggi, i quali restano inevitabilmente legati o soggiogati dal dissoluto che con tanta spavalderia affronta anche gli inferi finali. Spettacolo molto scorrevole, preciso sotto ogni aspetto, con grande carica erotica e un pizzico di umorismo. Due tende scorrevoli fanno da cambi scena velocissimi, il letto è una presenza scenica quasi fissa di ovvia immaginazione. Spettacolare la scena finale quando Don Giovanni è condotto all’inferno da mimi nudi che escono dal pavimento, i quali lo trascinano alla giusta punizione. Di grande rilievo la cesellata recitazione degli interpreti. Delude la direzione di Tamas Pal per una concertazione anche precisa e mai sbavata, ma notevolmente lenta, disanimata e poco fantasiosa, anche se nel finale trova un certo vigore, ma troppo tardivo. L’orchestra si attiene alle regole del direttore ed appare svogliata, ma il suo standard è ben diverso. Nmon Ford è un protagonista scenicamente mirabile ma vocalmente piatto e con notevoli problemi nei vari registri, manca completamente nella recitazione canora in aggiunta ad una dizione approssimativa. Anche la donna Anna di Zuzana Markova è fuori posto soprattutto per spessore vocale, le sarebbe stato più consono il ruolo di Zerlina, cui va aggiunta una notevole approssimazione nel canto d’agilità. Bravo Andrea Concetti un eccellente servo, disinvolto scenicamente anche se con fiati accorciati rispetto a sue esibizioni precedenti. Dirompente l’Elvira di Carmela Remigio, la quale crea un vero personaggio, relegato dalla regia al cieco amore isterico, di tutto rispetto per eleganza e compostezza il don Ottavio di Juan Francisco Gatell. Ottima e puntuale la giovane coppia di sposi, William Corrò è un Masetto energico e simpatico, Manuela Bisceglie una Zerlina precisa cui va il grande pregio di non essere leziosa. Sommariamente grezzo il Commendatore di Christian Faravelli. Ottimo l’apporto del coro. Buon successo al termine anche se il protagonista è stato contestato dal pubblico nelle singole uscite.

LA BOHÈME [Lukas Franceschini] Venezia, 11 marzo 2011.
Che cosa si può aggiungere su La Bohème l’opera di Giacomo Puccini forse più rappresentata? A centoquindici anni dalla prima assoluta torinese, direttore Toscanini, convegni, studi, incisioni discografiche, innumerevoli rappresentazioni, concezioni registiche diverse hanno in parte detto quasi tutto.
Eppure questa ennesima rappresentazione alla Fenice ci conferma quanto l’opera sia non solo originale ma fatalmente attuale: la vita bohemien è marginalmente in tutti noi, vuoi per poco o molto, periodi giovanili e intere esistenze, a nessuno è concesso non immedesimarsi, seppur indirettamente, con una stagione spensierata e illusoria della nostra vita. Il nuovo spettacolo prodotto dal teatro veneziano è creato da Francesco Micheli alla regia, Edoardo Sanchi alle scene, e Silvia Aymonino per i costumi, su quali grava il compito di non essere convenzionali in una drammaturgia della quale abbiamo visto e goduto le più diverse interpretazioni. Il team ci è riuscito creando uno spettacolo godibile, di stampo tradizionale, ma di grande impatto teatrale. L’inizio è una sorta di cartolina stile liberty, tipo quelle degli avi riposte nei cassetti dei ricordi, e ci troviamo in quella e fredda ma euforica soffitta del I quadro perché Bohème è un insieme di “quadri” di vita e non un susseguirsi di atti. Il quartiere Latino è un cromatico affollamento parigino con costumi bellissimi, dove sono più l’immaginazione e la fantasia a creare il caffè Momus e la piazza, il brulicare composto e divertente di bimbi, madri e camerieri. Molto efficace e teatrale la visione iniziale del vecchio tram. Nel quadro successivo si ritorna alla tradizione con dogana e locanda, della quale il regista avrebbe potuto evitare di far vedere gli interni lussuriosi, in parte scontati. Nel IV quadro i fondali colorati che evocano in maniera diversa, con ottimo gioco di luci, i tetti di Parigi creano un’immagine di grande impatto. Nell’insieme un allestimento molto ben fatto e curato nella recitazione, è auspicabile che oltre a successive riprese in laguna lo spettacolo possa passare anche ad altri palcoscenici proprio perché sono le emozioni e sentimenti a primeggiare. Un nuovo ascolto di Bohème evidenzia, qualora fosse sfuggito, la peculiare presenza di un solido maestro concertatore, più che straordinari cantanti. Confesso che l’interesse per il giovane Juraj Valcuha era allettante ma le attese sono andate deluse. Conoscevo il maestro di Bratislava solo nel repertorio sinfonico, nel quale è tuttora una delle più promettenti bacchette, ma in quest’occasione operistica non è corrisposta altrettanta luminosità interpretativa. Nel complesso non vi è nulla di disastroso ma egli è lacunoso in quel tatto poetico tipico della partitura pucciniana, il colore, gli adagi, le emozioni. L’orchestra della Fenice non è sopraffina ma risponde con onesta professionalità, il coro si conferma di livello superiore. Nel sestetto dei protagonisti nessuno poteva vantare una predominante posizione sai vocale sia interpretativa. Tutti erano ottimi attori, e qui il pregio del regista, oltremodo onesti esecutori vocali seppur con diverse lacune ma nel complesso dignitosi. Gianluca Terranova è un Rodolfo squillante e dotato di bellissima voce ma tendenzialmente “aperto” e poco sfumato. Mimì era una Serena Farnocchia con voce poco seducente e in parte vibrata, ma sommariamente puntuale. Corretto il Marcello di Damiano Salerno, un po’ troppo stridula la Musetta di Beatriz Diaz. Note meno positive per lo stonato Schaunard di Alessandro Battiato e il cavernoso e ingolato Colline di Gianluca Buratto. Al termine, il pubblico tributato alla compagnia un discreto successo.

DEATH IN VENICE [Lukas Franceschini] Milano, 15 marzo 2011.
L’ultima opera del compositore inglese Benjamin Britten Death in Venice, la quale nacque ad Aldebuourgh il 16 giugno 1973, è stata allestita per la prima volta al Teatro alla Scala nella stagione lirica in corso.
Una comparsa sotto taluni aspetti tardiva ma egualmente importante, anche se il rapporto di Britten con l’Italia fu rilevante, basti ricordare che la prima di The Turn of Screw avvenne a Venezia alla Biennale Musica e il compositore è da considerare tra i più, se non il più, importanti della seconda metà del XX secolo. L’opera è tratta dal dramma omonimo di Thomas Mann (1911), Britten aveva già pensato in precedenza di porla in musica ma si decise solo verso il 1970 quando chiese a Myfawny Piper, già autrice di Turn of screw e Owen Wingrave, di stendere il libretto. Curiosamente la gestazione venne a coincidere con l’uscita del celebre film di Luchino Visconti, stesso soggetto e titolo, del quale il compositore evitò la visione per non esserne influenzato. Il tema insito nel dramma è ovviamente l’inquietante forza d’attrazione esercitata da un ragazzino su un uomo adulto in crisi esistenziale e creativa cui va ad aggiungersi il tormentoso aspetto della bellezza intesa come valore etico ed estetico. Davide Daolmi, nel suo scritto all’interno del programma di sala, afferma che Morte a Venezia resta comunque una storia di pedofilia ma sarebbe errato circoscriverla a ciò, essa rivela un altrettanto maniaco attaccamento alla giovinezza capace di distrarre dall’inesorabile senilità. Il dramma, e l’opera lo ricalca esattamente, è molto complesso ove non si può negare che la morbosità, l’equazione giovane-vecchio e la pedofilia (intesa però mai oltre il confine del solo desiderio psicoanalitico) siano rimarcati notevolmente. Altro elemento è un’omosessualità atipica, ove un uomo di mezza età e sposato, s’invaghisce, o meglio è rapito dalla bellezza di un giovane adolescente nel contorno di una Venezia decadente e funerea. A tratti parziale vissuto dello stesso Mann in un suo viaggio in Italia, cui si affianca la vicenda personale di Britten che trascorse la vita assieme al compagno e musa teatrale Peter Pears, per cui compose l’opera, e Luchino Visconti uno dei pochi artisti cui fu concesso in anni ancor sospetti l’outing. In questa produzione La Scala ha avuto il miglior spettacolo della stagione, finora, il tutto è dovuto a Deborah Warner, regista inglese di fama (soprattutto in Shakespeare), la quale sviluppa principalmente una lettura sull’ossessione della bellezza piuttosto che sull’aspetto erotico del dramma. Una drammaturgia lineare incentrata sul rapporto della giovinezza perduta rispetto ad una vecchiaia inesorabile e prossima alla morte. La scena è un continuo mutamento, resa ottima da un gioco di luci di altissimo livello, nella quale predomina il mare, lo stesso che nel finale, mentre in un angolo Aschenbach muore, rapisce Tazio in un fascio di luce accecante. Nulla è scandaloso, e nulla fa la Warner per rendere qualcosa di pruriginoso, la sua è una Venezia onirica e ancor più apprezzabile riesce a far recitare tutti straordinariamente dai ballerini al coro, magnifico quest’ultimo sia nell’insieme sia nelle molteplici parti solistiche. Altro trionfatore della serata è il protagonista John Graham-Hall che sostituiva l’indisposto Ian Bostridge. È stata una bellissima sorpresa conoscere artisticamente questo tenore cui va tutto il plauso di un canto raffinato e fraseggiato non meno di una caratterizzazione scenica da manuale. Altrettanto si deve ascrivere la prestazione di Peter Coleman-Wright nei numerosi ruoli previsti in locandina, sensibile e sfaccettato interprete. L’efficace controtenore Jestyn Davies contribuiva ad un cast di alto livello. Un particolare plauso agli allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala diretta da Frederic Olivier, perfetti e dal passo disinvolto, cui ovviamente spiccava il Tadzio di Alberto Terribile che nei più incantati volteggi ed esercizi ginnici, rendeva perfettamente il ruolo del giovane volutamente non malizioso. Edward Gardner è equilibratissima bacchetta che riesce nella narrazione quanto nell’atmosfera ricca di colori e tensione, amalgamando a regime percussioni e pianoforte. L’orchestra lo segue con minuziosa perizia rasente la perfezione. Al termine un successo clamoroso con autentiche ovazioni per il giovane ballerino e Graham-Hall, è molto raro un tale trionfo per un’opera “contemporanea”, e siamo particolarmente entusiasti per la splendida riuscita.

SALOME [Lukas Franceschini] Trieste, 17 marzo 2011.
Salome, il mito della seduzione lunare, è stata eseguita al Teatro Verdi nell’allestimento di Gabriele Lavia, che inaugurò la stagione lirica 2010 al Teatro Comunale di Bologna, proprio nei giorni in cui si festeggiava il 150° dell’Unità d’Italia ed essere a Trieste la sera del 17 marzo non è come essere in qualsiasi altra città italiana.
Non è necessario narrare i motivi per cui questa bellissimo capoluogo abbia un rapporto molto particolare con la nazione, pertanto raggiungere il teatro sito sul lungomare e vedere tutte quelle bandiere sia alle finestre sia sui pennoni delle barche ancorate nella darsena, era particolarmente spettacolare. In piazza dell’Unità d’Italia (guarda caso!) le luci tricolori illuminavano i palazzi rendendo ancor più festante questa particolare ricorrenza. In teatro molto pubblico per una recita in abbonamento. Il sovrintendente, prima dell’esecuzione, fa il suo ennesimo appello sulle scellerate scelte governative relative ai tagli del Fus. Sull’argomento non è il caso di aggiungere altro! A luci ancora accese entra il direttore Stefan Anton Reck e il coro (non previsto nell’esecuzione) si colloca lungo i corridoi della platea per eseguire l’Inno Nazionale, l’intero teatro canta accoratamente come mai mi era accaduto di ascoltare. Inizia l’opera, Salome, non propriamente un titolo patriottico ma ascrivibile a livello universale per aspetti musicali come una delle più grandi composizioni del secolo scorso, al cui esordio creò anche scandalo. Perché scandalizzarsi? Non è forse comune a tante epoche che una vedova regina sposi il fratello del defunto marito? Che una giovane viziata principessa voglia il “gioco” che non possiede? Che una giovane fanciulla precocemente sensuale non stuzzichi pruriginosi desideri? Semmai al tempo questi argomenti erano chiacchierati, ma non resi pubblici, figurarsi rappresentati in teatro! Pare che il Kaiser Guglielmo disse “Questo Strauss vuole rovinarmi!”. Gabriele Lavia crea uno spettacolo lunare ed avvincente, dove la luna è sia luce che illumina i peccati di Babilonia, sia specchio della città corrotta, ma è il drappo rosso all’inizio a farci capire che assisteremo ad una storia di sangue. La scena è spoglia ed accurata, sempre in penombra, ma un fremito c’invade quando dalla cisterna è estratto con una sorta di carrucola il corpo decapitato di Jochanaan! Il finale è ancor più inimmaginabile e trova la sua sublimazione quando la testa emerge dal sottosuolo squarciando il palcoscenico e allora la protagonista inizia quella tragica scena finale in preda al delirio e al desiderio vendicativo nei confronti del profeta. Pregevolissima la caratterizzazione dei personaggi, un Erode isterico e nevrotico era impersonato dal bravissimo Robert Brubaker, l’altezzosa Herodias era una viscida e matronale Marta Moretto, Jochanaan, Thomas Gazheli, a parte un inizio sfasato si poi ripreso offrendoci una figura virile di alta carica erotica. Bene tutte le parti di fianco nelle quali emergevano il Narraboth di Michael Heim e il paggio vocalmente autorevole di Elena Traversi, una cantante che ci auguriamo di sentire presto in altro repertorio. Molto sensuale la protagonista Ingela Brimberg la quale gioca la carta della giovane leggiadra ed emotivamente capricciosa, la voce è bella e ben gestita in tutta la sua gamma e sfumature, disimpegnata al massimo scenicamente con grande garbo ed avvenenza arriva perfino ad un nudo integrale. Anton Stefan Reckè un direttore preciso e molto fantasioso, tempi serrati, grande cura della sonorità sempre accese ma mai debordanti e particolare ritmo ha avuto sia la danza dei sette veli sia la grande scena finale, l’orchestra lo segue con attenzione e perizia. Lunghi e convinti applausi hanno giustamente premiato la produzione.

MACBETH [William Fratti] Piacenza, 18 marzo 2011.
Il Teatro Municipale di Piacenza conclude la Stagione Lirica 2010-2011 con uno spettacolo davvero terribile, riproponendo l’allestimento di Macbeth di Giuseppe Verdi creato una decina di anni fa da Giancarlo Cobelli, con un cast purtroppo inadeguato.
Nel 2001 le rappresentazioni del melodramma verdiano ad opera del regista milanese avevano già suscitato un certo scalpore e anche allora la rosa dei cantanti protagonisti era di un livello insufficiente, ad eccezione di una straordinaria Francesca Patrané e della stella nascente di Alessandra Rezza nella seconda recita. È importante e lodevole che oggi i teatri si adoperino per rispolverare vecchi allestimenti allo scopo di risparmiare su scenografie e costumi, ma sarebbe opportuno correggere il tiro, aggiustando, tagliando e ricucendo dove necessario. Certe intuizioni di Cobelli sono molto interessanti, come il ripristino dell’Ecate shakespeariana (che è qui rappresentata da una figura che sembra un angelo della morte transessuale) e delle tre streghe al posto dei tre cori; oppure l’idea di strappare le apparizioni dal grembo delle megere barbute (anche se uno spettatore piacentino si è lamentato di avere appena cenato). Di dubbia comprensione può essere la scelta dei costumi, oppure la visione del banchetto, più simile ad una carneficina che ad una festa, apparentemente più adatti al tempo delle invasioni barbariche; ma se si pensa realmente al tempo e al luogo in cui è vissuto il Re scozzese – nella prima metà del Mille, nel freddo nord dell’isola britannica abitata dai Celti – e volendo calcare la mano a sottolineare ulteriormente la crudeltà dei coniugi reali, forse tutto assume un senso. Restano indecifrabili i collant autoreggenti e le scarpe col tacco indossate dalla Lady a fine secondo atto, come pure gli stivali e il soprabito da motociclista di Macbeth. Ancora più enigmatica l’ambientazione da manicomio di inizio Novecento durante la scena della pazzia.
I cantanti non contribuiscono certamente a risollevare le sorti dello spettacolo.
Dario Solari, come già detto in altre occasioni, è un baritono in possesso di un bel timbro e di una linea di canto molto lirica, ma le sue qualità non gli permettono ancora di risolvere la difficile parte di Macbeth, che non è fatta soltanto di “Pietà, rispetto, amore” che risulta essere ben eseguita, ma anche della gran scena e duetto “Mi si affaccia un pugnal”, del banchetto, dell’atto delle apparizioni, dove sarebbe necessaria una vocalità più spiccatamente drammatica.
Susanna Branchini è una Lady Macbeth poco intonata e dedita all’urlo. Si è già ribadito che gode di un bel colore e di un timbro più che apprezzabile, ma le lacune tecniche sono così numerose che rischiano di portarla in breve tempo alla totale rovina vocale. Il pubblico la disapprova a scena aperta sia dopo “La luce langue” sia dopo la scena della pazzia.
Pavel Kudinov, che da curriculum sembra essere una rivelazione – apparentemente in grado di risolvere ruoli che vanno dal Turco e l’Alidoro rossiniani, al Sarastro mozartiano, da Escamillo a Colline, fino al Requiem verdiano – tale da giustificare la sua presenza, si rivela possedere una vocalità più chiara di quella del baritono e di conseguenza le numerose note gravi sono totalmente assenti.
La situazione non migliora con il Macduff di Lorenzo Decaro, né con i comprimari, se non con le apparizioni e il sicario, ben eseguiti dai coristi Romano Franci, Gloria Contin, Alessandra Cantin e Daniele Cusari.
Aldo Sisillo dirige in maniera discontinua, molto rilassato per quasi tutta l’opera e decisamente troppo accelerato nelle strette di alcuni cori, come “S’allontanarono” e “Sparve il sol”. Interessante è la scelta di ripristinare l’aria della morte del protagonista mutuata dall’edizione di Firenze del 1847.
Sufficiente la prova del coro.

I VESPRI SICILIANI [William Fratti] Torino, 27 marzo 2011.
Giuseppe Verdi è l’artista che più di tutti ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di un’identità nazionale, a partire da quel Nabucco, dal coro del “Va’, pensiero, sull’ali dorate” in cui il popolo milanese si è subito immedesimato.
Il compositore delle Roncole, senza volere, ha continuato a dare voce al Risorgimento italiano con “O Signore, dal tetto natio” da I Lombardi alla prima crociata, con “Si ridesti il Leon di Castiglia” da Ernani, con “Patria oppressa! il dolce nome” da Macbeth, per poi musicare il testo di Goffredo Mameli “Suona la tromba” su commissione di Giuseppe Mazzini e fino a comporre appositamente La battaglia di Legnano, quasi a dare seguito alle Cinque Giornate di Milano. Ma l’opera che più di tutte, ancora oggi, sa risvegliare il patriottismo più puro è I vespri siciliani, giustamente scelta dal Teatro Regio di Torino per festeggiare il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Davide Livermore mette in scena uno spettacolo dalle tinte forti, decisamente attuale non solo per la trasposizione temporale alla contemporaneità, ma soprattutto per i messaggi che trasmette, ben evidenti in ogni punto della vicenda. Il regista parte giustamente dal presupposto che Verdi non pensava ad un preciso momento storico, ma all’Italia, al concetto di Unità e soprattutto a quello di Nazione. È chiaro che allestire I vespri siciliani nella versione originale duecentesca o nella tradizionale revisione Risorgimentale non ha più un senso. Davide Livermore si lascia ispirare dalla Strage di Capaci, dai problemi della mafia e del terrorismo, ma soprattutto dal sistema dei media, dalla cattiva informazione e dallo smantellamento culturale, che sostiene essere il nuovo invasore. Ecco perché lo spettacolo si conclude con l’immagine del secondo comma del primo articolo della Costituzione Italiana: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Un plauso va rivolto anche ai collaboratori del regista, dalle scene di Santi Centineo ai costumi di Giusi Giustino, dalle luci di Andrea Anfossi alle coreografie di Luisa Baldinetti e Cristina Banchetti. Lo spettacolo è indubbiamente di altissimo livello e tutti i teatri italiani in grado di ospitarlo sui propri palcoscenici, data la complessità tecnica, dovrebbero proporlo nei propri calendari dei prossimi anni. Solo alcuni nei andrebbero tolti o aggiustati, poiché disturbano l’eleganza che si conviene all’opera. Innanzitutto una gestualità talvolta eccessivamente irruente, soprattutto negli schiaffi e negli spintoni, mal giustificata dai forti messaggi che vengono trasmessi. In secondo luogo le coreografie di secondo atto, che distraggono notevolmente, oltre a essere poco piacevoli e quasi ridicole, contrariamente  a quelle del finale, molto apprezzabili e perfettamente inserite nello sviluppo della vicenda. È un vero peccato che al termine della serata il regista sia stato contestato da una parte del pubblico. Si può fischiare uno spettacolo fatto male, questo è lecito. Ma non è corretto protestare qualcosa o qualcuno solo per la diversità di idee o di vedute. Questi Vespri possono non piacere, è soggettivo, ma sono stati fatti davvero bene, con tutti i crismi che convengono ad una produzione internazionale. E questo è un dato oggettivo.
Maria Agresta – rivelazione dello Sferisterio Opera Festival 2010 e del Festival Verdi 2010, nelle vesta di Odabella nell’Attila verdiano – esegue il difficile ruolo di Elena con la giusta perizia, riuscendo laddove colleghe più esperte e blasonate hanno parzialmente fallito. Va innanzitutto specificato che in quest’occasione, a parte i ballabili, è prevista l’edizione integrale, senza i tagli tradizionali nei da capo o nelle seconde strofe. Inoltre Sondra Radvanovsky ha dovuto cancellare molte recite a causa di un’indisposizione, passando il testimone alla Agresta. Il giovane soprano di origine cilentana riesce a dispiegare in maniera omogenea e generosa tutte le pagine della lunga partitura, col giusto accento drammatico nei primi atti, passando alle tinte patetiche del quarto e ai colori tragici del finale, attraversando con intensità l’attesissima “Arrigo! Ah! Parli a un core” e con vigore misurato la parentesi del bolero. Nulla è lasciato al caso. Tutto è estremamente corretto. Se Maria Agresta continuerà nello studio, accettando ed affrontando in maniera intelligente i ruoli che le saranno offerti, solo l’esperienza potrà migliorare ulteriormente il suo canto e l’espressività del suo fraseggio.
Gregory Kunde si dimostra essere chiaramente all’altezza di se stesso. Forse manca della morbidezza e del fraseggio più tipici del canto italiano, ma ciò non è certo motivo di critica. Il tenore americano affronta la difficile partitura con la competenza tecnica del belcanto, acuti saldi e potenti, omogeneità nel passaggio e in tutta la linea di canto, nonché intensità nell’interpretazione e ne risulta vincitore. La parte di Arrigo è molto lunga, prevedendo quattro duetti, due arie, due concertati e un terzetto e ha una tessitura molto alta, ma Kunde la svolge senza segni di cedimento. “Giorno di pianto” è accolta con un lunghissimo e meritatissimo applauso del pubblico, ma meno apprezzata – ingiustamente – è “La brezza aleggia intorno”, generalmente mai eseguita, forse perché prevede un re sovracuto che qui viene correttamente eseguito in un falsetto molto sonoro e uniforme alla vocalità.
Franco Vassallo è un baritono versatile, che sa sposare l’eleganza del belcanto all’accento verdiano con estrema naturalezza. Lo sviluppo psicologico di Monforte non è semplice, ma il baritono milanese sa creare un proprio personaggio seppur in maniera non troppo marcata. La vocalità è adeguata e denota i giusti colori, come pure la linea di canto è ben equilibrata. “In braccio alle dovizie” è resa con lirica intensità, anche se nel duetto successivo qualche nota è parsa calante.
Ildar Abdrazakov è un professionista del canto che conosce chiaramente i proprio limiti e sa arrivare ai giusti compromessi per mantenere alto il livello della propria prestazione. L’aria di sortita “O tu, Palermo, terra adorata” mostra immediatamente le sue naturali doti liriche e cantabili, la morbidezza del suono, le capacità interpretative e di fraseggio, come pure gli ostacoli nelle note più gravi, poco sonore, a tratti quasi parlate, ma comunque eseguite come da spartito. Forse la frase più debole è “Sì, parla! Se tu l’osi!” nel terzetto finale, ma nulla di tutto ciò guasta l’eccezionale esecuzione di questo complesso personaggio verdiano.
I protagonisti sono tutti meritatamente accolti da un pubblico giustamente ed estremamente caloroso. Un plauso va anche ad ognuno dei numerosi comprimari, che hanno eseguito la propria parte che la giusta efficacia, contribuendo in prima persona alla buona riuscita dello spettacolo.
Gianandrea Noseda dirige l’Orchestra del Teatro Regio di Torino con precisione, accuratezza e polso ben saldo, ottenendo un ottimo risultato. Fin dall’ouverture si nota chiaramente che la decisione del direttore è quella di ripulire la partitura da tutti gli effetti bandistici che talvolta assillano le orchestrazioni verdiane, oltre a ricercare colori altamente espressivi. Il concertato che conclude terzo atto è eseguito in maniera magistrale, fino a commuovere, soprattutto all’attacco di “O Patria adorata” che potremmo considerare alla stregua di un Inno Nazionale. Altrettanto significativi sono “Addio, mia patria, invendicato” di quarto atto e il terzetto conclusivo dell’opera.
Ottima è anche la prova del Coro del Teatro Regio guidato da Claudio Fenoglio.

DIE ZAUBERFLÖTE [Lukas Franceschini] Milano, 30 marzo 2011.
Un brillante successo ha arriso alla nuova produzione de Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart al Teatro alla Scala.
Il Flauto magico è opera dalle molteplici sfaccettature: la mitologia dell’antico Egitto, una varietà di costumi esotici, l’aspetto massonico, ma anche la storia favolistica, la saggezza e il finale lieto che appaga i buoni e i coraggiosi per le loro azioni. Tipico singspiel tedesco ha soprattutto in Papageno la macchietta quasi da burattino, sempliciotto ma simpatico, che eccede meravigliosamente nella sua esuberanza. Infine, la luce che segna il confine tra ciò che è bene rispetto al male rappresentato dalle tenebre. Il bellissimo spettacolo di William Kentridge si basa su disegni alla lavagna ove gli aspetti diversi della drammaturgia sono tracciati con sovrapposizioni che danno luogo alla metafora del positivo e del negativo, uno spartiacque che nell’opera pongono la Regina della notte e Sarastro agli antipodi. L’ambientazione onirica ci avvolge in un fanciullesco ricordo fiabesco, accompagnandoci per tutta l’opera con le prove cui Tamino deve attenersi in una fresca e lunare ambientazione. Interagisce la poesia, l’oriente (con la simpaticissima caratterizzazione di Monostatos), e se i sacerdoti non sono né tali né tanto meno massoni ma membri della maschilista Royal Geographic Society nulla toglie al loro permeare. L’efficacia è di una regia certo tecnologica ma fedelmente legata alla musica, dove le squisite scene dello stesso regista assieme a Sabine Theunissen rendono ancor più avvincente ed avventurosa la storia, non sottovalutando gli sfarzosi costumi di Greta Grobis, le divertenti proiezioni di Catherine Meyburgh e le indovinate luci di Jennifer Tipton. È possibile oggi ascoltare un nuovo, o meglio, diverso Zauberflöte? Ebbene sì! In uno scritto di René Jacobs (tratto dalla recente edizione Harmonia Mundi) ci illumina circa la prassi esecutiva dell’epoca, dove il parlato s’innesca nel canto e i recitativi sono spesso accompagnati da una strumentazione e da cadenze cantate poi soppresse. Nulla toglie alla musica di Mozart e al libretto di Schikaneder anzi, abbiamo un esempio di grande recitazione che rende i dialoghi più vivi e vari. L’idea di usare una grande varietà di strumenti a percussione per produrre effetti sonori drammatici è legato alla partitura originale dove erano descritti con precisione. L’aggiunta e la ricerca poi di materiale originale del compositore per sostituire frammenti di pezzi da lui stesso scelti in precedenza ma poi eliminati non è altro che un rinnovamento singolare della partitura. L’ottima bacchetta di Roland Böer è incisiva, ritmica, colorata, di grande tenuta teatrale e affascinante nel tempo e nel brio, ove necessita. La compagnia di canto era di ottima solidità professionale, in essa non era nessuno di eccezionale, salvo il Papageno di Alex Esposito, ma nel complesso abbiamo avuto un’ottima performance con validi cantanti. Saimir Pirgu era un sicuro e valente Tamino, Genia Kuhmeier una raffinata e delicata Pamina. Albina Shagimuratova era più virtuosa e a suo agio nella seconda aria rispetto alla prima, nella quale abbiamo notato alcune incertezze. Non particolarmente possente ma accettabile il Sarastro di Gunther Groissbock, contrariamente alla scarsa incisività di Detflet Roth nel ruolo dell’Oratore. Simpatica la Papagena di Alish Tynan, bravissimo Peter Bronder nel caratterizzare un Monostatos ieratico e perfido. Infine, Alex Esposito del quale non sono a conoscenza se debuttasse nel ruolo, ma poco conta, il giovane cantante italiano ha qui firmato una delle sue migliori esibizioni e non saprei se è meglio il cantante, voce ben impostata, rotonda, abile vocalista, o l’attore eccelso per gusto, teatralità e vivacità. I tre geni, questa volta tre solisti separati e non i soliti Tolzen Knabenchor, erano efficaci, come altrettanto le spassose e vitali tre dame. Il teatro era esaurito in ogni ordine di posti; alla fine un pieno successo e giustamente meritato.

LES PÊCHEURS DE PERLES [William Fratti] Verona, 5 aprile 2011.
È prassi comune asserire che Bizet abbia raggiunto la sua massima espressione musicale con Carmen, ma Les pêcheurs de perles non è certo da considerarsi opera di minore ispirazione. Forse gli schemi di composizione sono più semplici, la drammaturgia è pressoché assente, trattandosi in primo luogo di un lavoro ideato a seguito della moda dell’orientalismo diffusa in Francia e in Europa a quell’epoca, ma l’intensità di certe pagine, molto vicine al sublime Te Deum, e l’eleganza di molti passaggi, ne fanno certamente un capolavoro.
Lo spettacolo messo in scena al Filarmonico di Verona da Fabio Sparvoli non rende sicuramente onore alla nobile partitura, anzi tende a sminuirla. Tanto nei protagonisti, quanto nel coro la gestualità è ridotta ai minimi termini, a tratti quasi assente, e questa lacuna è fastidiosamente notevole. Inoltre la vicenda parla quasi esclusivamente di sentimenti, ma non uno sguardo, non un movimento, cercano di metterli in risalto e ciò porta a notare ancor di più la mancanza di azione. Il vuoto drammaturgico dell’opera è giustamente riempito dalle coreografie ideate da Maria Grazia Garolfi, ma che sfortunatamente non sono adatte né alla musica, né all’ambientazione storica, apparendo avulse da tutto l’insieme. Addirittura nel finale i danzatori, abbigliati alla stregua di avatar e divinità Indu, si prodigano in un ballo che ha più il sapore maori piuttosto che induista.
Anche le scene di Giorgio Ricchelli non rendono giustizia all’opera, troppo semplici in primo atto – un solo tronco d’albero secco poggiato sul pavimento-spiaggia – quasi da sembrare una versione semiscenica. Si arricchiscono lentamente col procedere dell’opera, ma paiono ricordare più Angkor in Cambogia piuttosto che Anuradhapura e Polonnaruwa in Sri Lanka.
I costumi di Alessandra Torella sono chiaramente sbagliati: tutto lo spettacolo sembra voler dare un’impronta realistica, ma nessun personaggio, né alcun corista, è certamente abbigliato nella corretta maniera tamil o singalese. Gli uomini indossano casacche e pantaloni che poco somigliano ai kurta o ai salwar kamiz, mentre le donne portano magliette corte, gonne e lunghi veli, molto lontani da quelli che dovrebbero essere sari o salwar kamiz e dupatta. Nemmeno le luci di Vinicio Cheli sanno creare la giusta suggestione.
La direzione di Frédéric Chaslin è nella norma, senza infamia e senza lode, e passa abbastanza inosservata. L’esibizione del Coro dell’Arena di Verona diretto da Andrea Cristofolini è buona nel canto, ma davvero ridotta ai minimi termini per ciò che riguarda l’interpretazione.
L’idea che uno spettatore si può fare nell’assistere a questa rappresentazione è quella di uno spettacolo approssimativo e messo in piedi in pochi giorni e con poche prove.
Nino Machaidze riesce a portare a casa la pelle nel ruolo di Léïla e ottiene buoni consensi dal pubblico, ma non è propriamente limpida, né corretta nell’esecuzione. Innanzitutto la voce mostra segni di usura e ciò dovrebbe accadere dopo almeno venti o trenta anni di carriera, quaranta per alcune professioniste. Il giovane soprano georgiano è in difficoltà negli acuti, peggiora ulteriormente nei sovracuti, mentre il registro grave appare molto vuoto.
Antonino Siragusa dà prova della propria professionalità, ma da un tenore del suo calibro e vocalità ci si aspettava di più. La linea di canto è ottima, gli acuti sempre saldi e limpidi, ma le note basse sono molto deboli e le mezzo voci e i filati, che tutti attendevano in “Je crois entendre encore”, non sono arrivati.
Luca Grassi parte in sordina, con voce molto opaca e spesso coperta dalla compagine orchestrale. Si riprende fortunatamente in terzo atto ed esegue l’aria “L’orage s’est calmé… O Nadir, tendre amis de mon jeune âge” e il successivo duetto in maniera corretta.
Paolo Pecchioli è un efficace Nourabad, purtroppo costretto in un costume più adatto ad un Maharaja che ad un sacerdote Indu.

LES PÊCHEURS DE PERLES [Lukas Franceschini] Verona, 5 aprile 2011.
La produzione de Les pêcheurs de perles di Georges Bizet al Teatro Filarmonico di Verona si è rivelata un’occasione mancata.
L’opera è da ascrivere alla tipica opéra-lyrique tanto in voga non solo in Francia in quel periodo (siamo nella seconda metà del XIX secolo), ebbe particolare diffusione accoppiata all’ambientazione esotica, altra moda del momento, che produsse titoli di levatura più importante come Lakmé, La jolie fille de Perth, Le Roi de Lahore per citarne alcuni, ma non riducono le qualità dei Pescatori. Prima opera del compositore ventiseienne, non cronologica essendoci prima diverse incompiute, operette e opere poi postume, ebbe un discreto successo agli esordi (1863) ma cadde immediatamente nell’oblio, per essere ripescata anni successivi e dopo la morte di Bizet curiosamente alla Scala e in lingua italiana. Les pêcheurs de perles denota indubbiamente la precoce vena compositiva dell’autore dal temperamento squisitamente lirico, l’avvolgente mondo fantastico ed esotico nonché un piccolo sguardo al mondo della danza rifacendosi in maniera diversa al grand-opéra, che attirò l’attenzione e la preferenza di tenori come ad esempio Enrico Caruso, Tito Schipa, Jussi Bjoerling e Beniamino Gigli. Semmai il limite dell’opera è da individuare in un libretto piuttosto maldestro e una drammaturgia non perfettamente calibrata, ma musicalmente è un puro gioiello per intuizione e innovazione. Tuttavia la regia di Fabio Sparvoli, rema contro quest’aspetto musicale concentrandosi soprattutto sulla prospettiva drammaturgica, appunto debole, e non crea quel mondo fantastico ed illusorio tipico dell’ambientazione. La staticità dei movimenti contribuisce quasi ad un senso oratoriale della vicenda, che contrasta significativamente con le intenzioni dell’autore. I personaggi non sono focalizzati o meglio sviluppati da un senso narrativo coinvolgente e questo determina assieme alle troppo minimaliste scene di Giorgio Ricchelli uno spettacolo a grandi linee banale e per nulla evocativo di quell’ambiente esotico che è il denominatore dell’opera. Bellissimi i costumi di Alessandra Torella, raffinati e pregevoli, convenzionali e troppo minimaliste, soprattutto quelle del Brahma, le danze coreografate da Maria Grazia Garofali. Sul podio dell’Orchestra dell’Arena di Verona Fréderic Chaslin dirige con onesta professionalità non spingendosi oltre una narrazione serrata e piuttosto incisiva, ma trascurando l’aspetto onirico ed esotico. Il cast delude marcatamente a cominciare da Antonino Siragusa spesso nasale e privo di quell’abbandono estatico che la parte richiede. La voce è sempre bella, luminosa e anche vibrante ma le mezze voci sono assenti e forse il ruolo non era sufficientemente collaudato. Nino Machaidze, soprano che pratica tutti i più grandi palcoscenici nei ruoli lirico leggeri, accusa una voce centrale importante e tutto sommato ben amministrata, purtroppo è il settore acuto ad essere alquanto sgangherato per non dire limitato, pertanto quando tenta passi oltre i suoi limiti, risulta stridulo. Luca Grassi sarebbe un valido Zurga se riuscisse a migliorare sfumature ed accenti, l’ho sentito cantare molto meglio pertanto spero si sia trattato solo di una serata non felice. Discreti i brevi interventi del cavernoso Nourabad di Paolo Pecchioli. Teatro stranamente ancora una volta mezzo vuoto, eppure il titolo è così raro che avrebbe dovuto richiamare maggior pubblico, ma quello presente è stato molto caloroso nei confronti dell’intera compagnia.

IL BARBIERE DI SIVIGLIA [William Fratti] Parma, 13 aprile 2011.
Il Teatro Regio di Parma conclude la breve Stagione Lirica 2011 col titolo più celebre e amato di Gioachino Rossini, nello spettacolo firmato da Stefano Vizioli nel 1995, con scene di Francesco Calcagnini, costumi di Annemarie Heinreich e luci di Franco Marri.
L’allestimento è vistosamente datato, ma è costruito con tale precisione di movimenti e tale naturalezza nelle gestualità da attirare l’attenzione solo sui personaggi e potrebbe davvero essere rappresentato su un palcoscenico vuoto, nella scatola nera, e ciò mostra in tutto e per tutto la bravura del regista e la sua abilità nel compiere il proprio mestiere. Inoltre molte idee arricchiscono la vicenda, come la partecipazione alla serenata di Almaviva per Rosina di alcuni professori d’orchestra in costume, saliti dalla buca sul palcoscenico per mezzo di una scala a pioli; la partecipazione in scena del Maestro al cembalo Simone Savina; Dmitry Korchak al pianoforte di Savina nella prosecuzione della lezione di canto di Almaviva e Rosina.
Alla prova generale di mercoledì 13 aprile, la direzione di Andrea Battistoni, giovane talentuoso già noto al pubblico parmigiano per la coinvolgente esecuzione di Attila al Teatro Verdi di Busseto durante il Festival 2010, è molto precisa e accurata, toccante durante la sinfonia, più maestosa che briosa, molto personale e di notevole interesse. La mano del Maestro veronese è ben salda, il polso è sicuro, il gesto è chiaro e mantiene un buon equilibrio tra buca e palcoscenico, perdendo mai di vista i solisti, che hanno sempre gli occhi puntati su di lui.
Luca Salsi è un Figaro giovane e frizzante e mostra tutta la brillantezza e lo squillo di cui gode la sua vocalità. Forse non possiede tutte le sfumature e gli accenti di uno specialista del repertorio rossiniano, ma sa eseguire il ruolo con la dovuta professionalità che sempre lo contraddistingue. I numerosi acuti sono limpidi e ben saldi, la voce è giustamente mantenuta in punta e l’interpretazione è briosa e vivace. Il pubblico conterraneo lo accoglie con meritato calore, sia dopo la famosissima cavatina d’ingresso, sia al termine della rappresentazione.
Ketevan Kemoklidze veste i panni di una Rosina piccante, tanto “dolce, amorosa” quanto “vipera”. La voce del giovane mezzosoprano georgiano è piacevolmente brunita, pur godendo di acuti facili e ben saldi. Talvolta sembra ingrossare le note gravi, ma presumibilmente si tratta di una peculiarità nella sua impostazione, più che di un’imprecisione. In effetti la tecnica di canto della Kemoklidze è un po’ particolare, anche sulle agilità e i piani, ma si nota chiaramente che è consapevole di ciò che fa. La dizione è pressoché perfetta, come se fosse di madrelingua italiana.
Dmitry Korchak, annunciato indisposto, è un Almaviva estremamente corretto e generoso nella voce e nell’interpretazione, nei cromatismi e nell’uso dei colori, ed esegue anche la lunga e difficile aria finale “Cessa di più resistere” spesso tagliata da molti suoi colleghi, ricavandone lunghi e meritati consensi. Il fraseggio espressivo, le raffinate mezze voci, gli acuti aggraziati e la presenza scenica arricchiscono ulteriormente il suo personaggio.
Bruno Praticò è un Don Bartolo davvero spassoso e divertente e porta in scena certamente una delle migliori interpretazioni di questo ruolo rossiniano. Molte sono le gag esilaranti e numerosi gli interventi dialettali che caratterizzano localmente il personaggio. Purtroppo la voce non è più quella di un tempo, soprattutto nell’intonazione e nell’appoggio, ma la simpatia e le abilità di attore fanno perdonare certe mancanze nella vocalità.
Giovanni Furlanetto veste i panni di un Don Basilio piacevolmente insolito, più ingenuo abbindolato che furbo imbroglione. Il basso buffo porta in scena un personaggio davvero divertente e una vocalità spiccatamente belcantista, con tutta l’eleganza che ne consegue.
Natalia Roman, nel ruolo di Berta, porta sul palcoscenico del Teatro Regio di Parma tutta la sua simpatia, amalgamandosi perfettamente al divertente contesto ed è accolta molto calorosamente dal pubblico, più per l’interpretazione che per il canto, che non è sempre perfetto. Purtroppo gli acuti non sono molto puliti e ciò è molto evidente tanto durante l’aria “Il vecchiotto cerca moglie”, in cui manca anche il tipico vibrato rossiniano, quanto nei concertati di secondo atto.
Completano il cast Vittorio Prato e lo spassoso Noris Borgogelli nelle vesta di un assonnatissimo Ambrogio. I solisti sono accompagnati come sempre dall’eccellente Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani.

TURANDOT [Lukas Franceschini] Milano, 13 aprile 2011.
La nuova produzione dell’opera Turandot di Giacomo Puccini al Teatro alla Scala ha lasciato dell’amaro in bocca rispetto le attese.
Innanzitutto c’è da rilevare se era opportuna una nuova produzione poiché la precedente, peraltro molto bella, di Keita Asari era stata utilizzata solo due volte, in aggiunta ad un momento economicamente così difficile sarebbe stato il caso di riutilizzarla. Al contrario, ci propongono questo nuovo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti il quale ha una bellissima intuizione, il sogno di Calaf, tutta la fiaba è un sogno del Principe ignoto e la città Imperiale sale dal basso come in un magico incanto. Il momento magico è tutto qui e nel complesso lo spettacolo non è realizzato. Luci sempre scure, costumi anche belli per quanto ci è stato possibile vedere, eccetto quello di Calaf, il coro è statico e pure i protagonisti in una scena più da fotografia che da spettacolo operistico. Troppe le rimembranze cinematografiche tali da rendere la scena un dejà vu. Ciò che manca in questo spettacolo è la magia di una fiaba, risolta come una storia drammatica dove la tragedia è del tutto assente perché Puccini scrisse un’opera astratta, epica. Turandot è una principessa proiettata in schermo gigante nel primo atto, lontana giustamente, ma nel secondo non vi è l’entrata mirabile che ci aspetterebbe, lei è circondata da ancelle guerriere più simili a certi cartoni animati nipponici che da soavi ed eteree fanciulle al servizio della sacra figura imperiale figlia di Altoum. Il grande momento degli enigmi vede i due protagonisti sullo stesso piano a poca distanza e questo va contro il senso logico oltre ad una gestualità da saggio scolastico Poco sviluppata la figura della “martire” Liù, piuttosto banale l’assieme dei tre ministri con proiezioni che ormai sono soluzioni troppo abusate. Il finale non è l’apoteosi di un amore ma il ritorno di Calaf al suo sogno, e questo finale non trova coerente corrispondenza con il libretto che tassativamente necessita del lieto fine. Al mio secondo incontro con Barberio Corsetti nell’opera penso che il regista non abbia nelle sue corde la concezione del teatro operistico essendo banale se non insignificante e questo a scapito d’idee anche originali ma non realizzate. Sul podio dell’orchestra della Scala tornava Valery Gergiev il quale ci entusiasma assai nel repertorio russo, meno in quello italiano. Il gesto è sciuro ci mancherebbe ma è assente lo scavo, il colore, gli effetti sonori, una direzione tuttavia personale ma poco fantasiosa, quasi inerme, dove il settore archi è notevolmente sovrastato dalle percussioni e il ritmo è dettato dalla fragorosa orchestrazione dei grandi momenti di violenta e robusta compagine sinfonica. Lo segue un’orchestra anche attenta e precisa ma abbiamo sentito di meglio e sappiamo che essa è capace di ben altro. Notevolmente imbarazzante il cast. Maria Guleghina è oggigiorno improponibile nel ruolo in titolo, e probabilmente in molti altri, troppi gli aggiustamenti, troppe le omissioni di una voce ormai logora ed incontrollabile la cui carenza tecnica non le permette di sopperire ad un centro vacillante, un grave quasi afono e un registro acuto rasente l’urlo. Marco Berti è corretto ma un Calaf più noioso non lo ricordo! Egli canta tutto forzato ed aperto, svettante nell’acuto ma quando deve scoccare frecce taglienti (Nessun dorma) le lascia riposte. Liù è una scialba Ekaterina Scherbachenko, Marco Spotti, non in serata, interpretava un grezzo e stentoreo Timur. Le tre maschere non erano ben assortite, e la scena prima del II atto è stata caratterizzata da notevoli imprecisioni sia vocali sia nei tempi, da ascrivere inoltre la mediocrità dei singoli Angelo Veccia, Carlo Bosi e Luca Casalin. Buona la prestazione del coro anche se non sempre in sintonia con il podio. Teatro esaurito ma molto perplesso, nessun applauso dopo le arie, in una Turandot! Due sole chiamate alla fine determinano che questa produzione non ha convinto, e non si capisce perché sia passata in assoluto silenzio, mentre alcune precedenti sono state violentemente disapprovate.

RISORGIMENTO!, IL PRIGIONIERO [Lukas Franceschini] Bologna, 15 aprile 2011.
Dittico azzardato quello proposto a Bologna: un’opera in prima assoluta Risorgimento! di Lorenzo Ferrero e Il Prigioniero capolavoro di Luigi Dallapiccola.
La prima è una commissione del Teatro Comunale in occasione delle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia e il soggetto, dello stesso compositore su libretto di Dario Olivieri, è tutto sommato interessante. Ci troviamo nella sala prove del Teatro alla Scala in quel 1842 mentre si prepara Nabucco che sarebbe andato in scena di lì a poco. I protagonisti sono la cantante Bellinzaghi (futura Fenena) poco entusiasta sia della parte sia dell’opera, la Strepponi (futura Abigaille) che invece trova lo spartito moderno ed avvincente. È presente il Marelli (impresario della Scala) preoccupato sia per l’eventuale veto della censura sia per la troppa simpatia della sua amante, la Strepponi, nei confronti di Verdi, il nobile Belgiojoso che porta il via libera della censura ed è un acceso risorgimentale monarchico, a differenza del Maestro sostituto infervorato repubblicano e sostenitore della nuova musica verdiana, infine compare Verdi (attore) a fine carriera il quale vede tutto in una specie di flash back del ricordo e recita un monologo molto pessimista sia per gli anni di fine secolo XIX sia per il futuro.Prigioniero_1 Peccato che tutto ciò sia condensato in circa quarantacinque minuti piuttosto astratti, con troppa debolezza perché accenna a tanto, ma sviluppa poco. Il libretto lascia a desiderare per una prosa logora e sbiadita, la musica troppo ripetitiva su spunti originali e poco cromatismo personale, pur non mancando in taluni momenti di una scrittura autorevole. Lo spettacolo non riesce ad andare oltre la banalità del libretto con scarsa fantasia, la scena abusata da oggetti, comparse e costumi bellissimi in stile “Piccolo mondo antico”. Nel cast, tutte comunque parti molto limitate, primeggiano Valentina Corradetti per veemenza ed interessante vocalità e Alessandro Spina un ironico e preciso Maestro sostituto. Orchestra garbata e direzione funzionale, anche se pareva che Mariotti credesse poco nello spartito. All’opposto la seconda opera, la quale mi ha lasciato notevolmente soddisfatto. Innanzitutto lo spunto di Dallapiccola che ricalca due autori francesi prendendo spunto dal terrore, il quale è sviluppato e vissuto di persona dalle leggi razziali italiane nel periodo 1938-1945. L’opera racconta l’ultima tortura inflitta a un prigioniero, condannato a morte dall’Inquisizione di Spagna e giustiziato dopo essere stato indotto a sperare nell’illusione della libertà. Atto unico di elevato spessore drammatico, per non dire sinistro e desolante, ove il potere politico-clericale prevale sempre. La scrittura è composta di momenti musicali lirici, anche se il contrappunto è tipicamente dodecafonico, il compositore era un fervente ammiratore di Schönberg, collocando così l’opera nel catalogo delle partiture sperimentali del novecento dove musica e libretto devono trovare un equilibrio soprattutto drammatico e nessuna delle due prevale ma proseguono inscindibili e paralleli. In questo caso Giorgio Gallione è molto più ispirato creando uno spettacolo veramente claustrofobico con le alte pareti che circondano il carcere del protagonista. Ottima caratterizzazione della madre ora fuori scena, ora issata su una balaustra cui è impossibile toccare il figlio, ormai perso al suo destino. I cromatismi di luce rendono con ancor più forza il senso di smarrimento e terrore che imperversa nell’animo del Prigioniero, un valente e teatrale Chad Armstrong. Di grande rilievo la prova di Valentina Corradetti nel ruolo della Madre, un po’ sopra le righe l’Inquisitore di Armaz Darashvili. Michele Mariottiè certamente a suo agio con questa partitura perché il suono è nitido e luccicante, gli strappi orchestrali incisivi e la narrazione ben controllata. La serata cui ho assistito era in abbonamento, ma il pubblico molto scarso, come stanno cambiando i tempi anche a Bologna, forse due opere contemporanee spaventano? Chissà! Comunque i presenti hanno tributato un caloroso successo.

IL BARBIERE DI SIVIGLIA [Lukas Franceschini] Parma, 20 aprile 2011.
Il Teatro Regio di Parma chiude la Stagione invernale, in attesa di presentare il Verdi Festival 2011, con una delle opere più popolari del melodramma italiano Il barbiere di Siviglia di Giochino Rossini.
Parlare del Barbiere in queste poche righe è superfluo oltre che riduttivo, sarebbe invece opportuno rilevare che la prassi esecutiva è lunga a morire, anche a Parma non si è eseguita l’opera nella sua integralità seppur con l’aggiunta del rondò del Conte d’Almaviva, il quale è il vero protagonista dell’opera. Eppure son passati più di quarant’anni dall’edizione critica di Alberto Zedda cui seguiranno le celebri recite scaligere con Abbado e lo spettacolo di Ponnelle, poi esportate in tutto il mondo. Quando lo stesso Abbado riprese il titolo, il Rossini che più ama, a Ferrara Musica nel 1995 la produzione tecnica fu affidata al trio: Stefano Vizioli, Francesco Calcagnini, Annemarie Heinreich, ed è proprio quest’allestimento che è stato ripreso al Regio. Lo spettacolo è molto classico, lineare, con arredamento essenziale, ma si fa ben gustare. Le luci sono però opache e qualche colpo “accecante” non sarebbe stato male. Bellissimi i costumi in perfetto stile settecentesco, vivace la recitazione, molto infarcita di gags cui contribuisce una compagnia affiatata sotto quest’aspetto. Sul versante canoro siamo scesi nella più blanda provincialità che purtroppo contraddistingue il teatro lirico in genere di questi tempi, arrivando perfino in un teatro di rango come quello parmense. Luca Salsi è un Figaro sui generis e non particolarmente raffinato, ma non fa nessun danno, anzi esegue tutto molto facilmente in apparenza e si distingue piuttosto per una verve teatrale efficace. Pare sia di Parma pertanto forse per campanilismo al termine raccoglie un’ovazione. Chissà per quale strano destino Ketevan Kemoklidze è giunta a Parma per cantare il ruolo di Rosina. Avvenente lo è e in un primo momento farebbe anche intendere una ragguardevole voce nonché uno stile appropriato. Ma basta già il duetto “Dunque io son” per capire la situazione è ben diversa. Si scoprono vistose carenze tecniche, un registro grave inesistente (per un mezzosoprano!) e quello acuto limitato. Possiede comunque di suo una pasta vocale anche interessante, ma piuttosto ibrida che abbisogna ancora di studio. Tutto sommato, ed entro certi limiti, il meglio lo da Dmitry Korchak il quale interpreta un onesto Almaviva senza eseguire iperboliche acrobazie. Il canto è aggraziato e delicato ma spianato e non fiorito come la parte richiederebbe. Esegue anche il celebre rondò “Cessa di più resistere” ma sarebbe stato opportuno evitare considerati gli inevitabili paragoni, comunque ne viene a capo e questo di per sé è già un risultato. Bruno Praticò è stato per parecchi anni il Bartolo di riferimento a livello internazionale, ora dopo quasi trent’anni di stimata ed onorata carriera i segni del tempo sono evidenti. I fiati si sono accorciati, la scioltezza del sillabato non più sciorinato a meraviglia con ovvi opportuni accomodamenti. Resta inalterata la bravura scenica e il brio teatrale che contraddistingue l’artista. Il Basilio di Giovanni Furlanetto mi è parso poco espressivo oltre che una certa usura vocale e un manierismo teatrale antiquato rispetto a sue recite pesaresi che ricordo con maggior entusiasmo. Completavano il cast: il funzionale Fiorello di Gabriele Bolletta (anche nel ruolo dell’ufficiale), la stridula ma spigliatissima Berta di Natalia Roman e il corretto Ambrogio di Noris Borgogelli. Negli ultimi tempi, inspiegabilmente, ho notato un significativo regresso dell’orchestra del Teatro Regio la quale quando non diretta da bacchette eccezionali dimostra evidenti limiti. È il caso di Andrea Battistoni, nominato da poco primo direttore ospite. Il giovane concertatore è talentuoso, ne parlai in proposito di una Bohème al Teatro Filarmonico di Verona, ma comunque ancora da forgiare anche se le premesse sono più che lusinghiere. Nel caso odierno possiamo ascrivere a suo merito un equo gusto, tempi serrati e teatrali e una dinamica anche affettata. Carente invece nell’articolazione tra i vari settori della compagine orchestrale, tanto da dover registrare che gli archi erano spesso sovrastati dalle percussioni e la bacchetta spesso accentuava tali differenze in particolar modo nei concertati, ove era evidente un certo frastuono. Ciò non toglie che in lui poniamo attese che speriamo siano confermate e che la sua direzione non è sicuramente di ruotine, tutt’altro, egli cerca per quanto è possibile una vena anche brillante di personalissima teatralità e ciò gli fa molto onore. Teatro esaurito in ogni ordine di posto e particolarmente festose le accoglienze da parte del pubblico.

AIDA [William Fratti] Firenze, 27 aprile 2011.
Il nuovo allestimento di Aida creato da Ferzan Ozpetek per l’inaugurazione della LXXIV edizione del Festival del Maggio Musicale Fiorentino forse non risponde alle attese, ma non può certamente essere definito una delusione o un brutto spettacolo.
La classicità regna sovrana, l’Antico Egitto è dipinto secondo tradizione e per la quasi totalità dell’opera nulla di nuovo è voluto e ideato dal regista di Istambul, se non per la quasi assenza di coreografie durante i primi due balletti, sostituite da movimenti mimici utili allo sviluppo della vicenda, e la sostituzione del celebre trionfo con un momento molto intimo, in cui una piccola schiava ferita dalla guerra e sporca di sangue irrompe in scena. Interessante è inoltre lo scavo della tomba di Aida e Radamès già dall’inizio dell’opera; poi la caduta di terra e sabbia nel finale, a sottolineare l’imminente agonia dei due protagonisti, da sempre celata dietro la chiusura del sipario. Le scene di Dante Ferretti sono classiche ed efficaci, i costumi di Alessandro Lai sono ricercati, soprattutto nei personaggi di Amneris, Ramfis e del Re, accompagnati da un trucco importante, le luci di Maurizio Calvesi sono suggestive e soprattutto descrittive, le coreografie di Francesco Ventriglia sono efficaci, molto pulite e nello stile del teatro danza nelle scene del Tempio e degli Appartamenti di Amneris, utili alla narrazione durante il trionfo, a omaggio della battaglia in cui gli Egizi hanno appena vinto gli Etiopi.
Zubin Mehta dirige con polso l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, sempre attento al suono e alla precisione dell’intera esecuzione, forse troppo, a discapito dell’effetto naturale e del realismo espressivo, costringendo i solisti a comprimere gran parte del fraseggio e dell’interpretazione a favore di una perfezione un po’ arida e meno coinvolgente.
La sera della prova generale del 27 aprile 2011 Maria José Siri porta sul palcoscenico del Teatro Comunale di Firenze un’Aida intensa e corretta, con una vocalità dal timbro morbido, anche se l’uso dei colori, le sfumature più tipiche del ruolo, i pianissimi e gli accenti drammatici non sono resi in maniera particolarmente significante.
Walter Fraccaro, alle prese con una parte che gli è vocalmente molto congeniale, sa cantare generosamente le pagine dedicate a Radamès, soprattutto nei passaggi più vigorosi, risultando particolarmente incisivo, ma ciò che gli manca sono l’eleganza e la classe, elementi inscindibili dal teatro dell’opera.
Mariana Pentcheva non ha forse ancora lo stile e le finezze più tipiche e caratteristiche della principessa Amneris, ma sa rendere un personaggio sufficientemente misurato e gode di una vocalità scura e brunita che certamente alza la qualità e il livello della sua prestazione. Pur avendo un registro centrale e le note gravi molto piene e ben sostenute, possiede una buona tecnica del passaggio all’acuto, che risulta ben omogenea alla sua linea di canto, ulteriormente sorretta da una buona intonazione.
Enrico Iori, dopo dieci anni dal suo debutto nel ruolo in occasione dell’Aida creata da Franco Zeffirelli a Busseto per il Centenario Verdiano del 2001, ha al suo attivo ben oltre centocinquanta recite nel ruolo di Ramfis e sa portare in scena un personaggio ben strutturato, con una gestualità più marcata e piacevolmente intensa. Inoltre la vocalità cantabile e la presenza scenica del basso sono certamente un valore aggiunto ad una performance di alta qualità.
Il suo conterraneo Roberto Tagliavini è alle prese con la parte del Re, ben eseguita nel canto e ben misurata nell’interpretazione.
Anooshah Golesorkhi è un Amonasro incisivo, soprattutto nel duetto con Aida di terzo atto, ma mostra diverse lacune nella zona grave, poco corposa, e dove sembra perdere di intonazione.
Concludono il cast le belle voci di Saverio Fiore e Caterina Di Tonno nei rispettivi ruoli del Messaggero e della Sacerdotessa.
Buona la prova del Coro diretto da Piero Monti.

QUARTETT [Lukas Franceschini] Milano, 28 aprile 2011.
Al Teatro alla Scala si da un’opera nuova, una prima assoluta che sotto taluni aspetti segna un evento.
Si tratta di Quartett su libretto e musica di Luca Francesconi che è tratta dall’omonima pièce teatrale del drammaturgo tedesco Heiner Muller a sua volta liberamente ispirata dal celebre romanzo di Piere-Ambroise-François Choderlos de Laclos “Les Liaisons dangereuses”. Commissione del Teatro alla Scala in coproduzione con i Festwochen di Vienna. Il libretto dello stesso compositore è in inglese, onestamente non si capisce il perché considerando che il dramma è in tedesco, il romanzo in francese e l’opera commissionata da un teatro italiano. Il romanzo ha ispirato numerosi autori e resta indelebile il ricordo del celebre film di Stephen Frears ma qui Francesconi s’ispira ad un lavoro molto più sottile e più intimistico di Muller, dove gli interpreti sono due (la marchesa e il visconte) e gioca sul doppio binario sia interpretativo sia musicale (con due orchestre). Porta dunque i personaggi a sdoppiarsi in ruoli alterni in una feroce partita giocata prevalentemente sulla retorica della passione sessuale che sfocia nell’autodistruzione. Il libretto sarebbe anche raffinato ma difficile apprezzarlo immediatamente nella lingua inglese e in un canto che parafrasa lo sprechgesang. Meglio la realizzazione musicale con una raffinata esecuzione di due orchestre, una in buca l’altra nel retropalco, dove l’inventiva di Francesconi si pone anche l’obiettivo di sfruttare l’aspetto informatico musicale nel nuovo linguaggio odierno e il pathos del supporto nella voragine cui convergono i due protagonisti ed è veramente efficace. Contribuisce alla resa il bellissimo spettacolo di Alex Ollè, con un cubo sospeso, dove i due eccellenti interpreti “giocano” la partita già persa in partenza per entrambi. Forte l’impatto teatrale ma debole la drammaturgia operistica, che rispetto alla prosa nell’opera è sintesi, che con difficoltà si sviluppa per ottantacinque minuti. Ottima la bacchetta di Susanna Malkki (prima donna sul podio della scala nella stagione d’opera) e del giovane Jena-Michael Lavoie, incomparabili di due cantanti Allison Cook, avvenente figura femminile, e Robin Adams messi comunque a dura prova da una scrittura impervia quanto non retorica. Molto pubblico in sala e buon successo.

AIDA [Lukas Franceschini] Firenze, 3 maggio 2011.
Il 74° Maggio Musicale Fiorentino si è aperto con una nuova produzione dell’opera Aida di Giuseppe Verdi ed inutile negarlo le attese erano particolarmente accentuate per il debutto nella regia lirica di un regista cinematografico di fama quale Ferzan Ozpetek.
Attese che sono andate puntualmente deluse perché un grande regista di cinema il più delle volte non è altrettanto nel teatro musicale e l’elenco di un passato anche recente è molto lungo. Ozpetek aveva come collaboratore alle scene un nome del calibro di Dante Ferretti, pluripremio Oscar, ma anche in questo caso non significa che calcare il teatro d’opera sia scontato. L’Aida che abbiamo visto al Teatro Comunale è molto tradizionale con statue e colonne girevoli, anche pregiate, ma sommariamente riduttive. Il colore ocra imperava su quel palcoscenico da cartolina un po’ troppo dejà vu. La regia era pressoché inesistente e pur comprendendo le difficoltà per rendere credibili drammaturgicamente alcuni cantanti è inaccettabile eliminare del tutto la marcia trionfale e con essa tutto l’aspetto “faraonico” dell’opera. La visione, a parte la libera espressione dei singoli, mancava di una coordinazione per le scene d’assieme, e la banalità in cui erano risolte talune entrate creava non poco imbarazzo. Non ho capito il significato della bambina insanguinata nella scena del trionfo (vittima innocente delle guerre?) che in ogni caso ci stava come i cavoli a merenda. I costumi di Alessandro Lai erano anche ricercati, a parte un faraone simile a “Star Trek”, ma non colpivano eccessivamente, della scena si è detto ma aggiungo che nel finale la sabbia che cala sulla tomba era di grande fascino. Le luci avrebbero dovuto essere meno statiche soprattutto nel notturno III atto, proprio qui dove regista e scenografo si son lasciati sfuggire l’occasione di un grande momento notturno. Imbarazzanti le coreografie di Franco Ventriglia: la danza dei moretti è risolta dalle ancelle con dei grandi specchi nei quali Amneris controlla il suo look, quelle del trionfo erano scontante e noiose. Sul podio c’era un Zubin Mehta non in stato di grazia, eh sì che Aida ormai dovrebbe essere parte del suo DNA. Egli legge l’opera sempre con accorato sentimento, particolare enfasi nei concertati, raffinato accompagnamento nei pezzi solistici, ma incredibilmente gli sfugge di mano in preziosi particolari come il brevissimo preludio del III atto, ruvido e meccanico, o l’enfasi della scena delle colonne al IV, molto sbiadito. Inoltre la relazione buca-coro era talvolta difettosa, resta comunque quel grande artista che sappiamo, probabilmente, non era la sua serata. Hui He, la protagonista, è artista di temperamento e molto espressiva, la voce è bella, nessun problema nel registro acuto, mezze voci e filati pregevoli, ci pregia pertanto di una vera appassionata interpretazione della schiava etiope. Marco Berti è un Radames quasi improponibile, ma forse il panorama non offre di meglio. Egli è legnoso, stentoreo, estraneo al fraseggio e al colore, sempre pronto a far notare i polmoni piuttosto che un gusto o un accento. L’Amneris di Luciana D’Intino segna il passo di una lunga carriera, la zona di passaggio è sfalsata tanto da costruire un personaggio su più voci e quella grave è molto gutturale, il registro acuto è limitato, l’interprete generica. Ambrogio Maestri parte male nel II atto con problemi d’intonazione, ma nel duetto del III riprende quota pur senza strabiliare. Nella decorsa routine i due bassi Giacomo Prestia e Roberto Tagliavini; bravi nei rispettivi piccoli ruoli Saverio Fiore e Caterina Di Tonno. Singolare fare due intervalli quando sarebbe stato più opportuno dividere l’opera in due parti. Teatro stipato, il titolo è di richiamo, pochi applausi durante l’esecuzione ma buon successo al termine.

LA TRAVIATA [William Fratti] Torino, 7 maggio 2011.
Il Teatro Regio di Torino torna alla ribalta con La traviata nell’allestimento di Laurent Pelly ripreso da Laurie Feldman, con scenografie di Chantal Thomas e luci di Gary Marder, già messo in scena durante la scorsa stagione, ma che ancora gode di vivacità, colore e gusto nelle intenzioni. L’effetto “cubo” porta a pensare alla mentalità dell’epoca, molto inquadrata, personificata nel ruolo di Giorgio Germont, che porta Violetta verso il suo triste ed inesorabile destino.
Patrick Fournillier è un bravo accompagnatore, sempre attento al palcoscenico e sa guidare l’Orchestra del Teatro Regio di Torino con polso sicuro, anche se i colori e gli spunti drammatici sono nella norma. Le arie, purtroppo, sono eseguite solo nella prima strofa, come da tradizione.
Silvia Dalla Benetta esegue la parte di Violetta con estrema precisione tecnica e notevole intensità interpretativa, tanto da poter essere considerata un riferimento per il complesso ruolo verdiano. Le abilità virtuosistiche e la facilità negli acuti e sovracuti che le derivano dal repertorio leggero frequentato per molti anni, si amalgamano agli accenti drammatici intensificati col debutto di personaggi come Norma, Gulnara o Giselda, creando una vera sintesi nel canto e nella recitazione della Signora delle Camelie. I cromatismi e le moltitudini di colori usati fin dal brindisi, senza tralasciare le pagine più intense, da “Ah! Fors’è lui che l’anima” a “Dite alla giovine”, da “Amami Alfredo” a “Addio del passato”, si sommano ad un fraseggio altamente espressivo che vede il suo culmine in “Ah! Gran Dio! Morir sì giovane”. Le appoggiature sono al loro posto, i passaggi sono perfettamente omogenei, i fiati sono lunghi, i filati sono eleganti, i gravi sono sostenuti, soprattutto nei passaggi più ardui.
In questa circostanza pare doveroso domandarsi come mai cantanti italiane come Silvia dalla Benetta, che possiedono tutti i numeri per essere delle Violette molto interessanti, sono sempre più spesso surclassate da giovani interpreti straniere, chiaramente in possesso di bellezza fisica, notevole presenza scenica e importante personalità artistica, ma al contempo provviste di forti carenze tecniche, intonazione scadente, dizione quasi assente, per non parlare di grossi problemi sugli acuti, i fiati e i piani. È altresì lecito domandarsi come mai gran parte della critica tende a soffermarsi su una o due sbavature commesse dalle interpreti italiane, mentre sorvola sulle centinaia di errori delle artiste straniere, osannando invece le sole due o tre pagine riuscite di un intero ruolo.
Purtroppo sempre più spesso si cerca di investire sulla pelle di giovani artisti provenienti dall’estero, ignari della dura lotta che bisogna combattere sul palcoscenico, talvolta poco consapevoli delle proprie potenzialità e limiti vocali, dunque spinti inappropriatamente verso repertori a loro poco congeniali, col risultato di creare presunte star internazionali, ma che in poco tempo scompaiono come meteore, e al contempo determinando la crisi delle carriere di cantanti tecnicamente e vocalmente più preparati, ma non in possesso di quel ché di esotico che tanto attira gli avvoltoi dell’opera.
Stefano Secco è il tipico tenore lirico all’italiana, con voce morbida e squillante, passaggio omogeneo e uniforme, accento marcato e fraseggio elegante. Il ruolo di Alfredo gli calza a pennello, anche grazie alla lunga esperienza nel personaggio e al progressivo mutamento della sua voce, che lo sta portando sempre di più verso una maggiore pienezza di suono. Il tenore sa interpretare il giovane innamorato senza cadere in inutili comportamenti infantili, come pure sa lasciarsi trasportare nei momenti di rabbia senza essere troppo eccessivo. Il saper fraseggiare, unito ad un buon uso dei colori e delle mezze voci, dona un sicuro valore aggiunto alla sua esecuzione.
Fabio Maria Capitanucci svolge correttamente il suo compito, ma accanto alla coppia Dalla Benetta-Secco cade un poco nell’ombra. Complice è la voce leggermente opaca e che difetta in parte degli accenti e degli squilli tipicamente verdiani e che caratterizzano tutti i ruoli baritonali del compositore delle Roncole. La linea di canto è buona, alcune frasi sono piacevolmente lunghe, gli acuti sono ben eseguiti, il personaggio è misurato – seppur poco autorevole – ma il valore intrinseco che tradizionalmente appartiene a Giorgio Germont manca nell’esecuzione di Fabio Maria Capitanucci. Ciò non è un danno se l’artista sta cercando di rendere un’interpretazione molto personale, che però ancora non si riesce a notare.
La voce di Chiara Fracasso nel ruolo di Flora Bervoix spicca per la scurezza del colore e la profondità del timbro, piacevolmente molto discosta da quella di Violetta. Il Gastone di Enrico Iviglia si fa notare per uno squillo sonoro seppur leggero, nonché per la buona intonazione. Meno incisivi, ma efficaci, gli altri comprimari.

ERNANI [Lukas Franceschini] Bologna, 17 maggio 2011.
Quinta opera del catalogo verdiano Ernani è quella che determina una scrittura musicale molto classica d’indubbio valore, scolpendo quattro personaggi di grande fascino e forte impatto drammatico da dove prenderanno spunto altri successivi “dipinti” musicali.
Inoltre nell’opera le pagine d’effetto sono molteplici e non a caso servono quattro fuoriclasse e la partitura ha attirato numerose grandi bacchette. Prototipo di perfetto romanticismo di metà ottocento, Ernani, si distingue per la peculiarità femminile, Elvira, contesa a vario titolo dai tre personaggi maschili. Fierezza, nobiltà d’animo, coraggio ed onore sono gli elementi che identificano uno dei più riusciti e meritevoli melodrammi del primo Verdi. A Bologna abbiamo visto uno spettacolo tradizionale, e oggi pare che questa parola suoni quasi come uno sproloquio, tanto che lo stesso regista, Beppe De Tomasi, inserisce delle note di regia nel programma di sala. Non era necessario ma tant’è qualche precisazione non guasta soprattutto quando si pongono accenti di tradizionalismo nel rispetto del libretto e l’ambientazione storica. Lo spettacolo è bellissimo e pone lo spettatore di fronte ad una godibile ambientazione nel segno della storica realtà. Le scene mozzafiato di Francesco Zito sono di forte impatto, che ci lasciano quasi a bocca aperta, in particolare la galleria del Castello di Silva con statue bronzee, oppure la celebre cena della tomba di Carlo Magno, un’Aquisgrana di forte immagine stilistica. A ciò vanno aggiunti i bellissimi costumi, dello stesso scenografo, e una regia attenta ai dettami della drammaturgia. E’ proprio il caso di dire che talvolta la tradizione premia e surclassa quelle cervellotiche trasposizioni moderne, che affliggono spettatori e critici nel capire le chiavi di lettura. Il pubblico apprezza, e molto. Sul versante musicale abbiamo avuto il forfait di Bruno Bartoletti, storica bacchetta italiana, per problemi di salute, peccato! Aveva preparato lo spettacolo con cura ma dalla generale ha dovuto abbandonare il podio al giovane Roberto Polastri, direttore musicale di palcoscenico al Comunale. Lo conoscevamo già, ed egli ha riconfermato la brava professionalità dirigendo con piglio in autentico stile verdiano: tempi serrati, grande cura del particolare, narrazione da manuale. Non tutte le cabalette erano eseguite con il da capo ma forse più per volere dei cantanti che del podio. Supportato dall’ottimo ensemble felsineo, che quando trova un direttore di stampo ben si adopera assieme ad un coro puntualissimo. Protagonista era un Roberto Aronica molto ispirato e tutto sommato corretto, a voler essere precisi mancava forse di un accento vigoroso e magari di una gamma di colori più suggestiva ma nel complesso la sua mi è parsa una prova positiva. Più che apprezzabile anche la performance di Dimitra Theodossiou anzi, meglio che in altre recenti occasioni. Certo il registro acuto è sempre tendenzialmente stridulo ma la cantante greca riesce con un fraseggio e una personalità agguerrita a mettere a fuoco un personaggio d’effetto. Alla recita cui ho assistito il ruolo di don Carlo, era interpretato di Ivan Inverardi che sostituiva un collega indisposto. Al baritono bisogna riconoscere l’intenzione di una volontà stilistica purtroppo disattesa sul palcoscenico per carenze tecniche, ad esempio le fatidiche mezze voci di “Vieni meco sol di rose” erano agghiaccianti, meglio allora eseguirle a voce piena e comunque l’impostazione generale non era sufficiente. A suo merito va riconosciuta una discreta valenza interpretativa. La vera star di questa produzione era Ferruccio Furlanetto, il basso friulano ci ha ammaliato con un canto forbito e una resa scenica eccellente. Era tempo che non lo sentivo così in forma, già dalla sortita era affascinante per colori e sfumature, senza mancare l’autorevolezza del grande di Spagna. La voce vibrante, morbida e magistralmente usata ha determinato una prova veramente superlativa. Teatro esaurito e prodigo di meritati applausi; unico neo era l’esecuzione con due intervalli quando invece si poteva riunire l’opera in due parti.

LUCIA DI LAMMERMOOR [Lukas Franceschini] Venezia, 26 maggio 2011.
Dopo quattordici anni alla Fenice ritorna un titolo simbolo del melodramma romantico ottocentesco Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti.
Librettista fu il celebre Salvatore Cammarano che trasse lo spunto da un altrettanto famoso romanzo di Walter Scott “The Bride of Lammermoor”, l’opera debuttò al San Carlo di Napoli nel 1835 conseguendo subito un successo incondizionato mai scaduto fino ai giorni nostri. A tal esito contribuirono in maniera predominante i primi interpreti: Fanny Tacchinardi-Persiani e Gilbert Duprez, due dei più grandi cantanti del tempo. Particolare il capriccio del soprano, la quale non volle eseguire la sortita “Regnava nel silenzio” perché non di suo gusto ma “Ah! Perché non ho del vento” del precedente melodramma di Donizetti Rosmunda Regina d’Inghilterra di cui fu prima interprete. Lucia è da sempre considerata il capolavoro del bergamasco, anche se una successiva riscoperta musicale, dagli anni ’50 del secolo scorso, ne ha affiancati altri titoli senza però adombrarne il mito. Donizetti in questa partitura sviluppa un senso notturno e dal colore tetro di fascino sublime, offrendo poi agli esecutori prove non solo di ardua esecuzione ma di altrettanta efficacia teatralità non sottovalutando che per soprano e tenore quest’opera resta un banco di prova ineluttabile. Purtroppo lo spettacolo veneziano ha espresso più ombre che luci. L’allestimento è quasi inguardabile, regia di John Doyle, banalissimi e senza connotazione i costumi, scene agghiaccianti di Liz Ascroft, e non passa il giudizio del pubblico e di chi scrive per una concezione troppo astratta e non sufficientemente calibrata. I personaggi erano liberi in una recitazione astratta e convenzionale, il coro si muoveva seguendo ridicole marcette. Le cose non vano meglio sul versante musicale. L’orchestra della Fenice è da un po’ che esprime seri dubbi di coesione e tenuta e sul podio sale Antonio Fogliani, il quale si contraddistingue per veementi sferzate sonore tipicamente bandistiche, estraneità all’armonia, colori sbiaditi, le cose non possono certo migliorare. Jessica Pratt, sarebbe una Lucia anche ideale cui va il merito di non essere “bamboleggiante” ma ci sono troppe rifiniture da colmare. La tenuta non è costante, le incertezze palesi, come la cadenza finale della scena della pazzia, cui va sommata una certa esagitazione interpretativa. Carlo Sgura, il cattivo fratello, è trasandato interprete oltre che a grezzo cantore. Mirko Palazzi, il confidente Bibident, è totalmente estraneo alla parte per spessore vocale e stile interpretativo, dovrebbe avere più oculata scelta nel repertorio perché è cantante con doti. Infine, Shalva Mukeria ovvero Edgardo. Questa è stata la vera sorpresa della Lucia lagunare e l’unico motivo di soddisfazione per un viaggio fino a Venezia. Sgombriamo subito il campo affermando che l’attore è abbastanza generico e la voce non possiede un timbro soggiogante. Tuttavia ascoltare Mukeria ci ha portato in un clima di stile e perizia tecnica d’altri tempi. Raramente si sente un Edgardo cosi preciso, la voce è sempre sul fiato, sia forte o appassionata e romantica, oppure tesa (nell’invettiva) il cantante non perde mai il controllo supremo di un canto d’altri tempi, tutto regolato dai colori, dagli accenti, dalle mezze voci e da acuti fermi e timbrati. La scena della morte è stata da antologia per aderenza stilistica, sfumature ed espressione teatrale attraverso il canto. Il pubblico gli riserva giustamente un trionfo, ma applaude sommariamente tutti, e ascoltando i commenti nell’intervallo non ha apprezzato lo spettacolo.

DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Vicenza, 30 maggio 2011.
La XX edizione delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico di Vicenza ha proposto il capolavoro di Wolfgang Amadeus Mozart Don Giovanni nella sua versione originale eseguita a Praga nel 1787.
Operazione non nuova ma egualmente apprezzabile, sappiamo, infatti, che le sostanziali differenze tra l’edizione ceca e la successiva ripresa viennese sono quattro: l’aggiunta delle arie “Dalla sua pace” per il ruolo di don Ottavio, “Mi tradì” per il ruolo di Donna Elvira”, il duetto “Per queste tue belle manine” eseguito da Leporello e Zerlina e la soppressione della scena ultima del II atto. La recente prassi esecutiva vuole integrate le due versioni ad eccezione del duetto che da molti è ritenuto superfluo e piuttosto modesto musicalmente. Ciò è vero, ma non tutta la musica di Mozart è sempre di elevatissima finitura e in altre opere ci sono sicuramente pezzi “più scadenti” del duetto in oggetto. Sappiamo invece che tali aggiunte furono inserite per valorizzare i rispettivi ruoli in considerazione della fama dei cantanti che presero parte alla prima di Vienna. Eseguire Don Giovanni nella sua versione originale è cosa sicuramente pregevole, anche se non posso negare che privarci di due arie come le menzionate, penalizza la nostra gioia di ascoltatori senza peraltro deturpare la drammaturgia del dramma. Come di consueto l’opera è stata eseguita nel bellissimo Teatro Olimpico, ovvero quel gioiello palladiano che ogni volta ci sorprende per tanta originalità e bellezza, ma altrettanto per giusta conservazione del luogo architettonico limita fortemente la messinscena. Si è scelta una realizzazione prevalentemente in forma di concerto ma a tratti semi-scenica lasciando spazio agli interpreti di agire autonomamente senza un ben chiaro disegno registico. Sarebbe stata più opportuna l’esecuzione concertistica anche perché ogni cantante usava un abito-costume di proprio bagaglio che strideva non poco alla visione. Direttore era il bravo Giovanni Battista Rigon, efficace come sempre in una resa complessiva di gusto ed incisiva. Erano invece piuttosto forti le sonorità, in specie nella prima scena del I atto, l’orchestra, seppur ridotta, copriva pesantemente le voci. L’ensemble Filarmonico Veneto è abbastanza valido, anche se richiederebbe qualche ulteriore raffinatezza nel settore archi, sovente sbiadito. Molto meglio il Coro Iris ben istruito e puntuale. Il cast ha riservato alcune sorprese non indifferenti. Innanzitutto Lorenzo Regazzo nel ruolo del protagonista. Non starò qui a elencare i molti pregi di questo cantante, la sua fama internazionale parla da sé. Confesso che credevo avesse già interpretato il ruolo di Don Giovanni sicuramente all’estero, io lo ascoltai quale Masetto diretto da Riccardo Muti nel 1999, spettacolo poi riversato in dvd, e Leporello inciso in seguito con René Jacobs. Regazzo nell’esibizione vicentina si distingue per una magnifica dizione e un recitativo molto variato e perfettamente nitido nei colori e nell’accento variegato da vero interprete. Va aggiunto poi un canto molto forbito, mai forzato, elegante e altrettanto rifinito tanto da considerare questo debutto come una futura certa carta vincente in altri palcoscenici. Grande sorpresa ed ammirazione ha destato la giovanissima spagnola Isabel Rodriguez Garcia, una donna Anna di ottimo temperamento e precisa esecuzione, sicura sia nel settore virtuoso sia nel drammatico, una cantante cui ammiriamo lo stile e la tecnica, dovrebbe avere solo ventitré anni, che speriamo di ritrovare presto nei nostri teatri. Note egualmente positive anche per l’appassionata e vibrante donna Elvira di Silvia Beltrami, la quale semmai dovrà raffinare qualche accento. Un gradino sotto il Leporello del giovane Marco Filippo Romano del quale si apprezza più la caratterizzazione interpretativa che la linea di canto a parte la voce più “chiara” rispetto al protagonista che filologicamente è errato. Felice presenza quella di Abramo Rosalen nel breve ma difficile ruolo del Commendatore, voce ben impostata e di forte robustezza e rotondità. La graziosa e precisa Diana Mian è ha interpretato una Zerlina di forte carattere e perfetta aderenza stilistica. Dionigi D’Ostuni era un Don Ottavio anche elegante e preciso ma lacunoso nel canto fiorito e sicuramente più adatto ad altro repertorio o altro ruolo mozartiano. Molto mediocre il Masetto di Omar Camata per stile e spessore vocale. Successo travolgente al termine.

ROMÉO ET JULIETTE [Lukas Franceschini] Milano, 9 giugno 2011.
Il Teatro alla Scala propone l’opera romantica Roméo et Juliette di Charles Guonod.
La prima particolarità, sorprendente, che emerge è che la precedente edizione risale al 1934 con protagonisti Mafalda Favero e Beniamino Gigli. A distanza di settantasei anni è stata colmata una lacuna grave, perché l’opera è tra le più affascinanti del repertorio ottocentesco francese, nonché uno dei germi del nuovo genere denominato drame lyrique. Pur mostrando ancora molteplici caratteristiche con il grand-opéra (ad esempio paggi en travesti) il drame lyrique si distingue per una vena più melodica e caratterizza tutti i personaggi con almeno un assolo. Non a caso Roméo et Juliette è segnata da quattro duetti tra i due amanti protagonisti (caso unico solo assieme a Werther), intervallati da ballate, ariette, e scene, ma restano predominanti in tutta l’opera i loro interventi.  Altro aspetto è la vocazione letteraria, elemento del nuovo corso del melodramma di fin siècle pertanto il solo nome del Bardo inglese parla da sé. Lo spettacolo realizzato a Milano arriva da Salisburgo ove pare avesse una dimensione più focale nell’incastonatura del Felsenreitschule, qui alla Scala era compatto e banale. Una scena fissa, una piazza che poteva identificarsi con la veronese piazza Erbe e con tanto di colonna di marmo senza veneziano leone. Colori di luci poco cromatici, costumi che spaziavano da “Pirati ai Caraibi” al pieno settecento, con qualche incursione cinquecentesca. Non è utilizzato il celebre balcone, i duetti sono scanditi da baci ed effusioni francamente poco credibili, come lo è Giulietta confezionata con abiti da parafrasare Barbie sotto le feste di Natale. Aggiungo che lo stupro durante la sinfonia era scena che cui avremo preferito essere risparmiati. Sul versante musicale funzionava la bacchetta del giovane direttore canadese Yannick Nézet-Séguin, anche se ci aspettavamo sonorità più cesellate e rifinite in taluni momenti d’assieme. Del cast l’unico che merita il plauso era Vittorio Grigolo. Egli è prestante, forse un po’ balzante ma musicale, educato e ben supportato da un gusto nella frase, senso teatrale e voce ben timbrata. Il solo interprete cui è valso meritatamente l’applauso a scena aperta dopo l’aria “Ah! Lève-toi, soleil!. Al contrario, Nino Machaidze è un’improbabile Juliette per le troppe lacune sia tecniche sia vocali: il registro acuto è stridulo e vacillante, il grave parecchio latente, e nei duetti era per la maggior parte sovrastata dalla voce maschile. Ella lasciava perplessi nella sortita, ma era rimbeccata dal loggione nella grande aria del IV atto che dire imbarazzante è un eufemismo. Alexander Vinogradov passava per un anonimo Frate Laurent, Juan Francisco Gatell era udibile solo nel finale atto III, eppure sono due cantanti rifiniti e di ottima prestanza che abbiamo avuto occasione di apprezzare in altre performance, probabilmente non erano in serata. Deludevano anche il Mercuzio di Russel Braun e il Comte di Frank Ferrari, cui è ignota la raffinatezza, passabile ma senza lasciare traccia lo Stephane di Cora Burggraaf. L’opera è stata rappresentata in due parti con pausa curiosamente dopo la scena 1ª del III atto. Pubblico piuttosto freddo ma cordiale al termine con cantanti e direttore.

LA CENERENTOLA [Lukas Franceschini] Bologna, 14 giugno 2011.
Non mi è stato mai chiaro perché tra le maggiori opere buffe di Rossini La Cenerentola è da sempre considerata, sia da pubblico sia da critica, inferiore a “Il barbiere di Siviglia” e a “L’italiana in Algeri”.
Anche la programmazione dei teatri è sulla stessa linea e prendiamo ad esempio il ROF: nella sua ultratrentennale esistenza ha allestito solo tre volte Cenerentola. Eppure dopo un esordio a rilento (1817) nel giro di poco tempo fu l’opera buffa più rappresentata in tutta Europa superando in quel periodo per fama pure il Barbiere, poi inspiegabilmente cadde nell’oblio. Si riaffermò solo nel ‘900 prima sporadicamente attraverso interpreti del calibro di Concita Supervia e Gianna Pederzini, poi definitivamente in repertorio con la generazione successiva nella quale primeggiano Marilyn Horne e Teresa Berganza. Rossini compone l’opera in solo ventiquattro giorni e trova una giusta vena comica anche in una fiaba quasi strappalacrime, relegando la protagonista e il principe sul versante patetico, il filosofo AlidoroCene_bo_2(che sostituisce l’originale fata) al ruolo del saggio, mentre gli altri personaggi sono ascritti al genere comico sia per caratteristiche “cattive”, sorellastre e patrigno, sia per scambio d’identità, il servo Dandini. Lo spettacolo presentato a Bologna era la produzione che inaugurò il rinato Teatro Petruzzelli di Bari regia di Daniele Abbado, scene di Gianni Carluccio e costumi di Giada Palloni. La vicenda è spostata dall’originale ‘700 ad un’improbabile epoca anni ’60 del secolo scorso. Ciò che manca a questo a questo spettacolo è il fiabesco assommato al comico così straripante dei personaggi. La scena fissa con poggioli, scale e pochi mobili che creano un ambiente molto astratto cui non giova sicuramente una recitazione anche simpatica dei cantanti. Manca l’effetto magico dei colpi di teatro (l’arrivo di Angelina alla festa, il temporale, la scena della sedia al II atto). Tutte le scene sono realizzate a vista da mimi che spostano ora un salotto, ora una cucina componibile, stile Salvarani, ma ciò è scarso per rendere la differenza degli ambienti, dallo squallore della decadente casa di Don Magnifico, allo splendore del castello del Principe. Solisti e coro si muovono con garbo, ma alla lunga resta una regia abbozzata, e non completa; i costumi toppo attualizzati e la protagonista in anfibi mi pareva una stridente. Del tutto incomprensibile perché i cantanti si debbano spogliare sia durante il finale atto I sia durante il celebre sestetto “del nodo” al II atto. Michele Mariotti è un direttore anche valido, tiene il tempo della narrazione con un ritmo brillante ed incalzante, peccato che non sappia concertare un crescendo rossiniano perché parte dal mezzo-forte, proprio lui che è cresciuto “in casa Rossini”. Guida comunque un’orchestra compatta e sicura e fortunatamente ci risparmia l’aria della sorellastra. Protagonista era Laura Polverelli, cantante apprezzata in molte altre occasioni. Presumo che non fosse in serata: il gusto e il fraseggio erano eloquenti, ma il registro acuto è gravemente compromesso tanto da rasentare lo strillo, in tutta l’opera glissa ed evita puntature e al rondò finale naufraga clamorosamente. Notevolmente meglio il Ramiro di Michael Spyres, che si è dimostrato cantante elegante, non perfetto nella dizione, ma pertinente nei colori. Il suo tallone d’Achille sono gli acuti, non propriamente svettanti, e questo lo colloca un gradino sotto ad alcuni colleghi, ma la sua resta pur sempre una prova positiva. Mi rallegro aver sentito Simone Alberghini, Dandini, condizioni migliori rispetto a precedenti performance. Il cantante tende sempre ad un canto di gola, ma in quest’occasione né abusa poco, inoltre è spigliato, sicuro nella vocalizzazione, ironico e divertente. Paolo Bordogna si riconferma grande artista ed ottimo cantante. Forza a tratti la recitazione in gags anche superflue, il canto però è rifinito e di grande valore a cui si somma una raffinata precisione tanto da collocarlo tra i migliori in questo repertorio. Per l’ennesima volta Lorenzo Regazzo è Alidoro, il quale sarei molto curioso di ascoltare nel ruolo di Dandini, ma forse a lui non interessa come a nessun direttore artistico è mai venuta simile idea, probabilmente “bizzarra”. Egli è sempre un ottimo e preciso esecutore, cui è affidata la tremenda e difficile aria “Vasto teatro è il mondo” che esegue a puntino. Deludenti le due sorellastre di Zuzana Markova e Giuseppina Brindelli, le quali pur reggendo ottimamente la scena denunciano gravi mancanze tecniche e sfasamenti vocali. Teatro non esaurito e applausi conviti agli interpreti ma anche contestazioni alla protagonista nelle uscite solistiche al termine.

LUCIA DI LAMMERMOOR [William Fratti] Trieste, 16 giugno 2011.
Il Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste conclude la Stagione Lirica 2010-2011 con una ben poco dignitosa esecuzione di Lucia di Lammermoor, molto lontana dalla tendenza degli ultimi anni che vuole un ritorno del melodramma alla partitura originale.
Il recente orientamento di molti teatri di ripulire le opere più popolari dai tradizionalismi, che nel corso del tempo le hanno sempre più allontanate dalla concezione autentica del loro compositore, è completamente ignorata da questa edizione triestina: la prima aria di Raimondo “Ebben? Di tua speranza… Deh, cedi, o più sciagure… Al ben de’ tuoi qual vittima” e il celebre duetto della torre “Orrida è questa notte… Qui del padre ancor s’aggira… O sole più rapido a sorger t’appresta” sono tagliati, come quasi tutte le seconde strofe e pressoché tutti i da capo.
Lo spettacolo firmato da Giulio Ciabatti è molto noioso, non dice nulla di diverso da ciò che già si conosce ed è evidente la sua mancanza di idee, di intenti e di nuovi spunti drammatici, in quanto i protagonisti si muovono ognuno per conto suo, senza coesione, dimostrando che hanno dovuto interpretare i rispettivi ruoli attingendo dalle proprie pregresse esperienze personali. Le stesse note di regia pubblicate sul libretto, dove si legge una certa poesia in parte toccante, non aggiungono alcunché alla già nota storia di Scott.
Le scene di Pier Paolo Bisleri danno un impatto molto positivo all’apertura del sipario, ma si rivelano presto molto monotone – perfettamente in linea con la noia della regia – e l’unico elemento visivamente accattivante – il pavimento – si dimostra presto essere un ambiente ostile, che tiene i cantanti costantemente in bilico per tutta l’opera, come se stessero camminando sugli scogli. Più gradevoli sono i costumi ottocenteschi di Giuseppe Palella, mentre le luci di Nino Napoletano passano inosservate: non disturbano, ma nemmeno danno quel minimo di suggestione che ci si aspetterebbe.
La direzione di Julian Kovatchev è una delle peggiori che si sia mai sentita. Oltre ai già citati cuci e ricuci, il suono è sempre forte, mai elegante, senza cromatismi, non un colore, non una sfumatura, quasi mai in accompagnamento alle belle voci dei solisti. Sembra che diriga una banda di paese in piazza. Complice anche l’Orchestra del Teatro Lirico Giuseppe Verdi, un po’ svogliata e dozzinale.
Il ruolo della protagonista calza a pennello a Silvia Dalla Benetta, che dimostra, come di consuetudine, una padronanza tecnica pressoché perfetta. La tradizione ha per lungo tempo spostato l’attenzione verso la scena della pazzia, mentre il soprano vicentino sa riportare “Regnava nel silenzio” al suo antico splendore, con la pienezza di suono e le agilità che questa cavatina e la successiva cabaletta richiedono. I colori e le sfumature, i pianissimi e i filati con cui la Dalla Benetta arricchisce tutta la partitura, impreziosiscono il suo fraseggio già particolarmente espressivo, che si sfoga in un’interpretazione emozionante e quasi maniacale de “Il dolce suono”, dove alcuni passaggi, i fiati e certi legati contribuiscono ad ammorbidire la lunga aria. È chiaro che il repertorio serio donizettiano le è particolarmente congeniale e ci si aspetta pertanto di udirla presto in altri ruoli più drammatici del musicista bergamasco.
La protagonista è affiancata da un bravissimo Aquiles Machado, che pur volgendosi ad un repertorio sempre più pieno – è doveroso citare il recente successo ne La forza del destino a Parma – sa ancora trasmettere la giusta eleganza del belcanto. Il suono è molto piacevole e sempre pulito, lo squillo è ben luminoso e le mezze voci sono raffinate. Il tenore venezuelano e la Dalla Benetta, nel duetto di primo atto “Sulla tomba che rinserra” dipingono la pagina più bella della serata, forse anche quella meno avvelenata da regia e direzione. Volendo cercare il pelo nell’uovo la cavatina conclusiva “Tombe degli avi miei… Fra poco a me ricovero” non è allo stesso livello del resto dell’opera, mentre la scena che lega i due grandi concertati “Tremi! Ti confondi!… Hai tradito il cielo e amor!… Ti disperda” è di assoluto rilievo.
Giorgio Caoduro è un Enrico severo, altero ed autorevole nell’interpretazione, brillante e squillante nella vocalità e dimostra di essere un belcantista di pregio. Gli acuti ben saldi e i lunghi fiati sono un valore aggiunto al canto del baritono triestino, che possiede una linea di canto ben omogenea e particolarmente musicale. Peccato per gli omissis.
Giovanni Furlanetto è lo specialista di sempre e piace nel ruolo di Raimondo – seppur tagliato – anche se non fa faville.
Gianluca Bocchino sa far sentire la sua voce nel cantabile di Arturo “Per poco fra le tenebre”, mentre il Normanno di Francesco Piccoli è purtroppo sempre coperto dal fracasso orchestrale. Conclude il cast l’Alisa di Annika Kaschenz.
Chiaramente insufficienti sono le prove dell’Orchestra e del Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste diretto da Alessandro Zuppardo, ma il dato non può essere oggettivo considerata la direzione grossolana di Kovatchev. Andrebbero chiaramente riascoltati.

LA TRAVIATA [Lukas Franceschini] Verona, 17 giugno 2011.
Era dal 1987 che La Traviata di Giuseppe Verdi non inaugurava il Festival Areniano. Per l’apertura dell’89° edizione abbiamo avuto la gradita la presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Signora Clio in visita ufficiale a Verona.
Inoltre, era molto atteso soprattutto il nuovo allestimento di Hugo de Ana, artista che a Verona ha lasciato in un decennio esempi di altissimo stile. De Ana cura una scenografia imponente costituita da enormi cornici di quadri vuote le quali sovrastano l’immenso palcoscenico. Spostando l’azione alla fine del XIX secolo crea un ambiente decadente e corrotto, quale quello vissuto da Violetta, si può in parte ravvisare una pinacoteca “sfasciata” ove ogni pregiudizio è superato solo in apparenza: le leggi della classe sociale hanno le sue regole sia allora sia oggi e certi marchi restano indelebili. Il destino della protagonista è tracciato sin dall’inizio, il lusso della vita in campagna e delle feste danzanti non sono che illusori squarci di vita effimera e gioviale, l’ombra della malattia e della riscossa sociale avranno il peso specifico che sappiamo. Si tratta di un allestimento molto curato e ben realizzato, con magici giochi di luce e costumi mozzafiato che rendono una visuale molto gradita e soprattutto ben accetta a un pubblico, tipicamente areniano, che si aspetta molta gratificazione ottica. Ben realizzate le scene d’assieme, in particolare la festa del II atto, con la presenza del bravo corpo di ballo in una coreografia molto azzeccata curata da Leda Lojodice. La classe del regista si riconferma anche nella singola realizzazione scenica espressamente vissuta che i tre protagonisti reggono molto efficacemente ad eccezione del III atto ove Violetta trova accenti scenici molto marcati, anzi troppo, addirittura veristi, i quali oltre ad essere fuori luogo, per molti aspetti creano imbarazzo. Non sappiamo se tale caratterizzazione sia voluta espressamente da De Ana o è parte della personalità di Ermonela Jaho, sicuramente è stato l’unico momento deludente dell’intero spettacolo. Lo stesso soprano dal punto di vista musicale ha grosse lacune nel registro acuto e la grande aria del primo atto è risolta, o meglio accomodata, con approssimazione. Dalla sua sicuramente una grande musicalità e un senso narrativo molto apprezzabile, ella è capace anche di colori e fraseggio eloquenti pur con un timbro generico, le è più consona la parte lirica ma come detto alcune perizie tecniche sono da rifinire con urgenza. Apprezziamo infine che ha eseguito tutta la parte integralmente, compresa la seconda strofa dell’”Addio del passato” solitamente omessa. Il tenore Francesco Demuro è cantante elegante e generoso, anche troppo poiché canta soprattutto di gola, questo gli ha compromesso per tenuta e spessore la chiusura della difficile cabaletta. Anche in questo caso si tratta di voce probabilmente rifinita e musicale cui non sono messe a fuoco nozioni tecniche di primordine le quali non comprometterebbero l’esecuzione contrassegnata da numerose forzature. Bravo Vladimir Stoyanov, Germont padre, che con grande classe e rotondo accento disegna un personaggio impeccabile, il migliore della serata. Il folto gruppo dei comprimari era abbastanza decoroso, anche se Chiara Fracasso era piuttosto volgare nel realizzare l’amica cortigiana, migliore Serena Gamberoni nel piccolo ruolo di Annina. Il coro si adoperava con sufficienza, ma c’era da aspettarsi qualcosa di più soprattutto nel concertato finale atto II. Infine, prima di parlare della concertazione dobbiamo fare una considerazione sull’acustica. Da qualche anno sappiano, senza urlare allo scandalo, che le voci sono aiutare da un sistema acustico il quale rende queste udibili in tutto l’anfiteatro, e aggiungo con meriti anche apprezzabili. Non capisco per quale motivo non si sia voluto utilizzare tale mezzo anche per l’orchestra, la quale spesso non è neppure udibile nei momenti più intimi. Affossare in buca gli strumentisti credo sia stato un errore considerato che è impossibile creare il golfo mistico in un teatro all’aperto. Sul podio debuttava Carlo Rizzi, del quale per quanto espresso poc’anzi non possiamo dire del rapporto orchestra-cantanti. La sua è una direzione onesta, anche vigorosa, che tenta raffinatezze purtroppo effimere in Arena, semmai dilata molto i tempi e non sappiamo se per lettura personale o esigenze di palcoscenico. Grandi applausi al termine.

LUCIA DI LAMMERMOOR [William Fratti] Torino, 26 giugno 2011.
Il Teatro Regio di Torino conclude con grande successo l’applauditissima Stagione Lirica 2010-2011 con una incantevole edizione di Lucia di Lammermoor, soprattutto sotto il profilo musicale e vocale.
L’allestimento ideato da Graham Vick per il Maggio Musicale Fiorentino forse non è di immediata comprensione nell’aprirsi e richiudersi di finestre e spiragli, più o meno grandi, sulle vicende romantiche di Scott, ma è certamente suggestivo, perfettamente omogeneo ed equilibrato con le scene accattivanti e i bellissimi costumi settecenteschi di Paul Brown e le luci cariche di atmosfera di Nick Chelton, chiaramente orientato a condurre lo spettatore verso l’apoteosi finale della pazzia di Lucia e del suicidio di Edgardo.
La direzione di Bruno Campanella sembra inizialmente un po’ lenta, ma col procedere dell’esecuzione si scopre l’intento musicale del Maestro di voler sottolineare l’eleganza del compositore bergamasco e la finezza con cui ha voluto dipingere il suo romanticismo, arricchendo tutta la partitura di colori e sfumature che mettono sempre in risalto le belle voci degli interpreti. Molto positiva è anche la decisione di mettere in scena un’edizione pressoché integrale, restituendo all’orecchio del pubblico alcuni recitativi spesso omessi ed eliminando solo alcuni da capo e un paio di seconde strofe.
È doveroso sottolineare che quattro importanti teatri della penisola – Palermo, Torino, Trieste e Venezia, in rigoroso ordine alfabetico – hanno sentito la necessità tutta italiana, dove ognuno pensa al proprio orticello, di confrontarsi sul medesimo melodramma, con alternate opinioni del pubblico e della critica sulla riuscita o meno dei rispettivi spettacoli. Ciò che è importante rimarcare – considerati i tempi in cui sempre più spesso le agenzie impongono alle sovrintendenze interpreti oltremodo scadenti, provenienti dai posti più esotici ed improbabili del mondo, dotate di tanta beltà e ben poca tecnica – è la scelta di quattro protagoniste di altissimo livello – Silvia Dalla Benetta, Elena Mosuc, Jessica Pratt, Desirée Rancatore, sempre in rigoroso ordine alfabetico – ognuna coi propri pregi e difetti, ma che oggi rappresentano, sul mercato italiano, le migliori Lucie in circolazione.
Elena Mosuc rasenta la perfezione tecnica e a tale considerazione non c’è molto altro da aggiungere. Ovviamente la sua vocalità le permette di dare il meglio nelle fioriture e nei virtuosismi, nel registro acuto e sovracuto, nella delicatezza dei filati naturalissimi, nell’eleganza del fraseggio, nel canto finemente cesellato dove ogni nota diventa assolutamente importante, anche se la resa del personaggio resta sempre un poco fredda. La scena della pazzia è giustamente accolta da pubblico con grandissimo calore e numerose richieste di bis, con un meritatissimo applauso protratto per diversi minuti.
Francesco Meli canta sempre meglio, ed ogni volta l’ascolto della sua voce è un vero piacere per le orecchie e per il cuore. L’espressività del suo fraseggio e l’ottimo controllo dei fiati sono immediatamente mostrati già dal duetto “Sulla tomba che rinserra” dove il bel timbro, il piacevole squillo e le gradevolissime mezze voci portano alla commozione. Gli accenti più intensi sono resi  nella gran scena e concertato del matrimonio, durante cui un lunghissimo plauso degli spettatori  e numerose acclamazioni al termine del quartetto gli hanno strappato un sorriso a scena aperta. L’aria finale e la cabaletta sono davvero toccanti ed emozionanti, eseguite così bene e correttamente che è doveroso non prendere in considerazione – come del resto ha fatto il pubblico presente in sala – un piccolissimo e minimo inconveniente sulla cadenza: non sono certo tali eventi a sminuire la grandezza e la professionalità di interpreti del livello di Francesco Meli.
Fabio Maria Capitanucci, che sul palcoscenico torinese ha recentemente affrontato con successo il ruolo di Germont, nella parte di Lord Enrico è ancora più a suo agio, sia per la scrittura vocale, sia per l’interpretazione. Il baritono sabaudiese affronta con cura le pagine liriche del belcanto donizettiano, con buona tecnica e intonazione, acuti saldi e sonori, nonché la giusta dose di accento drammatico.
Vitalij Kowaljow è inizialmente adombrato dai colleghi, in quanto non possiede una proiezione particolarmente efficace nel recitativo ed in certi punti sembra scomparire, ma sa rivalersi completamente durante la prima e difficile cavatina “Ah, cedi, cedi, o più sciagure” dove la voce scura, ma non troppo cavernosa, sa dispiegarsi lungo la complessa pagina, spesso tagliata, in cui occorrono sia note alte che basse, ben emesse e appoggiate. Gli applausi più calorosi arrivano in terzo atto, al termine della lunga aria con coro, dove il basso ucraino sa essere particolarmente intenso e toccante.
Meno efficaci sono gli ariosi e i recitativi affidati a Cristiano Olivieri e Saverio Fiore nei rispettivi ruoli di Normanno e Arturo. Poco intonata è l’Alisa di Federica Giansanti.
Egregie le prove dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio di Torino diretto da Claudio Fenoglio.

RIGOLETTO [William Fratti] Parma, 30 giugno 2011.
Il Teatro Regio di Parma ospita l’annuale appuntamento filantropico, organizzato dal Comitato Parma col Cuore a favore del Centro Antiviolenza, con una esecuzione di Rigoletto in forma di concerto, con la partecipazione del baritono parmense Luca Salsi, che ha scelto quest’occasione per il suo debutto nel complesso ruolo verdiano.
Purtroppo non tutta la città risponde positivamente alla chiamata – molti assenti si dicono sospettosi della reale e totale consegna della beneficienza ricavata – ed il terzo e quarto ordine di palchi restano vuoti. Tra proteste e indisposizioni scompaiono anche alcuni nomi dal cartellone, per vederne misteriosamente comparire di altri.
Luca Salsi, come già detto più volte, è un eccezionale baritono dalla voce giovane e fresca, dotato di tecnica solidissima, e sa affrontare le difficili pagine del buffone in maniera molto intelligente, puntando principalmente sulle qualità liriche della sua voce, senza mai forzare l’accento drammatico, dando ampio spazio allo squillo potente e sonoro, all’armonia musicale ed equilibrata, fraseggiando con disinvoltura ed eleganza, evitando giustamente certe note d’espressività che sarebbero risultate forzate e troppo marcate. Questa prima prova del baritono trentaseienne, che già calca con meritato successo i più grandi palcoscenici del mondo, non è priva di piccolissime imprecisioni e qualche minima sbavatura, ma lascia chiaramente intendere che col tempo questo personaggio crescerà e diventerà una realtà internazionale, soprattutto se si considerano lo studio tecnico, l’approfondimento della parte e l’acume con cui Luca Salsi affronta sempre ogni ruolo nuovo.
Ji Hye Son, contattata all’ultimo minuto, è una Gilda – e una sorpresa – piacevolissima. Si sente palesemente che la voce è molto giovane, ma è estremamente precisa, la tecnica è importante, la linea di canto è omogenea in tutti i registri, i filati e i pianissimi raffinati e ben emessi. Riesce addirittura a recuperare, con destrezza e scioltezza, un brutto inconveniente durante “Caro nome”, quando il direttore esce completamente di tempo.
Giordano Lucà è certamente dotato di natura di un bel timbro e ha tutte le potenzialità per crescere, ma la voce è ancora poco sostenuta, talvolta cade all’indietro, i fiati non sono dei migliori e di conseguenza ne risente tutto il suo canto. Andrebbe riascoltato dopo un sostanzioso periodo di studio.
Anna Maria Chiuri è il secondo regalo della serata, poiché sostituisce una collega assente. Da molto tempo non si sentiva una Maddalena dalla voce così possente, ombrosa, calda, armoniosa e finalmente l’ascolto della scena con Sparafucile che conduce all’assassinio di Gilda torna ad essere uno dei momenti più intensi del melodramma. Complice anche la voce di Enrico Iori, perfettamente amalgamata a quella di Anna Maria Chiuri, entrambi dotati di volume ed eccellente proiezione, necessari durante la tempesta, quando l’orchestra raggiunge le sue massime dimensioni. Il basso parmense ha fatto di questo ruolo uno dei suoi cavalli di battaglia e il risultato si sente, soprattutto nel fraseggio del duetto con Rigoletto. Ottimo il fa grave su “Sparafucil”.
Buone le prove di Alice Quintavalla, relegata nella piccola e centralissima parte di Giovanna, Alessandro Bianchini, Riccardo Certi ed Eugenio Masino nei panni di Ceprano, Marullo e Borsa. Efficace, ma un po’ traballante, il Monterone di Massimiliano Catellani. Conclude il cast Giovanna Pattera nelle vesta della Contessa di Ceprano e del Paggio.
Andrea Battistoni, sul podio dell’Orchestra del Teatro Regio di Parma, anche se inizialmente non era previsto e non è chiara la defezione del collega, è la vera delusione della serata. Dopo l’eccellente Attila e l’affascinante Barbiere – anche se pubblico e critica non erano completamente in accordo – con Rigoletto cade inesorabilmente sulla superficialità, come se non avesse studiato la partitura. Le note ci sono tutte, ma oltre a rischiare di buttare fuori il soprano, dirige con pesantezza ed eccessivo volume, scordando i colori, i cromatismi, i piani, i pianissimi e l’armonia di certe frasi. Ci si augura che si tratti di un’indisposizione temporanea e che il talento di cui si parla non sia solo una montatura delle agenzie.
Ottima la prova del Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani.

AIDA [Lukas Franceschini] Verona, 30 giugno 2011.
L’Aida di Giuseppe Verdi è sotto taluni aspetti il simbolo dell’opera nell’anfiteatro all’aperto di Verona e a quasi cent’ani dalla prima rappresentazione è in grado per l’ennesima volta di riempire tutti i settori della grande Arena.
Il gusto del pubblico è orientato sicuramente verso l’aspetto kolossal, il quale nel II atto ha una vera e propria apoteosi. Anche quest’anno è stato proposto l’allestimento curato da Gianfranco De Bosio, di circa trent’anni fa, che rifacendosi ai bozzetti e alle fotografie d’epoca idealizza lo spettacolo di Ettore Fagiuoli per la prima edizione del 1913. L’autenticità di questa messinscena è sbalorditiva per bellezza e stilizzazione, pur con alcune modifiche che nel corso degli anni l’hanno rivitalizzato. La tradizione è imperante e ben venga si dovrebbe dire se si fanno debiti confronti con la recente edizione fiorentina. Otto immense colonne con un gioco, all’apparenza elementare, creano le sette scene che compongono l’opera, i costumi ricercati e cromatici hanno la loro giusta valorizzazione, la regia è sobria e raffinata, non cerca particolari e astruse chiavi di lettura, si attiene a quello che è la drammaturgia facendo recitate gli interpreti con convinzione, quando possibile, e spostando masse di figuranti, ballerini e coristi con classe. Le danze coreografate da Susanna Egri sono ancora godibili e di gran pregio. Unici cambiamenti, a mio avviso discutibili, sono la presenza nel trionfo di un solo trono ove si siede Amneris e la scena 1ª del IV atto che trovavo più emozionante quando Ramfis e i sacerdoti, dopo l’interrogatorio di Radames, salivano sul piccolo tempio per comunicare ad Amneris che il generale è un traditore, scatenando le inutili ire di questa, soccombente alla ragion di stato e soprattutto religiosa. Era una scena molto più credibile e forte d’impatto, rispetto all’assieme sul proscenio, soluzione adottata di recente. Infine ricordo che è stato ripristinato il telone il quale copre il palcoscenico nell’ultimo atto com’è possibile vedere negli antichi bozzetti, e l’effetto visivo ne è ancor più appagato. Il cast scritturato per la stagione è un chiaro segnale dei tristi tempi canori cui assistiamo in questi anni e peculiarmente in tale repertorio. I previsti Micaela Carosi e Fabio Armiliato, non è dato a sapere se per malattia o altro, sono stati sostituiti da Hui He e Marco Berti cui si aggiungono come da locandina: Giovanna Casolla, Alberto Gazale, Carlo Striuli e Gustav Belack. Hui He è il bravo soprano che conosciamo, di grande musicalità con voce rigogliosa e piena, esprime un personaggio tutto tondo e di grande classe, riuscendo a tratti anche nel gesto scenico a lei non proprio congeniale. L’accento è eloquente, i registri omogenei e i passi più ostici risolti con dovizia. Purtroppo dobbiamo registrare che lei era l’unica cantante dell’intero cast a essere in parte, esprimendosi onorevolmente. L’esibizione di Marco Berti ricalca la recente esibizione al Maggio Musicale Fiorentino: sempre forzata, nessun legato, assenza di colori. Egli è anche sicuro, ingrana la “sua marcia” e via per tutta l’opera come fosse una Mille miglia! Canta tutto forte e di spinta pertanto ci si aspetterebbe che in taluni momenti prevalga o sfoggi l’aspetto “muscoloso” del personaggio, invece ad esempio nel finale atto III, glissa appuntamenti che altri avrebbero sfruttato a dovere. Non ho mai capito cosa abbia portato Giovanna Casolla ad aggiungere al suo repertorio il ruolo di Amneris col quale centra poco o nulla. Innanzitutto il personaggio non le è nelle sue corde, poi deve fare in conti con una zona grave molto compromessa se non afona, in considerazione anche ai trentacinque anni di carriera. A suo favore il portamento e qualche sprazzo nel settore acuto, ma tutto sommato limitato, in considerazione al nome che porta e a quello che ha realizzato in altri ruoli a lei certamente più idonei. Alberto Gazale caratterizza un Amonasro legnoso, sovente forzato e sommario nel fraseggio. Carlo Striuli è un Ramfis anonimo con un apparato vocale grezzo e di poco gusto. Chi invece era un vero scandalo canoro, per timbro, accento, tecnica e dizione, è Gustav Belacek. Non si capisce la scrittura di un cantante di così ridotta qualità e potrei affermare che non ho mai udito una parte di fianco, ma che canta ben tre concertati più vari interventi, cosi imbarazzante, e sì che il cantante aveva già dimostrato i suoi numeri in “Traviata” nel breve intervento del dottore. Buona la presenza comprimariale di Enzo Peroni e Antonella Trevisan rispettivamente il messaggero e la sacerdotessa. Daniel Oren è un veterano dell’Arena, credo senza documentazione alla mano sia il direttore di tutti i tempi con maggior frequenza e maggior numero di recite concertate. A fronte di tale curriculum si resta perplessi nell’udire effetti del tutto estranei alla partitura e che lo stesso Oren non aveva mai eseguito in precedenza, come il prolungare tutti i finali d’atto in sonorità reboanti e la scarsa incisività offerta sai nei momenti drammatici sia nei due concertati. Va certamente riconosciuto che egli non perde mai il ritmo e la narrazione, e non si possono negare tinte anche suggestive nel colore orchestrale per quanto si possa percepire in Arena, ma onestamente ci si aspetterebbe qualcosa di più, cui si devono assommare le insopportabili urla durante la concertazione. Pubblico comunque festante ma con solo due chiamate al termine, l’opera è ancora una volta rappresentata con tre intervalli… prassi da rivedere!

ATTILA [Lukas Franceschini] Milano, 6 luglio 2011.
Molto strano il percorso, al teatro alla Scala, di Attila opera giovanile di Giuseppe Verdi. Vi approda nel dicembre 1846, lo stesso anno della creazione a Venezia, e fino al 1867 si contano ben quattro produzioni.
Segue un silenzio oltre secolare, si deve arrivare al 1975 per una riproposta poi riversata anche in Cd. Altra pausa fino al 1991 con nuova produzione Muti sul podio e Samuel Ramey protagonista. Seguono quattro lustri silenziosi per arrivare alla stagione odierna con l’ennesimo nuovo allestimento. Innanzitutto, è doveroso rilevare che per un’opera così scarsamente rappresentata, anche se di grande valore musicale, non sono tollerabili tre nuove produzioni in trentasei anni, pur considerando che quest’ultima è coprodotta con San Francisco. La regia è stata affidata a Gabriele Lavia, il quale ritorna al primo Verdi dopo i memorabili “Lombardi” degli anni ’80. Il regista parte dal presupposto che ogni epoca ha un mito barbaro, un cattivo. Ciò è vero, basti pensare agli attuali processi dell’Aja ai criminali dei fatti nell’ex Jugoslavia. Il regista, per raccontare la parabola finale del barbaro Unno, sceglie il luogo d’elezione destinato al racconto: il teatro. Saranno nel corso dell’opera tre i teatri, tutti diroccati, violentati dall’orda barbarica di un distruttore, uno nell’antica Grecia, un altro ottocentesco con tanto di palchi, infine un cinema, l’attuale mezzo di comunicazione di massa e ultimo sistema d’espressione della recitazione. L’idea in sé è anche originale ma portata sul palcoscenico non tutto funziona. Finché ci si trova in un imprecisato antico momento storico, si trova una certa aderenza con il libretto, il quale non è dei più raffinati, quando poi ci spostiamo nell’’800 e poi in quella specie di sala cinematografica, la visuale e le intenzioni vacillano e lasciano spazio a parecchie perplessità. Lo spettacolo non è sviluppato, tutto si ferma a questa visuale, manca totalmente di teatralità. Lavia è uomo di teatro e anche se le idee non sono trasformate al meglio, egli non trova alcuna difficoltà nel muovere masse e figuranti, diversamente, quanto a recitazione i singoli cantanti sono assai legnosi. I costumi, di Andrea Viotti, sono anonimi, non ascrivibili a nessuna epoca e neppure molto belli perché propongono gli abusati cappottoni militari, nel II secondo il banchetto ottocentesco con tanto di dame in vestiti da sera e cavalieri in frac, alcuni nei palchi addirittura, mi è parso eccessivo. La scena, ideata da Alessandro Camera, è davvero affascinante nel prologo e nel I atto, ma quando si mescolano troppi elementi, perde smalto e significato, inoltre si poteva evitare la proiezione del film in bianco e nero su un “Attila” cinematografico credo anni ‘50, non saprei dire di quale pellicola si tratta forse c’era Amedeo Nazzari da quello che si è potuto vedere. Attila è opera anche patriottica, fu accolta con favore nel 1846 preludio del prossimo illusorio ’48 contro l’oppressione straniera, ma questo non giustifica una concertazione così reboante come quella di Nicola Luisotti, il quale è bacchetta talentuosa che debuttava alla Scala. Il ritmo era eccellente ma destavano molte perplessità sia le sonorità fracassone (percussioni) sia i tempi serratissimi e personalissimi i quali in taluni momenti toglievano pathos e poesia. Ad esempio: la cabaletta di Foresto nel prologo “Cara patria, già madre e reina” è tenuta con un tempo prima lento poi nella seconda strofa velocissimo; nel celeberrimo terzetto finale “Te sol quest’anima” manca la scansione e l’ornamento orchestrale è spento. Sarà anche una personale concezione del direttore ma Luisotti ha ben altre e superiori capacità di concertazione. Del quartetto canoro, nel quale non brillava nessuna stella, si distingue con onore Orlin Anastassov, il quale ha una voce fuori dal comune e se egli sapesse usarla con maggior perizia d’accento e fraseggio saremo sicuramente su altre posizioni. Invece, una certa inerzia interpretativa e un colore non sufficientemente focalizzato ne fanno un interprete dignitoso, quando potrebbe essere ben altro. La dilettantesca tecnica di Elena Pankratova è direttamente proporzionale ad uno strumento vocale di prim’ordine, l’interprete è generica e le lacune nel settore acuto non si contano, oltre alle grandi difficoltà di modulare la voce in piani e sfumature richieste. Sicurissimo è parso Fabio Sartori, che più volte ha vestito i panni di Foresto. L’interprete è generico e il timbro non particolarmente seducente, ma sicurezza, baldanza e proiezione vocale ne fanno un buon cantante di solida consistenza. Marco Vratogna era un Ezio molto generico e con voce ruvida, interprete sommariamente piatto e monotono anche se in possesso di una discreta solidità la quale non è messa ben a fuoco per mancanza di personalità. Buoni gli interventi di Gianluca Floris, Uldino, ed Ernesto Pannariello che interpretava Leone. Ottima la prestazione del coro diretto da Bruno Casoni. Successo molto vivo al termine ma qualche isolato mugugno per soprano e direttore.

L’ITALIANA IN ALGERI [Lukas Franceschini] Milano, 11 luglio 2011.
Dopo il periodo delle farse Rossini raccoglie il primo grande successo nell’opera buffa con L’Italiana in Algeri alla Fenice di Venezia nel 1813.
Opera d’incantevole bellezza e spassosa comicità, resterà sempre in repertorio e pur non raggiungendo i favori del Barbiere ha avuto sempre dalla sua la preferenza della grande primadonna rossiniana nel corso dei due secoli di vita. Il Teatro alla Scala sceglie questo titolo per il Progetto Accademia e ripropone la produzione di Jean-Pierre Ponnelle in uno dei maggiori successi degli anni ’70 esportato in tutto il mondo, del quale possiamo affermare che resta un punto di riferimento ineguagliabile per brillantezza, inventiva e fantasia teatrale. Purtroppo Ponnelle è scomparso da oltre un ventennio e la ripresa è stata affidata a Lorenza Cantini, la quale ha permesso arbitrarie alterazioni di un meccanismo che oserei direperfetto, riducendo di molto il magistrale lavoro del maestro francese. Servono gags pedanti e scontate per ridere con Rossini? Ponnelle lo aveva capito concependo una regia che era interamente studiata in ogni passo e movenza, il tutto al servizio della musica che è più che sufficiente. Oggi trovare molti e gratuiti cambiamenti non possono che sminuire il suo lavoro di regista, costumista (sono cambiati anche alcuni costumi del coro) con un risultato forse anche apprezzabile, ma per chi conosce l’originale sicuramente deludente. Altro aspetto non chiaro è la locandina: il progetto Accademia dovrebbe essere il giusto prodotto dopo lo stage per Cantanti lirici al Teatro alla Scala, pertanto dovrebbero essere tutti cantanti sconosciuti o alle prime armi. Invece in locandina troviamo i nomi di Michele Pertusi, Lawrence Brownlee e Anita Rachvelishvili, cantanti ormai affermati a vari livelli seppur con carriere molto differenti. Antonello Allemandi dirige l’Orchestra dell’Accademia con piglio, ma è totalmente povero di verve e brio, risultando sovente monotono e noioso. Il complesso in buca risponde bene, sono anche questi i giovani dell’Accademia ma credo che sotto altra bacchetta avrebbe dato risultati più meritevoli. Anita Rachvelishvili dopo il trionfo nella Carmen inaugurale della passata stagione si cimenta, credo, con il suo primo Rossini. I risultati sono anche apprezzabili, la voce è bella e il registro è completo da vero mezzosoprano (il che non è poco oggigiorno) ma è lacunoso lo stile rossiniano della primadonna, dove nel rondò mi sarei aspettato più mordente e maggiore estrosità nelle variazioni. Credo che debba soffermarsi con maggior studio e raffinare i suoi mezzi in questo repertorio dove potrebbe raccogliere ulteriori soddisfazioni. Michele Pertusi invece è un veterano della parte e sa cosa significa cantare il buffo rossiniano in tutti i suoi aspetti, ma mi è parso leggermente stanco (alternava anche recite di Attila) e il mordente era molto limitato rispetto a sue precedenti esibizioni. Trionfatore della serata, in considerazione agli applausi, è stato Lawrence Brownlee, il quale disegna un buon Lindoro pur senza arrivare a pirotecnici virtuosismi perché il settore acuto è limitato. Egli tuttavia è elegante, fraseggia bene e la dizione è ottima. Molto anonimo il Taddeo di Vincenzo Taormina, baritono troppo chiaro e assai incolore. Approssimativa l’Elvira di Pretty Yende, più incisiva la Zulma di Valeria Tornatore, ed infine, passabile l’Haly di Filippo Polinelli. Alla recita di luglio, con caldo molto afoso, il tetro era semivuoto… con in cartellone l’Italiana! Forse ci sarebbe da rivedere la programmazione a luglio si evince che il pubblico ha voglia di mare.

NABUCCO [Lukas Franceschini] Verona, 27 luglio 2011.
L’opera Nabucco di Giuseppe Verdi allestita in questa Stagione dalla Fondazione Arena è un diretto e doveroso omaggio al concittadino Rinaldo Olivieri, architetto e scenografo scomparso ormai da anni.
Grazie alla preziosa perizia di un suo collaboratore, il quale ha conservato bozzetti e plastici del Nabucco realizzato nel 1991, si è potuto ricostruire quello splendido spettacolo oggi come ieri con la regia di Gianfranco De Bosio. L’impianto è minimamente ridimensionato per le nuove disposizioni della Sovrintendenza ai Beni Architettonici ma resta di fatto integro nella sua essenza e concezione. Primeggia la bianca torre di Babilonia alla quale sono affiancate efficacemente poche colonne mobili, le quali sono utilizzate per i quadri che compongono i quattro atti dell’opera. Costumi sfarzosi e molto appariscenti contribuiscono a quell’ideale onirico di un tempo così remoto come la grandiosa civiltà Assiro-Babilonese. Lo spettacolo è funzionale e di grande effetto scenografico, l’attuale regia di De Bosio coordina egregiamente le numerosissime masse sia corali sia di figuranti. Senza cercare soluzioni particolari, il regista lascia alla musica il compito di scandire la drammaturgia, non negando ai singoli interpreti, in particolare al protagonista, Abigaille e il coro, posizioni di assoluto rilievo. Purtroppo alla recita cui ho assistito le condizioni atmosferiche, non erano delle migliori e l’opera è stata interrotta al terzo atto dopo il duetto “Donna chi sei”, ciò non impedisce egualmente di poter svolgere la recensione. Non parlerò ulteriormente dei problemi d’amplificazione del suono orchestrale con la viva speranza che per la prossima stagione saranno adottate correzioni indispensabili. Sul podio abbiamo trovato Julian Kovatchev, una presenza abituale a Verona. Egli è un concertatore di routine senza specifici colori né emozioni. Tuttavia riesce a tenere assieme buca e palcoscenico, ma non offre suggestioni e dinamismi tipici del primo Verdi. La compagnia di canto si può ascrivere alla più banale grossolanità poiché nessuno ha espresso caratteristiche vocali-interpretative apprezzabili. In particolare delude Marco Vratogna per scarso peso specifico vocale e una sommaria interpretazione molto grezza cui si deve aggiungere una decisa mancanza nel recitativo. L’Abigaille di Lucrezia Garcia sfodera un prezioso materiale, ma non utilizzato in quest’occasione al meglio. Credo che il ruolo sia al limite per le sue corde e rispetto ad una performance di Aida lo scorso anno era molto affaticata, probabilmente da impegni recenti. Resta comunque il valore di una voce molto affascinante ma con agilità e resa scenica da rivedere completamente. Vitalij Kowaljow è uno Zaccaria appena accettabile per carenza di classe e nobiltà d’accento non riuscendo a sviluppare un ruolo così profondo e statuario. Note ancor meno positive per Giancarlo Monsalve, stentoreo e poco incisivo Ismaele, e per Andrea Ulbrich, una Fenena che non lascia traccia. Corretti Antonello Ceron ed Elena Borin rispettivamente Abdallo ed Anna. Il coro fa la sua ottima figura, ben istruito da Giovanni Andreoli. Pubblico molto numeroso ma altrettanto deluso per l’inevitabile sospensione dello spettacolo.

ADELAIDE DI BORGOGNA [Lukas Franceschini] Pesaro, 8 agosto 2011 (prova generale).
Il Rof è giunto alla sua XXXII edizione e alcune delle opere che sono rappresentate in questi anni sono state lasciate per ultime giacché la stesura dell’edizione critica è molto più difficoltosa perché non si è in possesso dello spartito autografo.
Il Rof ha da sempre collaborato con la Fondazione Rossini nel recuperare tutto il materiale compositivo di Rossini e rappresentare le opere nella loro stesura originale a seguito di un lavoro d’analisi e di critica testuale, lavoro difficoltoso ma che sta giungendo al termine, mancano ancora solo tre titoli. L’edizione 2011 del Festival si è inaugurata con Adelaide di Borgogna, dramma serio del 1817 che non ebbe grande successo tanto da essere dimenticato per oltre un secolo. Ripreso a Londra nel 1978 ebbe però maggior fama la riesumazione di Martina Franca nel 1984 (poi ripreso a Parigi) con Alberto Zedda e Gabriele Gravagna che ne curarono l’edizione sugli apografi. Oggi gli stessi musicologi hanno completato la vera Edizione critica e pertanto l’opera è stata rappresentata in forma scenica a Pesaro. Tutti, o quasi, conosceranno la celebre incisione Fonit-Cetra effettuata al tempo nella Valle d’Itria, la quale e confronta con l’attuale, non cambia nella sinossi, sono invece previste nella nuova stesura delle cadenze ex novo e diverse variazioni. L’arduo lavoro di Garavaglia e Zedda, cioè la ricostruzione testuale, è stato condotto sulla base delle poche testimonianze apografe: quella conservata nella Biblioteca di Santa Cecilia (sinfonia e atto I), tre copie del libretto conservate rispettivamente al Conservatorio di Firenze, nella Biblioteca dell’Istituto Musicale Boccherini di Lucca e l’altra nella Biblioteca nazionale di Parigi. Un’altra partitura manoscritta si trova a Venezia nell’Archivio della Fenice, mentre altre copie sono conservate alla Library of Congress di Washington D.C., un’altra incompleta al Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, infine a Copenaghen si è rivenuta una partitura di provenienza veneziana alla Kongelige Bibliotek. Tutti questi documenti musicali sono molto differenti tra loro, e i molti casi vi sono molte arie, che sostituiscono quelle già classificate, ma che non sono attribuibili a Rossini; era prassi al tempo la sostituzione o addirittura che il compositore facesse uso di collaboratori. Da aggiungere, infine, che molto del materiale di Adelaide fu riutilizzato da Rossini, in parte modificandolo, in parte tale e quale, per una sua opera successiva: Eduardo e Cristina, e questo elemento è fondamentale per capire che Rossini aveva grande considerazione di Adelaide, anche se non fu un successo di pubblico. La nuova produzione pesarese è stata affidata a Pier’Alli, il quale come di consueto cura regia, scene e costumi. Egli scrive alcune note, pubblicate nel programma di sala, che in parte non sono condivisibili. Innanzitutto vorrei rilevare che Adelaide è un’opera seria anche se non un capolavoro come altre a venire o non così afferrata come il precedente Tancredi ma pur sempre opera seria e drammatica, pertanto dissento dalla concezione della ballata popolare e non capisco come si possa penare che Rossini tratti questo dramma con “leggerezza” come fosse un’opera comica. Rossini ha un suo stile inconfutabile sia nel serio sia nel buffo, ma con colori ed accenti esattamente differenti. Pur comprendendo che dal punto di vista registico sia difficile effettuare cambi scena cosi repentini, si passa da una fortezza a un campo di battaglia, mi sarei aspettato dal regista una maggiore fantasia che non ricorrere alle logore e abusate proiezioni filmate. Queste possono andar bene durante l’overture, tanto per focalizzare il luogo (ammesso che Canossa sia quello che ci ha mostrato, io non sono mai stato nel celebre borgo reggiano pertanto non posso dire) e poi il medioevo dell’Adeliade non è certo quello del ‘300, ma che durante tutta l’esecuzione sia un continuo di proiezioni tridimensionali direi che è troppo. Il coro si muove noiosamente come dei soldatini di piombo tutti in fila e squadrati, alcuni tableau vivant sono del tutto inutili, i costumi seppure bellissimi, alcuni suppongano riciclati da una sua precedente produzione, non corrispondono né alle visioni (tardo medioevo) e alla reale collocazione storica. Non commento alcuni ridicoli orpelli del coro femminile, neppure quell’ingiustificata battaglia di ombrelli i quali sono usati pure dalle guardie! Uno spettacolo mancato che non rende giustizia ad una drammaturgia e ad una musicalità insita nell’opera di tutt’altra cifra. Debuttava con successo al Rof il direttore Dmitri Jurowski, il quale tiene saldamente il ritmo seppur leggero e in taluni casi magari non approfondendo particolarmente l’aspetto tragico ma coadiuvato dall’ottima orchestra del Comunale di Bologna ha forte personalità e una caratura stilistica più che apprezzabile. Il coro, istruito da Lorenzo Fratini, si attiene al suo ottimo livello qualitativo. La vera sorpresa di questa produzione è caratterizzata dalla protagonista Jessica Pratt, una cantante che ascoltai anche in altri ruoli e che non sempre mi ha convinto. In quest’occasione ho trovato il giovane soprano al meglio delle sue possibilità sia interpretative ma soprattutto vocali. Ha raffinato molto la sua tecnica riuscendo a cantare sempre sul fiato con un fraseggio vario, morbido ed eloquente. Svetta in particolare nell’ottava superiore ove non trova ostacoli, ma riesce anche nel medio-grave con una sapiente misura di utilizzo dei suoi mezzi centrando con questo personaggio un vero successo personale e quanto di meglio eseguito finora in Italia. Daniela Barcellona non era al meglio della sua caratura in una parte particolarmente acuta. Le note erano sempre prese di petto, gli acuti forzati, il medio mai modulato a dovere, anche se all’orizzonte non vedo chi possa affrontare in maniera migliore la parte. Resta la caratura del personaggio, dosato magnificamente, tuttavia spreca alcune occasioni che una maggiore peculiarità potrebbe trasformarsi a suo favore. Lascia totalmente allibiti la scelta di un tenore come Bogdan Mihai per il ruolo di Adelberto. Il cantante è una tipica voce acerba e nasale che non raggiunge la zona acuta, poggiando prevalentemente su un medio malfermo e stridulo che necessita di cure urgenti qualora queste sortiscano effetti. Buona la prestazione di Nicola Ulivieri, Brengario, seppur non particolarmente raffinato ma è incisivo nel carattere e nella recitazione. Di limitato spessore le parti comprimariali anzi, veramente mediocri, e poiché Jannette Fischer e Francesca Pietropaolio hanno rispettivamente un’aria e una cavatina si potevano fare scelte più consone da un festival monografico.

MOSÈ IN EGITTO [Lukas Franceschini] Pesaro, 9 agosto 2011 (prova generale).
Il secondo titolo del Rof 2011 è Mosè in Egitto che fu rappresentato in prima assoluta al Teatro San Carlo di Napoli il 5 marzo 1818.
Anche in questo caso il Festival produce un nuovo spettacolo su una nuova revisione critica curata da Charles S. Brauner. È necessario fare un po’ di chiarezza su questa nuova versione critica la quale è semplicemente un pasticcio di varie versioni dell’opera e che sia avvallata da un Festival come il Rof lascia spazio a molte perplessità. Dopo la prima del 1818, l’opera fu ripresa sempre a Napoli nel 1819 con un terzo atto profondamente riveduto e con l’introduzione della celebre preghiera “Dal tuo stellato soglio”. Inoltre, come citato in locandina, non si tratta di un’opera seria bensì di un’azione tragico-sacra, Rossini nelle lettere addirittura citava “oratorio”, il quale stando alle leggi del tempo era possibile rappresentare nel periodo di Quaresima. È curioso che non sia eseguita l’aria di Amaltea “La pace mia smarrita”, presa di sana pianta da Ciro in Babilonia, ma inserita nell’opera alla prima nel 1818 per la celebre Fredericke Funk, poi in seguito eliminata quando non cantava la stessa. L’aria del Faraone “Cade dal ciglio il velo” fu composta per una ripresa del 1820, inizialmente il personaggio canta un’altra aria scritta dall’amico e collaboratore di Rossini Michele Carafa. L’aria di Mosè “Tu di ceppi m’aggravi la mano” non fu scritta da Rossini e pertanto eliminata, anche se tutte le arie sono presenti nel libretto di sala e nello schema musicale dell’opera. Insomma un pasticcio, o meglio, un accomodamento alla meglio mescolando differenti edizioni ed eliminando arie a piacimento. Inoltre in una differente edizione critica carata dallo stesso Charles Brauner e Patricia Brauner l’aria di Mosè sopra citata è sostituita da un’altra aria “Dal Re dei Regi”. Tuttavia questa produzione passerà, concedetemi il termine, “alla storia” non per questioni filologiche ma per uno spettacolo dei più bizzarri che si siano rappresentati al Rof, ideatore regista è Graham Vick scene e costumi di Stuart Nunn. Vick è uno dei registi più interessanti nel panorama lirico internazionale e i suoi spettacoli, seppur non di tradizione, hanno sempre avuto un coefficiente d’inventiva e linea interpretativa di altissimo lignaggio. Purtroppo non in quest’occasione! Vick peraltro non è mai banale, tutt’altro, egli coinvolge anche in una drammaturgia non condivisibile, perché nulla è dato al caso bensì altamente ragionato e sviluppato secondo una linea interpretativa molto personale. Lasciamo dunque da parte tutto quanto nel nostro immaginario collettivo rappresenta la vicenda biblica di Mosè, pertanto anche il concetto che quest’opera è un’azione tragica-sacra, ed avventuriamoci in una nuova “interpretazione” delle celebri vicende. Il comune denominatore della produzione è un inno contro tutti fondamentalisti religiosi, pertanto non ci sono i “buoni & cattivi”, ma sia gli ebrei sia gli egiziani sono presi di mira per la loro integerrima ortodossia. L’azione è spostata ai giorni nostri: la scena fissa prevede un palazzo imperiale sventrato dai bombardamenti, ai lati la deprimente periferia ove risiedono gli ebrei. Si ha un vero sussulto quando appare Mosè: identico a Bin Laden con tanto di barba, tipico copricapo e giubbotto mimetico. Al terzo atto quando intona la preghiera, alza il mitra al cielo! La piaga della pioggia di fuoco è realizzata con una schiera di kamikaze il cui esplosivo indossato lampeggia di rosso. Il coro è talvolta un gruppo di teste di cuoio che irrompono in platea puntando le armi contro gli spettatori, e questo in particolare mi ha molto disturbato perché pur sapendo che era finzione non è gradevole, anzi piuttosto irritante, vedersi puntare in faccia un mitra. Le vicende di Mosè implorante il suo Dio perché infligga le piaghe contro l’intero popolo egiziano diventa, in parte, così parabola dell’intercessione di una divinità a scopi politici e di potere, e il parallelismo tra gli ebrei e i palestinesi di oggi, da perseguitati a oppressori è alquanto arbitrario. Vick non tralascia anche altre angherie umane, i riferimenti a Guantanamo sono espliciti quando compaiono i prigionieri ebrei tenuti al guinzaglio, oppure ai primogeniti che soffocano con i gas, il riferimento è chiaro a quanto accaduto in Cecenia. Analizzato da questo punto di vista, il racconto è anche avvincente, e tutto sommato coerente, solo che stavolta il regista inglese ha calcato troppo la mano, uscendo a mio avviso dal binario iniziale: che cosa dovrebbe essere la rappresentazione tragica-sacra. Il messaggio è passato, sicuramente, ed è anche un messaggio forte e soprattutto in parte condivisibile, ma non sempre applicabile al teatro d’opera. Dove invece mi aspettavo un gran colpo di teatro, cioè il mitico passaggio del Mar Rosso, la delusione è forte nel vedere che è risolta con l’abbassamento di una parte del muro (Gaza) e l’arrivo del carro armato americano. Non posso negare la commozione nella scena finale quando il soldato sceso dal mezzo dona la barretta di cioccolato al bimbo sopravvissuto il quale indossa un ordigno kamikaze, forse nella speranza di un’effimera pacificazione. Tuttavia quello di Vick è uno spettacolo che fa riflettere, ragionare, pur non essendo agli antipodi di quanto espresse in partitura. Alla generale cui ho assistito molti applausi al regista con qualche isolata contestazione. Addirittura si legge che dopo la prima un deputato ha chiesto un’interrogazione parlamentare su quest’allestimento: a me pare che la nostra classe politica in questo periodo abbia altre cose cui occuparsi!  Passando sul versante musicale ho trovato la bacchetta di Roberto Abbado molto espressiva e ben stilizzata. Non raggiunge vertici come nell’Ermione, ma sicuramente la sua è una lettura che da notevole risalto all’aspetto sinfonico dell’opera e seppur con qualche rallentato di troppo riesce a collimare un ottimo lavoro tra orchestra e palcoscenico, prodigandosi in tempi e narrazione molto apprezzabili. Il versante canoro invece dimostra come oggi sia difficile se non arduo mettere assieme un cast degno di un Festival quale il Rof. Mosè è tra le poche opere serie di Rossini che non sono cadute nell’oblio grazie alla presenza di bassi autorevoli che si sono cimentati nel ruolo protagonista e tanto per citarne alcuni De Angelis, Pasero, Rossi-Lemeni, Ghiurov, Raimondi, Ramey. Pertanto la presenza di Riccardo Zanellato è del tutto impropria tolto il fisique du rôle. Già dalla sua entrata con un recitativo si evince che manca lo spessore vocale appropriato, di legato, di arcata sonora e di aulica e nobile impostazione cui vanno ad aggiungersi appariscenti falle tecniche nel settore acuto. E’ vero che privato della sua aria il personaggio è molto ridimensionato, ma che senso ha allestire un Mosè quando manca il protagonista? Gli fa da contraltare in tutti i sensi, il Faraone di Alex Esposito, il quale basso non è, ma un gusto appropriato, un recitativo curatissimo e una certa propensione al canto nobile determinano l’unico vero cantante di tutta la compagnia. Sonia Ganassi ha da qualche tempo inserito nel suo repertorio i cosiddetti ruoli “Colbran” ma in quest’occasione vuoi per stanchezza o per poca sensibilità non abbiamo avuto risultati come nelle precedenti occasioni. L’unica cosa a suo favore è un fraseggio nel recitativo molto curato, ma vocalmente ci sono state lacune sia nel settore acuto, sovente strillato, sia nel grave, forzato e di petto. Le cosiddette scale ascendenti sono raffazzonate e farfugliate e la zona centrale che risulta spesso afona. Manca inoltre nella grande aria che conclude l’atto II di una precisa linea di canto ora patetica ora virtuosa, con accenti appropriati da vera primadonna. Speriamo sia solo un momento di affaticamento. Osiride è un personaggio portante dell’opera e dovrebbe avere nel suo arco frecce saldissime nel settore acuto d’agilità ma anche robustezza armoniosa nei duetti. Dmitry Korchak ha solo buona volontà, ma è spesso forzato in altro e ha poca melodia. Il limitato spessore di Yihe Shi, Aronne, scivola su un ruolo che nel recitativo dovrebbe trovare terreno fertile se avesse un timbro più rotondo e musicale. Altro enigma pesarese è la presenza di Olga Senderskaya nel ruolo di Amaltea la quale con voce esilissima e stile approssimativo ridicolizza il personaggio, non mi è dato sapere se per tali motivi la sua aria, peraltro bellissima, è stata soppressa. Senza traccia il Mambre di Enea Scala, che comunque avevo sentito con maggior entusiasmo in altri ruoli, mentre Chiara Amarù si disimpegna in una professionale Amenofi.

LA SCALA DI SETA [Lukas Franceschini] Pesaro, 9 agosto 2011 (prova generale).
Come di consueto il terzo appuntamento del Rof è con la farsa, un genere spassoso e molto in voga ai primi dell’800 cui Rossini a Venezia deve i primi successi e l’attenzione d’impresari e pubblico, il titolo scelto per l’attuale edizione è La scala di seta.
L’opera fa parte di quel gruppo di farse datate 1812 che Rossini scrisse per il Teatro veneziano di San Miosè, un unicum nell’intera produzione perché dopo quell’esperienza il compositore non ritornerà sulla farsa, ma si dedicherà all’opera comica o semiseria. Piccoli gioielli musicali, spesso sottovalutati, ebbero fortune alterne sin dagli albori ma oggi la loro riscoperta e valorizzazione ci presentano un musicista appena vent’enne “rifinito” e particolarmente brillante. La scala di seta si rifà ai canoni settecenteschi dell’opera buffa, un intrigo amoroso costellato d’imprevisti, equivoci, e scambi d’identità, tutto di quanto più tipico dei maestri del ‘700/’800, cui Rossini aggiunge la sua originalità presentando l’opera in un sol atto, con una sinfonia iniziale e suddividendo la partitura in solo otto numeri, tali saranno pressappoco anche nelle altre farse di quel periodo. Stupisce ancora una volta come il Rof avvalla la tesi di inserire un’aria non scritta per l’opera ma allo scopo di allungare l’opera e dare rilievo ad un personaggio, e che tale tesi sia specificata da uno scritto del M° Zedda è ancora più rimarchevole, seppur in uso in epoca ottocentesca. L’aria in questione è “Alle voci della gloria” eseguita a sipario chiuso, è vero che presumibilmente fu scritta nel periodo veneziano di Rossini ma questo non ha nessun senso con la farsa La scala di seta ed inoltre che con tale aggiunta si giustifichi pure un intervallo non previsto. L’allestimento, curato dal binomio Damiano Michieletto alla regia e Paolo Fantin, scene e costumi, ebbe un travolgente successo nel 2009. Per questa ripresa bisogna rilevare che la regia è stata leggermente modificata calcando la mano su gags ed ammiccamenti onestamente del tutto superflui poiché lo spettacolo era ed è divertente già di suo senza bisogno di aggiungere altro. Inoltre trovandosi di fonte ad un cast “giovane” non era certo il caso di far entrare in scena taluni personaggi seminudi e non lo dico moralismo, figurarsi (!), ma solamente per sobrietà di una regia già spassosa senza l’ausilio di ulteriori appariscenze. Il tratto giocoso dell’opera era ben realizzato dalla scenografia originale di Fantin che in scala 1:1 rappresentava l’appartamento di Giulia, la ragazza che non poteva avere compagnia maschile per proibizione del suo tutore. La casa era visivamente senza pareti e l’assoluta comicità e brillantezza teatrale dei cantanti facevano intuire gli spostamenti nelle diverse stanze. Di particolare rilievo la caratterizzazione del servo Germano, Paolo Bordogna, un domestico asiatico d’irresistibile comicità. L’ensemble tutto era comunque ben affiatato sulla scena, divertente, spassoso. Il versante musicale era molto ridimensionato. L’Orchestra Sinfonica Rossini non è quella del Comunale di Bologna e ben si sentiva, la bacchetta di José Miguel Pérez-Sierra pur non impegnato su uno spartito difficile non brillava certo per arguzia e dinamismo, ma non creava neppure danni. Alcuni cantanti sono oggi conferme del panorama lirico attuale ma in quest’occasione mi è parso leggermente appannati e stanchi. Juan Francisco Gatell era, stranamente, un Dorvil monocorde e spesso nasale, mentre Paolo Bordogna a parte la vis scenica non dimostrava la consueta rotondità vocale che da sempre lo contraddistingue. Hila Baggio dimostrava appariscenti carenze tecniche cui si deve sommare una voce stridula e sfocata nel settore acuto tanto da domandarsi come sia approdata nel cast al Rof. Simone Alberghini era molto più corretto e tutto sommato più in parte nel ruolo ma alle prese con l’aria aggiunta apparivano ovvie problematiche nel canto sillabato e virtuosistico. José Maria Lo Monaco, Lucilla, e John Zuckermanerano dei discreti cantori ed interpreti. Successo travolgente dovuto più alla brillantezza e originalità dello spettacolo che all’aspetto musicale.

ADELAIDE DI BORGOGNA [William Fratti] Pesaro, 16 agosto 2011.
Opera inaugurale del ROF 2011, Adelaide di Borgogna non è forse una delle partiture più pregevoli del genio di Rossini, ma le melodie e il dinamismo con cui si svolge la vicenda ne fanno un melodramma davvero piacevole da guardare e ascoltare.
Nonostante i limiti dello spartito il direttore Dmitri Jurowski e il maestro collaboratore responsabile Sabrina Avantario compiono un egregio lavoro, nel rigido rispetto dei canoni rossiniani, ove possibile, dando un risultato molto omogeneo e ricco di sfumature.
Pier’Alli, come già più volte in passato, crea uno spettacolo a scena unica, avvalendosi di proiezioni e attrezzeria per richiamare le diverse – e in questo caso molto numerose – situazioni, dimostrando come non sia necessario sperperare denaro in imponenti scenografie per ottenere il giusto effetto. Il lavoro del regista fiorentino è sempre puntuale, improntato sulla gestualità, mai nulla è lasciato al caso e la vicenda è svolta in maniera equilibrata, come un nastro, senza mai un momento vuoto, anche se le parti corali potevano essere meglio rappresentate. Di dubbio gusto sono una poco comprensibile coreografia femminile e un’inadeguata battaglia degli ombrelli, ma si tratta fortunatamente di brevi momenti trascurabili.
Jessica Pratt, debuttante sul palcoscenico pesarese, veste i panni di un’incantevole protagonista, puntando sulle pregevoli qualità della sua voce, impreziosendo il ruolo con piacevolissimi filati fin dall’inizio; con una tinta romantica forse più belliniana che rossiniana, ma ciò è una questione di stile personale, su cui non è oggettivamente possibile estendere una critica completamente obiettiva. L’intonazione è ottima, la linea di canto è omogenea e le note sono tutte al loro posto, dal registro medio grave al sovracuto. Le agilità forse non sono tra le più vicine a Rossini, ma comunque in perfetto equilibrio col resto dell’interpretazione.
Daniela Barcellona eccelle, come sempre, nei ruoli en-travesti del repertorio serio rossiniano, di cui è specialista. La tecnica è ineccepibile, la qualità del canto è di altissimo livello, l’interpretazione è misurata e autorevole, forse un po’ femminile in certi punti, ma la colpa è più del librettista che non di chi veste i panni del personaggio. Lunghi e meritati applausi giungono alla cavatina d’ingresso “Soffri la tua sventura”, ma è soprattutto l’aria finale “Vieni: tuo sposo e amante” a lasciare il segno. Particolarmente degno di nota è il duetto di Ottone con Adelaide “Mi dai corona e vita” soprattutto nella cadenza “Sempre altare ov’io t’adori… Tu che i puri e casti affetti” dove le due protagoniste si esprimono in maniera davvero toccante.
Il giovane Bogdan Mihai è la vera incognita della produzione: si cimenta in una corretta interpretazione, ma la vocalità è ancora troppo acerba per poter dispiegare la parte in maniera perfetta e senza alcuna sbavatura. Grossi errori nel ruolo di Adelberto non ce ne sono, ma è l’impostazione che va rivista, la tecnica perfezionata e c’è ancora molto spazio per migliorare lo stile, i cromatismi, il recitativo e il fraseggio.
Il bravo Nicola Ulivieri risolve il ruolo di Berengario come un vecchio leone saggio, nel rispetto dei canoni rossiniani, ma con le legittime eccezioni richieste da una più moderna resa del personaggio, cattivo al punto giusto.
Completano il cast, senza lasciarne il segno, Jeannette Fischer, Francesca Pierpaoli e Clemente Antonio Daliotti nei ruoli di Eurice, Iroldo ed Ernesto.
Buona la prova del Coro del Teatro Comunale di Bologna diretto da Lorenzo Fratini.

MOSÈ IN EGITTO [William Fratti] Pesaro, 17 agosto 2011.
Mosè in Egitto, assieme all’edizione francese Moïse et Pharaon, è indiscutibilmente un’eccellente partitura, fortunatamente mai scomparsa dal repertorio dei grandi teatri, anche se poco spesso rappresentata. I momenti corali più intensi, come l’introduzione e il quintetto, il Coro e l’aria di Elcia nel finale secondo, o la preghiera dell’ultimo atto, lasciano chiaramente intendere il carattere tragico di questo Rossini, che stilisticamente si muove verso una grandeur sempre più accentuata, arrivando infine alla grand-opéra con quello che sarà il suo ultimo capolavoro teatrale. Il Rossini Opera Festival affida a Graham Vick la messinscena dell’azione tragico sacra, che si esprime attraverso una nuova produzione dalle tinte particolarmente forti, con una trasposizione temporale attualissima e che ha lasciato sconvolto gran parte del pubblico, dove lo smarrimento è più che legittimo, mentre inadeguate sono le contestazioni, soprattutto se riferite ad un lavoro svolto così bene, accurato, minuziosamente studiato, con delle idee ben seguite e filologicamente corretto, nonostante lo spostamento temporale di tremilacinquecento anni. Così per Graham Vick la tirannide egizia e la schiavitù ebraica si trasformano in fondamentalismo religioso e scena e vicenda sono cosparse di simboli e di fatti riconducibili al terrorismo islamico, agli attacchi israeliani, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Cecenia, a Guantánamo, a Gaza. È il terribile gioco degli oppressi e degli oppressori, delle vittime che si trasformano in carnefici. Le scene e i costumi di Stuart Nunn, nonché le luci di Giuseppe di Iorio, coadiuvano alla perfezione il grande lavoro del regista inglese, fino ad arrivare alla caduta del muro, che sostituisce l’apertura delle acque del Mar Rosso.
Riccardo Zanellato debutta al ROF nel ruolo del protagonista, corretto nel canto e nell’interpretazione, ma non eccelle, mancando in parte dell’elasticità indispensabile per il repertorio rossiniano e dell’autorevolezza richiesta dal personaggio.
Sonia Ganassi è invece la vera protagonista dell’opera e nella parte di Elcia dona un valore aggiunto anche a quest’altro ruolo “Colbran”, eccellendo tecnicamente e dando un’interpretazione tanto intensa quanto realistica. La voce è rotonda e piena, soprattutto nei centri e nei piacevolissimi gravi, talvolta purtroppo un po’ tirata negli acuti, evidentemente stanca, soprattutto durante il duetto con Osiride “Parlar, spiegar non posso”. Al termine della splendida aria “Porgi la destra amata” e della recita, gli spettatori la salutano con una vera e propria ovazione.
Lo stesso vale per Alex Esposito, alla sua quinta partecipazione al ROF. Il basso bergamasco ha una voce dotata di duttilità ed estensione e grazie ad una tecnica particolarmente importante può essere considerato un riferimento per il repertorio del belcanto. Il fraseggio è particolarmente espressivo, ottimi il recitativo, il canto spianato e quello d’agilità, l’interpretazione è sempre molto intensa ed emozionante e il personaggio di Faraone è reso con la giusta autorità e una buona carica passionale, soprattutto durante la cadenza dell’aria “Cade dal ciglio il velo”.
Al suo fianco è l’Amaltea di Olga Senderskaya, troppo giovane per possedere il giusto spessore richiesto dal ruolo, anche se riesce a mostrare alcune qualità che col tempo possono crescere.
Dmitry Korchak veste i panni di Osiride con intensità e calore e dispiega le pagine dedicate al suo personaggio con le giuste abilità proprie della parte, anche se in taluni punti è chiaramente in difficoltà, soprattutto nelle zone più basse.
Yijie Shi è un Aronne sempre preciso nella tecnica, dotato di voce chiara e morbida, ben proiettata ed impostata. Nonostante il ruolo non preveda arie e duetti, il tenore cinese sa farsi notare anche per raffinatezza ed è accolto molto calorosamente da tutto il pubblico.
Il bravo Enea Scala, nella parte di Mambre, ha purtroppo poco spazio per mostrare le sue qualità, che comunque vengono percepite e giustamente accolte. Lo stesso vale per Chiara Amarù nel ruolo di Amenofi.
Roberto Abbado forse non rispetta rigidamente i canoni rossiniani, ma è direttore abile, puntuale e preciso e il risultato raggiunto è certamente molto alto. Probabilmente alcuni colori sono più romantici e passionali di quanto non dovrebbero essere, ma l’effetto ottenuto è più che positivo, emozionante nei grandi concertati del finale primo “All’etra, al ciel” e del finale secondo durante la cabaletta “È spento il caro bene”, toccante nel quintetto “Celeste man placata” e nel quartetto “Quale assalto! Qual cimento”, celestiale nella preghiera finale “Dal tuo stellato soglio”.

LA BOHÈME [Lukas franceschini] Verona, 19 agosto 2011.
I confronti sono sempre ardui se non addirittura pericolosi, ma è inevitabile nel caso dell’opera La Bohème di Giacomo Puccini penultimo titolo dell’89° Festival all’Arena di Verona.
Il confronto è circoscritto ai due interpreti principali, Marcelo Alvarez e Fiorenza Cedolins, i quali sono gli stessi cantanti che hanno creato quest’allestimento nel 2005. Il tempo passa talvolta impari, le carriere si evolvono ma ripensare alle recite passate e quella d’oggi le perplessità sono inesorabili. Ovvio che l’attenzione si ponga sulla coppia degli sfortunati amanti e l’esito musicale odierno è tra i più sconcertanti, negativamente, del panorama lirico internazionale. Innanzitutto la partitura è stata abbassata almeno di mezzo tono e questo è già un preludio poco edificante. Marcelo Alvarez avrebbe ancora una voce meravigliosa per colore e mordente tipicamente latino ma ahimè, è usata così grossolanamente tanto da risultare cantore monotono e scialbo. Il registro acuto è limitato e la prova evidente si è avuta sia nella celebre romanza sia nel duetto finale atto I ma sorprende che un cantante del suo calibro non abbia il gusto e la fantasia di rimediare a queste carenze con accenti e colori tali da rendere credibile un personaggio. Invece no, tutto è “buttato” al caso, sperperato con dissolutezza in un canto di conversazione che con Puccini non ha nulla da spartire. Anche l’interpretazione scenica è abbastanza monotona, ma almeno non rifugge in plateali effetti e resta entro certi convenzionali limiti. Il discorso è molto diverso se parliamo di Fiorenza Cedolins. Della pastosa e vellutata voce di qualche anno addietro oggi non ne resta che un minimo ricordo e delle possenti armoniche arcate di squisito lirismo nemmeno l’ombra. Tuttavia ella cerca nei limiti di creare un personaggio, ora fragile ora gioioso, e ci riesce in parte ma la parola è accentata con eccessivo manierismo risultando più artificiosa che spontanea. La sua esibizione parte in sordina affrontando un primo atto con eccessiva prudenza, regalandoci poi quando di meglio le è concesso oggigiorno nell’aria del III atto eseguita con sufficiente bravura. Anche nel suo caso il colore e l’espressione sono alquanto generici e la scena della morte ne è un valido esempio. Per entrambi il ricordo a recite precedenti è risolutamente sfavorevole e credo non sia nemmeno il caso di argomentare una momentanea fase infelice. Se i protagonisti non brillavano, anche il contorno era insipido. Luca Salsi sarebbe un baritono con ottimi mezzi ma anche in questo caso malamente sperperati ove invece sarebbe necessaria maggiore perizia interpretativa e una linea di canto più forbita. Dayan Vatchkov era un grezzo ed incolore Colline, mentre Vincenzo Taormina non produceva danni nel ruolo di Schaunard ma non lasciava neppure segni apprezzabili. Banale, volgare e stridula la Musetta di Natalya Kraevsky, mentre era efficace e professionale il comprimariato composto da: Andrea Mastroni, Carlo Bosi, Victor Garcia Sierra e Manrico Signorini. Ritornava su podio areniano, dopo quattordici anni da un bel “Macbeth”, il M.o John Neschling. La sua direzione era complessivamente interessante nello spirito e nel colore orchestrale, ma notevolmente carente nel rapporto buca palcoscenico, di ciò abbiamo avuto prova nel secondo atto ove si sono riscontrati considerevoli sfasamenti con gli interventi del coro e con il canto di conversazione degli interpreti cui va sommata una certa lentezza, la quale forse non voluta dallo stesso quanto probabilmente imposta dai cantanti. Di questa Bohème resta nell’immaginario collettivo lo splendido allestimento di Arnaud Bernard con scene e costumi di William Orlandi. Una Boheme tutta bianca ambientata sui tetti di Parigi dove prevale la spensieratezza di quel modo di vivere, ma anche i lati drammatici visti come la fine della gioventù allegra. Uno spettacolo essenziale e pulito con una punta di modernità che non contrasta con il libretto. I cambi scena sono velocissimi, l’opera si rappresenta in due parti, la magia del Quartiere Latino è magistrale per allegria ed originalità, come pure il quadro terzo, nebbioso e glaciale ma sicuro effetto. Ottima, inoltre, l’inventiva del tableau vivant, nel II atto, quando tutto il coro e le comparse restano immobili per qualche minuto su punti essenziali del racconto. Peccato che ogni qualvolta le lattivendole attraversano palcoscenico e platea in bicicletta debba scoppiare un applauso, non è il Giro d’Italia! Bellissimi i giochi di luce che creano un’atmosfera davvero suggestiva ed anche gli sfarzosi costumi in stile primi del ‘900. Arena non gremita ma particolarmente calorosa negli applausi.

ROMEO ET JULIETTE [Lukas Franceschini] Verona, 24 agosto 2011.
All’Arena di Verona finalmente c’è stata una novità nella programmazione ormai stantia degli ultimi anni: Roméo et Juliette di Charles Guonod.
L’opera era stata rappresentata una sola volta nel 1977 nella versione italiana. È intenzione della direzione artistica inserire permanentemente il titolo (su libretto di Jules Barbier e Michel Carré) nel cartellone estivo, prendendo spunto che Verona è la città, ove il Bardo inglese ambientò la sua tragedia più famosa; e questa gioca un biglietto turistico di prim’ordine su tale piano considerando che il “monumento” (falso!) più visitato è la Casa di Giulietta. Ci si augura, ed è ipotizzabile, che l’opera sarà molto richiesta non solo dai melomani ma anche da una grande fetta di turisti. Per questa nuova produzione si è puntato su un team tecnico giovane: il regista Francesco Micheli e la costumista Silvia Aymonino affiancati da Edoardo Sanchi per le scene e Nikos Lagausakos per coreografie. Micheli mette molta carne al fuoco non tralasciando nulla del dramma ma è mia opinione che egli non approfondisce sufficientemente il dramma rifuggendo in una visione più musical che operistica. L’idea di rappresentare un teatro simile al Globe londinese è originale e brillante, si osservano due strutture moventi semicircolari con tre ordini di posti che in seguito creano le varie scene. Peccato che il loro spostamento procurasse un fastidioso rumore che sovrastava la parte musicale, inammissibile in un teatro tecnologico nel 2011. Il regista ha voluto celebrare a suo modo la città di Verona con simbologie diverse ma risultando alla fine troppo esagerato e cadendo a volte nel ridicolo. Non si capisce ad esempio la pellicola cinematografica posta ai lati del palcoscenico con scritti i cognomi delle fazioni nemiche, non sono chiari l’utilizzo di strutture moventi differenti, una torre per il Duca di Verona e il padre Capuleti, una sorta di palla di Natale che funge ora da chiesa ora da laboratorio chimico per Frate Lorenzo. Altrettanto astrusa l’auto volante su cui entrano in scena Stéphano e gli amici di Romeo. Alla fine abbiamo avuto uno spettacolo in parte classico ed in parte mescolato con modernità che assomigliavano a “Star Trek”, la cui cifra identificativa non risulta realmente centrata. Lo spostamento delle masse è molto meccanico ed ordinatamente militaresco, le scene con le feste ridotte a singolari coreografie mimate, spesso banali. I personaggi sono sempre rinchiusi in qualche struttura di complicata immissione scenica e di noiosa attesa. Ci sono poi le scale probabilmente perché simbolo di Verona (dagli Scaligeri, i signori più influenti e potenti nel medioevo). Romeo raggiunge l’amata su una scala nel II atto, il duetto finale è eseguito su due scale affiancate e quest’aspetto mi pare confuso e velleitario. L’unico momento di vero teatro lo abbiamo avuto nel finale quando i protagonisti al termine del duetto sulla scala centrale scendono e s’incamminano ai lati opposti del palcoscenico per ricongiungersi in platea e sugli accordi finali correre mano nella mano verso l’uscita come in volo idilliaco verso il paradiso che forse dovrebbe rappresentare per loro l’eterno amore. Scarsamente visibili, e non conosciuti ai più, i simboli iconografici realizzati sugli stendardi che sono srotolati sulla gradinata retrostante il palcoscenico. Passando sul versante musicale è doverosa una precisazione: inaccettabile eseguire l’opera con due intervalli quando sarebbe stato più opportuno, come di prassi in tutti i teatri, dividere la rappresentazione in due parti, inoltre è stato eliminato il balletto del IV atto, scelta quanto mai curiosa perché di sicuro impatto coreografico tanto caro al pubblico areniano e poi la Fondazione Arena ha un Corpo di Ballo che sarebbe stato opportunamente impegnato. La direzione di Fabio Mastrangelo è di ottima finitura e forte dinamismo orchestrale cogliendo perfettamente lo stile Opera-Romantique. Egli da respiro ai cantanti, cesella i preludi con cura, sorregge il coro con pregevole impulso, peccato che tutto ciò sia di scarsa udibilità a causa dei problemi insiti nel collocamento della buca orchestrale, urge una doverosa soluzione. Nel folto cast emerge Stefano Secco, un Romeo espressivo dalla voce piena e chiara, il quale non oltrepassa i suoi limiti, ma è efficace, abbastanza preciso nel settore acuto e di buona fattura romantica. Nino Machaidze ripete la sua recente performance scaligera, disinvolta scenicamente, rivela una voce molto piccola (in Arena udibile perché le voci sono aiutate da un sistema di amplificazione) ma dimostra tutti i suoi limiti nella zona di passaggio e soprattutto negli acuti sommariamente striduli. Inoltre non brilla per virtuosismo nell’aria del primo atto né tantomeno per drammaticità in quella del IV e nemmeno parlarne di romanticismo nei quattro duetti. Buona la prova di Ketevan Kemoklidze uno Stéphano molto musicale, altrettanto il Mercutio di Artur Rucinski spavaldo e pienamente efficace nella ballata. Notevolmente inferiori il grezzo ed inespressivo Giorgio Giuseppini nel ruolo di Frate Lorenzo e Manrico Signorini usurato e vociante Capulet. Il resto dei comprimari era misurato e partecipe ad eccezione del forzato Duca di Deyan Vatchkov. Buona la prestazione del coro istruito da Giovanni Andreoli.

NABUCCO [Lukas Franceschini] Verona, 1 settembre 2011.
Abbiamo assistito all’ultima recita dell’opera Nabucco di Giuseppe Verdi nell’ambito dell’89° Festival all’Arena di Verona.
La recita di luglio era stata interrotta per pioggia, stavolta il tempo era clemente anzi afoso e la rappresentazione è stata eseguita integralmente. Non parleremo dello spettacolo di cui abbiamo già detto nella recensione precedente. L’orchestra era diretta sempre da Julian Kovatvchev, il quale è stato più incisivo rispetto alle prime recite. Il colore orchestrale era molto bello, tempi egregi ed incalzanti. Il primo Verdi non credo sia la cifra identificativa del direttore, ma nel complesso la sua è stata una direzione sobria e sotto taluni aspetti elegante ed incalzante. Semmai è doveroso rilevare che alcune parti degli ottoni non erano propriamente precise. Il coro ha fornito prova di grande professionalità, e il celebre intervento all’atto III seppur non particolarmente seducente ha dimostrato puntualità e precisione, tanto da richiedere l’immancabile bis, ma in Arena è ormai di prassi. Purtroppo abbiamo avuto molte ombre sul versante canoro e l’unica luce è stata la presenza di Maria Billeri. La giovane cantante, che recentemente si è messa in luce nella produzione dell’opera Medea di Luigi Cherubini nel Circuito Lombardo, ha sfoderato una voce molto bella, pastosa e ben amministrata in tutti i registi, tuttavia è il canto drammatico d’agilità a metterla a disagio in qualche momento e le scale ascendenti erano un po’ pasticciate. Mi riservo di successiva verifica sul palcoscenico ma credo che un canto seppur drammatico ma più spianato sia un terreno ove lei potrà dare risultati molto più apprezzabili. In ogni modo è cantante da seguire con attenzione e speriamo al più presto. Protagonista era il baritono Leonardo Lopez Linares che si è espresso in un Nabucco sotto la sufficienza per stile e tecnica. La voce sarebbe anche interessante, corposa, buon volume e sicura nel registro acuto ma sovente nasale e il dominio dei fiati è carente. L’interprete poi è generico e gli accenti triviali. Ritornava sulle tavole dell’Arena il basso Francesco Ellero d’Artegna, il quale salvo errori festeggiava i trent’anni dal debutto nel ruolo di Zaccaria. Il tempo purtroppo non è passato indenne e un logorio vocale era evidente oltre a molte approssimazioni in alto. Il registro grave è ancora molto seducente e compatto e di grande effetto, oltre ciò vi è anche un vero interprete e fraseggio e stile erano eloquenti. Notevolmente infelice l’Ismaele di Enrique Ferrer, stimbrato e vociante. Eufemia Tufano, Fenena, pur con timbro anche appropriato non superava la prova nel suo assolo al IV atto per carenze tecniche, migliore Maria Letizia Grosselli, Anna, puntuale l’Abdallo di Giorgio Trucco, tonante ma sguaiato il Gran Sacerdote di Belo di Manrico Signorini. Il teatro era abbastanza gremito, oltre i tre quarti della capienza, e pubblico molto caloroso negli applausi.

LA TRAVIATA [Lukas Franceschini] Venezia, 7 settembre 2011.
La stagione lirica alla Fenice riprende anticipatamene in agosto con La Traviata di Giuseppe Verdi e si ripropone l’allestimento di Robert Carsen che inaugurò il ricostruito teatro nel 2004.
Dieci recite fuori abbonamento che possono essere definite “recite turistiche”, molti stranieri esaurivano il teatro, pertanto fa bene la direzione artistica a programmare un titolo di cassetta, semmai sarebbe auspicabile cast meno ripetitivi. Dello spettacolo ho detto già a suo tempo: l’azione è spostata in epoca moderna (idea non originale) e la drammaturgia è sviscerata fino in fondo non tralasciando nulla del mondo corrotto nel quale vive la protagonista. I soldi sono elemento fondamentale, infatti, Violetta vive per quelli e la sua professione ne determina l’introito. Fortunatamente oggi non si dipinge questa storia come una favola drammatica ma si pone l’accento su un mondo debosciato e lussurioso nel quale la vicenda privata della protagonista s’interseca fuori dai canoni e la fase finale che diventa, purtroppo per lei, pure drammatica. Robert Carsen è maestro di questo genere di spettacolo e nulla è lasciato al caso, dallo sfarzo della stanza da letto, dove Violetta ospita i suoi amici per la festa del I atto, al locale stile “lap dance” della festa di Flora. Strana la scena autunnale del II atto, poiché nel libretto è febbraio, troppo disadorna, e in quest’occasione sono mancate pure le foglie che coprivano il palcoscenico nella versione originale. Desolante e squallido il III atto, una casa ormai distrutta in fase di rifacimento considerato che l’inquilina l’avrebbe occupata ancora per poco. Il regista calibra tutti i personaggi in maniera egregia, Violetta un’appassionata meretrice cui il destino ha offerto anche l’amore, sentimento estraneo al suo vivere, Alfredo è un giovanotto infuocato ma giustamente superficiale, Germont un rigido genitore cui l’appartenenza borghese gli impedisce di andare oltre il limite della reputazione sociale. Ottile le figure di contorno, dal lascivo Douphol alla spensierata Flora e tutti i disincantati signori della Parigi borghese. Avrei preferito qualche luce più intensa sul palcoscenico, ma forse meglio così perché le scene di Philippe Giraudeau non erano certo belle, egli riusciva meglio nei costumi. Sul podio dell’Orchestra della Fenice abbiamo trovato Renato Palumbo, il quale è stato un elemento determinante in questa Traviata molto sottotono. L’orchestra non era al meglio e la concertazione era pesante e fracassona, slegata nei tempi e certamente di scarso interesse. Il Coro si esprimeva onesta professionalità. Per Patrizia Ciofi è ormai un appuntamento fisso quello con la Traviata alla Fenice nel mese di settembre ma rispetto al 2004 le cose sono cambiate in peggio. La cantante ha dimostrato pesanti lacune vocali, cantava su un fiato corto e difficoltoso anche per la non corretta impostazione, il registro acuto era ostico e limitato. Resta nel suo carniere una presenza scenica efficace, ma stavolta ha calcato la mano soprattutto nel III atto rifacendosi ad una recitazione molto pesante da far impallidire miti come Francesca Bertini. Shalva Mukeria non è stato sbalorditivo come nella precedente Lucia, anzi direi che il ruolo non è del tutto appropriato alla sua vocalità, la quale potrebbe dare risultati migliori nel repertorio donizettiano. Della recitazione meglio non parlare, il timbro lo sappiamo non è bello, lo stile sarebbe di prim’ordine ma in Verdi se mancano accenti e fraseggio non si supera la prova. Inoltre, considerando che la sua peculiarità è il settore acuto avrebbe quantomeno eseguire il da capo della cabaletta. Qualche momento di rilievo l’ha avuto nel III atto, ma nel complesso troppo limitativo. Seung-Gi Jungè un sommario baritono, artista stabile in un teatro tedesco, che nulla ha fatto, nulla ha detto e nulla ha proferito in questo ruolo per essere degno di degno di nota. Abbastanza corretto il folto stuolo di comprimari, ove si è messo in luce il barone di Elia Fabbian e il dottore di Luca Dall’Amico. Trionfali applausi al termine.

FIDELIO [Lukas Franceschini] Milano, 9 settembre 2011.
Lo scambio culturale tra il Teatro alla Scala e la Staatsoper di Vienna ha portato a Milano Fidelio di Beethoven mentre a Vienna si eseguiva la Messa da Requiem di Verdi.
Per la precisione questa tournée si è rivelata zoppicante rispetto ai programmi, inizialmente l’Opera di Stato di Vienna avrebbe dovuto eseguire alla Scala due recite dell’opera Arabella di Richard Strauss e un concerto. In seguito il titolo è stato cambiato in Fidelio pur mantenendo lo stesso calendario, ma la settimana delle rappresentazioni motivi non chiari o almeno non resi pubblici hanno determinato l’annullamento di una recita operistica (anche se in forma di concerto) e il concerto sinfonico, pertanto l’unica esibizione è avvenuta la sera del 9 settembre. Fidelio o L’amor coniugale, unica opera lirica di Ludwig van Beethoven, dapprincipio nasce col titolo di Leonore, successivamente rimaneggiato, esistono tre versioni, è di prassi eseguire la definitiva del 1814 con l’inserimento dell’overture Leonore III (una delle quattro scritte come apertura della composizione) prima della scena finale. Questa consuetudine non fu ideata dall’autore ma da eccellenti direttori, von Bulow e Mahler, alla fine del secolo scorso. Sovente Fidelio è considerato un singspiel ma, in effetti, ne è infinitamente superiore per una scrittura musicale che si appresta al grande classicismo sinfonico e la forte intensità espressiva del canto. A questo si deve aggiungere un soggetto che da sempre è stato sinonimo di libertà e giustizia (l’arrivo di Don Fernando è segnato da una tromba), l’alto profilo del dramma e lo sviluppo drammaturgico musicale sia negli “assolo” sia negli assieme, in particolare i due quartetti del primo e del secondo atto. Un capolavoro a tutti gli effetti! L’esecuzione della Staatsoper di Vienna era molto attesa a Milano, sia per la fama cui gode il complesso austriaco sia per il titolo, il quale è uno degli emblemi del teatro musicale tedesco, non a caso Fidelio fu l’opera con la quale si inaugurò la restaurata Staatsoper dopo i bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale nel 1955 e diretto da Karl Bohm. L’ensemble canoro scritturato è sulla carta una delle più autorevoli compagnie oggi proponibili. Ciò non dimostra purtroppo che l’esecuzione ascoltata a Milano sia stata tra le più memorabili. L’orchestra ha un suono oserei dire perfetto, tolta qualche piccola imperfezione nell’overture, una linea compatta e un’assoluta dinamica tra le parti. Il problema dell’esecuzione sta nella bacchetta di Franz Welser-Most, direttore stabile a Vienna il quale salì a fama internazionale durante la sua permanenza stabile a Zurigo ove ha realizzato lavori di pregio. La sua concertazione alla Scala è stata molto scialba e squilibrata nei tempi, nelle sonorità e nella drammaturgia. Welser-Most è carente nel gusto, che non può dirsi neoclassico, perché non imprime all’orchestra quel pathos necessario alla realizzazione di un dramma di così forte tensione. Lo abbiamo avvertito nell’aria di Leonore, nel coro dei prigionieri ma soprattutto nel quartetto del secondo atto, un quartetto spento, monotono e per nulla elettrizzante. Questi sono i limiti del direttore, che in Fidelio sono madornali. Poi improvvisamente con una buona esecuzione della Leonore III e un finale molto infuocato in parte si riscatta, ma qui bisogna rilevare che tale operazione è stata concretata con l’apporto di un coro molto efficace. Il versante canoro ha rivelato più ombre che luci a cominciare da Nina Stemme, la quale, comunque, era la migliore del cast. Il soprano svedese ha riconfermato i suoi limiti in Beethoven, gli stessi dell’esibizione a Lucerna con Abbado nel 2010, una voce tutto sommato piccola con sfasature nel centro, poco incline al legato ed il settore acuto talvolta fisso e sfuocato. È vero che non esiste molta scelta a livello internazionale ma credo che Beethoven non sia il suo terreno d’elezione. Quando si parla di Peter Seiffert è doveroso rendere un omaggio alla carriera, la quale credo ultratrentennale, ma ciò non ci esime da rilevare che oltre a non essere in parte, men che meno nei recenti Wagner, il logorio invitabile era evidente. Oggigiorno la sua voce dura, sfuocata e spesso traballante ha fatto passare in assoluto silenzio l’esibizione. Al contrario di altri è doveroso aggiunger che quantomeno il volume è ancora ampio ed importante. Hans-Peter Konig avrebbe l’autentica voce di basso, oltre al fisique du role, ma canta tutto forzato e per nulla modulato. Di Albert Dohmen è imbarazzate scrivere tanto la sua performance è stata scadente. La Marzelline di Anita Harnig era blanda e povera di charme, sfuocati ed inespressivi Norbert Ernst e Markus Marquardt rispettivamente Jaquino e Don Fernando. Come predetto il finale è stata la cosa migliore di tutta l’esecuzione, ottenendo così un autentico trionfo da parte del pubblico.

GEMMA DI VERGY [William Fratti] Bergamo, 16 settembre 2011.
Nonostante la crisi finanziaria il Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti riesce a costruire un cartellone degno del suo nome, almeno sulla carta, con titoli spesso assenti dai palcoscenici italiani come Gemma di Vergy e Maria di Rohan, ed interpreti di assoluto rilievo. L’inaugurazione spetta alla tragedia lirica tratta dal Carlo VII di Dumas, capolavoro assoluto del compositore bergamasco, sintesi del belcanto drammatico e del belcanto romantico.
Lo spettacolo firmato da Laurent Gerber è molto tradizionale, piacevole e non monotono nello sviluppo della vicenda, purtroppo privo di idee accattivanti che avrebbero potuto renderla più interessante. In collaborazione con gli allievi dell’Accademia Teatro alla Scala, Angelo Sala realizza delle scene abbastanza classiche, come pure i costumi, che però spiccano maggiormente, sia per il gradevole taglio, sia per le belle stoffe. Suggestive sono le luci di Claudio Schmid, mentre ridicoli sono i movimenti coreografici di Tiziana Colombo che accompagnano i cori delle damigelle di Ida.
Roberto Rizzi Brignoli dirige l’Orchestra del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti con risultato approssimativo e dozzinale. Lo stesso vale per il Coro guidato da Fabio Tartari. Purtroppo è difficile commentare in maniera obiettiva un tale risultato, che da anni si ripete in quasi tutte le produzioni. In poche parole i fondi sono pochi, pertanto è impossibile accogliere formazioni già composte e al lavoro tutto l’anno; il tempo disponibile per le prove musicali è scarso, quindi diventa difficile raggiungere una certa omogeneità; pertanto ciò che si ottiene manca inevitabilmente di amalgama, di precisione e di approfondimento. Da ciò si evince che la colpa non può essere del singolo.
Maria Agresta, forte del recente successo ne I vespri siciliani a Torino, dà voce al difficilissimo personaggio di Gemma, prodigandosi in un ruolo che corre continuamente dal drammatico al romantico. Il recitativo precedente la cavatina d’ingresso mostra immediatamente le qualità del soprano, che possiede chiaramente un’ottima intonazione, ma durante l’aria appare leggermente acerba. Nel successivo duetto con Guido le frasi sono molto belle ed eleganti, e la luminosità del suo canto spianato trova il suo apice nel concertato conclusivo del primo atto. Nel quartetto torna a dare segni di asprezza, mentre nel rondò finale raggiunge scioltezza ed omogeneità. Il buon risultato raggiunto molto probabilmente sarebbe stato ottimo, se il tempo a disposizione per le prove musicali, di un’opera quasi assente dal repertorio, fosse stato maggiore.
Mario Cassi ha una bella linea di canto, ma decisamente limitata nell’estensione. Le note gravi sono tutte parlate, mentre la brillantezza, lo squillo e gli accenti sono tutti proiettati verso l’alto, più vicini a quelli di un tenore. È indubbiamente piacevole ascoltare questa voce finché si resta vicino al registro centrale, ma spostandosi verso il basso, o passando all’acuto, si ode una vocalità molto particolare, forse più adatta ad altro tipo di repertorio.
Gregory Kunde oggi sta vivendo una seconda giovinezza, ma pare recentemente adatto a repertori dalle tinte più spinte e drammatiche, pertanto non è perfettamente a suo agio nelle pagine del giovane Tamas, che necessiterebbero di maggior grazia e delicatezza. Ciò non significa che non si sia apprezzata la sua performance, comunque degna del nome che porta, anche se avrebbe potuto evitare di concludere l’aria con un acuto corto e spezzato.
Leonardo Galeazzi è un Guido perfettamente caratterizzato, giustamente a metà strada nell’affetto per il Conte e per Gemma. Purtroppo la bellissima cavatina d’ingresso è quasi completamente coperta da un coro e un’orchestra eccessivamente forti e calcati, come pure il pertichino di Rolando. Colpiscono maggiormente l’eleganza e l’ampiezza delle frasi nel duetto con Gemma e nel finale primo.
Dario Russo è un Rolando efficace e ben impostato, mentre Kremena Dilcheva è stridula e sgraziata nel ruolo di Ida.

GEMMA DI VERGY [Lukas Franceschini] Bergamo, 16 settembre 2011.
Il Donizetti Festival 2011 è stato inaugurato con una “rarità” Gemma di Vergy, che tolto le recite sempre a Bergamo del 1987 e le varie occasioni negli anni ’70 con Montesserat Caballé, era titolo d’oblio ottocentesco.
L’opera, composta per l’inaugurazione di stagione scaligera nel 1834, non può essere considerata un capolavoro del bergamasco, ma contiene comunque molti pregi dal punto di vista del belcanto sperimentale che si rese concreto poi con altri titoli. E’ opportuno precisare il melodramma fu composto sapendo che ad interpretarlo sarebbe stata Giuseppina Ronzi De Begnis ovvero un’autentica primadonna che furoreggiava a Napoli quanto a Milano e che Donizetti conosceva bene perché aveva creato per lei i ruoli di Fausta e Sancia di Castiglia. Una cantante belcantistica dunque ma altrettanto eroina, interprete ed attrice tragédienne. L’indifferenza e la denigrazione subita da Gemma per merito delle programmazioni artistiche sono tuttavia eccessive. Altrettanto vero è la peculiarità necessaria per gli interpreti soprattutto il soprano, il quale deve essere afferrato nel canto d’agilità come nel canto spianato, un’efficace eroina e fredda vendicatrice nel finale. Ci riprova il Donizetti Festival di Bergamo, a vent’anni dall’ultima edizione, cui bisogna riconoscere una fiera volontà parallela alle esigue finanze e alla compagine musicale stabile. Lo spettacolo realizzato da Laurent Gerber è abbastanza godibile nel complesso, si apprezzano le belle scene a fondale e i ricercati costumi di Angelo Sala (ma il conte di Vergy non si poteva vestire meglio?) meno la regia. Il coro purtroppo si muove a passo militare, è carente l’idea drammaturgica di fondo, anche se l’idea di ispirarsi ad un quadro di Paolo Uccello è certamente originale ma Gemma offre molte pagine d’effetto, che se studiata in misura maggiore avrebbe sicuramente offerto consistenza ai personaggi sovente lasciati a se stessi, e avrebbe sopperito a taluni momenti musicalmente meno felici. Non si distingue il Coro, preparato da Fabio Tartari, ascoltato in passate edizioni più preciso e partecipe. Il recupero di Gemma avrebbe preteso una bacchetta più incisiva e più stilistica rispetto alla proposta di Roberto Rizzi Brignoli, il quale si riconferma buon accompagnatore ma manchevole di fantasia, più atto alla lenta ruotine che alla concertazione dinamica belcantistica, non gli viene in aiuto nemmeno la svogliata ed imprecisa orchestra del Festival. Per la prima volta Gemma di Vergy è rappresentata nella sua integralità basandosi sulla nuova revisione sull’autografo a cura di Livio Aragona e non di edizione critica come erroneamente citato da alcuni. Protagonista era Maria Agresta giovane promessa odierna. Timbro bellissimo, tenuta efficace. La sortita è alterna soprattutto nelle agilità e il registro acuto è stridulo, ma la linea di canto è bella e da tenere in considerazione. Essa è più a suo agio nel declamato cui offre abile prova in “Un altare, un benda” nel III atto, la zona grave invece è un po’ carente inoltre, la corta carriera non la rende così astuta da sfruttare al meglio momenti “magici” come il concertato finale atto I ove avrebbe potuto sgranare voce e temperamento vincendo su tutti. Una prova comunque più che positiva anche se la cifra della primadonna è da modellare o meglio calibrare, ma è augurio e auspicio di un prossimo futuro con ruoli per ora più contenuti. Il marito, vile ripudiatore, era interpretato da uno scialbo Mario Cassi cui manca lo stile del nobile baritono donizettiano, l’accento, il fraseggio, per non parlare della presenza scenica. Gregory Kunde, il servo Tamas innamorato della protagonista, è impresentabile quale tenore belcantista, la traccia di un passato anche apprezzabile è riposta solo nelle intenzioni, la voce è logora, gutturale e monocorde. Discreto ma apprezzabile il Guido di Leonardo Galeazzi, di ruotine il Rolando di Dario Russo, mentre molto scadente è stata la prova di Kremena Dilcheva per mancanze sia tecniche sia stilistiche. Al termine l’intera compagnia ha ottenuto un caloroso successo con particolare punte di gradimento per la protagonista.

IL RITORNO DI ULISSE IN PATRIA [Lukas Franceschini] Milano, 21 settembre 2011.
Il ritorno di Ulisse in patria (1640) di Claudio Monteverdi segna il secondo appuntamento alla Scala con la trilogia del compositore cremonese, la quale stranamente si concluderà nel 2013.
L’opera fu la prima scritta da Monteverdi per un teatro pubblico, non è comunque differente la cifra musicale stilistica che da lì a poco avrebbe prodotto il vero capolavoro ovvero L’incoronazione di Poppea. Il libretto, scritto dal caro amico Giacomo Badoaro, si disimpegna con sufficienza ma non con originalità nel complesso racconto ispirato dalla famosa tragedia greca di Omero. Ulisse resta tuttavia uno dei pilastri primordiali del melodramma e l’influenza che avrà sui posteri del ‘600 e ‘700 sarà più importante di quanto è prassi immaginare. Claudio Toscani, giustamente, scrive sul programma di sala: “Il ritorno di Ulisse in patria è un vero dramma in musica, le strutture elaborate, che puntano, all’effetto scenico, gli ampi mezzi musicali sono posti al servizio del dramma, in funzione del quale ogni sezione della partitura giustifica se stessa e la sua forma. La musica non è dunque pura e stratta costruzione destinata a sedurre l’orecchio, ma assume su di sé una funzione rappresentativa perché ognun personaggio s’investe di ciò che canta”. Sposiamo in pieno tali affermazioni le quali sinteticamente scolpiscono ciò che è il dramma monterverdiano e purtroppo si distaccano anni luci dalla concezione di Robert Wilson, regista dello spettacolo. Abbiamo assistito ad un Ritorno glaciale, freddo, tutto manierato e totalmente privo d’affetti teatrali. Questo cozza notevolmente con il concetto di dramma per musica, basti pensare alla rilevanza drammaturgica del duetto del riconoscimento tra Telemaco e Ulisse, alla disperazione di Penelope del primo atto e ai vari interventi di Eumene ed Ericlea. Wilson gioca il tutto su un effetto mimato, pose da teatro d’avanguardia, quasi icasticamente iconografico, un genere ormai troppo abusato anche da lui stesso per essere apprezzato, inoltre, i cantanti sono sempre distaccati e mancano le emozioni, il coro è relegato in buca, vecchia e sbrigativa soluzione talvolta di chi non sa come muovere le masse. Non resta che apprezzare l’effetto sbalorditivo delle luci e una scena ben realizzata da costruzioni di altra pietra le quali costituiscono la ventennale prigione claustrofobica e tirannica di Penelope, ma avremo voluto meno astrattezza, perché quando si racconta, si deve narrare. Originale e pregevole realizzare il prologo ispirandosi al dipinto Le printemps di Nicolas Poussin, anche se non è ben chiaro il concetto. Belli i costumi di Jacques Reymanud in bilico tra l’antica Grecia e il barocco seicentesco. Il maestro concertatore Rinaldo Alessandrini non ha certo bisogno di presentazioni, credo senza ombra di smentita che sia l’italiano massimo studioso ed interprete di Claudio Monteverdi. Non ci addentriamo nella ricostruzione della partitura, argomento che richiederebbe un convegno poiché lo spartito, che è conservato a Vienna, differenzia assai dai libretti superstiti: In quest’occasione abbiamo registrato molti tagli, non sappiamo a chi imputare tale scelta che riteniamo troppo accentuata. Il teatro della Scala è ovviamente troppo vasto per una credibile realizzazione delle opere che si avvalgono di pochi strumenti e un basso continuo e questo s’è sentito, vero altrettanto che è impossibile trovare altre soluzioni giacché scellerate decisioni addietro vollero eliminare la “Piccola Scala”. Alessandrini è un direttore preciso e “regolatore” di bellissime sonorità, seduto al cembalo, impartisce una lezione di stile, non filologica, di altissimo livello pur non avendo a disposizione un’orchestra abituata a tale repertorio e l’intensità con cui accompagna i tratti solistici è ammirevole. Nella compagnia di canto abbiamo riscontrato come di consueto luci ed ombre, ma è d’obbligo rilevare che per tale operazione e in simile teatro sarebbe stata opportuna una scelta più peculiare. Tant’è che la Penelope di Sara Mingardo ammalia nella sortita “Di misera Regina” per poi appannarsi durante l’esecuzione, altrettanto Furio Zanasi, specialista del ruolo in titolo, è ottimo fraseggiatore e cura con eccellenti intenzioni il recitativo ma ci è parso stanco e svogliato rispetto ad altre sue performance sempre in Monteverdi. Bravissima invece Marianna Pizzolato dal canto fluido, emissione bellissima e stile appropriato, semmai era il ruolo ad essere troppo secondario. Luca Dordolo e Leonardo Cortellazzi si riconfermano ottimi professionisti, cavernoso e sfasato Luigi De Donato, a corrente alterna la Minerva di Anna Maria Panzarella. Ha destato molte perplessità sia nello stile sia nella linea di canto Monica Bacelli sempre alternata tra recitazione forzata e qualche problema di resa vocale. Giampaolo Fagotto sarebbe cantante misurato e pertinente, ma perché rendere il personaggio di Iro così “macchiettistico” tanto da ascriverlo alla commedia napoletana piuttosto che al barocco? Buone prestazioni anche quelle di Mirko Guadagnini ed Emanuele D’Aguanno, sufficiente ma con qualche sfasatura l’intervento dei tre Proci. Pubblico molto sopito e tutto sommato perplesso dallo spettacolo, applausi di stima al termine.

DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Venezia, 27 settembre 2011.
Dopo il grande successo nella scorsa stagione il Teatro la Fenice di Venezia ripropone dodici recite, tutte fuori abbonamento ed esaurite, dell’opera Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart realizzato dal terzetto Damiano Michieletto-Paolo Fantin-Carla Teti con Antonello Manacorda sul podio.
Il cast è parzialmente cambiato, lo stesso parteciperà a giorni alla nuova produzione de Le Nozze di Figaro, secondo appuntamento della trilogia dapontiana che sarà ultimata nel 2012 con Così fan tutte. Dello spettacolo ho già parlato in occasione della prima nel 2010 e non posso che riconfermare la genialità del regista e dello scenografo che si sono adoperati in una lettura tradizionale negli ambienti con qualche zampata di originalità quale Michieletto ci ha abituato. La scena mobile di Fantin è stupefacente per inventiva e continuità drammatica, un vorticoso cambiamento rotante durante l’esecuzione di magistrale efficacia. Tra gli aspetti “forti” e più singolari del regista si deve ricordare il finale, la scena del banchetto, ove la cena di Don Giovanni è costituita da donne le quali vengono “consumate” dal protagonista con goliardia ispirandosi al concetto che “… le donne per me son necessarie più del pan che mangio, più dell’aria che spiro”.
Nel sestetto conclusivo il protagonista, ormai spirito, inferisce mortalmente su quelle che sono state le sue ultime vittime, significando quanto egli abbia incisivamente sconvolto le loro esistenze. Una lettura originale e molto pertinente i cui tratti caratteristici sono una forte violenza una dinamicità nella recitazione, alla quale contribuiscono cantanti-attori molto bravi, i quali sono abbigliati con bellissimi costumi realizzati da Carla Teti. Ancora una volta sul podio c’era Antonello Manacorda, ex konzertmeister della Mahler Chamber Orchestra, il quale si distingue in una direzione serrata ed animata dalle forti sonorità. Non sempre le sue idee son condivisibili ma il risultato è buono, semmai sarebbe auspicabile taluna raffinatezza più calibrata del suono, l’orchestra lo segue sempre a dovere ma con parecchie imprecisioni.
Di ruotine i rari interventi del coro, cui manca una compattezza stilistica. Markus Werba si riconferma un protagonista eccellente sia sul versante canoro sia scenico. Il recitativo è curatissimo, il canto forbito e variegato cui si aggiunge un fisique du role appagante ed oggigiorno ritengo sia uno dei migliori Don Giovanni in circolazione. La voce non è particolarmente possente e forse in spazi differenti dalla Fenice ci potrebbero essere problemi di volume, ma è compatta ed armoniosa. La donna Anna di Anita Watson sfoggia un timbro anche seducente ma gravi pecche tecniche compromettono la sua esibizione soprattutto nel virtuosismo. Carmela Remigio è una donna Elvira veemente e passionale, molto credibile scenicamente, ma anche in questo caso taluni ardui passi vocali sono arrangiati alla meglio senza quella perizia stilista che il ruolo richiede. Buona la prestazione di Antonio Poli, un don Ottavio non linfatico ma di buona impronta e nel complesso rigoroso nello stile. Il Leporello di Vito Priante è ben caratterizzato sia da una recitazione appropriata, succube di Don Giovanni quasi intimorito, sia da un canto pertinente e puntuale. La coppia di sposini, Borja Quiza e Irini Kyriadidou, non regalavano particolari emozioni; bravi scenicamente ma piuttosto scadenti musicalmente, l’uno per una grezza impostazione, l’altra per un vibrato sovente fastidioso. Successo entusiastico al termine.

UN BALLO IN MASCHERA [William Fratti] Parma, 5 ottobre 2011.
Nonostante i seri problemi politici, amministrativi, economici e finanziari del Teatro Regio e del Comune di Parma, il grande veliero internazionale del Festival Verdi 2011 salpa come da programma, e numerosi spettatori stranieri sono presenti in sala come tutti gli anni. Il clima che si respira nei corridoi del tempio della lirica è quello dell’incertezza, ma all’apertura del sipario la qualità, che da sempre lo contraddistingue, è ancora presente.
Fortunatamente è confermato e mantenuto l’alto livello raggiunto con alcune produzioni, ultima La forza del destino di gennaio. È lo storico allestimento di Pierluigi Samaritani de Un ballo in maschera ad inaugurare l’ottobre parmigiano, riveduto nella regia ben disegnata da Massimo Gasparon, con luci di Andrea Borelli e interessanti coreografie di Roberto Maria Pizzuto, che sa cogliere tanto l’ambientazione tardo seicentesca quanto l’angosciante doppiezza dei congiurati; peccato l’inadeguatezza di alcuni ballerini.
Nei panni di Riccardo è il debuttante Francesco Meli, che incanta il pubblico già con “La rivedrà nell’estasi” e il finale del primo quadro “Signori: oggi d’Ulrica” esibendo una piacevolissima tinta lirica. La difficile “Dì tu se fedele” non è resa in maniera impeccabile a causa dei repentini passaggi al registro grave, che necessiterebbero di un accento drammatico più marcato e maggiore volume, ma di questo non è possibile farne una colpa al bravissimo tenore genovese, che da poco ha iniziato a spingersi verso ruoli più corposi. Molto ben eseguita è la successiva “È scherzo od è follia”, come pure tutto il duetto con Amelia di secondo atto, ma è nel finale che Francesco Meli dà il meglio di sé, in “Forse la soglia attinse” ed “Ella è pura”, con un fraseggio elegante ed espressivo, con colori accurati e raffinati, con intensità emozionante e toccante.
Accanto all’eccellente protagonista è un’altra debuttante. Nel ruolo di Amelia è Kristin Lewis, giovane soprano lirico spinto, che si fa certamente notare per la qualità della voce, dotata di forti tinte drammatiche, e per l’inconfondibile eleganza. Ciò di cui difetta l’artista americana sono la morbidezza del canto all’italiana, la dizione, la capacità di usare i cromatismi nella valorizzazione del fraseggio, un migliore utilizzo dei fiati per la resa dei pianissimi, mancanze a cui certamente sopperirà con maggiore esperienza. “Ecco l’orrido campo” è eseguita col giusto impeto, mentre la finezza dei gesti la contraddistingue per tutto il resto del melodramma. Ci si augura di riascoltarla presto.
Vladimir Stoyanov è Renato, ruolo già interpretato diverse volte e sempre con grande successo. Il pubblico lo accoglie calorosamente fin dall’aria di sortita “Alla vita che t’arride”, ma è soprattutto l’apertura di terzo atto il suo momento cruciale, con “Eri tu”. La voce del baritono bulgaro appare meno stanca rispetto alle recite de La forza del destino di gennaio, ma non è ancora tornata ad avere la luminosità degli anni precedenti.
Serena Gamberoni interpreta un Oscar da manuale ed ottiene un meritato successo personale. La tecnica è importante e ben salda, le agilità sono fluide ed il personaggio è reso in maniera eccelsa, facendosi notare non solo nelle arie “Volta la terrea” e “Saper vorreste”, ma soprattutto nei pezzi d’assieme, tanto nei finali di primo e secondo quadro, quanto nel quintetto che segue la congiura.
Elisabetta Fiorillo, che ha fatto di Ulrica uno dei suoi cavalli di battaglia, colpisce per il saldissimo registro di petto. “Re dell’abisso” è interpretata con intenso vigore e la scena che ne segue è di particolare effetto.
Filippo Polinelli, Antonio Barbagallo e Cosimo Vassallo sono efficaci nei rispettivi personaggi di Silvano, Samuel e il Primo Giudice. Completano il cast Enrico Rinaldo ed Enrico Paolillo nei panni di Tom e del Servo di Amelia.
Gianluigi Gelmetti, con la consueta accuratezza, guida la sempre precisa Orchestra del Teatro Regio di Parma, dosando i suoni nella ricerca dei colori, degli accenti e degli effetti. Un plauso va anche all’orchestra in palcoscenico e al violino solista di Anastasiya Petryshak. Eccellente il Coro diretto da Martino Faggiani.

MESSA DA REQUIEM [William Fratti] Parma, 6 ottobre 2011.
Il Festival Verdi 2011 prosegue con Messa da Requiem, proposta e ripresa dalle telecamere per la terza volta in cinque anni. Dopo essere stata eseguita sotto la direzione di Riccardo Muti al Teatro Regio e di Lorin Maazel nella Cattedrale di Parma, ora è Yuri Temirkanov a dispiegare le pagine dell’eccelsa partitura verdiana nella splendida cornice del Teatro Farnese.
Da diverse settimane la città e l’affezionato pubblico dei melomani si scontrano in merito ai problemi di acustica che assillano il seicentesco gioiello ligneo, ma per spezzare una lancia a favore dell’utilizzo di questo incredibile spazio basti citare la sua unicità nel mondo. Resta inteso che un suo continuo impiego necessita di costosissimi accorgimenti atti a migliorarne la sonorità, ma occorre tenere ben presenti le gravi difficoltà in cui versano attualmente il Teatro Regio e il Comune di Parma. Già dall’ingresso al grandioso scalone a forbice, primo esempio in Italia di scalone a tre rampe sul modello della Escalera Imperial dell’Escorial, si sente palpitare l’emozione dell’imminente spettacolo; peccato per l’abbondanza di escrementi di piccione e la copiosità di orinate sotto i portici del Palazzo della Pilotta e contro l’adiacente Monumento a Giuseppe Verdi, che dovrebbe essere trattato come un santuario piuttosto che alla stregua di un vespasiano.
I veri protagonisti della serata sono l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio di Parma – diretto da Martino Faggiani – incredibilmente corretti, precisi, attenti alla qualità del suono, all’uso dei colori e degli accenti verdiani, ben consapevoli di ciò che sta scritto tra le righe dello spartito: intensità e sentimento.
Yuri Temirkanov dirige con polso fermo, facendo sentire un buon amalgama e un ampio respiro musicale, ma non ripete le prodezze de La traviata del 2007 e fortunatamente neppure lo scempio de Il trovatore dello scorso anno.
Il quartetto dei solisti non si rivela essere all’altezza della situazione, sicuramente complici le poche prove e la secchezza dell’acustica del teatro.
Dimitra Theodossiou risulta la migliore, ma non è certamente la sua serata. I suoi pianissimi e i suoi filati sono sempre toccanti, emozionanti e raffinati, soprattutto nel “Requiem” del “Libera me”, ma ne abusa anche quando è richiesta la voce piena. Tutto sommato l’interpretazione è molto buona, seppur non esemplare come ci si aspettava.
Sonia Ganassi è un’elegante cesellatrice dello spartito, ma quando il suono di Coro e Orchestra è importante, la sua voce scompare quasi completamente.
Roberto Aronica torna finalmente sul palcoscenico di Parma. È in forma discreta, ma il suo squillo non si fa sentire e gli acuti restano soltanto note dopo il passaggio.
Riccardo Zanellato esegue la sua parte con moderazione. Le note ci sono tutte, ma mancano gli accenti ed il vigore verdiano.
Al termine dello spettacolo tutti ricevono i meritati applausi, anche se molti degli intervenuti, aspettandosi l’eccellenza, hanno trovato semplicemente un risultato più che apprezzabile.

MESSA DA REQUIEM [Lukas Franceschini] Parma, 6 ottobre 2011.
La riapertura dello splendido Teatro Farnese, all’interno della Pilotta, ha dato modo al Verdi Festival 2011 di programmare alcune serate in questa sede della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi con la direzione di Yuri Temirkanov.
Il direttore russo dovette rinunciare qualche tempo addietro, per ragioni di salute, all’esecuzione che fu fatta in Duomo, luogo che acusticamente non è appropriato per la musica, oggi invece il concerto avviene al Teatro Farnese, gioiello tra i gioielli di un’Italia artistica di mondiale vertice. Sgombriamo subito il fattore che anche questo teatro forse non è il luogo più adatto per un’esecuzione che rispecchia il “sinfonismo” tardo ottocentesco perché nato qualche secolo addietro e creato per altro genere di spettacolo e musica, ma tanto è il valore della sua restaurazione che ne giustifica il riutilizzo solennemente celebrato dalla massima partitura verdiana. L’orchestra del Teatro Regio era in forma smagliante, per quanto l’acustica ne permetteva la percezione. Essa di piega al gesto sicuro e celebrativo del direttore il quale esegue il Requiem con tratto religioso scavando nella partitura gli aspetti più intimi e mai lasciandosi prendere la mano da enfasi, piuttosto da un’intimistica lettura di continuità emotiva tra i movimenti restando nel confine del classicismo interpretativo di alta cifra stilistica. Yuri Temirkanov gioca soprattutto sui colori, sui piani, legando una direzione di raffinata bellezza del tutto personale ma d’innegabile fascino ed indubbia classe, forse più vicina al genere russo che all’inusitato sinfonismo orchestrale italiano ma con risultati del tutto soddisfacenti e d’intensità e fascino ragguardevoli. Il coro, preparato da Martino Faggiani, parte leggermente disorientato, ma recupera presto e si pone come “quinto solista” di eccellente levatura, elegante e puntuale. Il quartetto di solisti invece denota l’attuale carenza vocale per tale partitura.
Dimitra Theodossiou, la migliore della serata, è interprete incisiva, molto manierata e mai sopra le righe, purtroppo usa sovente il falsetto in luogo della mezza voce perché questa non è più nelle sue corde, ma lo fa con pertinenza, talora abusandone il merito, arrivando tuttavia all’epilogo con generosa musicalità. Sonia Ganassi, la quale ritengo non abbia la cifra vocale per questa partitura, dopo gli esordi in ruoli sopranili “Colbran” si presenta notevolmente affaticata e con volume ridottissimo. Sopperisce a tali mancanze con un fraseggio molto curato ma la voce è spesso coperta ora dal coro, dall’orchestra o dagli altri solisti e resta relegata in un’esibizione notevolmente secondaria. Roberto Aronica sfoggia volume e sicurezza, senza porsi altri problemi quali il colore, il pathos, l’interpretazione. Riccardo Zanellato che non possiede di suo un mezzo vocale di prim’ordine, è volenteroso e anche sensibile ma lo strumento non gli permette di andare oltre una semplice esibizione. Manca la cavata, il gusto, l’enfasi e la nobiltà d’accento che la scrittura richiede. Successo di stima per tutti, particolari ovazioni per Temirkanov, ma le attese per questo Requiem erano sicuramente maggiori.

MARIA DI ROHAN [Lukas Franceschini] Bergamo, 7 ottobre 2011.
L’esecuzione di Maria Di Rohan di Gaetano Donizetti, secondo titolo del Donizetti Festival 2001, oltre a destare molte perplessità esecutive offre l’occasione di una riflessione seppur marginale.
L’organico musicale bergamasco non è tra i più raffinati complessi esistenti e per un recupero di partiture che potremo dire desuete, sarebbe necessaria più cura per tale aspetto. In aggiunta a questo è innegabile che le risorse economiche del festival non siano delle più floride, come altrettanto quelle di alti festival ed istituzioni musicali, pertanto sarebbe auspicabile una programmazione più ristretta ma oggettivamente più considerevole dal punto di vista artistico, tuttavia nel 2012 già si annunciano tre titoli: Belisario, Maria Stuarda, Maria di Rudenz, i quali nulla porteranno alla riscoperta e rivalorizzazione delle opere di Donizetti se lo standard resterà simile a quello fornito in questi ultimi anni. Le speranze non muoiono mai, la attese invece potranno essere anche lunghe, gli auspici incancellabili. Tornando all’opera leggiamo con molto piacere nel programma di sala un articolo di Luca Zoppelli, curatore dell’edizione critica, nel quale ci spiega che Maria di Rohan è una delle opere di Donizetti più complesse perché tante sono state le modifiche apportate dallo stesso autore nel corso delle varie riprese partendo dal debutto viennese del 1843. Segue dunque un lungo lavoro di difficile ricostruzione ma pertinente e certo e non si capisce per quale strana velleità a Bergamo sia stata scelta un’edizione ibrida mischiando le diverse varianti. Avremo gradito al contrario assistere ad un’edizione specifica, considerato la peculiarità del Festival, magari la prima viennese, ed in successive riprese proporre alternativamente edizioni alternative. Tant’è non sarebbe poi stato gran danno se avessimo avuto una protagonista di rango capace di rendere il personaggio credibile. Al contrario Majella Cullagh dimostrava tutti i suoi limiti tecnici, vocali ed interpretativi. La sua voce non è per nulla affascinante perché caratterizzata da un certo vibrato, la zona acuta è molto forzata e rasente lo strillo, il grave talvolta afono, cui si deve aggiungere una mal impostazione dei registri. La somma di queste deficienze non potevano certo porre la cantante sul piano dalla grande primadonna donizettiana e domanda univoca è come sia potuta avvenire tale scrittura dopo l’infelice Linda di qualche anno addietro. Il duca di Marco Di Felice è baritono piuttosto povero di colori, la sortita è stata alquanto deludente per stile e compattezza, si riscatta in parte in seguito ma mancando sempre in nobiltà d’accento e stile belcantista. Salvatore Cordella, il conte Riccardo, che sostituiva il previsto Shalva Mukeria, si è rivelato non adatto alla parte per povertà di mezzi e tecnica che rasentavano l’imbarazzo. Povero lo smalto e il colore, assai compromesso il settore acuto con tutto quel che segue. Anche la zona dei comprimari on brillava, passava chi più chi meno per ordinaria esecuzione di provincia. Infine resta Gregory Kunde che debuttava nella direzione d’orchestra. L’opera, non serve rilevarlo ulteriormente, è piuttosto difficile e a capo di un complesso non tra i più specializzati all’autore egli ha diretto e accompagnato, cui non si può aggiungere altro. Manca una sapiente gavetta di concertatore per affrontare il podio con pertinenza, capisco che considerate le sue condizioni vocali attuali Kunde voglia riciclarsi in altra maniera, ma riterrei opportuno altro rodaggio in altri palcoscenici meno titolati rispetto ad un Festival che dovrebbe avere la pretesa di offrire almeno una certa professionalità. Lo spettacolo non era certo di meglio, la scena quasi fissa di Angelo Sala, si rappresentava ad ogni atto con un quadro sbilenco incastrato sul palcoscenico, il tutto circondato con tende da drappeggio. La regia di Roberto Recchianon lasciava particolare traccia anzi le movenze e le entrate erano piuttosto banali se non primitive. Molto belli i costumi realizzati da Sala in collaborazione con l’Accademia del Teatro alla Scala. La prestazione del coro si deve ascrivere alla generica ruotine, ma in tale situazione non avrebbe certo potuto fare miracoli. In definitiva un’occasione mancata cui non sono mancate isolate contestazioni ma anche applausi piuttosto limitati.

FALSTAFF [Lukas Franceschini] Parma, 12 ottobre 2011.
Falstaff, ultima opera di Giuseppe Verdi, quasi uno “sfizio”, si rappresenta al Teatro Farnese nell’ambito del Verdi Festival 2011. Scelta non brillante anche se il contorno è mozzafiato, impossibile descrivere la meraviglia e l’emozione di entrare in questo gioiello incastonato all’interno della matronale Pilotta. Quello che manca al Farnese è un’acustica adeguata per l’opera ottocentesca (analogo concetto anche per il recente Requiem) tanta è la diseguaglianza timbrica all’ascolto. Se ora si “deve” restituire alla città di Parma e al mondo il Farnese si faccia con spettacoli idonei a quello spazio ove probabilmente solo qualche tipo di musica barocca può esserne consona. Lo spettacolo di Stephen Medcalf è godibile per efficacia ed inventiva, le soluzioni teatrali sono lineari, causa lo spazio, ma divertenti, belli i costumi in tipico stile shakespeariano e più che apprezzabile il fondale con i pochi elementi che costituiscono la scena di Jamie Vartan. Il regista non cerca e non crea effetti particolari perché artista non cervellotico in cerca di misurarsi in strampalate trovate, egli rappresenta con stile e gran classe il Sir inglese, un egocentrico pancione ancora in preda agli “spiriti bollenti” seppur adagiato su un mastodontico letto, causa la sua mole. La compagnia di canto lo segue a puntino in una recitazione brillante ed incalzante. Sul podio il giovane veronese Andrea Battistoni, del quale confesso, e chiedo venia, ero molto dubbioso sulla riuscita direttoriale del Falstaff invece, ho dovuto ricredermi. Resto dell’idea che Battistoni avrebbe dovuto aspettare qualche anno ancora tuttavia la sua concertazione era attenta, precisa e puntuale. L’esperienza lo penalizza in taluni particolari come ad esempio gli attacchi degli atti II e III e in talune ridondanze sonore nelle chiusure, manca anche di una certa brillantezza, ma tiene in mano saldamente il canto di recitazione, è espansivo e nella fuga finale è fermo nel polso con esiti molto buoni. Probabilmente in un prossimo futuro avremo dei risultati ancor migliori. La compagnia di canto, pur non presentando nessuna star, era omogenea sia scenicamente sia nel risultato musicale finale.
Alcuni distinguo però sono d’obbligo. Ambrogio Maestri, il quale possiede un fisique du role eccellente più che cantare parla, ma è divertente e spassoso. L’Alice di Tamara Alexeeva, che sostituiva l’indisposta Svetla Vassileva, era piuttosto anonima senza pepe e sale. Romina Tomasoni era una Quickly troppo formale pur con voce molto calibrata, meglio la Meg di Daniela Pini musicalissima e simpatica. Nel settore maschile Luca Salsi si produce in un eccellente Ford, timbro di gran classe e personaggio molto ben riuscito col senno di poi il migliore della compagnia. Educato il Fenton di Antonio Gandia, efficaci scenicamente il Bardolfo e Pistola rispettivamente Patrizio Saudelli e Mattia Denti, il primo più pertinente vocalmente, ottimo Luca Casalin nel ruolo del dottor Cajus. Stranamente in teatro c’erano molti spazi vuoti ma il pubblico presente ha decretato un autentico successo a tutta alla compagnia.

DER ROSENKAVALIER [Lukas Franceschini] Milano, 13 ottobre 2011.
Dopo i successi di Salome ed Elektra, con le molte perplessità suscitate in pubblico e critica, Richard Strauss accarezzava l’idea di comporre un’opera in stile “mozartiano”. Fu Hugo von Hofmannsthal, suo fido poeta ed amico, a suggerirgli il soggetto di quel Der Rosenkavalier d’ambientazione settecentesca, cui si attinse da Beaumarchais dalla celebre pièce che fu soggetto per Le nozze di Figaro di Mozart.
L’adattamento temporale fine XVIII secolo non poteva essere così azzeccato per rinverdire scenicamente i fasti dell’impero austriaco di Maria Teresa, della quale la protagonista, la Marescialla, ne è una sorta di alter ego, altrettanto il cavaliere della rosa, Octavian, ruolo en travesti, ha riferimenti con il Cherubino mozartiano. Il risultato è una commedia gradevolissima ove la cifra orchestrale è sempre di primordine e i personaggi, sia i principali sia i minori, sono cesellati meravigliosamente dal librettista. Der Rosenkavalier debutta a Dresda nel 1911 e nel giro di pochissimo tempo approda in tutti i grandi teatri, Scala compresa però in lingua italiana. Quest’ultima peculiarità renderà l’opera meno comprensibile rispetto all’originale tedesco, ciò è affermato dallo stesso Hofmannsthal in una lettera al compositore. L’opera si distingue per un profilo musicale dei sentimenti, delle passioni, della felicità, del delizioso umorismo da parte di una società raffinata; leitmotiv predominante è il valzer, tipica danza ottocentesca, il quale è l’emblema di una collettività ristretta che alle soglie del primo conflitto mondiale viveva serenamente ed elitariamente. La strumentazione di fiati, corde ed arpe, si sviluppano nella celeste e cristallina sonorità a tratti fiabesca che non trova paragoni in autori coevi e forse anche del secolo precedente. L’incantesimo è affidato al lirismo delle voci dei personaggi oltre che nella commedia, ove pensieri e sentimenti non trovano risposte certe: l’amore come destino, la natura umana quale interrogativo di vita. La proposta odierna del Teatro alla Scala è una produzione di Herbert Wernicke per il Festival di Salisburgo e purtroppo una delle sue regie meno riuscite. Peccato! La scena è occupata in prevalenza da specchi e ambienti cupi e chiusi, quando la musica richiederebbe ampi spazi fiabeschi e soprattutto narrativi. Il letto al centro del palcoscenico nel primo atto è ingombrante e fastidiosamente usato per salti e capriole, la scala da dove scende Octavian nel secondo è più un palcoscenico di rivista che il matronale scalone di un palazzo viennese, l’osteria del terzo è ridotta a privè di lusso che poco si addice con l’osteria popolare. Costumi in stile inizio XX secolo di bella e gradevole visione. Da aggiungere che la proposta annunciata come nuovo allestimento è alquanto bizzarra poiché il progetto risale a tre lustri addietro e la regia ripresa da Alejandro Stadler è molto diversa dall’originale del defunto ideatore. Philippe Jordan dirige con prudenza ma è carente di raffinatezze e le sonorità non sono ben calibrate risultando sovente pesanti. Del folto cast emerge solo Joyce Di Donato, la quale pur con voce ridotta rispetto a sue esibizioni da me ascoltate in precedenza, cesella un giovane ed esuberanteDerrosenkavalier_4 innamorato esprimendosi attraverso un fraseggio eloquente anche se spesso in difficoltà con l’apparato orchestrale, il quale però era forte di suo. Delude la Marescialla di Anne Schwanewilms per l’imperturbabile staticità, non seducente vocalmente e un canto affatto privo di colori con l’aggiunta di parecchi problemi d’intonazione. La classe e l’arte di Kurt Rydl erano confermate ma ahimè il tempo passa inesorabile e pesantezza e prudenza sono ovvi comuni denominatori. Stridula al limite del fastidio la Sophie di Jane Archibald e grezzo e tonante il Faninal di Hans-Joachim Ketelsen. Si mettevano in luce il bravissimo Valzacchi di Peter Bronder e l’esuberante Annina di Helene Schneiderman. Insopportabile la Marianne di Ingrid Kaiserfeld. Buone le numerose parti comprimariali, mentre la “star” Marcelo Alvarez aveva parecchie difficoltà nel cesellare la difficile aria del cantante italiano, sempre forzato e con acuti improbabili. Successo contenuto al termine.

I PURITANI [Lukas Franceschini] Cremona, 14 ottobre 2011.
La stagione operistica del Circuito Lombardo 2011 inizia dal Teatro Ponchielli con l’opera I Puritani di Vincenzo Bellini.
Melodramma epico fu l’ultimo lavoro del catanese, morì in circostanze misteriose qualche mese dopo, trionfò a Parigi nel 1835 anche in virtù di un’eccelsa compagnia di canto. I Puritani sono espressione musicale d’altissimo livello di quel romanticismo canoro che fu imperante nella prima metà del XIX secolo. A Bellini poco interessò l’aspetto politico del soggetto, che è tratto dal dramma storico “Têtes ronde et Cavaliers” inerente alle vicende religiose, sociali e politiche della guerra civile inglese del ‘600, piuttosto la storia amore tra Elvira ed Arturo. Come in tutte le sue composizioni precedenti, l’asse portante dell’opera è il rapporto amoroso, sia esso a sfondo storico o meno, un amore in questo caso a priori “impossibile” poiché appartengono a fazione contrapposte. Lo scoglio nell’allestire I Puritani è rappresentato dalla parte tenorile, infatti, l’opera fu scritta per Giovanni Battista Rubini, il più celebre cantante di quel periodo, le cui peculiarità furono: un canto elegiaco ed estatico reso vibrante e portato a grandi slanci dal sentimento amoroso. Il tenore belliniano, che potremo definire protoromantico, deve possedere una voce chiara, estesissima, brillante ma anche dolce ed amorosa. La parte di Arturo poggia su una scrittura eccezionalmente acuta e in origine da realizzare il falsetto, anche se la zona su cui grava la vocalità non è estesissima come ne’ Il Pirata o ne’ La Sonnambula. Oggi, come in un recente passato chi si è cimentato il tal ruolo l’ha fatto adattando la voce alla partitura e recuperando per quanto possibile le cifre stilistiche del personaggio e aggiungo che i grandi che hanno interpretato Arturo non lo tennero in repertorio per tutta la loro carriera. Tutti questi aspetti sarebbero dovuti essere presi in considerazione dalla direzione artistica nella scelta del titolo belliniano. Il panorama attuale non presenta che pochissime e discutibili possibilità adatte al ruolo e Gianluca Terranova non è certo tra queste. Il cantante ha dalla sua una voce molto bella e pastosa, sufficientemente variegato il fraseggio. Carenze tecniche come un suono ingolato, acuti sparati a casaccio e “presi” a squarciagola, legato discutibile, non gli permettono, assieme allo stile, di poter cantare il ruolo in maniera pertinente. Sarebbe più opportuno, più che rilevare le sue manchevolezze, chiedersi perché è stato scritturato per tale ruolo, e perché lui stesso ha voluto cimentarsi, quando in altri personaggi avrebbe ottenuto risultati ben più apprezzabili. Jessica Pratt al contrario ha dimostrato la sua particolare attitudine al bel canto sia per stile e tecnica. Alla recita cui ho assistito, non era così sfolgorante come nella recente Adelaide di Borgogna pesarese, ma il livello espresso era ottimale Essa sfoggia proprietà che in parte avevamo dimenticato, ammirevole talento vocale e preciso, nessun passo le crea difficoltà. Per mio gusto è l’interprete ad essere in qualche punto debole, concentrata sull’espressionismo vocale, mi pare che sarebbero più opportuni qualche accento più istintivo e magari qualche languore più arguto, ad esempio nella grande scena del II atto. La cantante “c’è” ed è di primo rango, col tempo probabilmente arriveranno anche altre sfumature. Il Giorgio di Luca Tittoto s’impone per bella dizione, nobiltà di fraseggio con una voce possente, omogenea e morbida, sotto taluni aspetti il personaggio restava un po’ nell’ombra ma il cantante è di ottima fattura. Alessio Arduini, Sir Riccardo, è un cantante con voce interessante ma spesso monocorde quale interprete, cui necessiterebbe di maggiore perizia stilistica e una personalità più efficace. Oneste le altre parti: Luciano Leoni era un valido Gualtiero, Angela Nicoli una puntuale Enrichetta, Marco Voleri un efficace Bruno. Sul podio dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali abbiamo trovato Antonio Pirolli, il quale avrebbe anche un gesto sicuro ed incisivo, ma eccedeva in sonorità rimbombanti e spesso fracassone non cogliendo appieno lo stile della partitura e mettendo in difficoltà i cantanti nei duetti e negli assieme. Lo spettacolo, ideato da Carmelo Rifici, con scene di Guido Buganza e costumi di Margherita Baldoni, segna il punto più basso della serata. Non si capisce la chiave di lettura del regista, che ambienta l’opera in un cimitero con tanto di parete con loculi, dai quali uscivano i cantanti, soprattutto Elvira. Realizza una doppia visione dei personaggi e aggiunge quello che scaturisce dalla sua fantasia, Arturo è innamorato di Enrichetta con la quale ha pure un amplesso, ma che non corrisponde né con l’Inghilterra del dramma né con il libretto. Scena fissa, sommariamente noiosa, con siparietti e velari che rimandavano ad abitazioni orientali in continuo movimento ma che non creavano un nessun che. Non era messa a fuoco dalla regia la personalità dei protagonisti, lasciati a se stessi, unico tratto incisivo il mondo austero e “bigotto” del puritanesimo, ma è elemento isolato e marginale rispetto agli arbitri. I costumi erano molto belli seppur rivisitati. Serata turbolenta (in provincia!) qualche mugugno al tenore nell’aria d’ingresso, poi discreto successo ma al termine contestazione sia al tenore sia al team registico, buon successo per gli altri.

I PURITANI [William Fratti] Cremona, 14 ottobre 2011.
Il Teatro Ponchielli di Cremona inaugura la Stagione Lirica 2011 con I Puritani di Vincenzo Bellini, cercando di ripetere lo stesso successo dello scorso anno con Medea, affidando la messinscena a Carmelo Rifici e la direzione ad Antonio Pirolli.
Purtroppo il regista lombardo, pur avendo degli ottimi intenti e una buona linea drammaturgica da seguire, opportunamente indicata nelle note del libretto di sala, riempie la vicenda di assurdità, assolutamente poco piacevoli. L’ambientazione sobria e austera, correttamente costruita da Guido Buganza, accompagna il tracciato della vicenda in maniera opportuna; lo sdoppiamento dei protagonisti per mezzo dei figuranti coadiuva appropriatamente il sogno e il desiderio di Elvira e Arturo; ma il continuo aprirsi e chiudersi dei loculi da cimitero – o delle cellette da obitorio – è irragionevole, sgradevole, ad un certo punto addirittura imbarazzante e ridicolo. Se tale follia ha l’intenzione di rappresentare qualcosa, il messaggio purtroppo non raggiunge la platea, inorridita ed infastidita. Soddisfacenti sono i costumi di Margherita Baldoni e le luci di Fiammetta Baldisseri.
Antonio Pirolli è a tratti molto veloce, ma soprattutto troppo rumoroso. In certe pagine richiede un eccessivo volume orchestrale e anche i solisti migliori vengono coperti da tanta musica scorrettamente eseguita. Probabilmente la motivazione è da condividersi con l’Orchestra I Pomeriggi Musicali, da sempre indolente e dozzinale, poco incline al desiderio di migliorarsi. Lo stesso vale per il Coro del Circuito Lirico Lombardo guidato da Antonio Greco.
Jessica Pratt si dimostra essere, nei panni di Elvira, un’ottima interprete del belcanto, dotata non solo di un bel colore, ma anche di raffinata eleganza, che purtroppo poco può esprimere nei piani e nei filati, che solitamente la contraddistinguono, soprattutto nella celebre scena “Qui la voce sua soave”, a causa dell’eccessivo fragore che arriva dalla buca. La naturalezza della sua voce, come già notato in altri recenti spettacoli, è in continua evoluzione grazie ai miglioramenti tecnici, che qui non sono propriamente evidenziati se non in “Son vergin vezzosa”, poiché la soprano si trova da sola a portare l’opera a compimento.
È affiancata dall’imbarazzante Arturo di Gianluca Terranova, che strappa mormorii e risolini del pubblico fin dalla prima frase di “A te, o cara”. Il tenore, ormai diventato una star internazionale, ha sempre colpito per le sue qualità naturali, che in quest’opera purtroppo non sono sufficienti. La parte di Lord Talbo necessita di una padronanza tecnica molto importante, che chiaramente Terranova non possiede.
Alessio Arduini veste i panni di Riccardo, mostrando uno squillo adeguato e un buon fraseggio, ma è troppo giovane e acerbo per poter interpretare il ruolo con sufficiente spessore.
Luca Tittoto si conferma un esperto interprete del belcanto, eseguendo la parte di Giorgio con adeguata perizia, soprattutto nelle pagine più cantabili. Il duetto con Elvira “O amato zio… Sai com’arde in petto mio… Sorgea la notte folta” è indubbiamente la parte meglio eseguita di tutto lo spettacolo.
Angela Nicoli è un’Enrichetta molto scolastica, e poco adeguati sono Luciano Leoni e Marco Voleri nelle rispettive parti di Valton e Roberton.

UN BALLO IN MASCHERA [Lukas Franceschini] Parma, 16 ottobre 2011.
Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, opera inaugurale del Verdi Festival 2011, era stato allestito nel 1989 con regia, scene e costumi di Pierluigi Samaritani, artista tra i più illustri del teatro operistico italiano.
Bizzarra l’idea di riproporre il “suo” spettacolo ma con altra regia e concezione drammatica, stravolgendone completamente il contesto originario. Se si voleva, come sarebbe stato opportuno, rendergli un omaggio si doveva riprendere in toto lo spettacolo originale e non riproporlo sono a livello scenografico, oltre che incompleto. Questo nuovo allestimento con la regia di Massimo Gasparon ha destato più perplessità che convinzioni. Non abbiamo riscontrato un tratto registico vero ove i cantanti fossero guidati in una recitazione appassionata, piuttosto abbiamo visto dei movimenti banali e talvolta curiosi. Non è chiara la presenza nel primo atto di cardinali o prelati cattolici nella protestante Boston, superfluo la comparsa del figlio di Amelia nel terzo, la scena dell’orrido campo nella versione originale presentava un velario che rendeva sinistra e funambolica la visione, ora risolta con delle banali luci e del fumo artificiale. Una grande caduta di gusto si è avuta nella festa del terzo: sala del palazzo semivuota, una brutta coreografia su un balletto inutile, il duettino tra Amelia e Riccardo avviene senza la presenza di una “corte” che dovrebbe essere di contorno ad una scena altamente drammatica e di suspense. I costumi erano bellissimi e molto cromatici, ma le donne non indossavano abiti del ‘600 bensì di epoca più recente, mentre gli uomini erano in parrucche tipiche del tempo. In conclusione mancava uno stile, una cifra drammatica e una personalità che s’imponesse in uno spettacolo già ottimo ma ora svilito da una rivisitazione alquanto discutibile e ancor più insensata l’idea di intervenire su lavori d’altri. Non ci ha convinto la direzione di Gianluigi Gemetti, il quale già nel preludio concertava con eccessiva sveltezza senza colore orchestrale. In seguito molteplici sono stati i momenti di forte accompagnamento con sonorità pesanti che mettevano in difficoltà alcuni cantanti, i quali non erano certo seguiti dal direttore nel loro canto ma accompagnati a nostro parere senza grandi intese. Discutibile anche il senso drammatico imposto all’esecuzione, la quale era scandita da un colore unico e mai sviluppata nella tensione degli avvenimenti. Hector Sandoval, Riccardo, non destava particolari suggestioni vocali anzi, la sua voce non pareva adatta al ruolo troppo pesante ed arduo. Il canto sfociava in una forzatura continua quando non ingolato, il settore acuto molto limitato e il fraseggio inesistente. Buona prova quella di Alisa Zinovjeva, Amelia, la quale oltre ad avere un fisico mozzafiato è un torrente vocale drammatico di primissimo ordine per smalto e compattezza inoltre, è altrettanto pregevole nella resa del personaggio per stile compostezza. A voler essere puntigliosi ci sono alcune “zone” da perfezionare nel settore acuto, ma è soprano da tenere in considerazione per un prossimo avvenire. Carlo Guelfi non si distingueva per la fama cui gode, il canto era grezzo e sguaiato, la presenza scenica inefficace e in più di un’occasione ha avuto incertezze sia vocali sia di memoria dello spartito. L’Ulirica di Nicole Piccolomini era forzata e legnosa, abusava di portamenti nella zona grave che parallelamente rendeva il settore acuto stridulo. Serena Gamberoni, Oscar, è stata la migliore della serata e la più applaudita al termine. Soprano lirico-leggero interpretava il paggio con accenti e brio davvero apprezzabili, senza ricadere nell’abusata macchietta del sopranino querulo ma risolvendo il suo compito attraverso un rifinito canto a voce piena e timbrato nel settore acuto. Discontinuo ed insipido il Samuel di Antonio Barbagallo, migliore e più professionale il Tom di Enrico Rinaldo. Buon successo al termine ma stranamente il teatro presentava molti posti vuoti.

DON CARLO [William Fratti] Lisbona, 18 ottobre 2011.
Il Teatro Nacional de São Carlos di Lisbona inaugura la Stagione Lirica 2011-2012 con Don Carlo di Giuseppe Verdi, proposta nella versione in italiano in quattro atti. Purtroppo il clima che si respira non è dei più felici, a causa dei recenti e gravi problemi economici e finanziari che attanagliano l’amministrazione teatrale, è ciò si sente anche in sala.
L’Orquestra Sinfónica Portuguesa e il Coro do Teatro Nacional de São Carlos non sono attenti e precisi come di consueto e questo va ad inficiare tutta l’esecuzione. Sicuramente complice è la direzione tutt’altro che verdiana di Martin André, che ha un gesto troppo ampio, manca di accenti drammatici, non ha colori né sfumature, i suoni sono sempre legati e l’orchestrazione è abbastanza povera, pur avendo a che fare con la partitura di un grand-opéra.
Invece lo spettacolo moderno ideato da Stephen Langridge dona un certo valore aggiunto a questa inaugurazione, del quale certamente va apprezzato il lavoro svolto sui singoli personaggi. Forse le scene costruite da George Souglides sono un po’ spoglie, ma ciò aiuta ad entrare maggiormente nell’atmosfera dittatoriale, trasposta in un ipotetico XX secolo, da cui si evince facilmente che non vi è nulla di diverso rispetto ai rigori delle monarchie assolute. I costumi, sempre di George Souglides, sono ben confezionati Se contribuiscono positivamente, come le luci di Giuseppe di Iorio, alla buona resa della rappresentazione. Il regista inglese riesce a lavorare minuziosamente con ognuno degli interpreti: il gesto, lo sguardo, il movimento, la posizione, sono tutti studiati nello specifico, nulla è lasciato al caso ed il risultato è più che ottimale.
A vestire i panni di Don Carlo è il cileno Giancarlo Monsalve, che gode di un’ottima presenza scenica oltre ad essere un buon attore, ma numerose sono le mancanze sul piano vocale. L’intonazione è buona, ma i centri sono poco corposi, molto opachi e un po’ di lucentezza la si può sentire solo con l’acuto. Anche l’uso dei colori e degli accenti non è dei migliori, pertanto alcune lunghe scene, come i duetti con Elisabetta, risultano essere particolarmente noiosi.
Non lo aiuta certamente la diva nazionale Elisabete Matos nei panni di Elisabetta di Valois, che con l’avanzare dell’età, il progredire dell’usura della voce e la frequentazione di un repertorio sempre più spinto e drammatico, perde costantemente di freschezza, la zona centrale, che già oscillava eccessivamente alcuni anni fa, è sempre più compromessa e solo la tecnica, l’esperienza e una grande professionalità le consentono di portare a termine la recita. Si riscatta nell’aria di quinto atto “Tu che le vanità”, dove trova terreno fertile grazie ai numerosi acuti – ancora belli, puliti e ben saldi – e agli accenti drammatici necessari all’esecuzione.
Enrico Iori è l’unico artista italiano della produzione e porta sul palcoscenico del São Carlos un Filippo II verdiano fino all’ultima fibra. La marcatura dell’accento, l’uso dei colori, l’espressività del fraseggio, l’intensità del recitativo, la musicalità del cantabile, fanno pensare a questo basso come un punto di riferimento per l’interpretazione del canto verdiano. I punti di eccellenza, oltre ai bellissimi duetti con Posa e il Grande Inquisitore, sono il grande concertato di terzo atto e la celebre aria “Ella giammai m’amò”, dove le già citate qualità della voce di Iori si impreziosiscono di vigore e passione nella recitazione.
Dimitri Platanias, nei panni di Rodrigo, mostra le sue pregevoli qualità baritonali fin dal primo duetto con Carlo, ma è soprattutto con la romanza “Carlo ch’è sol” che si evidenziano tutte le sue doti liriche. Il duetto con Filippo II è un chiaro esempio di vocalità verdiana e la doppia aria della morte è resa con ottima interpretazione e musicalità. Purtroppo le capacità di attore del baritono greco non sono delle migliori, ma c’è sempre speranza di perfezionamento.
Enkelejda Shkosa si rivela essere un’eccellente belcantista, dotata di tecnica importante, ma allo stesso tempo è evidentemente poco adatta a questo tipo di repertorio. Il ruolo della Principessa Eboli è sempre più spesso avvicinato, per diversi motivi, dai mezzosoprani provenienti dal belcanto, ma pur essendo intriso di numerosi acuti, necessita di un’impostazione completamente differente, da cui derivano dunque tutte le difficoltà. Proprio per questo la cantante albanese si trova a dover procurare maggiore corposità al proprio registro centrale, perdendo efficacia negli acuti, che deve tenere sempre molto corti. Altrettanti problemi la investono sul piano del volume, che nei momenti più intensi, come nel terzetto con Carlo e Rodrigo, non è sufficiente ad oltrepassare l’orchestrazione verdiana. Ma pur non essendo adatta al ruolo, lo esegue con perizia, grande musicalità e l’interpretazione, soprattutto in “O don fatale” è davvero intensa.
Ayk Martirossian è un adeguato Grande Inquisitore, dotato sia di appropriati gravi, sia di acuti, ma svilisce la sua esecuzione vocale riempiendola di versi e di suoni, che forse crede donino maggiore drammaticità, e invece la ridicolizzano. Buona la resa del personaggio.
Completano il cast dei solisti i poco efficaci Joana Seara, Mário Redondo, Bruno Almeida, Marco Alves dos Santos nelle rispettive vesta di Tebaldo e una voce dal cielo, un frate, il Conte di Lerma e l’Araldo reale.
Decisamente migliori i sei solisti impegnati nella piccola, ma tutt’altro che semplice, parte dei deputati fiamminghi, che riescono a uniformare le proprie voci creando un amalgama davvero interessante.
Pure notevoli sono gli inquisitori.

ROMÉO ET JULIETTE [William Fratti] Piacenza, 21 ottobre 2011.
Il Teatro Municipale di Piacenza inaugura la Stagione Lirica 2011-2012 con Roméo et Juliette di Charles Gounod nell’allestimento firmato da Manfred Schweigkofler proveniente dall’Opera Company di Philadelphia.
Non è molto chiaro il motivo per cui i teatri italiani continuano a farsi la guerra proponendo nelle medesime stagioni, o in quelle contigue, gli stessi titoli, ma con cantanti e allestimenti differenti, col risultato che le platee più provinciali restano mezze vuote e i soldi dei contribuenti cadono costantemente nello scarico del bagno. Questo accade anche a Piacenza, che intelligentemente propone un titolo poco presente nel repertorio tradizionale, ma stupidamente lo fa in contemporanea con il Circuito Lirico Lombardo e nello stesso anno in cui lo hanno presentato La Scala e l’Arena, solo per citarne alcuni.
C’è di buono che l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, sempre più spesso impegnata nel repertorio sinfonico, con questa partitura può mostrare tutte le proprie qualità e diventa il vero protagonista della rappresentazione. Il suono è elegantissimo, la musica è eseguita con estrema precisione e l’intero amalgama orchestrale sembra respirare col talentuoso direttore Yves Abel, dotato di bel gesto, particolarmente ampio, molto abile nell’uso dei colori e nei cromatismi.
Nella serata di venerdì 21 ottobre è la giovanissima Maria Rosaria Lopalco ad interpretare Giulietta, brava, corretta, preparata, ma ancora troppo acerba vocalmente per un ruolo così complesso, dove occorrono più spessore, un maggior volume e soprattutto una migliore proiezione, tenuta considerata l’orchestrazione gounodiana che, seppur raffinata, resta sempre di stampo francese, quindi abbastanza corposa. In effetti è già col valzer “Je veux vivre” che la Lopalco si mostra adeguata nel personaggio, regolare nell’esecuzione, ma senza quel valore aggiunto che solo l’età, l’esperienza e la professionalità le sapranno dare. Inoltre la parte è molto lunga e nell’aria del veleno di quarto atto si odono alcuni problemi negli acuti.
Ivan Momirov è un Romeo dotato di una voce naturale di una bellezza rara, con acuti squillanti e luminosi, timbro caldo, volume robusto e compatto. Peccato che non abbia una linea di canto ben precisa e la tecnica lasci alquanto a desiderare, risultando poco pulito negli attacchi, talvolta addirittura calante e soprattutto senza un adeguato controllo dei fiati tale da permettergli l’uso dei pianissimi, fondamentale nell’opera francese, e la parte è quasi tutta eseguita in forte. A ciò si aggiunge una dizione pressoché incomprensibile.
Frate Lorenzo è interpretato da Andrea Concetti, bass-barytone sempre bravo, ma non eccellente. La sua interpretazione piace, ma non esalta, forse complice una regia che lo vuole un po’ sopra le righe. È invece più intensa la Gertrude di Gabriella Sborgi, intrigante nel personaggio, adeguata nel colore vocale.
Massimiliano Gagliardo è un Mercutio efficacissimo sotto il profilo della recitazione. Musicalmente non si distingue particolarmente nella celebre ballata “Mab, la reine des mensonges”, ma si riscatta nel finale di terzo atto, nella scena della morte. Lo stesso vale per Gianluca Bocchino nel ruolo di Tebaldo, inizialmente poco opportuno, poi decisamente migliore.
Annalisa Stroppa sa farsi valere nella parte en travesti di Stefano. Dotata di bel timbro e buona linea di canto, sa aggiungere un’interpretazione davvero interessante.
Molto buona è anche la prova di Enrico Turco e Alessandro Nuccio nei rispettivi ruoli del padre di Giulietta e di Paride; particolarmente degno di nota è il Duca di Ziyan Atfeh.
Completano il cast Graziano Dallavalle e Stefano Consolini nei panni di Gregorio e Benvolio.
Lo spettacolo del regista altoatesino è raffinato, sa usare la trasposizione temporale senza forzature, mantenendosi filologico e il risultato è altamente piacevole. Gli amanti delle soap-opera possono trovare qualche richiamo alla celebre Beautiful. Molto efficaci e polivalenti sono le semplicissime scene di Nora Veneri, sorprendenti i costumi d’alta moda di Richard St. Claire, suggestive le luci di Claudio Schmid, nella media le coreografie di Lindsay Browning.
Ottimo il Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati.

LE NOZZE DI FIGARO [Lukas Franceschini] Venezia, 21 ottobre 2011.
Non sempre le idee innovative riescono! Lo abbiamo constatato nella nuova produzione de’ Le nozze di Figaro al Teatro La Fenice di Venezia.
Il secondo appuntamento con la trilogia dapontiana sotto la bacchetta di Antonello Manacorda e realizzato dal trio Damiano Michieletto (regia), Paolo Fantin (scene) e Carla Teti (costumi) ha destato molte perplessità principalmente nella parte visiva. Michieletto analizza il capolavoro mozartiano in maniera psicoanalitica, e il fatto è abbastanza inedito. Già nell’overture si vede un corpo a terra (si capirà alla fine che si tratta della contessa) e tutti i personaggi lo guardano con aria costernata. Inizia la commedia ma ben presto ci si rende conto che non si tratta di commedia ma dramma interiore, rivisitato come una sorta di visione psicologica interna alla grande casa del conte dove tutti i protagonisti rivestono azioni in contrasto con il loro animo. Tutto ciò potrebbe anche essere non solo originale ma altresì curioso e apprezzabile tuttavia vi è un concetto di base che lo rende profondamente errato perché comprime ed elimina tutta la vivacità e lo spirito della commedia, mancando in quel perfetto sincronismo di brillantezza e vis comica che contraddistinguono la folle journée. Inoltre, la trasposizione scenica agli inizi del ‘900 non rievoca certo quella luminosa e vezzosa Siviglia, ma ci immerge in un dramma alla Thomas Mann con molte similitudini ai “Buddenbrook”, tanta era l’oscurità visiva e concettuale. Non possiamo affermare che la drammaturgia scovata da Michieletto sia del tutto estranea alle Nozze, ma le ha estremizzate e rese quasi irriconoscibili. Non è certo un pallone che ci fa capire la perduta fanciullezza di Cherubino, o le percosse che Figaro infligge al Conte durante l’aria “Se vuol ballare” che ci chiarisce l’astio del servo nei confronti del padrone civettuolo con Susanna. Vi è un altro aspetto che il regista vuole evidenziare e precisamente il dramma interno al palazzo, tutto si svolge nelle sale della magnifica abitazione di Almaviva. È sicuramente una visione intimista ed “oggettiva” forse pertinente, ma troppo claustrofobica, tanto che il coro di ragazze che rendono omaggio alla Contessa non è in scena ma nella buca dell’orchestra, il finale atto III non è una danza ma un pranzo di gala per le nozze “doppie” e di giardino nel IV atto manco parlarne. Il suicidio della contessa al termine (seppur ipotizzabile nel decadentismo letterario) ci è parso però eccessivo. Alla fine non possiamo dire che tutto ciò che ha realizzato Michieletto sia incongruente, anzi ci fa ragionare in maniera diversa e ci offre anche un’ottica aggiuntiva di riflessione, ma partendo da Beaumarchais, Da Ponte e Mozart in questa commedia per musica volevano realizzare ben altra cosa. Le scene create da Paolo Fantin rievocavano un ambiente austero, geniale nel cambio quadro, con i cromatici blu e bianco di grande efficacia, utilizzando ancora lo stesso meccanismo ardito realizzato con il precedente Don Giovanni. I lineari costumi di Carta Teti si facevano apprezzare ancor più nella visione “nordica” di questa messinscena e confermavano ancora una volta la grandezza della mano realizzatrice. Antonello Manacorda dirigeva con grande senso teatrale e fortunatamente guardando più allo spartito che allo spettacolo, tempi serrati ma diligentemente cesellati da un’orchestra più pertinente rispetto al suo standard e molto più precisa che nel Don Giovanni. Dei cantanti non possiamo dire quanto si siano sentiti coinvolti in questa lettura anomala, ma la recitazione era pertinente, anche se qualche senso di disorientamento si notava. Vito Priante era un Figaro molto elegante e di salda tenuta vocale, come la sua fidanzata Susanna, Caterina Di Tonno, leggera e frizzante. Perfetto scenicamente nel ruolo del Conte, Simone Alberghini doveva fare i conti con una voce leggermente legnosa e non sempre armonica soprattutto nelle agilità, meglio i languori ed il pathos espressi dalla contessa di Sabina von Walther che oltre una precisa e ammirevole vocalità era in possesso di una presenza scenica di primordine. Più anonimo il Cherubino di José Maria Lo Monaco, la quale non brillava per precisione. Molto caratterizzata scenicamente la Marcellina di Elisabetta Martorana, che parafrasava la governante del celebre film “Rebecca, la prima moglie” di hitchcockiana memoria, vocalmente era ben delineata. Umberto Chiummo e Bruno Lazzaretti, a parte qualche imprecisione, si facevano valere per la loro esperienza sul palcoscenico. L’opera è stata eseguita integralmente, comprese le arie di Marcellina e Basilio, solitamente soppresse. Successo per tutto il cast, ma pochi applausi durante l’esecuzione, la quale probabilmente era penalizzata dall’allestimento molto particolare e il pubblico si sentiva leggermente “smarrito”.

IL TROVATORE [William Fratti] Busseto, 24 ottobre 2011.
L’esecuzione in forma di concerto de Il trovatore, a Busseto e Fidenza, in occasione del Festival Verdi 2011, molto probabilmente effettuata per ragioni economiche, al posto della versione scenica di Aida e La battaglia di Legnano precedentemente annunciate, non va a sminuire la qualità del lavoro del Teatro Regio di Parma, anzi, forse ne avvalora il contenuto. Chi non si aspettava nulla da questo spettacolo, è certamente uscito piacevolmente colpito.
Innanzitutto Michele Mariotti compie le stesse prodezze di Nabucco di qualche anno fa: respira con l’orchestra – i cui musicisti mantengono un naturalissimo sorriso sulle labbra per tutto il tempo – cesellando l’intera partitura di colori e di accenti, non dimentica alcun pianissimo, accompagna i giovanissimi e preparatissimi interpreti col rigore e la dolcezza di un padre saggio e severo, ridando al pubblico una musica verdiana che, pur mantenendo il nervo e il vigore del compositore delle Roncole, sa essere elegante e raffinata, se eseguita nel modo corretto.
Il coreano Ji Myung Hoon, nella difficile parte di Manrico, dimostra di possedere le giuste qualità. La voce c’è tutta ed è bella, coadiuvata di buon squillo e centri sonori che salgono all’acuto in maniera molto omogenea, ma è ancora molto acerbo e pertanto carente di accenti e chiaroscuri. Certamente si tratta di una vocalità su cui investire, bisognosa di tanto studio e poca fretta di fare debutti importanti. Le incertezze in “Deserto sulla terra”, nel Miserere e nei duetti con Azucena sono tante, ma nulla di irrimediabile. “Ah! Sì, ben mio… Di quella pira” e il quartetto finale sono particolarmente degne di nota, soprattutto per l’intonazione, la tenuta e la generosità: oggi, molti tenori ben più famosi, tendono a lasciare al coro la quasi totalità della cadenza della cabaletta per avere l’energia di un si o un do, cosa che non fa il giovane Ji Myung Hoon. Peccato che la paura lo immobilizzi sul palcoscenico fino a non muovere nemmeno un capello.
La cinese Yu Guanqun, in arrivo dalla Scuola dell’Opera Italiana di Bologna, è sorprendentemente perfetta e ritorna immediatamente alla memoria la vittoria della sua conterranea He Hui al Concorso Internazionale Voci Verdiane del 2002. Il fraseggio è ottimo, la dizione è magistrale, l’uso dei colori è particolarmente significativo, tanto da sembrare quello di un soprano esperto, la tecnica è invidiabile – le cantanti europee dovrebbero imparare – i centri sono musicalissimi e ben sostenuti fino all’acuto, la linea di canto è molto omogenea, a cui si aggiunge una recitazione davvero intensa, nonostante l’esecuzione in forma di concerto. La preparazione di Yu Guanqun è così elevata che si nota la mancanza di qualche accento di tradizione, ma talvolta è un toccasana per le orecchie sentire tanta precisione. L’unica pecca è la mancanza dei pianissimi e dei filati, soprattutto in “D’amor sull’ali rosee”, ma è certo che col tempo arriveranno anche quelli.
Il giapponese Hayato Kamie parte un po’ in sordina, ma da “Il balen del suo sorriso” mostra apertamente il suo fraseggio elegante ed espressivo, la ricchezza di sfumature e cromatismi, perfettamente all’unisono con la guida di Mariotti e l’Orchestra del Teatro Regio, lo squillo baritonale fresco e pulito. Ottima è la resa del duetto con Leonora in quarto atto. Anche per Hayato Kamie la preoccupazione gioca un brutto scherzo, ma forse più che di paura si tratta di timore riverenziale: cantare a Busseto, nel Teatro e durante il Festival dedicati a Verdi, ha un suo significato, anche se oggi molti non lo tengono più in considerazione.
L’americana Nicole Piccolomini, dotata di bel colore, timbro scuro e tanta voce, ha purtroppo dei seri problemi d’intonazione e negli acuti, oltre agli attacchi che sono quasi tutti sporchi. Il mezzosoprano sopperisce alle mancanze con un notevole volume, una presenza scenica molto importante e una buona recitazione. Purtroppo alla fine della lunga scena di secondo atto “Stride la vampa… Condotta ell’era in ceppi… Ma nell’alma dell’ingrato… Perigliarti ancor languente” risulta essere quasi afona.
Il georgiano George Andguladze possiede la classica precisione e preparazione dello studente modello e pur non avendo lo spessore e il recitativo che solo l’esperienza potrà dargli, mostra un buon accento e un bel fraseggio, oltre a delle accurate agilità che dispiega più che correttamente lungo la difficile aria di “Abbietta zingara”.
Completano il cast Norbert Nagy ed Eugenio Masino negli efficaci ruoli tenorili di Ruiz e di un messo, oltre a Tania Bussi e Riccardo Certi.
Ottima la prova del Coro del Teatro Regio di Parma guidato da Martino Faggiani, soprattutto nell’intenso e commovente Miserere.

FALSTAFF [William Fratti] Parma, 25 ottobre 2011.
Durante il Festival Verdi 2011, che in questa edizione si è diviso tra Teatro Regio di Parma, Teatro Farnese, Teatro Verdi di Busseto e Teatro Magnani di Fidenza, oltre a Messa da Requiem è anche Falstaff ad essere allestito nello splendido gioiello ligneo del Palazzo della Pilotta.
La cornice è davvero suggestiva ed emozionante, tanto più che Stephen Medcalf sa inserire perfettamente lo spettacolo nella cornice del proscenio e del palcoscenico barocco, creando un amalgama davvero sorprendente. Eccezionali dunque, in questo contesto, sono le scene e i costumi di Jamie Vartan e altrettanto suggestive le luci di Simon Corder. Purtroppo i già citati problemi di acustica della sala, in quest’opera si notano ancora di più: Falstaff è un esempio di perfezione musicale, dove centinaia di brevissime melodie si rincorrono e solo pochissime vengono sviluppate, dove la preparazione tecnica di direttore, cantanti e musicisti sono elementi essenziali, ma le sfaccettature della partitura sono così tante e così minuziose che, in un teatro che non è stato costruito né restaurato per l’opera, si perdono tutte quante. Eseguire l’ultimo capolavoro di Verdi al Farnese è come eseguirlo all’aperto. Con tali premesse non è possibile fare oggetto di critica la precisione e la purezza di suono di nessuno degli intervenuti, poiché l’effetto acustico potrebbe essere stato falsato.
La direzione di Andrea Battistoni, tanto acclamato per Attila, giudicato in maniera alterna per Barbiere, poi disapprovato pienamente per Rigoletto, sembra qui ritrovare il suo talento, anche se sarebbe auspicabile riudirlo su un podio più adeguato alla lirica.
Ambrogio Maestri veste i panni del protagonista con sapienza e passione, rendendo un personaggio davvero interessante. La voce è sempre ben impostata nel cantabile, soprattutto nelle zone più acute, ma il recitativo è più parlato che cantato. È davvero un peccato, considerando che ora dovrebbe essere nel pieno della sua maturità artistica, notare una perdita di brillantezza rispetto all’edizione che dieci anni fa gli ha permesso di lanciare la sua carriera.
Svetla Vassileva, nel ruolo di Alice, è costantemente se stessa: bella, dotata di presenza scenica invidiabile, forte personalità, timbro tra i più interessanti nel panorama lirico internazionale. Peccato che l’intonazione non sia sempre corretta, soprattutto nelle frasi più centrali e più lunghe.
Luca Salsi è un Ford davvero eccellente: si sentono chiaramente la vocalità verdiana, dotata di accenti e squillo, e l’esperienza nel ruolo. La difficile aria “È sogno o realtà?” è eseguita con la giusta intensità, dove si evidenziano un’ottima ed omogenea linea di canto e un fraseggio particolarmente espressivo. Notevole anche la tecnica sui fiati.
Barbara Bargnesi è una Nannetta molto musicale, ma ancora molto acerba e soprattutto molto insipida. La parte è ben eseguita, ma non lascia un particolare ricordo di sé. La affianca un altrettanto poco significativo Fenton, interpretato da Antonio Gandia. I due solisti si prodigano in eleganti cantabili durante i duettini e le ariette, raffinati e corretti, ma ciò che manca è quel valore aggiunto che occorre nell’interpretare questo Verdi.
Romina Tomasoni è una brava cantante, ma una Quickly davvero sbagliata. Il personaggio è sempre sotto le righe, quando invece è il vero deus ex machina dell’intera vicenda. Gli accenti e il fraseggio sono quasi assenti: frasi celebri come “Reverenza”, “Povera donna” o “Quella quercia è un luogo da tregenda” sono pronunciate senza nervo. Maggiore enfasi è data dall’interpretazione di Meg da parte di Daniela Pini.
Eccellente il Cajus di Luca Casalin. Efficaci scenicamente Patrizio Saudelli e Mattia Denti nei ruoli di Bardolfo e Pistola.
Buona la prova del Coro del Teatro regio di Parma diretto da Martino Faggiani.
Al termine dello spettacolo il pubblico accoglie calorosamente tutti gli interpreti, nonostante il freddo patito durante tutta la recita. Purtroppo il Teatro Farnese, nella sua incomparabile bellezza, oltre ad essere inadatto all’opera, è anche molto scomodo, avendo tutte le problematiche di un luogo in disuso: mancanza di riscaldamento e impianto di condizionamento, con l’uscita della sala direttamente sullo scalone esterno; mancanza di un servizio di ristorazione in grado di servire bevande calde; mancanza di toilette, sopperita con la messa in funzione di qualche bagno chimico – per un pubblico di oltre mille persone – all’esterno, sotto ai portici della Pilotta; è possibile solo immaginare le altre problematiche nel back stage. A questo punto ci si domanda se sia davvero il caso di continuare ad usare questo luogo per il melodramma, o soltanto per la sinfonica, con spettacoli molto più brevi, senza pause, ed opportunamente amplificati.

ACIS AND GALATEA [Lukas Franceschini] Venezia, 26 ottobre 2011.
Per la prima volta nella sua ultrabicentenaria attività il Teatro La Fenice allestisce l’opera Acis and Galatea di Georg Friedrich Händel decentrandolo nel periferico Teatro Malibran.
Assistiamo alla prima delle cinque recite programmate, tutte in turno d’abbonamento, ma curiosamente il pubblico non riempiva il piccolo teatro veneziano Acis and Galatea non è propriamente un’opera, anche se contiene sicuramente tutte le caratteristiche settecentesche di questa, bensì un masque. Commissionata dal Conte di Carnarvon per puro intrattenimento personale e dei pochi ospiti, la “little opera” fu rappresentata per la prima volta nel parco della tenuta di Cannons, un immaginario perfetto per stile ed Arcadia. Il termine masque deriva dai complessi spettacoli di Corte in epoca stuartiana i quali consistevano in una combinazione di musica, danza, dialoghi parlati e una sontuosa messa in scena. Per alcuni versi si può affermare che tali esperimenti “operistici” furono dei concreti tentativi d’oltremanica in grado di rivaleggiare con l’opera italiana. Il tentativo apprezzabile nello stile e nell’innovazione però non superò il melodramma italico settecentesco oramai  radicato a livello europeo. Tre furono i poeti che concorsero alla stesura del libretto, che si basa su un tema mitologico-pastorale dalle “Metamorfosi” di Ovidio, tra i quali non si può sottacere quel celeberrimo John Gay autore della fortunatissima e riuscitissima “The Beggar’s Opera”. Il successo del masque haendeliano è da attribuire alla squisita musica composta dal “sassone” ma anche dalle ristrette esigenze orchestrali e dei singoli interpreti, i quali permisero numerose successive riprese. La sua fortuna fu immediata e duratura, nessun altro lavoro di Händel fu oggetto di così tante copie coeve e meritò un’edizione a stampa già nel 1743. Nel 1731 Acis veniva per la prima volta eseguito in pubblico a Londra e da allora si possono contare almeno cinquanta riprese, con l’autore ancora vivente. Acis and Galatea è il primo dei quattro titoli haendeliani che Mozart studierà e riorchestrerà nel pieno della sua maturità artistica, su incarico del barone Gottfried van Swieten. Nella riscrittura di questa pastorale (1788) Mozart arricchisce la strumentazione con un nuovo acis_3organico di fiati, interviene sulla scrittura delle parti corali e trasfigura l’originale di Händel nel gusto del classicismo di fine Settecento. È da ricordare, come nota singolare, che per buona parte del secolo successivo, furono proprio le trascrizioni mozartiane a far conoscere e apprezzare Händel in patria, non dimenticando che tale compito di riscrittura fu commissionato anche a Felix Mendelssohn-Bartholdy. Il capolavoro barocco Acis e Galatea è il penultimo spettacolo della stagione 2011 del Teatro La Fenice con la particolarità che si esegue la prima versione del 1718 e si aggiunge un personaggio non presente nella partitura originale, Coridon, esecutore dell’aria n. 14. Con un organico molto ridotto, non sono presenti le viole, la partitura racconta un mito dell’antichità, quello di Acis ucciso dal geloso Polifemo e trasformato in fiume per unirsi in eterno all’abbraccio di Galatea, ninfa del mare. Lo spettacolo è stato creato per il Festival di Aix-en-Provence da Saburo Teshigawara, commediografo, ballerino, coreografo e artista multimediale. Come nel precedente “Dido and Aeneas” analizza la drammaturgia attraverso gesto, mimica e danza, rievocando quell’effetto originale dello spettacolo la cui recitazione è inserita in un ambiente complessivo di pastorale superbamente realizzata. Uno spettacolo visivo di grande fascino e indubbia qualità intellettiva. Il cast annoverava i giovani che eseguirono le recite nel sud della Francia la scorsa estate. Joélle Harvey era una deliziosa Galatea incisiva ed elegante, Pascal Charbonneau un puntale Acis seppur più limitato nel timbro, Rupert Charleswort un valido Damon e Grigory Soloviov un grezzo ma efficace Polifemo. Ottimo il coro composto di cinque solisti dell’ENOA. Sul podio il giovane Leonardo Garcia Alarcon, ma già con un curriculum d’alto profilo nel settore barocco, ha concertato splendidamente non perdendo mai il filo conduttore tra musica e dramma, cesellando i passaggi amorosi (i duetti tra i protagonisti) e rendendosi veramente raffinato nelle pastorali del coro, tipiche di quel piacere agreste dell’opera, purtroppo fortemente illusorio nella realtà. L’organico della Fenice ha risposto con ammirevole impegno e bravura cui vanno ad aggiungersi i bravissimi solisti del continuo. Successo pieno e meritato al termine.

LA DONNA DEL LAGO ]William Fratti] Milano, 2 novembre 2011.
Il Teatro alla Scala di Milano conclude la Stagione Lirica 2010-2011 all’insegna del belcanto, con un nuovo allestimento de La donna del lago di Gioachino Rossini, in coproduzione con Opéra National de Paris e Royal Opera House di Londra, firmato da Lluís Pasqual.
Le scene di Ezio Frigerio sono imponenti, splendidamente costruite e riproducono molto fedelmente un ipotetico teatro neoclassico; come pure incantevoli sono i costumi di Franca Squarciapino che, partendo dall’epoca originale in cui è ambientata la vicenda, si tingono di un effetto onirico sorprendente. A tale magnificenza si aggiungono le affascinanti e suggestive luci di Marco Filibeck, che sanno creare momenti davvero piacevoli. Purtroppo a tanta bellezza corrisponde altrettanta noia: l’idea del teatro nel teatro e dell’utilizzo del coro alla greca è fin troppo inflazionata e in un’opera in cui i fatti sono molti, ma effettivamente nulla accade in scena, poiché arie e duetti non sono altro che racconti di sentimenti o di episodi già accaduti, una simile rappresentazione diventa monotona e assolutamente inefficace.
La guida dell’Orchestra del Teatro alla Scala è affidata a Roberto Abbado, che dispiega le lunghe pagine dello spartito con disinvoltura e fluidità. Il direttore milanese è abile e preciso, ma la sua mano tende a romanticizzare la partitura; ciò forse rende più facile l’ascolto ad un pubblico moderno, ma viene meno quella che dovrebbe essere l’intenzione rossiniana. Ciò detto, l’effetto è comunque molto piacevole e di altissimo livello.
Joyce DiDonato è un’Elena strabiliante, dotata di tecnica eccezionale, davvero impareggiabile. Ogni nota è perfettamente al suo posto, gli acuti sono saldissimi e limpidissimi, i gravi ben appoggiati e proiettati, le agilità naturalissime si amalgamano con estrema scioltezza in una linea di canto davvero omogenea, impreziosita di un fraseggio raffinato e di un’incredibile capacità nell’uso dei chiaroscuri. Il rondò finale “Tanti affetti… Fra il padre, e fra l’amante” è una vera e propria lezione di canto e lascia l’intero teatro a bocca aperta.
La affianca un altrettanto meraviglioso Juan Diego Florez nel ruolo di Giacomo. Tenore rossiniano per eccellenza, l’artista peruviano si mostra in perfetta forma, elegante, quasi idilliaco nel primo lungo duetto con Elena, assolutamente unico in “Oh fiamma soave”, tecnicamente perfetto oltre che decisamente espressivo nell’interpretazione, nel fraseggio e nei cromatismi. Ineccepibili le colorature e i luminosissimi acuti.
Daniela Barcellona è indiscutibilmente una cantante di prima classe e sa dispiegare il repertorio del compositore pesarese con attenta precisione e chiara intenzione. I suoi ruoli en-travesti sono sempre perfetti e nella parte di Malcom non fa altro che avallare questa ipotesi, che ormai è una certezza. La cavatina d’ingresso “Mura felici… Elena! Oh tu, che chiamo!” è un ottimo esempio di tecnica ed espressione rossiniana, e la seconda aria “Ah si pera… Fato crudele” una bellissima prova di fraseggio nel cantabile e di virtuosismo nella cabaletta.
John Osborne è Rodrigo e, con la sua bella voce brillante, è il giusto completamento di un quartetto davvero sorprendente. Le sue mezze voci, le filature e i piani sono affascinanti e raffinati, buona la tenuta dei fiati. Peccato che nel primo recitativo una nota grave sulla prima frase, nella ripetizione di “miei prodi” e un acuto preso male rovinino tanta perfezione, ma si tratta chiaramente di casi isolati e non è possibile mettere in discussione né la vocalità né la tecnica di questo tenore, soprattutto tenendo in considerazione la micidialità di questa cavatina. Nel drammatico terzetto di secondo atto, intenso ed emozionante, i tre interpreti sono un’impeccabile dimostrazione di apice tecnico e nei quasi venti minuti di musica che compongono questa pagina, rappresentano la quintessenza dell’interpretazione del pesarese.
Simon Orfila, nei panni di Douglas, si prodiga in un’esecuzione più che corretta, ma non mirabolante come il resto dei protagonisti. La differenza si nota soprattutto nell’esecuzione della regola rossiniana.
Buona la prova di José Maria Lo Monaco nelle vesta di Albina, soprattutto nel concertato del finale primo. Completano il cast Jaeheui Kwon e Jihan Shin nei panni di Serano e Bertram.
Eccelso il Coro del Teatro alla Scala guidato da Bruno Casoni.

IL CAPPELLO DI PAGLIA DI FIRENZE [William Fratti] Cremona, 4 novembre 2011.
Nel centenario della nascita del premio Oscar Nino Rota, il Circuito Lirico Lombardo, in coproduzione con l’Opera Giocosa di Savona e il Teatro Sociale di Rovigo, mette in scena il nuovo allestimento del Teatro Petruzzelli di Bari de Il cappello di paglia di Firenze, capolavoro musicale che pare attingere da Rossini, sembra fare l’occhiello a Falstaff e Gianni Schicchi e ha lo stesso sapore di Die lustige Witwe e di Die Fledermaus.
La prima serata al Teatro Ponchielli di Cremona è un vero successo e soprattutto una gradita sorpresa per tutti gli appassionati che non conoscono l’opera del compositore de Il Gattopardo, 8 ½ e Il padrino. La regia di Elena Barbalich è efficace ed accattivante, sa seguire il continuo cambiamento di situazione in maniera omogenea e le macchiette sono divertenti, mai eccessive. È coadiuvata da Danilo Rubeca che cura anche gli allegri movimenti coreografici, primo fra tutti il coro delle modiste nel primo intermezzo. Davvero piacevole. Di buon gusto anche scene e costumi di Tommaso Lagattola e le luci di Michele Vittoriano.
Giovanni Di Stefano dirige correttamente la svogliata Orchestra Lirica I Pomeriggi Musicali, anche se i colori, i cromatismi e l’espressività rotiane sono lasciate nel dimenticatoio. Il Coro del Circuito Lirico Lombardo, guidato da Antonio Greco e Diego Maccagnola, si comporta meglio del solito.
Leonardo Cortellazzi è un Fadinard efficacissimo, interpreta il personaggio molto bene ed esegue la parte musicale con voce chiara e leggera, morbida e duttile, omogeneo nel passaggio all’acuto, dimostrando di possedere una buona linea di canto.
Lo affianca Manuela Cucuccio nel ruolo di Elena, molto realistica anche grazie alla sua giovinezza, ma certamente acerba nella vocalità. Le note ci sono, ma non la tecnica, pertanto spesso perde l’intonazione e gli acuti non sono sempre puliti. Purtroppo il soprano è indubbiamente vittima della moda sempre più frequente di far debuttare i giovani ad ogni costo, anche quando non sono ancora pronti, approfittando della loro insesperienza.
Domenico Colaianni è un divertentissimo Nonancourt ed è certamente uno dei migliori interpreti di questi ruoli brillanti poco inficiati dalla tradizione, poiché è in grado di personalizzare tali personaggi e di dare loro voce col giusto carattere, grazie ad un buon uso degli accenti un ottimo recitativo.
Filippo Fontana, vincitore del concorso As.Li.Co, dimostra di possedere le giuste qualità e la corretta preparazione per affrontare il debutto della parte di Beaupertuis, la cui aria di sortita “È una cosa incredibile” – che a tratti si volge a Ford di Falstaff, poi ad Alfio di Cavalleria rusticana – non è certamente priva di difficoltà. Lo squillo luminoso, gli acuti ben saldi e il fraseggio espressivo fanno di questo giovane artista una promessa per il futuro.
Il personaggio della baronessa di Champigny, che rimanda al principe Orlofsky de Il Pipistrello, è affidato alla voce leggermente brunita di Marianna Vinci, corretta nel cantabile, piacevole nei centri, ma non sempre limpida negli acuti.
Concludono Anna Maria Sarra e Simone Alberti, poco adeguati nei ruoli di Anaide ed Emilio; Raoul d’Eramo, efficace nella parte dello zio Vezinet, meno in quella del Visconte Achille; Roberto Covatta nei panni di Felice, molto credibile sia nella voce che nel personaggio; Silvia Giannetti, incerta nel ruolo della modista; Alessandro Mundula e Jozef Carotti, una guardia e un caporale.

LA DONNA DEL LAGO [Lukas Franceschini] Milano, 8 novembre 2011.
Strano il destino alla Scala quello dell’opera La donna del lago di Gioachino Rossini, se si escludono le sei edizioni ottocentesche, l’unica ripresa del ‘900 risale al 1992 con Riccardo Muti sul podio, segue un ventennale silenzio e finalmente oggi una nuova riproposta, ovvero l’ultimo appuntamento della stagione 2010/2011.
Come molti altri teatri anche la Scala negli anni ’80 ha perso la grande occasione di proporre vari titoli del Rossini serio con cast d’eccellenza che in quel momento imperversavano a livello internazionale. La cronologia degli spettacoli è un chiaro specchio di quanto l’opera sia stata sottovlauta inoltre, nell’ultima proposta pur essendo di fronte ad un evento, non possiamo dimenticare che i protagonisti non erano certo al loro zenit; pertanto è lecito domandarsi se allestire certi titoli non dovrebbe essere peculiarità momentanea quando è possibile reperire cast idonei, se non eccezionali. Il Teatro alla Scala nel riproporre “La donna del lago” ha indubbiamente radunato un cast il quale è quando di meglio oggi reperibile a livello internazionale, pur con i debiti distinguo. L’opera è tratta dal romanzo epico “The lady of the Lake” di Walter Scott ma Rossini e il librettista, Leone Andrea Tottola, si scostarono dall’idea originale dando inizio al filone musicale “romantico” a sfondo letterario. L’opera, composta nel periodo napoletano del musicista, presenta innumerevoli novità musicali che avrebbero influito sullo stile del melodramma in generale. Il successo dello spartito fu all’inizio tiepido ma poi dilagante, tanto da diventare in pochissimo tempo l’opera più popolare del momento, di cui Stendhal nella “Vie de Rossini” ce ne offre una preziosa testimonianza. Rossini anche in tale occasione si riconferma gran virtuoso, avendo a disposizione ottimi se non eccezionali interpreti ma caratteristica dell’opera è soprattutto una delicata melodia voluttuosa. Rossini fu attratto da una saga “nordica”, ambientata tra foreste montane ed avvolte dalle brume lacustri della lontana Scozia, il fatto è particolare perché fino allora il compositore era considerato un classico e quest’avvicinamento al romanticismo è da considerare una svolta, tant’è che si dedicò prevalentemente agli affetti musicali piuttosto che alla psicologia dei personaggi. L’estro musicale, di alta qualità, e contraddistinto da un gioco di alternanze ritmiche che non cessa mai di sorprendere per originalità d’invenzioni che si associano al trattamento originale degli strumenti d’orchestra in funzione concertante ed il ruolo protagonistico del coro. Altra peculiarità dell’opera è che la protagonista, Elena, è contesa da tre uomini e il suo tentennamento o incertezza potrebbe supporre ad una drammaturgia scarsa ma invero è l’espressione vocale a prevalere su effetti ed affetti di singolare brillantezza e nuova comunicatività. Lo spettacolo di Lluis Pasqual delude non tanto perché manca il lago, ma perché sviluppa un’idea obsoleta di inserire i protagonisti all’interno di un vecchio teatro (qui pare il rifacimento della Scala) dove un mondo lontano sta a noi come una vicenda teatrale non realizzabile nella vita, risultando noioso e sovente incongruente con il libretto, Pasqual sa fare molto di meglio, e trovo strano che la ripresa scaligera sia stata affidata ad un collaboratore. Il coro è abbigliato in stile ottocentesco, i protagonisti in stile più consono all’epoca per opera della magnifica mano (da Oscar) di Franca Squarciapino, la scena di Ezio Frigerio è fissa e poco spettacolare. Concertatore era un attento Roberto Abbado capace di quel romanismo insito nello spartito e calibratore di colori davvero esemplari. Peccato che in taluni momenti coprisse le voci e certe scene non erano rafforzate da una vibrazione di maggiore tensione che avrebbe dato ancor più lustro alla sua direzione. Ottima prova quella di Joyce di Donato puntuale interprete rossiniana ma limitata, la è voce ridimensionata rispetto ad altre esibizioni, ma capace di fraseggio e variazioni molto azzeccate, trionfa anche nel rondò finale ma lì ci saremo aspettati più o diverse acrobazie. Juan Diego Florez domina la parte di Giacomo V da circa un decennio e nessun ostacolo lo intimorisce. La voce non è particolarmente variegata, il colore è quasi unico, ma la tecnica gli permette di venirne a capo con altissimo onore. Daniela Barcellona, che si è fatta annunciare indisposta, denota invece un forte affievolimento dei suoi mezzi soprattutto nelle proiezioni dei suoni piuttosto gutturali ed il settore acuto non è più ferreo come un tempo. John Osborn, Rodrigo, sciorina acuti con impressionante facilità ma il registro grave è afono, dovremo pertanto considerare che la parte non sia proprio per i suoi mezzi, ma l’incisività e l’eroismo compensavano tali carenze. Appena dignitoso il Duglas di Simon Orfila e ottime le parti comprimariali con particolare menzione per José Maria Lo Monaco efficace Albina. Successo caloroso al termine.

LA BOHÈME [William Fratti] Fidenza, 11 novembre 2011.
Il Gruppo Promozione Musicale “Tullio Marchetti” riesce, anche quest’anno, a compiere il miracolo di riunire un valoroso gruppo di artisti che, muniti di grande professionalità e tanta passione, sono arrivati a mettere in scena nel piccolo Teatro Magnani, con le poche risorse a disposizione, una Bohème davvero sorprendente.
I tagli subiti dalle grandi Fondazioni lasciano solo intendere cosa possa essere accaduto all’economia dei piccoli Istituti, sia in termini di tempo, sia di denaro, ma il desiderio di costruire uno spettacolo di alto livello ha superato qualunque barriera. Il messaggio del Gruppo Marchetti è lampante: il prezzo dell’incultura è troppo alto da pagare; i posti in teatro, tutti esauriti, ne sono la prova.
L’opera è allestita nella recentemente restaurata Camera Acustica di Girolamo Magnani, scenografo fidentino giudicato da Giuseppe Verdi “il primo d’Italia” e artista decoratore di numerosi teatri italiani, tra cui quello della propria città natale. Riccardo Canessa giustifica, con grande abilità, la messinscena de La Bohème all’interno del capolavoro pittorico arredandolo come se fosse il salotto di Casa Puccini; ed ecco che il compositore – interpretato dallo stesso regista – invita gli interpreti ad una prova dell’opera. Il risultato è eccellente, credibile sotto ogni punto di vista, avvalorato dai bei costumi di Artemio Cabassi, soprattutto quelli del coro e dei solisti maschili. Particolarmente suggestive le luci di Stefano Gorreri, che ha saputo creare la giusta ambientazione nonostante l’assenza di americane.
Daria Masiero è una Mimì intensa nel personaggio ed appropriata nella voce. Il timbro è morbido e pastoso, la linea di canto è sempre uniforme, il fraseggio è espressivo. A ciò si uniscono dolcezza ed eleganza, tanto nel canto, quanto nell’interpretazione. È un vero peccato che il do sovracuto non sia perfettamente saldo e limpido.
Paolo Fanale, classe 1982, debutta il ruolo di Rodolfo con estrema disinvoltura, molto credibile nella gestualità e nell’interpretazione. La voce è particolarmente importante, dotata di un timbro naturale tipicamente italiano, decisamente omogenea nel passaggio fra i diversi registri. La fluidità è tale che diventa difficile comprendere fino a che punto arrivano le qualità originali del tenore siciliano e quando interviene la tecnica di canto. A ciò si aggiungono un’ottima tenuta dei fiati e una raffinata capacità dell’uso delle mezze voci.
Roberta Canzian veste i panni di Musetta per la prima volta, rendendo un personaggio un po’ “Vipera!” e un po’ “Strega!” in secondo e terzo atto, ma con le giuste tinte drammatiche in quarto, soprattutto quando porge gli orecchini a Marcello e al momento della preghiera. La voce lirico leggera del soprano coneglianese si sposa alla perfezione col ruolo e ottima è l’esecuzione del valzer “Quando men vo”.
Gianfranco Montresor è un Marcello spontaneo e spigliato, dotato di voce squillante e facile all’acuto, ben adeguata alla parte. Il baritono veronese gode di una linea di canto particolarmente omogenea e sa amalgamare molto bene le pagine più brillanti con quelle più commoventi, soprattutto in terzo atto.
Donato Di Gioia è un efficacissimo Scaunard dalla voce limpida, affiancato dal Colline di Pietro Toscano, un po’ sotto le righe, soprattutto nella vocalità molto opaca. Il fidentino Romano Franceschetto è un Benoit divertente e musicale. Davvero simpatica ed azzeccata è l’idea di Riccardo Canessa di trasformarsi, sulla scena, da Giacomo Puccini ad Alcindoro, risultando essere un perfetto interprete dell’accompagnatore di Musetta. Ottima la prova del Coro dell’Opera di Parma diretto da Emiliano Esposito e capitanato da Eugenio Masino, che esegue in maniera molto opportuna anche il personaggio di Parpignol.
Alla guida dell’Orchestra Filarmonica Terre Verdiane è Fabrizio Cassi, debuttante nella partitura pucciniana, ma sapiente accompagnatore. È intuibile che il poco tempo a disposizione non gli abbia permesso di eseguire una certa ricercatezza di colori e cromatismi, ma è indubbia la sua capacità di seguire ed indirizzare le voci. Con l’amalgama creato tra buca e palcoscenico alcune pagine e taluni passaggi, soprattutto nelle cadenze di arie e duetti, risultano davvero piacevoli e musicali.

DON PASQUALE [Lukas Franceschini] Treviso, 11 novembre 2011.
La Stagione Lirica al Teatro Comunale “Mario Del Monaco” inizia con Don Pasquale di Gaetano Donizetti e ben ha fatto la direzione artistica nel riprendere uno spettacolo riuscitissimo di Italo Nunziata. Pasquale Grossi è pertinente ed originale, del resto la vicenda del vecchiotto che vuol prendere moglie giovane è di tutte le epoche, trasportarla negli anni ’30 con il gusto e quel profumo di celato perbenismo realizzato soprattutto al cinema, ne ha rivalutato l’azione, cui la geniale regia offre spunti di recitazione davvero amabili, collocandoci in un ambiente sobrio, colorato e fantasioso di raffinata esecuzione.
Il protagonista è qui un ricco commerciante di stoffe, le cui sembianze sono clamorosamente identiche a quelle di un noto editore musicale bolognese odierno, la giovane Norina, una segretaria di tale ufficio è pertanto di ceto sociale troppo modesto perché possa diventare moglie del fatuo nipote, il ruolo del dottore invece resta immutato, ma è figura predominante di deus ex machina. La scena è scorrevole con velocissimi cambi che non interferiscono nella serrata narrazione, Pasquale Grossi s’impegna a dovere e con efficacia, cui contribuisce anche con splendidi costumi che rievocano l’epoca a noi tramandata dai film di Vittorio De Sica, Assia Noris e Mario Camerini, i quali oltremodo a tratti sono gradevolmente riprodotti a spezzoni durante il terzo atto, e “Grandi Magazzini”  non poteva essere titolo più consono.
L’Orchestra di Padova e del Veneto è un complesso di elevata fama che in quest’occasione conferma le sue peculiarità, anche se il settore fiati non era ben rifinito. La direzione di Sergio Alapont è corretta e sufficientemente brillante senza eccellere in particolari rifiniture, ma si fa apprezzare ed è godibile. Puntuale e piacevole scenicamente il coro Voxonus. Nel cast primeggia la presenza di Lorenzo Regazzo che di Don Pasquale realizza un personaggio a tutto tondo senza eccessi ma di misurata e coinvolgente caratterizzazione cui si abbina un canto particolarmente raffinato di squisita armonia. Laura Giordano è una Norina piccante e gradevole, briosa quanto maliziosa, peccato non abbia risolto alcune asprezze nel settore acuto altrimenti sarebbe stata quasi perfetta.
La classe di Roberto De Candia si riscontra nel sornione personaggio di Malatesta cui il baritono ha dato il giusto calibro, vocalmente molto prudente ma quanto mai puntale nel canto sillabato. Dionigi D’Ostuni avrebbe dovuto farsi annunciare indisposto perché la sua resa vocale non era sicuramente all’altezza del Don Ottavio ascoltato di recente a Vicenza, pertanto non mi sembra il caso di infierire su un’esibizione molto compromessa dall’indisposizione ma che non avendo avvertito il pubblico al termine è stato anche in parte contestato. Aspettiamoci altre occasioni che mi auguro più fortunate. Ottimo successo, con molte chiamate al proscenio per gli artefici dello spettacolo.

RIGOLETTO [Lukas Franceschini] Verona, 17 novembre 2011.
La stagione d’opera 2010/2011 al Teatro Filarmonico di Verona si è conclusa con una nuova produzione di Rigoletto di Giuseppe Verdi. L’allestimento era ideato da Arnaud Bernand, che tanto ci aveva entusiasmato nella “bianca” e pulita Bohème areniana, ma in quest’occasione ci ha lasciato molto perplessi se non delusi. Lo spettacolo era a tratti molto enigmatico, statico e non coinvolgeva affatto. Già durante il preludio si apre il sipario su un gabinetto anatomico e il duca, qui dottore o scienziato, studia parti umani come ad esempio la gobba di Rigoletto, quale fosse un caso sinistro oppure una sua creatura è difficile comprendere tale significato. L’originale scena di Alessandro Camera è costituita in due sezioni quella sottostante può in parte rifarsi al piccolo teatro del Bibiena mantovano, la sovrastante è rappresentata da una libreria impolverata, si sa che il duca è più avvezzo al gentil sesso che ai libri e tanto meno agli studi. Il problema è che la scenografia è fissa come a creare una lettura claustrofobica del dramma che personalmente trovo abbia altre e più complicate sfaccettature. Della festa a corte non c’è il minimo accenno, se non la presenza di un paio di personaggi femminile cui il duca dedica attenzioni ovviamente sessuali. La casa del protagonista era una torre con scala circolare piuttosto banale, sulla quale era piuttosto ridicole vedere la giovane coppia di amanti durante il duetto d’amore. Nel secondo atto una serie di plastici in miniatura ricalcavano edifici di Giulio Romano e nel terzo un barcone a tutta scena rappresentava la taverna di Sparafucile. A parte un’ambientazione troppo didascalica quello che mancava nello spettacolo era una vera lettura drammaturgica che il regista non portava a compimento lasciando al caso e alla pura monotonia. Mancava una chiave di lettura originale del rapporto padre-figlia, il libertinaggio ostentato del duca, la visione corrotta e lasciva dei cortigiani, la vicenda si sviluppava in modo noioso e scontato. I costumi di Katia Duflot si facevano ammirare per eleganza e stile.
Maestro concertatore era il giovane Andrea Battistoni il quale si è limitato a tenere saldo il rapporto orchestra-palcoscenico ma con tempi ora troppo ridondanti, ora particolarmente lenti. Non vi era nella sua direzione una tavolozza di colori appropriata e uno sviluppo drammatico pertinente, si è limitato ad accompagnare. Il cast ha rivelato più ombre che luci a cominciare dal protagonista Alberto Gazale, baritono dalla voce anche interessante, ma spesso con problemi d’intonazione, un fraseggio pressoché inesistente e tralasciamo il settore acuto sgangherato.
Questa produzione segnava il rientro sulle scene di Stefania Bonfadelli, la quale si è rivelata sicuramente l’interprete più conscia del proprio ruolo, con una buona caratura del personaggio, ma purtroppo il suo canto ha rivelato che il settore acuto è spesso forzato per non dire rasente al grido. È vero che non ha interpretato una Gilda bamboleggiante e gliene diamo atto, ma l’espressione musicale è al quanto frammentaria. Debuttava a Verona il tenore spagnolo Ismael Jordi che vanta una figura molto apprezzabile e un gesto teatrale idoneo. La linea di canto è anche forbita, accenti e colori sono appropriati, ma la tecnica non ancora del tutto rifinita nel passaggio lo rende fisso e “schiacciato” nel registro acuto, problemi che dovrebbero essere risolti al più al più presto.
Piuttosto grezzo lo Sparafucile di Luiz-Ottavio Faria, e poco incisiva la Maddalena di Asude Karayavuz. Le parti di contorno non erano particolarmente efficaci a cominciare dal poco espressivo Monterone di Gianfranco Montresor, di ruotine gli altri. Il pubblico non era numeroso ed è stato piuttosto gelido durante l’esecuzione, comunque al termine non sono mancati consensi, ma direi più di cortesia che di consenso, pur con qualche isolata contestazione al protagonista.

ROMEO ET JULIETTE [William Fratti] Cremona, 18 novembre 2011.
Raggiunge anche il Teatro Ponchielli di Cremona lo spettacolo coprodotto dal Circuito Lirico Lombardo, nell’allestimento poco piacevole e poco interessante firmato da Andrea Cigni. È vero che la vicenda di Romeo e Giulietta oltrepassa i limiti del tempo; è altrettanto vero che la neutralità e la pulizia dello spazio sono a servizio della recitazione; come è pur vero che la musica di Gounod suggerisce il colore blu.
Ma il modo in cui tutto questo è realizzato dovrebbe avere un senso ed essere comprensibile al pubblico. La scena fissa e spoglia, con tre porte in ciascuno dei tre lati, oltre ad essere già stata vista in numerosi altri spettacoli, qui non ha un particolare significato, o per lo meno non è immediato. Inoltre la tonalità di blu scelta, con l’uso delle luci calde a cura di Fiammetta Baldisseri, tende al verde, perdendo il suo concetto di partenza, oltre ad essere particolarmente fastidiosa poiché lucida e riflettente. Infine la quasi totalità delle pagine più importanti dei protagonisti si svolge su di una pedana centrale rialzata e molto arretrata rispetto il proscenio, con evidente perdita di contatto tra gli artisti ed il pubblico; ed è davvero curioso notare come – nonostante la costante disapprovazione di pubblico, critica e degli stessi interpreti – i registi continuino imperterriti ad usare questo sistema. Anche la gestualità non è delle migliori e soprattutto non rispetta la raffinatezza della musica gounodiana, per non parlare del continuo e violento lancio di oggetti contro le pareti. Più adeguati sono invece i costumi di Massimo Poli.
L’Orchestra Lirica I Pomeriggi Musicali dimostra che, quando ha voglia ed è diretta da bacchette volenterose, si può suonare dignitosamente. Pertanto un meritato plauso va alla guida di Michael Balke, soprattutto per l’intensità raggiunta in terzo atto.
Serena Gamberoni ha tutte le “note” in regola per essere un’ottima Giulietta e lo dimostra con voce ben salda e solida fin dal recitativo di sortita “Écoutez! Écoutez!”. Forse il celebre valzer “Je veux vivre” non è mirabolante, ma la limpidezza degli acuti e l’abilità nei virtuosismi sono certamente di rilievo. La scena del matrimonio e l’aria del veleno sono emozionanti, interpretate con la giusta dose d’intensità e d’accenti drammatici.
Le è accanto il Romeo di Jean-François Borras, che esegue la sua prima aria correttamente, ma con poco colore. Migliora decisamente col procedere della vicenda, mostrando una vocalità luminosa e con bell’acuto, raffinati pianissimi nella cadenza del primo duetto e nel finale secondo e toccanti mezze voci nel finale ultimo.
Altrettanto positiva è la prova di Abramo Rosalen nella parte di Frate Lorenzo, anche nella tenuta delle note basse. Molto suggestiva è la scena delle nozze, con plauso meritato per il terzetto.
Efficaci i mezzosoprani Silvia Regazzo – bella voce, ma un po’ eccessivo il personaggio – e Nadiya Petrenko nei rispettivi ruoli di Stefano e Gertrude; buona la prova di Mihail Dogotari e Romano Dalzovo come Mercuzio e Gregorio. Inadeguato è invece il Capuleti di Park Taiwan, con voce piccola, molto opaca ed impastata; poco incisivo il Duca di Carlo Di Cristoforo; poco intonato il Tebaldo di Saverio Fiore; quasi afono il Paride di Francesco Masinu. Conclude il Benvolio di Marco Voleri.
È infine molto negativa l’esecuzione del Coro del Circuito Lirico Lombardo diretto da Antonio Greco, soprattutto la parte femminile, dove alcuni mezzosoprani sforano. Mal tenuti sono inoltre alcuni acuti.

I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA [William Fratti] Piacenza, 24 novembre 2011.
Secondo titolo nel cartellone della Stagione Lirica 2011-2012, I Lombardi alla prima crociata di Giuseppe Verdi sono forse lo spettacolo meno riuscito del Teatro Municipale di Piacenza dell’ultimo decennio. L’opera è il primo allestimento in completa autonomia della neonata Fondazione Teatri di Piacenza, in collaborazione con gli Amici della Lirica, e non è certo un bel biglietto da visita.
Sulla carta la rosa degli artisti impegnati nella produzione è di assoluto rilievo, ma il risultato raggiunto è chiaramente dispersivo, senza amalgama né coesione, poco coerente, come se ognuno dei singoli professionisti avesse lavorato per conto suo, senza alcuna guida né indirizzo. Pertanto viene da pensare che il regista Alessandro Bertolotti non sia stato in grado di imporre le proprie idee e i propri pensieri – probabilmente anche a causa della mancanza di risorse e di tempo – ottenendo un’accozzaglia di situazioni che nulla o poco centrano l’una con l’altra. Certamente la scelta di un titolo così difficile, con dieci cambi di scena, non aiuta, ma ciò che percepisce lo spettatore è “vorrei ma non posso”. Forse si sarebbe potuto pretendere e fare di meno per avere di più, ma è altrettanto vero che la mancanza di regia andava pur sopperita con qualcosa. In effetti i movimenti, la mimica e la gestualità differente in ognuno dei solisti, nonché i posizionamenti del coro “alla Nabucco” sono la prova tangibile dell’assenza del metteur en scène.
E così ci si trova anche a dover assistere al riciclaggio di una parte di scenografie e costumi, dove non sussiste alcun problema nel recupero, soprattutto in tempi di crisi, ma ciò che non è adeguato è dover riutilizzare quel che c’è e non quel che occorre. L’impianto fisso scelto da Artemio Cabassi, col solo cambiamento di attrezzeria, luci e proiezioni per caratterizzare le diverse situazioni ambientali, è perfettamente funzionale (anche se per togliere e mettere qualche tavolo, alcune torciere e un po’ di rocce, l’opera è interrotta spesso e per diversi fastidiosi minuti); peccato che i pilastri neri siano adorni di elementi decorativi e architettonici che nulla centrano col tempo delle crociate, ma che più si adatterebbero a Tosca o Adriana Lecouvreur. Gli accessori di scenografia e i tendaggi disegnati nei bozzetti sono ad alta suggestione, ma quelli presenti in scena non sono altrettanto piacevoli, talvolta addirittura ridicoli, come le quattro piccole stuoie srotolate sul pavimento nel finale di secondo atto, che nella grandezza del palcoscenico sembrano essere poco più che zerbini. I costumi realizzati per l’occasione sono davvero sorprendenti, soprattutto quelli dei personaggi musulmani, mentre alcuni degli abiti mutuati sono assolutamente fuori luogo, alcuni per stile altri per epoca differente, più probabili per il tardo medioevo che per l’inizio del millennio.
Le luci e le proiezioni di Paolo Panizza, se in alcuni quadri aiutano a riempire il vuoto e contribuiscono alla giusta suggestione e al fascino di certe scene, in altre sembrano appena abbozzate e sono aggiustate durante l’esecuzione come se la recita fosse invece una prova generale.
Le coreografie di Giuseppina Campolonghi non sono certamente delle sue migliori – decisamente tristi i movimenti delle mime-Madonne in primo atto e delle mime-Angeli in quarto – e le allieve dell’Accademia di Danza “Domenichino da Piacenza” sono poco coordinate; sbagliano addirittura il saluto in fase di applausi.
Lo scempio peggiore è quello del direttore Gioele Mugliardo, che parte molto lento e poi improvvisamente aumenta la velocità nella stretta del primo concertato, col risultato che in molti sono buttati fuori tempo. Lo stesso accade in numerosi altri punti dell’opera. Anche la precisione musicale e la purezza del suono dell’Orchestra Filarmonica Italiana non è delle migliori, ma un plauso va alla spalla Cesare Carretta per l’esecuzione del preludio del terzetto.
La compagnia di canto è assolutamente inadatta.
Stefanna Kybalova, nei panni di Giselda, porta a casa soltanto la preghiera, ma è poco più che scolastica. Il resto non è neppure classificabile, mancando una precisa linea di canto, l’uso degli accenti e dei colori, una certa solidità vocale e un corretto uso dei fiati: ogni volta che si trova a dover affrontare una cadenza, questa viene spezzata da uno o più respiri.
Andrea Patucelli è il solo artista a non essere contestato dal pubblico alla fine dello spettacolo. Pur non possedendo il giusto spessore e gli accenti adeguati all’interpretazione verdiana, sa dosare le proprie qualità di fraseggio e tecnica belcantistica per una corretta esecuzione del ruolo di Pagano. Interessanti le variazioni nella cabaletta della prima aria.
Ivan Magrì possiederebbe le giuste dote naturali al canto lirico, ma lascia molto a desiderare nella tecnica e il risultato ottenuto nella parte di Oronte è più che mediocre. Gli acuti sono ben saldi, ma sviliti da un vibrato eccessivo e poco piacevole; alcune note sono calanti; le mezze voci sono soltanto accennate e decisamente poco sostenute.
Alessandro Fantoni interpreta Arvino, ruolo non protagonista ma tutt’altro che marginale, dove occorrerebbero tutte le virtù di un vero tenore verdiano, che mancano in toto.
Efficaci il Pirro di Davide Baronchelli e il Priore di Matteo Monni. Inadeguati Stefania Ferrari, Francesca Paola Arena e Daniele Cusani nei panni di Viclinda, Sofia e Acciano.
Buona la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati; bis concesso dopo solo un paio di richieste e qualche applauso per “O Signore, dal tetto natio”.

L’OCCASIONE FA IL LADRO [William Fratti] Reggio Emilia, 26 novembre 2011.
Il Teatro Valli di Reggio Emilia è uno dei pochi teatri che negli ultimi anni di forte crisi economica e finanziaria non si è mai piegato al grande repertorio solo per riempire gli ultimi posti rimasti invenduti, ma ha sempre mantenuto la direzione e l’intenzione di volere fare cultura, proponendo spesso spettacoli poco rappresentati e ad alto valore aggiunto.
Inoltre sono numerosi i giovani che hanno calcato questo palcoscenico, ma sempre pronti e preparati, mai lanciati in scena a loro discapito e per il guadagno di agenti, istituzioni e sovrintendenti come talvolta accade in altri teatri.
Pertanto un grande plauso va alla messinscena de L’occasione fa il ladro di Gioachino Rossini nell’allestimento originale del Rossini Opera Festival firmato da Jean-Pierre Ponelle e ripresa da Sonja Frisell con le luci di Marco Filibeck. Spettacolo divertente, ma soprattutto di qualità, questa burletta per musica in un atto riesce a riassumere le incredibili capacità del regista francese che, con solo qualche scena dipinta e i cambi a vista, sa sorprendere e creare un’ambientazione spassosa, nonché efficacissima.
Il talentuoso Daniele Rustioni è sul podio dell’Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala, che con soltanto trentacinque elementi – e non con gli oltre cinquanta, talvolta ottanta, spesso ed ingiustamente impiegati nel repertorio belcantistico – dirige un’esecuzione precisa e puntuale, con un suono sempre pulito, ma mai asettico.
Sul palcoscenico si esibiscono gli altrettanto valorosi solisti dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala.
Pretty Yende è Berenice e dimostra fin da subito di possedere una buona padronanza tecnica oltre ad un bel timbro naturale. Ma è nell’aria finale che il soprano sudafricano si prodiga in un ottimo recitativo e poi in un virtuosismo solido e cesellato, con acuti e sovracuti limpidi e ben saldi. Solo il canto spianato necessita di maggiori finezze, soprattutto nell’uso dei piani e dei filati.
Leonardo Cortellazzi, nel ruolo del Conte Alberto, pare cavalcare il suo repertorio d’elezione. Ciò che colpisce di più, oltre alla luminosità della voce, il giusto vibrato e l’abilità nelle colorature, è l’eleganza nei pianissimi e nell’uso delle mezze voci, davvero toccanti.
Filippo Polinelli veste i panni di Don Parmenione, sfoggiando una vocalità correttamente impostata, anche se non troppo importante e non sempre brillante.
Davide Pelissero è Martino ed eccellente è la resa del personaggio. La sua voce non si fa particolarmente notare nelle prime pagine dell’opera, mentre durante l’aria – dove è più impegnato nel canto che nella recitazione – si sa far valere.
Valeria Tornatore è un’Ernestina un po’ sotto le righe, ma comunque corretta. Efficace è il Don Eusebio di Fabrizio Mercurio.
Andrea Testa, Gianluca Baroni, Maurizio Bellezza, Luca Foscato, Massimo Foroni, Alan Monney sono i tecnici in scena.

IL TROVATORE [Lukas Franceschini] Venezia, 7 dicembre 2011.
L’opera Il Trovatore mancava dal cartellone del Teatro La Fenice di Venezia da circa un trentennio, e considerata la lunga attesa si poteva optare in scelte più accurate, per l’opera che con la Fenice ha un rapporto speciale: in parte fu composta durante le rappresentazioni del Rigoletto (1851) e in seguito Luchino Visconti la immortalò all’inizio di “Senso” straordinario film del 1954. L’allestimento proposto è una coproduzione con il Festival Verdi di Parma, e ne abbiamo parlato a suo tempo nel 2010. Le belle scene (tranne l’incomprensibile Castel del Monte) e gli ancor più emozionanti costumi sempre di William Orlandi erano insufficienti per sopperire ad una regia, di Lorenzo Mariani, spenta, banale e noiosa. Il Trovatore, si sa, è opera notturna la cui tinta è contraddistinta in ogni instante, ma non per questo dovremo sempre avere in primo piano una trovatore 1luna gigantesca, la quale alla lunga annoiava. I personaggi avevano una loro chiave di lettura interpretativa, cantavano… e poco altro, purtroppo senza preoccuparsi di quello che cantavano. L’aspetto medievale della vicenda è rappresentato da un secondo sipario di arazzi raffigurante battaglie epiche, anche questa idea non è certo originale tanto da ricadere nella banalità ogni qualvolta si aprivano e chiudevano. Le luci di Christian Pinaud erano anche pertinenti ma a tratti troppo scure. Tante altre invenzioni registiche facevano rimpiangere le classiche regie di tempo, senza fronzoli ma chiare e precise.
Il versante musicale non era certo migliore, a cominciare dalla stanca e banale direzione di Riccardo Frizza, non certo un fulmine d’inventiva nella concertazione. Il colore monotono e il ritmo non certo incalzante erano deterrenti non indifferenti al una partitura frenetica e sanguigna.
L’interesse di questo Trovatore era indubbiamente il protagonista Francesco Meli, che abbandonati di recente ruoli più leggeri sembra ora proiettato verso eroi lirici di altro stampo. Non è possibile non lodare le intenzioni molto belle, di un canto talvolta graziato come da prassi per il tenore romantico ottocentesco, tuttavia la piattezza del fraseggio e del colore espressivo influivano non poco in una resa alquanto monotona e stentorea. L’accento era del tutto assente, troppo esile quanto attacca “Mal reggendo”, ma probabilmente il giovane tenore era tutto impegnato per il grande passo della scena del III atto ove con buon accento supera l’aria ed esegue la cabaletta, abbassata, ma con da capo.
Maria José Siri avrebbe anche una voce importante seppur non seducente e il tratteggio interpretativo è di buona fattura, peccato che ogni qualvolta debba terminare un’aria, una cabaletta, un duetto, il grido è la sua cifra identificativa.
Molto imbarazzante la performance di Franco Vassallo, la voce è malferma, il timbro grezzo e non uniforme, l’intonazione discontinua, a tutto ciò va aggiunto che interpreta e canta il conte di Luna al livello di baritono villan, il che è decisamene errato.
Mi è difficile classificare Veronica Simeoni, per quanto udito in questo Trovatore a me è parsa un soprano e non mezzo, ma la voce è abbastanza bella seppur non molto estesa, aspetteremo altre occasioni per dare un giudizio più completo. Giorgio Giuseppini interpretava un Ferrando povero di smalto e colore, i mezzi di un tempo sono ora molto compromessi. Buona la prestazione del coro.
Pubblico molto entusiasta, che al termine ha decretato un sincero successo a tutta la compagnia.

DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Milano, 13 dicembre 2011.
L’inaugurazione del Teatro alla Scala è avvenuta nel segno di Mozart, Don Giovanni, con il ritorno di Robert Carsen alla regia e il “debutto” di Daniel Barenboim in una partitura operistica del salisburghese in Italia.
Don Giovanni ossia il mito per eccellenza del seduttore è a tutti gli effetti una delle più belle ed affascinanti opere di tutti i tempi. Non serve ripercorrere la genesi dell’opera che debuttò a Praga nel 1787 e fu poi ripresa a Vienna nel 1788 con alcune modifiche. E’ consuetudine da sempre l’esecuzione della prima versione con l’aggiunta delle due arie viennesi “Mi tradì” di Donna Elvira e “Dalla sua pace” di Don Ottavio, mentre è da sempre omesso il duetto Zerlina Leporello. Così ha scelto anche il direttore musicale scaligero Barenboim, che con Don Giovanni ha un rapporto particolare perché segnò negli anni ’70 il suo debutto nella direzione operistica.
Doverosa una considerazione sulla programmazione della Scala: era opportuna una nuova produzione di Don Giovanni dopo aver utilizzato per solo due volte il precedente allestimento? In tempi così precari per il teatro direi di no, ma non si vuole certo interferire sulle scelte della direzione artistica, tuttavia più oculatezza non guasterebbe e magari considerando che altri titoli mozartiani di repertorio mancano da parecchi anni dalla sala del Piermarini si potevano preferire opere ad esempio quale Così fan tutte.
Robert Carsen propone un allestimento minimalista, oltre il lecito, basandosi solamente su un gioco di luci molto pertinente e un’idea condivisibile ma non innovativa. Don Giovanni è un mito oltre ogni tempo, un mito non solamente inteso come sciupa femmine ma uomo temerario e forte, egli sfida ogni evento compresa la morte. La sua vigoria è riflessa sugli altri personaggi che in modo diverso sviluppano le loro dinamiche essenzialmente attraverso lui. Ecco dunque che il protagonista durante l’ouverture strappa il sipario del teatro, un gesto forte, irruente, è lui dunque ad aprire l’opera, la chiuderà al termine, in veste di mito, facendo soccombere negli inferi gli altri, perche solo lui sopravvivrà in eterno. Non ci sono scene statuarie, è però di grande effetto lo specchio che riproduce la Scala intesa come altro palcoscenico della vita di tutti noi. Il teatro stesso sarà riprodotto in seguito attraverso dei siparietti di banale utilizzo ma la forza di questa regia sta tutta nella centralità del protagonista: beffardo, irruente, temerario oltre ogni limite. I costumi sono molto belli pur abbracciando a vario titolo epoche diverse, pertanto rilevano quanto questo dramma è di ogni epoca. Giova sicuramente alla visione una perfetta sintonia con la compagnia di canto cui va il merito di un’ottima resa teatrale, molto convincente quanto appassionata. Carsen però ci aveva abituato a spettacoli ben più elaborati e fantasiosi, Dialouges des Carmelites e ancor più Candide, questo Don Giovanni non segna un vertice, non è provocatorio, ma è solamente a tratti banale e anche scontato.
Daniel Barenboim è quel gran direttore che sappiamo, ma in Mozart, il Mozart italiano in specie, non raggiunge le stesse sommità che ci ha offerto con Wagner. Il suono è pulitissimo, la concertazione precisa e leggera, cesellata in ogni spigolo ed ombra, ma spesso inciampa in una lettura allentata nei tempi che toglie una parte di emotività alla drammaturgia. Non saprei nondimeno quanto lodare l’orchestra della Scala per la pulizia di suono dimostrata.
Della compagnia di canto sgombriamo subito il campo: una Zerlina e un Masetto migliori di Anna Prohaska e Stefan Kocan, si poteva trovare senza grandi fatiche. La prima era piuttosto querula ed insipida, il secondo tonante anche dove non necessario.
Abbiamo avuto però un efficace ed avvincente Peter Mattei, voce piena e robusta, non raffinatissimo nelle mezze voci, ma autentico protagonista a tutto tondo per carattere intenzioni e puntualità. Peccato che sia nella serenata sia nel duetto con Zerlina mancasse di pathos e sensualità, peraltro espressa pienamente in altri momenti.
Anna Netrebko, Donna Anna, affondava lame taglienti col suo rigoglioso strumento, voce piena e morbida ma un tantino approssimativa nelle agilità. Più personale drammaturgicamente la Donna Elvira di Barbara Frittoli anche se talvolta discontinua. L’eccellenza scenica di Bryn Terfel non era corrisposta da una linea vocale irreprensibile, ma non ha voluto strafare, come suo solito, e di per sé è un merito. Molto in minore la prova di Giuseppe Filianoti compromessa sia nello stile sia in gravi problemi d’intonazione. Di routine, senza infamia ma neppure lode, il Commendatore di Kwangchul Youn. Convinti applausi al termine da parte di un tetro al completo in ogni ordine di posto.

FALSTAFF [Lukas Franceschini] Verona, 15 dicembre 2011.
“Falstaff nelle colonie” potrebbe essere il sottotitolo della nuova produzione della Fondazione Arena di Verona che ha inaugurato la stagione Invernale al Teatro Filarmonico.
Falstaff è l’ultima fatica di Giuseppe Verdi andata in scena al Teatro alla Scala nel 1893 con calorosissimo successo. Tuttavia è un’opera anomala nell’intera produzione verdiana perché non si tratta di un’opera comica, il precedente nel genere fu Il giorno di regno sonoramente fischiato nel 1840, bensì una brillante commedia in musica il cui arguto libretto di Arrigo Boito è paritario per invenzione e raffinatezza alla partitura di Verdi. E’ sorprendente come un uomo ottantenne abbia saputo musicare con tanta arguzia ed estrosità le vicende del tronfio e ancor arzillo seduttore paggio del Duca di Norfolk e della burla ai suoi danni organizzata dalle Comari di Windsor. Il testo è tratto da due commedie di William Shakespeare del quale Verdi ebbe sempre grandissima considerazione come drammaturgo tanto da trarre diversi soggetti per altre sue opere immortali.
La peculiarità del Falstaff veronese era il debutto del regista cinematografico Luca Guadagnino nel teatro lirico, una presenza fortemente voluta dal sovrintendente. Purtroppo come altre occasioni di colleghi illustri, cinema e lirica non sono un parallelo convincente e fruttifero di grandi realizzazioni. Guadagnino, mi è parso decisamente estraneo all’opera sia come impostazione registica sia come concetto di narrazione e forse in parte intimorito o non particolarmente capace in tale tipo di spettacolo. L’idea di spostare l’azione in una colonia inglese non è poi gran danno, anzi ne farebbe una piccola novità, e non è grave se non c’è il Tamigi. Le scene di Francesca Mottola sono anche belle, seppur ricordino più un’Italiana in Algeri o un Entführung aus dem Serail. I costumi di Antonella Cannarozzi molto meno perché non hanno una cifra identificativa, talvolta sono anche eleganti ma spesso disarmanti come quella specie di felpa indossata da Ford nel II atto, o quella tunica ridicola appioppata a Mrs. Quickly. Inoltre erano troppo le citazioni cinematografiche proposte e sovente fuori luogo: basti pensare alla scena finale con maschere sopra smoking. L’ambientazione è anche carina ma resta fine a se stessa perché non c’è una caratterizzazione dei personaggi, i quali sembrano liberi di esprimersi istintivamente senza una linea guida. Quest’aspetto è un grande danno perché proprio in Falstaff c’è una reale simbiosi musica-parola-gesto che deve essere parallela, qui non esisteva. Alcune trovate non lasciano segni particolari, anzi semmai negativi, la taverna troppo affollata da personaggi in dark style come fossimo in qualche film di Fassbeander, oppure il gioco amoroso di Nannetta e Fenton ridotto a un continuo rincorrersi tra le tende. Il regista il pregio di non scendere nella volgare e logora macchietta, si può difendere sapendo che l’esperienza è nulla nel settore ma debuttare proprio con Falstaff è stato passo azzardato. Nel complesso l’allestimento pur non provocando danni mostruosi era fiacco, monotono e noioso, senza humour e neppure qualche efficace trovata sulle velleità dei protagonisti ma erano irritanti i cambi scena a vista con lente maestranze vestite da marinai.
Sul podio abbiamo ritrovato il giovane Daniele Rustioni, promettente bacchetta a livello internazionale, debuttante anch’esso nel titolo. Anche in questo caso non posso esimermi dalla considerazione che Falstaff avrebbe richiesto maggiore esperienza di concertazione ma come da lui stesso affermato certe occasioni forse nella vita non capitano più e vuoi per curiosità vuoi per piacere di realizzazione ha accettato la sfida, la quale ha riservato molte ombre ma anche qualche luce. La sua lettura è anche talentuosa ma manca di quel colore garbatamente comico previsto. Egli si è adoperato energicamente per mantenere una compatta concertazione ma non sempre tra orchestra e palcoscenico c’era collaborazione: nei quartetti del primo atto molte sbavature, talvolta le risonanze erano forzate, e dovremo aggiungere che l’Orchestra dell’Arena non lo seguiva con particolare partecipazione soprattutto nella sezione ottoni. Rustioni tuttavia riesce a portare a fondo l’opera senza lodi né dolenti note ma fraseggio e comunicatività erano piuttosto latenti mantenendo equilibri molto fragili.
La compagnia di canto non ha brillato di luce propria sia per carenze individuali ma anche per il clima dello spettacolo nel suo insieme.
Alberto Matromarino di Falstaff possiede solo il fisique du role, mancando totalmente di fraseggio, la voce è spesso nasale e non sa cogliere tutti gli aspetti del personaggio nel canto di conversazione. Perde o tralascia frasi che in altre circostanze sarebbero risolte con maggiore arguzia e spirito fantasioso.
Buona la prova di Vittorio Vitelli, il migliore tra gli uomini, capace di un fraseggio eloquente e una recitazione molto contenuta ma di forte presa teatrale. Francesco Demuro invece faceva rilevare i limiti di un’intonazione precaria e di una tecnica scolastica soprattutto nelle mezzevoci. I due saltimbanchi, seguaci del protagonista, Nicola Pamio e Ziyan Atfeh se la cavavano dignitosamente, anche se la dizione del secondo non era molto rifinita. Meglio il dr. Cajus di Saverio Fiore musicale e molto valido a livello scenico.
Sul versante femminile l’Alice di Virginia Tola dimostrava problemi d’intonazione ma era una valida e frizzante attrice, fresca e misurata la sentimentale Nannetta di Serena Gamberoni dal canto stilizzato e preciso. Spassosissima la Quickly di Elisabetta Fiorillo, robusto contralto di preziosa vocalità, spigliata la Meg di Manuela Custer puntuale e molto ironica. Non particolarmente rifinito ma funzionale il coro diretto da Armando Tasso.
Alla seconda recita, cui abbiamo assistito, teatro semivuoto che imbarazzava anche lo spettatore, ma prodigo di consensi.