Rubriche

Norma di Vincenzo Bellini: II parte

Libretto di Felice Romani.
Tragedia Lirica in due atti. Prima rappresentazione alla Scala il 26 Dicembre 1831.

La preghiera alla Luna

Qui è la Norma “veggente ed ispirata” che nel silenzio di tutti i presenti, nel chiarore del disco lunare, immersi tutti fra le querce della foresta, intima ai suoi ancora pace: se da tempo ormai le patrie selve e i templi aviti sono contaminati dalle aquile latine, se da tempo oziosa risulta la spada di Brenno, i giorni della vendetta si avvicinano e Roma cadrà non per le armi dei galli ma perché “corrosa dai vizi suoi”, Roma “morrà consunta dai vizi suoi”: bisogna attendere l’ora fatale che compie il gran decreto.

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Maria Callas (New York, 2 Dicembre 1923 – Parigi, 16 Settembre 1977)

La sacerdotessa ha esercitato il suo potere e può quindi rivolgersi, come in un momento di lirica sospensione della tensione emotiva, alla “Casta Diva”, alla Luna, che con il suo “sembiante, senza nube e senza vel”, inargenta le “sacre antiche piante” della foresta di Irminsul. Solo quando il “Nume irato e fosco chiegga il sangue dei romani”, Norma dal “druidico delubro” farà tuonare la sua voce; ora però non può decretare la caduta del proconsole, dell’amante e padre dei suoi figli e sussurra al suo cuore propositi di inaudita empietà: contro il mondo intero difenderà il suo amore e in Pollione vita e patria e cielo avrà!
Tutta la femminilità della truce druidessa e in questa determinazione a difendere nella colpa la sua dicotomia spirituale, la sua empietà, il tradimento della sua gente e questo, come anticipato, la porterà alla morte e su di lei, benché Sacerdotessa – o proprio per questo – si eserciterà implacabile il potere sacerdotale.
Nella scena quinta l’incontro tra Adalgisa e Pollione apre un ulteriore sentiero all’intreccio drammatico: i due giovani, dopo esortazioni e turbamenti espressi dalla novizia e futura sacerdotessa, si danno convegno per il giorno dopo: li attende Roma dove “è amore e gioia e vita” e dove Pollione promette alla fanciulla di esserle sposo fedele. Roma, centro pulsante del mondo, viene presentata all’ingenua fanciulla con tinte ideali, accattivanti! Musicalmente il dialogo descritto si presenta caratterizzato da ritmi ora distesi ora spezzati e franti: la situazione di incertezza, fra sensi di colpa e pressione psicologica messa in atto dal proconsole sulla giovane donna, suggeriscono a Bellini una linea melodica e un uso degli strumenti diversificato: ai violini il compito di intercettare con ampie volute e sospensioni gli stati d’animo dei due protagonisti, proprio come nella scrittura di una pagina di storia ci si può imbattere in passaggi che sono ora di approdo a sintesi riflessive, ora prologhi e anticipazione di pensieri ulteriori, magari forti e dirompenti.
Una scena dal contenuto, per così dire, Euripideo e che può rimandare alla Medea del grande teatro greco, è l’ottava.
Norma è in compagnia di Clotilde, la nutrice, e dei due piccoli fanciulli nella sua abitazione.
L’ “Alma di Norma” è scissa da diversi affetti: “amo in un punto ed odio i figli miei… Soffro in vederli, e soffro s’io non li veggo. Non provato mai sento un diletto ed un dolore insieme d’esser madre”: sempre attuale questa sofferenza dello spirito materno scisso tra l’istinto e la sovrastruttura morale!… Norma, peraltro, è resa inquieta da una sorta di presagio: Pollione è stato richiamato al “Tebro”, a Roma, e non ne fa parola, tace il suo pensiero… E il silenzio in certe situazioni è più eloquente della parola con la quale si può anche mentire…
La scena è musicalmente connotata da un’orchestra che ora si impenna in larghi ariosi, ora “accusa”, per così dire, l’onda delle apprensioni che scuotono l’animo della sacerdotessa.
Ma ecco l’incontro tra Adalgisa e Norma: il commento orchestrale dell’incontro è di pacata introduzione al colloquio che sulle prime si snoda sull’onda della comprensione e della complicità. Adalgisa confessa di essere innamorata e di aver giurato di fuggire dal tempio, tradire l’altare cui è legata, abbandonare la patria. Norma, maternamente, non può non comprendere e commiserare e chiede di conoscere i particolari, il come e il quando è nata “tal fiamma” nel cuore della giovane novizia. E qui il canto di Adalgisa, dal “sola, furtiva al tempio”, si fa belliniano nella sua struggente melodia sorretta dall’arpeggiato inimitabile del catanese. Adalgisa, mentre Norma ha netta l’impressione di aver vissuto una situazione identica, racconta di “parole dolci qual arpa armonica, di sole che sorride negli occhi dell’amato”: tutto è ancora in un’atmosfera di pacato lirismo e Norma può ancora rassicurare la giovane novizia: l’abbraccia e la scioglie dai suoi legami; a lei, sacerdotessa, è data facoltà di liberarla dai vincoli del voto e se l’amore non è colpa, sussurra Adalgisa, la vita le è resa e gioisce finché, su richiesta di Norma, non indica in Pollione, sopraggiunto in iscena, l’uomo dal quale è stata avvinta.
E qui tutto cambia: la Norma non “avara di pietade” di un attimo prima esplode in un’ira incontenibile e Pollione, che teme per Adalgisa, è travolto da quel
oh, non tremare, o perfido, non tremare per lei…
Essa non è colpevole, il malfattore tu sei…
trema per te, fellone…
pei figli tuoi… per me…”.

La situazione precipita dunque verso il terzetto finale del primo atto.
Adalgisa ha scoperto una verità tremenda, prende coscienza dello squallore nel quale è precipitata e in preda ad uno sconforto senza fine, invocando il perdono di Norma, resiste a Pollione che tenta di allontanarsi con lei e sottrarsi all’ira della sacerdotessa ferita che, nella sua umanità e sinanche nell’invettiva che segue, può richiamare la Didone abbandonata di Virgilio:
“ Vanne, si, mi lascia indegno;
figli oblia, promesse, onore…
maledetto dal mio sdegno
non godrai d’un empio amore.
Te sull’onde e te sui venti
seguiran mie furie ardenti;
mia vendetta e notte e giorno
ruggirà d’intorno a te

Gli ottonari del neoclassico Romano non potevano risultare più docili e funzionali al compositore e al tempo stesso rendere significativo l’odio mortale di Norma per il fedifrago Pollione, proprio come la Didone di cui sopra, quando conscia della fuga ignominiosa di Enea dalle spiagge della nascente Cartagine, dopo aver invocato la “conscia Iuno ed Ecate e le Dirae ultrices e gli dei tutti della morente Elissa” invoca l’ascolto delle sue preghiere: che l’infandum caput (di Enea), se proprio gli toccherà di approdare sul suolo italico perché “sic fata Iovis premunt”, vessato da guerre e atrocità varie, “avolsus complexu Iuli”, strappato all’abbraccio del figlio, “auxilium imploret videatque indigna suorum funera… nullus amor populis nec foedera pacti sint…”. Odio eterno, tremendo, definitivo. Può tanto il cuore di una donna ferita e tradita.
Il riferimento alla contrapposizione e all’odio fra i due popoli nell’intenzione di Virgilio funziona, naturalmente, come prefigurazione di quella che poi storicamente sarà il duello mortale tra Roma e Cartagine per la talassocrazia e il dominio commerciale e politico sull’intero mediterraneo. Giustificazione mitica e con radici che affondano negli affetti e nelle passioni umane, quella di Virgilio, di una delle tante “res sacrae” che sono proprio la materia della storia.

Il sipario cala sul primo atto mentre un coro interno chiama Norma all’ara perché la voce di Irminsul ha tuonato ed è tempo ormai di guerra e di morte. Norma deve così tornare ad essere la sacerdotessa vate, colei che ora, dopo averla bloccata all’inizio dell’opera, deve proclamare l’ora di guerra: non ci sono più le ragioni del cuore che suggeriscano di evitare lo scontro con Roma. A dimostrazione, tutto questo, che sempre, nella storia dell’uomo, la “guerra” ha trovato giustificazioni: si faceva e si fa guerra per ragioni politico-commerciali (l’uso di armi prodotte e che vanno vendute!), per imporre la democrazia occidentale, ma si facevano guerre anche per ragioni di onore o per la riconquista di una donna sottratta al marito…

Secondo atto

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Monumento a Vincenzo Bellini nel foyer del teatro Massimo Bellini di Catania

Ma prima che la guerra ai romani venga ripresa, eccola Norma, all’interno della sua abitazione, all’inizio dell’atto secondo, pallida, contraffatta con un pugnale alla mano e una “lampa” che sinistramente illumina il letto ove dormono inermi ed ignari i suoi bambini.
È greca e shakespeariana la situazione di questa sacerdotessa e donna e madre che guarda minacciosa, con occhi da Medea euripidea, i due bambini entrambi addormentati. Il monologo di Norma in piedi vicino ai due figli è introdotto da una parte strumentale di indicibile bellezza: gli archi, come respirando con affanno, si dispiegano in una melodia struggente: è l’anima di Norma, madre ma intenzionata all’infanticidio, che palpita ed esita, si avanza e si arretra davanti all’innocente abbandono dei figli fra le braccia di Morfeo: siamo allo straordinario passo del “dormono entrambi…” sussurrato a se stessa da Norma come in trance: “non vedran la mano che li percuote…”.

Ma ecco la reazione quasi irosa:
non pentirti o core; viver non ponno…
qui supplizio, e in Roma obbrobrio avrian,
peggior supplizio assai…
schiavi di una matrigna. Ah! No: giammai.
Muoian, si

E qui il grido mentre “il crin” le si solleva in fronte:
i figli uccido! Teneri figli…
Ma di che son rei? Di Pollion son figli:
ecco il delitto. Essi per me son morti;
muoian per lui, e non sia pena che la sua
somigli. Feriam… Ah! No… Son figli miei!
Miei figli!…

E li abbraccia e piange: l’istinto materno ha prevalso sull’odio e sull’innaturale pulsione all’infanticidio.
Musicalmente i versi e le parole del Romani sono rivestiti da Bellini di una musica che rasenta il sublime. A quel “i figli uccido” gridato con angoscia, segue melodia tenera su quel “teneri figli”, finché Norma si libera della tensione omicida sul “Ah! No… Son figli miei, miei figli!”. Ed ecco che, con uno di quei repentini moti dell’animo che caratterizzano le situazioni estreme, muta l’oggetto della morte.
Norma decide di “purgare” la stanza terrena dalla sua presenza, ma prima (è ancora la madre a prevalere) vuole affidare i figli infelici ad Adalgisa: che li guidi al campo romano, li affidi al padre al qual va il suo perdono e che sia di Adalgisa sposo “men crudo”. Che i suoi figli vivano a Roma con Adalgisa: non onori e fasci chiede per loro; chiede solo che non siano abbandonati né ridotti in abbietta schiavitù. A lei, Norma, non resta che emendare il fallo e morire…
Le due donne dunque sono ormai riconciliate nella tristezza del momento e cantano insieme un motivo di speranza: Adalgisa si recherà da Pollione ma per tentare di ricondurlo da Norma richiamandolo ai suoi doveri di padre… e in un duetto di straordinaria bellezza le due donne si commuovono alla vista dei due bambini. La melodia è una di quelle tipicamente… belliniane, di quelle che fluiscono teneramente liriche e toccanti e il cielo e l’Infinito sembrano farsi terra e tempo finito.
Adalgisa e Norma, riconciliate, si abbracciano promettendosi eterno e fidente sostegno in una cabaletta a due con funzione liberatoria.
Ma i venti di guerra ormai spirano impetuosi.