Rubriche 2021

“La musica è profumo dell’universo”: l’opera lirica secondo Giuseppe Mazzini

Giuseppe Mazzini viene comunemente associato all’unità del nostro paese e alla Giovine Italia, mentre si parla molto meno del suo profondo legame con la musica, opera lirica in primis.  Le parole citate qui sopra sono proprio del patriota genovese e sono state tratte dal pamphlet “Filosofia della Musica”, pubblicato nel 1836 all’interno della rivista “L’Italiano” e testimoniano quanto Mazzini se ne intendesse di musica e avesse compreso il suo ruolo sociale e rivoluzionario. D’altronde, aveva una grande passione per la chitarra (uno di questi antichi strumenti viene ancora suonato in occasione di concerti speciali che vengono organizzati dall’Associazione Mazziniana Italiana) e poteva ritenersi un esperto di melodramma. Che cosa c’è scritto esattamente nella “Filosofia della Musica”?

Per Mazzini la musica, in particolare l’opera, era strettamente legata al sogno di un’Europa unita, libera e improntata al progresso e all’emancipazione. Secondo quanto riferito da Aurelio Saffi, il patriota ligure non perdeva alcuna novità di questo mondo, tanto è vero che nel suo esilio in Svizzera si impegnò a trascrivere diverse melodie popolari. Prima di arrivare alle principali proposte della “Filosofia della Musica” schematizza le caratteristiche della musica tedesca, raffrontandola con quella italiana. Secondo Mazzini il panorama musicale italiano di allora non era incoraggiante a causa del dominio di Gioachino Rossini, imitato senza troppi problemi dai contemporanei. Le riflessioni mazziniane hanno il merito di aver intuito quello che sarebbe accaduto negli anni successivi.

Nel 1836 Verdi non aveva ancora rappresentato la sua prima opera, mentre Wagner non aveva ancora creato i suoi capolavori, ma Mazzini sembra aver letto nella mente del compositore tedesco. Nel pamphlet, infatti, si parla della necessità di creare un discorso sempre più unitario tra il recitativo e l’aria, in pratica la melodia “infinita” che Wagner avrebbe ipotizzato e concretizzato in seguito. Mazzini pensò anche di sviluppare e dare vita indipendente al coro nel melodramma, in modo da farlo diventare la voce unica di un popolo, una identità collettiva. Non è forse quello che è riuscito a fare lo stesso Verdi con le opere giovanili?

Le parole della “Filosofia della Musica” sono state pienamente tradotte in cori come quello del “Nabucco” (il celeberrimo Va’, pensiero), “I lombardi alla prima crociata” (Oh Signore, dal tetto natio) ed “Ernani (Si ridesti il leon di Castiglia), creati (non si è mai capito quanto volutamente) in modo tale da far immedesimare il pubblico e fornirgli un grido disperato di battaglia. Mazzini fa poi riferimento alla poesia che non deve più essere “serva della musica”, ma “sorella che armonizzi con essa”. Il patriota cita quelle che secondo lui sono opere da ricordare per sempre, vale a dire il “Don Giovanni” di Mozart e “Roberto il Diavolo” di Meyerbeer, citata inizialmente col nome di uno dei protagonisti, Bertram.

Gaetano Donizetti, invece, viene giudicato l’unico musicista italiano in cui si possono scorgere i presentimenti del rinnovamento. Del compositore bergamasco Mazzini parla in termini entusiastici per quel che riguarda un duetto del secondo atto del “Marin Faliero”, lavoro rappresentato appena un anno prima della pubblicazione del pamphlet. Secondo il fondatore della Giovine Italia, le frasi spezzate, drammatiche e declamate sono perfette per descrivere le sue convinzioni politiche, dato che si tratta del momento in cui Israele Bertucci convince il Doge a far partire una congiura popolare contro il Consiglio dei Dieci e il suo potere.

Infine, Mazzini si augura che i giovani si avvicinino il più possibile ai grandi della musica o di un determinato periodo storico per cogliere lo spirito creatore dei loro lavori: non è un invito all’imitazione servile, ma all’emulazione propositiva. Affermazioni di questo tipo sono molto vicine al concetto espresso in una lettera da Giuseppe Verdi nel 1871, ben 35 anni dopo la “Filosofia della Musica”. Con il suo “Tornate all’antico e sarà un progresso” il Cigno di Busseto non voleva condannare e bocciare la nuova scuola musicale, ma auspicare che nei conservatori italiani tornasse lo studio severo dei contrappunti, delle fughe e dei canoni delle maniere più diverse.