2010

Interviste 2010

INTERVISTA A GIANFRANCO MARIOTTI [William Fratti] Pesaro, 3 marzo 2010
L’idea di riscoprire l’opera omnia di Gioachino Rossini nasce nel 1969 al Teatro alla Scala di Milano, quando Gianfranco Mariotti assiste alla prima esecuzione dell’edizione critica de Il barbiere di Siviglia, diretta da Claudio Abbado. La cura della pubblicazione, volta a ristabilire la forma originale del capolavoro rossiniano, è affidata dall’editore Ricordi ad Alberto Zedda, accortosi, tempo prima, di numerose ingerenze non autentiche nella partitura e ormai entrate nella tradizione.Nel 1980 il Comune di Pesaro istituisce il Rossini Opera Festival, con l’intento di recuperare e restituire alle scene il patrimonio sommerso del compositore, affiancando e proseguendo in campo teatrale l’attività scientifica della Fondazione Rossini con un originale laboratorio interattivo di musicologia applicata.
“Sono stati trenta anni di battaglie – ci ha detto il sovrintendente del ROF – combattute prima di tutto con la città, che inizialmente non credeva al progetto da cattedrali gotiche di pubblicare le edizioni critiche di tutte le opere del Maestro, ritenendo che sarebbero finite negli scaffali delle biblioteche, principalmente a causa del diffuso pregiudizio storico che Rossini fosse semplicemente un autore buffo, non in grado di evolversi con i gusti del pubblico. Sapendo dell’esistenza di un vero e proprio giacimento di capolavori sconosciuti, soprattutto seri, il Festival è nato come un prolungamento dell’attività di studio, con lo scopo di portare in scena le opere riscoperte e non lasciarle confinate alla sola attività editoriale”.
L’impresa monumentale inizia con la pubblicazione del primo volume dedicato a La gazza ladra, a cui si sono aggiunti altri numerosi titoli teatrali, oltre a musica sacra, strumentale, vocale da camera, di scena, cantate, inni e cori. “Con il tempo i pesaresi hanno capito l’enorme importanza del lavoro svolto ed hanno iniziato a seguire le istituzioni, operando tutti quanti per un obiettivo comune. Nel 1986 il New York Times ha dedicato un inserto domenicale a Pesaro, scrivendo della nuovissima formula adottata dal ROF della musicologia applicata al teatro, base fondamentale di numerosi successi popolari, che hanno contribuito alla valorizzazione e alla comprensione del linguaggio astratto di Rossini, dove il buffo e il tragico sono l’uno il lato opposto dell’altro ed il pubblico moderno ne è stato travolto”.
Il Festival porta in scena le lezioni autentiche dei capolavori del Cigno di Pesaro e i ritrovamenti dei titoli sconosciuti da oltre tre decenni, con cantanti e artisti di levatura mondiale, badando inizialmente alla purezza del suono, per concentrarsi successivamente su nuovi accenti e stare al passo con i tempi. “Non è possibile restare confinati alla tradizione, poiché essa non esiste nell’opera rossiniana. Pertanto dopo i primi anni ci si è posti il problema della riconversione del linguaggio e dei codici espressivi, combattendo quotidianamente una battaglia contro la marginalizzazione della cultura, con l’obiettivo del rinnovo artistico continuo. Si pensi a tragedie come Ermione, ancora oggi attuali e scioccanti a causa dei temi trattati intrisi di questioni di scontro tra occidente ed oriente, in cui il Maestro applica stili completamente diversi dai lavori precedenti e da quelli successivi”.
La Rossini renaissance ha investito il pubblico di tutto il mondo e ogni anno si recano a Pesaro spettatori provenienti d’oltreoceano, desiderosi di assistere per la prima volta alla rinascita di veri e propri capolavori. “Quando tutte le edizioni critiche saranno pubblicate, insorgeranno nuove responsabilità – conclude Gianfranco Mariotti – ed il compito della Fondazione Rossini e del Rossini Opera Festival sarà quello di stare al passo con i tempi, attenti ai cambiamenti culturali, seguendo il cambiamento dei gusti artistici e musicali. Ognuno degli operatori di questo grande apparato, a partire dai tecnici teatrali, è consapevole di partecipare e contribuire in prima persona con le proprie competenze ad un progetto che gli sopravvivrà”.

INTERVISTA A MICHELE PERTUSI [William Fratti] Parma, 4 maggio 2010
Giuseppe Verdi è il compositore più bistrattato nella storia della musica: era così capace di scrivere, che anche se eseguite male, le sue opere stanno sempre in piedi” così si esprime Michele Pertusi, con oltre un quarto di secolo di carriera alle spalle, in procinto di debuttare nuovi ruoli verdiani.
“Purtroppo siamo permeati da una vecchia tradizione nel canto e nell’interpretazione che non funziona più, oggi il vero problema non è cosa rappresentare del repertorio del Grande Maestro, ma come eseguirlo: non c’è più nulla da scoprire, ma occorre mettere in atto un profondo lavoro di ricerca. Pensando alla realtà di Parma, personalmente non trovo nessuna differenza tra l’attuale Festival Verdi ed una Stagione Lirica tradizionale, mentre al Rossini Opera Festival ad esempio, dove ho avuto l’onore di cantare per diverse edizioni, innanzitutto si sono create delle nuove generazioni di interpreti rossiniani, si sono riscoperti capolavori perduti, si sono realizzate delle edizioni e delle esecuzioni critiche, poi si è portato Rossini verso un modo di fare teatro più contemporaneo. In Verdi purtroppo non ci si pone quasi mai il problema delle variazioni, né dell’espressione della voce e non si compiono a tale proposito sufficienti studi di approfondimento, nemmeno sullo spartito, dove lo stesso compositore aveva posto numerosi segni e indicazioni. Il compito di un Festival dovrebbe anche essere quello di mettere in scena delle esecuzioni che siano di riferimento, anche coinvolgendo le organizzazioni preposte come l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani, invece sempre più spesso si manca del giusto approccio e ci si serve della musica, anziché essere al suo servizio, così l’arte, la cultura ed il teatro diventano soltanto dei mezzi di baratto politico”.
Dopo aver debuttato nel 1984, nel ruolo di Monterone in Rigoletto a Pisa, diretto da Bruno Bartoletti alla guida dei complessi artistici del Maggio Musicale Fiorentino, e nel ruolo di Silva in Ernani a Modena, Michele Pertusi ha collaborato con i direttori ed i registi più celebri, oltre ad aver calcato i palcoscenici più importanti del mondo, diventando un raffinato interprete mozartiano e del belcanto italiano, da Rossini a Bellini e Donizetti, oltreché acclamato protagonista verdiano e del repertorio francese. “Mi metto continuamente in discussione e ogni volta che mi accingo a riprendere un ruolo, o a studiarne uno nuovo, mi comporto come se dovessi ricominciare tutto da capo” continua l’artista parmigiano. “Non si possono tirare delle somme e non ci si può guardare indietro, se lo facessi sicuramente mi comporterei in modo diverso. Bisogna guardare sempre avanti, intraprendere nuove sfide e ho deciso, nel prossimo futuro, di dire la mia affrontando il debutto di nuovi personaggi, tra cui Zaccaria, Fiesco e Filippo II. Sempre più spesso si ascoltano italiani che cantano in italiese e stranieri in ostrogoto, ma credo che l’epoca del circo sia finita. Nell’opera lirica la voce deve essere messa in evidenza con il testo, la musica e l’interpretazione teatrale e vorrei provare a farlo in maniera completa. Per Verdi la parola era molto importante e i libretti appartengono ad un linguaggio poetico che va pronunciato correttamente: perché noi cantanti lirici dovremmo essere sdoganati dalla dizione? Ovviamente abbiamo il problema della tecnica e non possiamo pretendere una pronuncia perfetta, ma dobbiamo mettercela tutta, soprattutto nei recitativi. Purtroppo oggi la massa è interessata a sentire soltanto grossi bombardamenti d’orchestra e urlatori che cantano tutto in forte, ma da buon servitore della musica io non sono d’accordo. La nostra professione deve anche essere una missione e dobbiamo cercare di trasmettere dei messaggi: non siamo indispensabili, né immortali o indimenticabili, mentre Verdi e le opere che ci ha lasciato non cesseranno mai di esistere”.
Insignito del Gramophone Award per Il turco in Italia e vincitore del prestigioso Grammy Award per Falstaff, secondo Michele Pertusi “in senso storico non si può concepire Verdi senza Rossini. La composizione, la drammaturgia, la musica e la teatralità verdiana sono passate attraverso lo studio dei suoi predecessori. Verdi passava il suo tempo sugli spartiti di Haydn e Mozart, è dunque possibile arrivare al canto e al teatro verdiano solo attraverso il barocco e il belcanto, non è pensabile il processo inverso, né arrivare a Verdi tramite il verismo, ciò che purtroppo spesso accade. Tutto il giovane Verdi è intriso di inflessioni belcantiste, addirittura in Oberto si intravede un percorso musicale quasi schubertiano. Nel mio futuro ci sono ancora progetti rossiniani, come L’italiana in Algeri e Le comte Ory, ma la voce si modifica e dovrò lentamente allontanarmi da questo repertorio, per il quale occorre un’elasticità incredibile e invecchiando diventa sempre più difficile”.

INTERVISTA A MARCO BERTI [William Fratti] A Coruña, 29 agosto 2010.
Considerato uno dei più importanti tenori del panorama lirico internazionale, Marco Berti sta percorrendo una brillante carriera nei principali teatri del mondo, dove si esibisce con una voce autorevole e la tipica bellezza del timbro all’italiana. Apprezzato dalla critica e richiesto dai maggiori direttori d’orchestra, il tenore comasco è in procinto di debuttare Otello di Giuseppe Verdi, ritenuto uno dei ruoli più temibili da tutti i professionisti della musica.
“È un’opera a cui mi avvicinai tre anni fa, quando Riccardo Muti mi ha voluto ascoltare in un’audizione. Pensai che se il Maestro mi ritenesse papabile per Otello, forse era il caso di affrontare seriamente la preparazione di questo capolavoro. Purtroppo non partecipai alla produzione con Muti, non avendo il tempo necessario per studiarlo approfonditamente, ma da allora mi dedicai con perseveranza all’ultimo capolavoro di Verdi, affrontando non solo la parte musicale, ma anche la componente librettistica, analizzando quindi la tragedia di Shakespeare, che completa imprescindibilmente il quadro dell’opera, poiché in Verdi alcuni tratti del personaggio sono acquisiti, ma indeterminati, mancando l’antefatto veneziano che illumina sulla vicenda militare e umana del Moro. Il presupposto del mio lavoro, pensato e applicato allo studio di questo ruolo, è che non ci si debba limitare all’indagine del personaggio in chiave letteraria, psicologica, musicale e vocale, ma ritengo essenziale anche il confronto con il lavoro svolto dai colleghi, ovviamente in rapporto con le linee guida indicate dalla regia, considerata l’importanza delle relazioni tra i protagonisti. In effetti si tratta di un lavoro complesso, che affronto contemporaneamente a più livelli. Dal punto di vista vocale, l’Otello di Verdi è considerato un’opera traguardo dalla maggior parte dei tenori. È basata sull’emissione stentorea, vi sono alcuni colori, alcune nuances, ma per lo più è richiesta una grande presenza vocale, ricca di armonici e dotata di un certo metallo. Caratteristiche che fanno pensare alla mia vocalità: spero di non sbagliare, ma credo che sia un ruolo a me congeniale. Parlando della resa psicologica del personaggio, credo si debba evidenziare l’immagine di un uomo sempre vigile e attento, ma del tutto fiducioso nei confronti di chi crede essergli amico: Jago. Austero, impulsivo e sincero, Otello agisce e si comporta sempre senza malizie o ambiguità, credendo fermamente in sé stesso e nel proprio comportamento: è su questa debolezza, che costituisce parte del suo fascino etico e umano, che fa tragica presa l’insinuazione di Jago, quindi il tradimento. Di solito, quando m’immedesimo nella maggior parte dei ruoli che interpreto, riesco ad essere me stesso, pur dando vita ad un personaggio con un carattere definito e chiaro, seguendo un filo logico tracciato dal carattere stesso del melodramma e del libretto. Invece quest’opera mi porta ad urtare il mio carattere e a contrariare il mio buonsenso. Ad esempio alla fine del duetto con Desdemona in terzo atto, mi è davvero difficile rendere la reazione violenta di Otello nei confronti della moglie, quasi allucinato dalle parole dette poco prima e da lui credute false. Ma anche per questo è un’opera fantastica: la ricerca del personaggio sarà continua e chissà che cosa mi riserverà ancora in futuro”.
Rinomato interprete dei più importanti ruoli del melodramma italiano, dalla belcantista Lucia di Lammermoor alla verista La GiocondaMarco Berti si è cimentato con diversi ruoli verdiani ottenendo forti consensi. “Ho iniziato con La traviata Rigoletto per approdare ora ad Otello; nel mezzo ce ne sono stati tanti altri, tra cui Simon BoccanegraErnaniUn ballo in maschera e Aida. Amo profondamente i titoli del Grande Maestro, sia per la qualità della musica sia per il modo in cui sono scritti. Verdi non tradisce mai: per cantarlo bisogna essere padroni della tecnica, nulla deve essere lasciato al caso e tutto ha un senso logico. Verdi può essere paragonato a Mozart nella scrittura vocale. Non dico che sia sempre facile, ma il bello di questo lavoro è la ricerca continua della tecnica e del fraseggio; ogni volta si scopre qualcosa di nuovo in queste partiture, magari una piccola nota che stravolge il senso di quanto pensato fino a quel momento. Per interpretare Verdi occorrono canto spiegato, fraseggio, legato, lunghe frasi, sostegno tecnico. Io penso di applicare questi fondamenti, mi sento tenore verdiano, tant’è che adotto questi stessi principi anche affrontando gli altri autori. Non a caso nutro qualche reticenza sul repertorio verista, perché porta ad un canto istintivo e poco ragionato. Il canto all’italiana fa parte di ciò che siamo, del nostro retaggio come inventori dell’opera. Una mia vecchia maestra mi diceva spesso: «Se vai al mercato senti tante bellissime voci che invitano a comprare questo e quello: sono italiani che cantano». Ecco, anche questo è il canto all’italiana: voce bella, naturalmente, e padronanza della lingua. Udiamo spesso stranieri che dichiarano di cantare all’italiana, poi, alla prova dell’ascolto, niente doppie ed esse sibilanti. Certo bisogna anche essere dotati, ma il più delle volte il saper cantare all’italiana deriva da noi stessi, da chi siamo, dalla nostra lingua”.
Di origine comasca, Marco Berti si diploma nel 1989 al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e debutta nel 1990 a Cosenza nel ruolo di Pinkerton in Madama Butterfly, vincitore del concorso internazionale Giacomantonio. “Io sono abituato a lavorare a testa bassa per dare il meglio di me stesso. Una professione è costituita di grande studio, di sacrificio, di dedizione. Mai scoraggiarsi, questo è molto importante, e trovare sempre il motivo per andare avanti anche quando tutto sembra ostile. La carriera è fatta anche di occasioni, alle volte si tratta proprio di essere al momento giusto nel posto giusto. Se fossi rimasto a studiare a Como, dove sono nato e vivo, probabilmente l’opera sarebbe rimasta per me un grande hobby, invece mi sono trasferito a Milano in conservatorio e da lì è nato tutto: incontri, occasioni, voglia di mettersi in gioco ed eccomi qui”. Il successo si compone anche di “emozioni che porto nel cuore. Sono i ricordi di persone meravigliose incontrate nel corso di questi anni. Ognuno di loro mi ha dato qualcosa di positivo, mi ha fatto vivere esperienze indimenticabili che mi hanno permesso di crescere certamente come artista, ma anche come uomo. Poi c’è l’emozione di calcare le scene che hanno attraversato i grandi prima di me; talvolta mi commuovo, ma di nascosto: io resto sempre un orso, buono, ma orso! Ricordo la prima volta alla Scala durante una Lucia di Lammermoor nel 1992, un’esperienza che è rimasta viva nel mio cuore come se fosse accaduta ieri: non riuscivo a smettere di piangere quando sono uscito a prendere gli applausi, tanto era incredibile l’emozione provata”.
Artista lirico di fama internazionale, Marco Berti si è cimentato con i teatri più importanti di tutto il mondo e con le culture di diversi paesi, senza mai dimenticare i palcoscenici italiani. “Cambierei tantissime cose nel mondo dell’opera, forse non solo in teatro. Comincerei con l’introdurre nelle scuole un po’ di cultura teatrale, abbinando alle materie letterarie lo studio di quell’espressione della cultura che è parte integrante della nostra identità di italiani, ossia il teatro e in particolare il melodramma. La grande crisi che viviamo oggi in Italia è appunto dovuta alla mancanza di preparazione del pubblico. Spesso s’incontrano persone meravigliate ed affascinate dalla loro prima volta all’opera, ma è paradossale che non conoscano un prodotto storico dell’eccellenza italiana riconosciuto in tutto il mondo. Inoltre, dopo i drastici tagli di risorse subiti dal mondo dello spettacolo dal vivo in generale, è piuttosto difficile parlare di crisi: questo è un funerale! Un ridimensionamento andava fatto, di questo siamo tutti consapevoli, ma forse bisognava dare prima delle regole, non tagliare fondi e basta. Sarebbe stato necessario aprire un tavolo di trattativa con le varie realtà e cercare di cambiare la situazione attuale, poi si sarebbe potuto anche intervenire con tagli finalizzati alla razionalizzazione del sistema. Si parla tanto di privatizzare, ma poi all’atto pratico nessuno fa niente; ad esempio si potrebbe fare come negli USA, dove un privato può destinare fondi al mondo dello spettacolo e detrarre tali finanziamenti dalle proprie entrate; sarebbe un modo per disporre di denaro senza subire gravissimi traumi economici come quelli attuali. L’opera è nata e si è sviluppata in Italia, è un must culturale del nostro Paese: all’estero ci stanno mostrando come far funzionare il sistema, ma noi non prendiamo minimamente in considerazione questa lezione. Cambierei poi un certo modo di fare opera alla tedesca, con allestimenti minimalisti e alle volte senza un senso logico, senza attinenza alcuna con la partitura dell’autore. Gli allestimenti devono essere tradizionali, pertinenti quanto meno al libretto, senza il bisogno di utilizzare scenografie vecchie e impolverate, ma possono e hanno l’obbligo di essere attuali, con una modernità coerente con l’opera che si va a rappresentare. Va sempre ricordato, infatti, che il compositore e il librettista hanno utilizzato un dramma scritto in precedenza e l’hanno modificato affinché tutto avesse un senso nella partitura musicale. Bisognerebbe inoltre combattere lo stato di diffusa ignoranza presente nei nostri teatri. A volte s’incontrano amministratori che non sanno assolutamente nulla di teatro, di musica, di voci, di libretti, nemmeno di gestione del personale. Il teatro è un mondo meraviglioso, ma anche un po’ a sé stante: esistono tantissime categorie di lavoratori, non solo nell’accezione sociale del termine, ma anche e soprattutto nel senso della specificità delle mansioni, quindi di una molteplicità di problematiche ben distinte e definite. Ad esempio, per dare la possibilità ai cantanti di provare durante il giorno, certi tipi di lavoro sono eseguiti di notte, come le luci di uno spettacolo o il montaggio di scene particolarmente complesse. Inoltre bisogna smetterla con gli allestimenti milionari, il periodo delle vacche grasse è finito: è dimostrato che si può fare l’opera anche con molto meno, senza sprechi, ma senza rinunciare ad allestimenti belli e sensati. Possiamo infine fruire dell’opera in forma concertante e chiudere gli occhi, costruire la scena con la nostra fantasia. Confesso che, nel vedere certi allestimenti, io faccio così!”.

INTERVISTA A MARCO SPOTTI [William Fratti] Parma, 1 settembre 2010.
 “Sono sempre stato aperto a nuove proposte e all’idea di spaziare in vari repertori. Ogni volta lo faccio con piacere, purché si tratti di ruoli a me congeniali, tenendo presente che la mia voce può stare meglio in certi personaggi piuttosto che in altri”. Marco Spotti, basso parmigiano, che non avrebbe potuto prediligere altri compositori se non Giuseppe Verdi, per ovvie ragioni legate alle proprie origini e alla propria terra natale, dotato di una vocalità particolarmente scura ed ombrosa, ma allo stesso tempo cantabile ed armoniosa, è da sempre attratto ed incuriosito da ogni tipo di stile, da quello barocco monteverdiano a quello contemporaneo.
Verdi è sicuramente l’autore al centro della mia formazione e penso che mi accompagnerà per tutta la carriera. Lo amo profondamente e la mia voce si sente completamente a suo agio con la sua musica; intendo continuare a cantarlo approfondendo i ruoli già debuttati e spaziando verso nuovi personaggi non ancora affrontati. Allo stesso tempo mi sento stimolato nell’eseguire altri compositori. Qualche anno fa ho accettato la proposta di Alberto Zedda di partecipare al Rossini Opera Festival, prima come Oroe in Semiramide, poi come Orbazzano in Tancredi, ad aprile ho vestito i panni di Balthazar nella versione originale francese de La favorite di Donizetti al Teatro Alejandro Granda del Callao di Lima e spesso mi trovo ad interpretare il Commendatore nel Don Giovanni mozartiano, ruolo che mi permetterà di debuttare al Covent Garden nel 2012. Ritengo importante avere stimoli nuovi, mettermi alla prova con avventure musicali differenti, studiare e spaziare in mondi e repertori diversi ed anche per questo ho accettato di eseguire al Teatro Real di Madrid il Conte di St. Bris ne Les Huguenots di Giacomo Meyerbeer e Seneca ne L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi. Le mie ambizioni sono naturalmente quelle del grande repertorio, ma considerato che sono convinto che la carriera deve essere lunga, ho sempre pensato di non dover bruciare le tappe cimentandomi subito con certi ruoli, senza la maturità vocale e psicologica necessaria. Sono contento di avere rinunciato anni fa ad interpretare certi personaggi che avevo deciso di accantonare e che sto iniziando ad affrontare solo oggi, con maggiore consapevolezza musicale ed umana. Alla base di tutto occorre sempre una certa intelligenza, che permette di eseguire una parte con serietà. Lo studio, la tecnica e l’analisi sono fondamentali prima di aprire bocca e cantare: ad esempio per Norma e La favorite utilizzo la voce in modo diverso che ne La forza del destino o in altre opere verdiane, dove per me è più comodo avere una cavità più ampia. Il motore è sempre lo stesso, ma la marcia da ingranare è differente, poiché la tessitura, la scrittura, l’estensione è diversa e quindi bisogna affrontare in altro modo certe zone di passaggio. Inoltre non è materialmente possibile essere sempre al 100% delle proprie possibilità fisiche, pertanto è necessario essere pronti ad usare la vocalità nella maniera giusta per salire sul palcoscenico. Noi cantanti siamo sicuramente dei privilegiati, poiché facciamo un lavoro che ci piace e che abbiamo scelto, anche se comporta molti sacrifici, ma lo amiamo ed è la nostra vita, quasi come se fosse una droga, poiché dopo un po’ che non si pratica viene a mancare. Credo sia giusto pensare alla nostra carriera come ad una forma di investimento sul futuro, per far sì che possa durare il più a lungo possibile, con un mezzo vocale in ordine; poi naturalmente sta ad ognuno di noi decidere oltre quale livello stabilire di non esprimersi”.
Marco Spotti è presente da tempo sulle scene internazionali, dall’Europa, al continente americano e al Giappone, senza mai tralasciare i palcoscenici italiani dai propri impegni. “Purtroppo l’Italia sta vivendo un momento molto difficile in tutti i settori, che richiede grosse rinunce a chiunque, ma è molto importante rivedere la legislazione riguardante i teatri, poiché non è possibile arrivare al punto di privare un popolo della propria base culturale, anzi bisognerebbe fare in modo che sempre più persone possano avvicinarsi alle varie forme d’arte, permettendo ai giovani delle scuole di scegliere a quali filoni avvicinarsi, senza esclusioni o preclusioni elitarie, ma cercando di capire fin dove arrivano i propri interessi. Lo stesso vale per lo studio della musica, che dovrebbe essere obbligatorio, ma occorre cambiare i programmi per renderli più interessanti e curiosi. Tutti i ragazzini che vengono a vedere gli spettacoli lirici, ne restano entusiasti e favorevolmente impressionati, ne parlano bene e vogliono ritornare. L’opera è di tutti, è nata per il popolo, ma oggi è erroneamente considerata esclusiva o sorpassata, mentre il messaggio è sempre attuale, al di là delle mode, e si trattano temi comuni che valgono per tutti, anche in un mondo in continua evoluzione. Ognuno di noi può identificarsi e trovare qualcosa di sé nel tormento di un personaggio o in una gag buffa. Così come noi cantanti ci immedesimiamo in un ruolo, trovando nelle nostre corde uno stato d’animo che ci accomuna, così gli spettatori possono riconoscersi in un protagonista o in un momento musicale. In fondo sono emozioni e sentimenti che circolano”.

INTERVISTA A DANIELA DERSSÌ E FABIO ARMILIATO [William Fratti] Parma, 5 ottobre 2010.
La coppia più amata del mondo della lirica torna sul palcoscenico del Teatro Regio di Parma, in occasione del Festival Verdi 2010, con un’importante produzione de I vespri siciliani, opera debuttata ed interpretata in una sola circostanza nel 1988 a Barletta da un giovanissimo Fabio Armiliato, e nel 1996 a Roma – nella versione francese – da Daniela Dessì.
“Quando ho vestito i panni di Arrigo per la mia prima ed unica volta ero ancora molto acerbo, con alle spalle soltanto quattro anni di carriera – ci ha detto il tenore genovese – inoltre era tradizione eseguire le opere con dei tagli notevoli, sono quindi molto contento di rimettermi in discussione attraverso questo ruolo, in una città stimolante come Parma. L’aver debuttato questo ruolo in un momento di immaturità, mi permette oggi di affrontarlo come se fosse la prima volta, ma con un bagaglio di esperienza tecnica ed artistica differente, soprattutto con uno studio ed una ricerca continua sullo spartito e sul personaggio. Ho accettato questa sfida, per me molto importante, perché non mi accontento mai, pur rendendomi conto della difficoltà della tessitura, solo apparentemente simile ad altre opere, come La forza del destino che ho da poco eseguito a Vienna, ma decisamente più complessa, continuamente orientata verso l’alto, non sempre sfogata, con un forte impiego di drammaticità, soprattutto nel tema centrale del rapporto padre-figlio, ma di conseguenza anche nella relazione con Elena. Inoltre la partitura è penalizzata da un libretto infelice, con tantissime parole e frasi poco musicali, difficili da memorizzare e da cantare”.
Daniela Dessì è concorde in merito alla complessità di questo titolo e spiega le insidie della parte del soprano, dove si deve “legare un drammatico di agilità ad un lirico, ricco di accenti e di colori, di piani e pianissimi, di forti e fortissimi, di acuti, sovracuti e basse, con una tessitura impervia che va dal fa diesis al do diesis, correlata da un personaggio difficile, ma simpatico, da classica eroina verdiana. All’inizio dell’opera occorre superare immediatamente l’ostacolo e affrontare la grossa responsabilità dell’aria di apertura, la canzone del marinaio, che è un’aria bellissima, di furore, tipicamente verdiana, ma il vero scoglio, da eseguirsi dopo tre atti lunghi e faticosi, è nel quarto, con una romanza interamente incentrata sui piani. Il bolero nel finale è purtroppo completamente avulso dal resto dell’opera, forse è stato inserito da Verdi solo a dimostrazione dell’abilità nelle agilità e nelle colorature dell’interprete dell’epoca, ma non si sposa bene col personaggio di Elena. Soprattutto è molto faticoso, con il diapason del 2010 e non quello dei tempi del Maestro, interpretarlo proprio nel quinto atto. Questo ruolo non si crea certamente con due note, ci vuole molto di più ed è un rischio, una scommessa a cui ho acconsentito e farò del mio meglio per cantare come si deve, tentar non nuoce. Inizialmente non volevo accettare di partecipare a questa produzione, ma sono nata verdiana, porto Parma nel cuore, ho studiato in questa città, mi sono diplomata in questo conservatorio e non ho potuto rifiutare. A gennaio tornerò per La forza del destino, ma col tempo mi piacerebbe aggiungere altri titoli di Verdi nel mio repertorio, come Macbeth, di cui amo la grinta”.
Anche Fabio Armiliato, che ha recentemente debuttato Rodolfo in Luisa Miller a Zurigo, è in procinto di cimentarsi con altri ruoli, tra cui Il corsaro a Bilbao nella produzione del Teatro Regio di Parma e Otello a Liegi, oltre a riprendere Un ballo in maschera a Montecarlo e Il trovatore al MET per festeggiare i suoi vent’anni di carriera nel teatro newyorkese. “Mi sarà impossibile arrivare ad interpretare tutti i 27 titoli verdiani, ad esempio sarei un presuntuoso ed irresponsabile se volessi cantare Fenton, anche se posso annoverare Falstaff nel mio repertorio, poiché nel lontano 1981, prima ancora di intraprendere la carriera da solista, ho vestito i panni del Dr. Cajus. Ma a parte gli scherzi, i percorsi artistici di un professionista non sono mai fini a se stessi, bensì una combinazione di eventi e possibilità che portano avanti la carriera. Noi cantanti non possiamo inventare nulla, ma abbiamo il compito ed il dovere di fare il nostro meglio e di valorizzare il più possibile lo spartito. In questo momento della mia vita mi sento molto soddisfatto delle recenti rappresentazioni de La forza del destino a Vienna, in quanto sento il ruolo di Alvaro disegnato appositamente per la mia voce. Se dovessi desiderare un ulteriore debutto, sceglierei certamente I masnadieri”.
“Quando si interpreta un personaggio verdiano bisogna capire e avere ben presente che Verdi ha un linguaggio proprio e ben preciso – dice Daniela Dessì – che va seguito ed incanalato, senza la possibilità di andare liberamente. Non occorre necessariamente che la voce sia grossa, ma deve essere duttile, ricca di colori, di accenti e di fraseggi ed è importante eseguire tutto ciò che Peppino scrive nelle partiture. Ogni volta che canto in un’opera verdiana, mi sembra di avere studiato ancora un po’ di tecnica vocale e questo mi riempie di soddisfazioni”.
Verdi è un grande Maestro di teatro e di vocalità – prosegue Fabio Armiliato – e raramente si sbaglia nell’approccio ad un suo personaggio. Il taglio psicologico ed emotivo sono sempre al servizio della linea vocale e si deve essere molto disciplinati, continuamente, mai approssimativi. Ho trovato in questo compositore degli insegnamenti che sono fondamentali nel processo evolutivo di un cantante, poiché imparando a lasciarsi condurre nella sua linea teatrale, si arriva a trasmettere tutta la forza del melodramma con la giusta competenza stilistica. Purtroppo i giovani di oggi non comprendono l’importanza di uno studio approfondito e se hanno dei problemi, soprattutto col passaggio, nell’eseguire un ruolo, lo abbandonano per cantarne altri, ma non è il modo di affrontare gli ostacoli, che invece possono essere superati solo con l’insistenza dello studio”.
Coppia affiatata nella vita, Daniela Dessì e Fabio Armiliato, da una decina d’anni hanno scelto di intraprendere un determinato percorso artistico, che li vede spesso insieme sui più importanti palcoscenici di tutto il mondo, pur mantenendo separate le rispettive carriere. “Abbiamo scelto questa strada – continua il celebre tenore – senza mai auto incensarci, lasciando entrambi un grosso segno di coerenza, dimostrando di essere sempre al servizio dello spartito, della musica e del teatro. Per noi è una gioia, ma anche un dovere, continuare a battere sui veri valori della cultura, cercando di distruggere le idee, i preconcetti o i diritti acquisiti che oggi stanno sgretolando il sistema teatrale”.
“La crisi della cultura mi sembra ormai internazionale – interviene Daniela Dessì – con i mass media che monopolizzano l’attenzione e creano miti in tre minuti, per poi distruggerli soltanto in due. Ciò che passa è il messaggio della facilità con cui si ottiene tutto, senza più bisogno di studiare, di faticare, basta cogliere l’attimo. I ragazzi a scuola non vengono più bocciati, vengono sempre protetti e perdonati, ma non è certo il modo di dare il buon esempio, anzi si disgregano i veri valori umani e si contribuisce a creare uno stato meno acculturato ed indubbiamente più facile da gestire. Recentemente si sta cercando di prendere in mano la situazione, ma sono solo vani tentativi, poiché spesso accade che le persone che governano e amministrano non possiedono la giusta competenza e preparazione. Ed è esattamente ciò che accade nei teatri. Il compito degli artisti e delle persone di cultura è quello di trasmettere un certo messaggio, mentre in molti si dedicano esclusivamente all’auto celebrazione, pensando che i teatri siano a loro uso e consumo, ma contribuiscono solamente a dare un’immagine distorta della realtà. In questo mestiere non si devono prendere le scorciatoie, ma ci si deve dedicare allo studio, anche se è difficile e faticoso”.
“La crisi culturale di questo sistema che non funziona più è ormai irreversibile – conclude Fabio Armiliato – si tende continuamente ad aggiustare, a rattoppare, ma la rottura definitiva prima o poi è inevitabile. Si è cercato di richiamare finanziamenti privati attraverso la costituzione delle Fondazioni, ma a causa delle difficoltà e degli eccessivi costi di gestione si è sempre prodotto troppo poco e la buona immagine di cui dovrebbero godere gli investitori viene a mancare, spingendoli a non concedere più aiuti economici. Non sono pessimista, ma bisogna iniziare a pensare diversamente, ricordandosi che la cultura vive attraverso le manifestazioni, richiamando le persone che stanno perdendo la voglia di andare a teatro, altrimenti la situazione è destinata al tracollo”.
La professionalità, l’arte e la celebrità di Daniela e Fabio non nasconde la loro umanità e soprattutto la loro umiltà. Hanno parlato col cuore e sanno emozionare e commuovere anche fuori dal palcoscenico, poiché si mostrano reali, senza maschere, esseri umani ordinari, e questa è la loro straordinarietà.

INTERVISTA A GIOVANNI BATTISTA PARODI [William Fratti] Busseto, 7 ottobre 2010.
Verdi è un autore che adoro, probabilmente quello che preferisco, che sento più vicino alla mia sensibilità – ci ha detto Giovanni Battista Parodi, che veste per la prima volta i panni del Re degli Unni a Busseto in occasione del Festival Verdi 2010 – ogni ruolo che studio, di qualsiasi compositore, mi fa scoprire un mondo nuovo, e me ne innamoro sempre, ma il senso teatrale della musica verdiana è, a mio avviso, ineguagliato ed ineguagliabile”.
“Cantare nelle sue terre mi da una grande emozione e mi fa capire tante cose sulla sua opera: i colori che si vedono, i profumi che si sentono, le persone che si incontrano per strada rimandano indietro di un secolo e mezzo. Ricordo ancora molto bene la mia prima esperienza bussetana: La forza del destino nel parco di Santa Maria degli Angeli, con la luna che illuminava la chiesa al momento di attaccare “La Vergine degli Angeli”: ho finito il brano con grande fatica, tanta era la commozione”.
Il basso di origine genovese torna al Festival Verdi dopo il successo ottenuto nella produzione di Oberto, Conte di San Bonifacio del 2007. “Oberto e Attila non sono malvagi né buoni assoluti, ma semplicemente uomini, con tutto ciò che ne consegue: amano, odiano, ridono, piangono, sono in salute o malati, ma sono sempre gli stessi uomini e credo che Verdi avesse questo ben presente quando ha tratteggiato i caratteri di tutti i suoi personaggi. Potrei citare Silva, Fiesco, Giovanni da Procida e tanti altri ancora: in essi convivono sentimenti opposti, che si manifestano diversamente ed è compito nostro metterli in luce attraverso l’interpretazione”.
Giovanni Battista Parodi si è cimentato con numerosi ruoli di diversi repertori, dal barocco al contemporaneo, dall’Incoronazione di Poppea di Monteverdi a Vita di Tutino, passando attraverso il belcanto di RossiniBellini e Donizetti, il romanticismo di Verdi e il verismo del Novecento. “Ho sempre evitato di assegnarmi un’etichetta, poiché trovo sia giusto sperimentare varie strade e quindi stili differenti. Al giorno d’oggi specializzarsi in un unico repertorio è controproducente, mentre riuscire ad ampliare il proprio bagaglio di esperienze e spaziare su vari autori è utile e arricchisce. Mi sento molto vicino alla produzione verdiana e in generale a tutto il melodramma italiano e francese dell’Ottocento, ma amo particolarmente anche la musica barocca, che è sempre scritta assai bene, è molto comoda per le mie corde e, se è diretta correttamente, è un esercizio fondamentale per noi cantanti nell’utilizzo, nel gusto e nel significato della parola cantata, anche per tutti gli altri stili. Lo stesso Verdi, che ha attinto da RossiniBellini e Donizetti, aggiungendo un po’ di sangue della Bassa Parmense, disse: “tornate all’antico e sarà un progresso”. Il suo linguaggio è certamente diverso da quello dei predecessori, ma è sempre belcanto, anche nelle opere successive alla trilogia popolare, che non può essere vista come uno spartiacque. In Simon Boccanegra certe pagine sono ancora di chiara derivazione belliniana, ma con un sapore diverso e più innovativo. È incredibile come nel duetto finale tra Simone e Fiesco si senta il profumo del mare e mi riempie di orgoglio sapere che Verdi scelse Genova come sua seconda dimora, all’epoca città molto dinamica e sede del porto più grande d’Europa, punto d’incontro e confronto di diverse culture, da cui forse egli attinse. Inoltre trovo sempre stimolante e fortemente motivante intraprendere nuove esperienze con la musica contemporanea, sia per piacere, sia per curiosità, anche se è spesso difficile per la grande diversità nei confronti del mio repertorio d’elezione”.
L’artista ligure sta conducendo una carriera brillante da ormai un decennio e “credo sia giunto il momento di iniziare a fare sul serio” ci ha detto sorridendo. “Qualche tempo fa Roberto Scandiuzzi mi disse di non buttarmi in certi ruoli impegnativi finché non mi fossi sentito pronto e vocalmente a posto. Non voglio diventare routinier, desidero continuare a spaziare e mantenere la varietà, ma penso sia giusto cominciare ad affrontare certi personaggi, senza pretendere di interpretarli ovunque o nei teatri più importanti, e accettando con dignità i momenti e le situazioni differenti che si possono creare nel corso della carriera, avendo il massimo rispetto per i colleghi, per il pubblico e la critica”.

INTERVISTA A CARLO COLOMBARA [William Fratti] Bergamo, 12 novembre 2010.
Carlo Colombara
 è oggi ritenuto una delle voci di riferimento del registro basso in tutto il panorama lirico internazionale, soprattutto nel repertorio verdiano, ma anche le sue incursioni nel belcanto, da Il barbiere di Siviglia a I puritani, da Norma a Lucia di Lammermoor, e nell’ambito della cultura francese, da Faust ai recenti Les contes d’Hoffmann, sono state sempre accolte con un plauso unanime di pubblico e critica.
In oltre venti anni ha lavorato con i direttori e i registi più importanti del mondo operistico, e continua ad ampliare il suo repertorio – in cui convivono Monteverdi e PucciniStravinsky e Montemezzi, oltre ai già citati RossiniBelliniDonizetti e Verdi – mosso dal suo spirito artistico eclettico e dalla grande vocazione per il canto e il teatro. È partendo da questi presupposti che ad ottobre ha vestito i panni di Don Giovanni per la prima volta al Teatro del Giglio di Lucca, poi al Teatro Coccia di Novara e al Teatro Donizetti di Bergamo. “È ovviamente un debutto importantissimo, in una parte che sognavo di interpretare da molto tempo” ci ha detto il basso bolognese. “Nel 2012 festeggerò i 25 anni di carriera e sono contento di poterci arrivare con un repertorio che include questo personaggio, perché da sempre è stato un mio obiettivo. Cantare Don Giovanni è stato come arrivare in cima all’Everest, un sogno fatto realtà e la prossima estate lo riprenderò al Festival di Savonlinna, dove l’anno scorso ho debuttato Mefistofele. Dal punto di vista interpretativo il dissoluto mozartiano mi ha ricordato più un diavolo che un seduttore come Casanova: è un mascalzone, un assassino, un vero cattivo e prevale molto di più l’aspetto demoniaco che quello sensuale e seduttivo. Questi ultimi due anni sono stati molto impegnativi, l’anno scorso ho debuttato Escamillo in Carmen alle Terme di Caracalla e Mefistofele di Arrigo Boito a Savonlinna, quest’anno Don Pasquale a Peralada e Lindorf, Coppelius, Dr. Miracle e Dapertutto ne Les contes d’Hoffmann a Nagoya. Sono tutti ruoli importanti, che per fortuna mi hanno dato grande soddisfazione e dal punto di vista personale si tratta di traguardi che mi ero prefissato molto tempo fa, a cui sono arrivato con lavoro e determinazione. Fanno parte della mia tessitura e del mio modo di cantare, ma soprattutto sono parti che mi piacciono tantissimo. In particolare il repertorio francese mi affascina da sempre: l’ho affrontato per la prima volta con Faust di Charles Gounod a Oviedo nel 1991, ruolo che ho poi ripreso a Genova, Torino e Zurigo. Anche la chanson française mi è sempre piaciuta moltissimo, tanto che l’ho scelta per il mio primo disco recital Rencontres, edito da Dynamic, con compositori come DuparcFaurèHahnIbertPoulenc e Ravel”.
Il timbro di voce potente, ampio e profondo di Carlo Colombara, unito ad una grande capacità di comunicazione e convincenti doti di attore, gli assicurano un posto d’onore nei teatri di tutto il mondo e la sua vocalità agile ed elastica gli permette di passare con facilità da un repertorio all’altro. “In realtà la tecnica di base è la stessa – ci svela l’artista – e ovviamente anche la mia voce, che ha delle caratteristiche proprie. Ciò su cui si deve lavorare è lo stile, adattandosi ai cambiamenti di colore e studiando in modo diverso, anche se è complicato, senza forzare. Nelle parti maggiormente baritonali ad esempio i colori sono più chiari, oppure in ruoli come Don Giovanni ci sono molti recitativi, che richiedono un tipo diverso di stile, imitando il parlato pur sempre cantando, eppure senza una linea di canto. Esemplare in questo senso è il recitativo tra Don Giovanni e Zerlina, in cui sono contenuti un numero enorme di colori, ancor più che nel duetto. Credo quindi che più che rimettere un ruolo in voce, quello che si deve fare è rimetterlo in testa”.
Carlo Colombara, pur amando interpretare personaggi di diversi repertori, dal barocco al contemporaneo, è conosciuto dal pubblico di tutto il mondo soprattutto per le sue esecuzioni verdiane e ha sempre riscosso successi clamorosi nello stile del compositore bussetano, grazie ai quali ne viene riconosciuto come uno dei migliori interpreti. “Verdi è sicuramente il mio pane quotidiano, è un compositore che amo e con cui mi sento totalmente a mio agio, e mi piace molto essere considerato un basso verdiano, avere questa etichetta. Siamo in un periodo storico nella lirica in cui molte voci, anche se bellissime, difficilmente si creano un’identità ben riconoscibile; per questo ritengo un onore essere identificato come basso verdiano. Uno dei ruoli che mi ha dato più soddisfazioni in questi anni è il sacerdote Zaccaria di Nabucco. L’ho debuttato a Palma de Mallorca nel 1994 e da allora ho avuto la fortuna di cantarlo nei più importanti teatri del mondo, tra cui La Scala di Milano con la direzione del grande Riccardo Muti, il San Carlo di Napoli, l’Arena di Verona, oltre a Berlino, Ginevra, Ravenna e Zurigo e quest’anno lo interpreterò a New York, Vienna e Bruxelles. Nel panorama attuale sono poche le voci che possono spaziare dal fa diesis acuto al fa grave; purtroppo mancano vocalità drammatiche e molto estese che possano affrontare il ruolo, anche per questo sono onorato di poterlo cantare in tutti questi teatri. Un altro dei miei ruoli preferiti è Filippo II di Don Carlo: l’ho cantato per la prima volta nella mia città nel 1998 e con questo personaggio ho debuttato a La Maestranza di Siviglia. L’aria “Ella giammai m’amò” è un vero e proprio ritratto psicologico di una intensità ineguale. In questa ideale classifica il terzo sarebbe Attila, a pari merito con in Fiesco in Simon Boccanegra: entrambi sono ruoli molto importanti. Attila l’ho debuttato a Macerata nel 1996, Fiesco a La Coruña nel 1990, poi interpretato anche a Tokyo, Torino, Parigi, Monaco di Baviera, Mahón, Napoli e Zurigo. Fiesco mi ricorda la figura paterna e autoritaria di Zaccaria, o dello stesso Filippo II, mentre Attila è un personaggio complicato, contemporaneamente potente e timoroso, e forse come tessitura è il meno basso dei ruoli verdiani, poiché in molti aspetti si avvicina di più alle corde baritonali. Potrei andare avanti ancora, perché ho debuttato gran parte dei protagonisti di Verdi, da Ramfis di Aida al Padre Guardiano di La forza del destino, ma vorrei concludere citando Messa da Requiem, che ho cantato un centinaio di volte in teatro. Sono particolarmente affezionato a questa composizione perché l’ho cantata anche a Napoli con Luciano Pavarotti, in quella che è stata la sua ultima interpretazione del Requiem. Un ricordo che mi è veramente carissimo”.
Considerando gli ultimi importanti debutti, oggi Carlo Colombara si trova al punto d’incontro tra la genialità di Mozart, l’eleganza di Bellini, il romanticismo di Donizetti, la drammaticità di Verdi e la passione di Puccini. “Se potessi vorrei scegliere la passionalità di Puccini – prosegue l’artista – ma per basso non ha scritto quasi nulla purtroppo. La mia voce si adatta bene alla drammaticità dei ruoli verdiani e in questo momento sento molto l’esigenza di tornare a cantare Verdi, di riprendere il mio stato naturale e rientrare nel mio colore. Questi ultimi due anni sono stati veramente un tour de force e Don Giovanni è stato ovviamente molto impegnativo, pertanto sento ora di dover tornare nella centralità della voce. È importante imparare a non affaticare la corda per non andare incontro a schiarimenti”.
Carlo Colombara conclude svelando che ogni volta che calca un palcoscenico “metto tutto me stesso e tutto l’impegno possibile sullo scenario per cercare di dare al pubblico lo spettacolo migliore che posso offrirgli”.