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Macbeth – approfondimenti

Introduzione

Si perdonerà la temerarietà con cui si infrange uno dei massimi comandamenti del mondo teatrale: non nominare invano la famigerata opera di Shakespeare, quella tragedia che vede come protagonisti usurpatori, assassini, streghe e sovrannaturali apparizioni. In realtà, in questo articolo si parlerà dell’omonima opera di Verdi che però, essendo stata tratta dalla tragedia shakespeariana, potrebbe averne ereditato lo stesso alone di superstizione. Non si sa bene come abbia avuto origine la leggendaria malasorte che aleggia intorno all’innominabile, intorno a Macbeth ‒ si spera che il lettore non sia sulle poltrone di una platea o, peggio, dietro le quinte di un teatro. Certo, le imprese scabrose che vi sono narrate si prestano ad alimentare la credenza che ogni rappresentazione di Macbeth, che sia di Shakespeare o di Verdi, possa avere conseguenze funeste, soprattutto sugli interpreti, come da superstizione. Sicuramente fu anche per i suoi personaggi sanguinari e complessi, contemporaneamente vittime e aguzzini, che la tragedia shakespeariana esercitò un fascino irresistibile su Verdi, la cui opera ebbe una genesi molto peculiare. Si sfida, quindi, la sorte per dedicare qualche parola alla storia del Macbeth di Verdi, che incide inevitabilmente sui modi in cui può essere messa in scena ancora oggi.

In un caso così peculiare come quello del Macbeth verdiano, di cui esistono due versioni, il team creativo incaricato della sua produzione non può infatti che partire da una fondamentale decisione, ossia: quale Macbeth rappresentare? L’edizione critica dell’opera, curata da David Lawton e pubblicata nel 2006 da Casa Ricordi – University of Chicago press, presenta a testo la seconda versione,quella che andò in scena nel 1865 a Parigi e che Verdi stesso considerava definitiva, in lingua italiana. In appendice, invece, si possono leggere le sezioni del Macbeth fiorentino del 1847 che poi sarebbero state, di lì a quasi vent’anni, sostituite o modificate. Dunque ci troviamo di fronte a due versioni rappresentabili, due possibilità entrambe legittime: scegliere la prima versione piuttosto che la seconda non vuol dire necessariamente andare contro la volontà dell’autore, ma anzi può essere l’occasione per restituire un’importante testimonianza storico-culturale del contesto in cui Verdi la scrisse e del pubblico cui era indirizzata. Per capire meglio la genesi del Macbeth, partiamo dall’inizio e da quella primavera del 1846 in cui Verdi scelse il soggetto della sua nuova opera.

Il Macbeth fiorentino e il Macbeth parigino

Non tutti sanno che inizialmente l’impresario Alessandro Lanari aveva pensato a Roma e poi a Mantova per il debutto della nuova opera verdiana e solo infine era giunto a prediligere il teatro della Pergola di Firenze, prevedendo la prima per la Quaresima del 1847. Dalla corrispondenza tra l’impresario e Verdi, emerge che quasi immediatamente la scelta di quest’ultimo era ricaduta sul «genere fantastico» e, per questo, il compositore aveva preso in considerazione tre soggetti, ossia L’Avola, i Masnadieri e Macbeth. Come si può immaginare, Verdi aveva ben chiare le caratteristiche timbriche e vocali degli interpreti che avrebbe voluto per ciascuna delle tre opzioni e, dopo aver saputo che nel cast ci sarebbe stato il baritono Felice Varesi, la scelta decisiva cadde sul soggetto shakespeariano: il maestro era certo, come spiegò in una lettera ad Antonio Barezzi, che Varesi «per il suo modo di canto», e per la sua intelligenza», e per la sua stessa piccola e brutta figura» possedesse tutte le caratteristiche fisico-vocali per impersonare al meglio Macbeth. C’è da dire inoltre che la scelta di questo soggetto assunse anche un altro grande merito: la produzione teatrale di Shakespeare, infatti, era poco conosciuta e difficilmente rappresentata in Italia e l’opera di Verdi diede un importante contributo alla diffusione della tragedia del Bardo nella nostra penisola.

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Francesco Maria Piave

Dalla corrispondenza con Francesco Maria Piave, principale librettista per quest’opera, emergono chiaramente i cardini su cui Verdi esigeva che l’adattamento si incentrasse: le streghe, la dimensione soprannaturale di queste ultime e Lady Macbeth. Anche per questo motivo, nelle sue lettere incontriamo numerosissime indicazioni che possiamo definire a tutti gli effetti ‘protoregistiche’ e che rivelano una scrupolosa attenzione del compositore anche per una resa scenica che doveva stupire lo spettatore. Da qui sia la descrizione dettagliata di come doveva rendersi l’apparizione del fantasma di Banco nel secondo atto, per cui il cantante doveva «avere un velo cenerino ma assai rado e fino che appena appena si veda» con tanto di «capelli rabbuffati e diverse ferite nel collo visibili»; sia il parere chiesto a Sanquirico, non coinvolto direttamente nella produzione, in merito alla realizzazione delle apparizioni del terzo atto: com’è noto, l’ex scenografo della Scala avrebbe suggerito l’uso della cosiddetta lanterna magica per proiettare le ombre degli otto re, ma il progetto naufragò per un divieto delle autorità locali di mantenere buio assoluto in sala, condizione imprescindibile per l’effetto della lanterna. Questa richiesta, che può sembrare un dettaglio, rivela in realtà quanto la resa scenica fosse fondamentale per quest’opera già dalla sua nascita, circostanza sicuramente difficile da ignorare per un regista di oggi: non perché debba riproporre fedelmente ciò che Verdi aveva ideato (una lanterna difficilmente otterrebbe meraviglia nel pubblico odierno), ma perché possa ambire a ricreare lo stesso effetto di stupore e inquietudine che l’autore aveva desiderato.

Dopo quasi vent’anni dalla prima fiorentina, Verdi fu incaricato, tramite il suo editore d’oltralpe Léon Escudier, dell’allestimento del Macbeth in lingua francese al Théâtre Lyrique per l’inverno del 1865. Bisogna premettere che, a causa dei tempi molto ridotti, Verdi lavorò e apportò le modifiche alla partitura in italiano, lasciando che fosse Escudier a trovare i traduttori che si occupassero del testo francese. Ed ecco che iniziò il percorso che portò alla composizione della seconda versione dell’opera, che differisce dalla prima sostanzialmente per due tipi di interventi: quelli pensati appositamente per il pubblico parigino e quelli dovuti all’insoddisfazione dello stesso compositore per alcune pagine del Macbeth fiorentino. Al primo tipo di interventi appartengono l’aggiunta dei ballabili dopo il coro di streghe che apre il terzo atto («Tre volte miagola la gatta in fregola») e la sostituzione della morte in scena del re usurpatore, «Mal per me», con un coro finale. Quest’ultimo intervento, oltre a essere stato espressamente richiesto dal direttore del Théâtre Lyrique, Léon Carvalho, rappresenta un sostanziale riavvicinamento alla fonte letteraria che, infatti, prevede che Macbeth muoia fuori scena. Anche se non possiamo individuare nella fedeltà a Shakespeare uno dei motivi dietro a questa sostituzione, è invece certo che il pubblico francese avesse una buona conoscenza della produzione del Bardo: forse «Mal per me» non sarebbe stata accolta con grande benevolenza. Per quanto concerne l’insoddisfazione di Verdi, essa riguardava alcuni pezzi considerati dal compositore stesso «deboli, o mancanti di carattere» e ciò portò inevitabilmente ad alcuni cambiamenti di cui almeno due sono di fondamentale importanza drammaturgica, oltre che musicale. Innanzitutto l’aria di Lady Macbeth «Trionfai sicur alfin» all’inizio dell’atto II fu sostituita con «La luce langue», brano che perde il precedente tono di gioia feroce e trionfante in favore di un’atmosfera più lugubre e quasi di presagio funesto. In secondo luogo, nell’atto successivo, dopo lo svenimento di Macbeth causato dalle profezie delle tre apparizioni, l’aria del re «Vada in fiamme» fu sostituita con il duetto con la moglie «Ora di morte». Il risultato complessivo di queste modifiche fu che, nella versione del 1865, il personaggio di Lady acquisì un peso sempre più preponderante, partecipando finanche all’ideazione dell’assassinio di Banco, a scapito del ruolo protagonistico di Macbeth, privato anche del suo brano solistico finale.

Due esempi registici

Per rendere meno fumosi i discorsi fatti fin qui, potrebbe essere d’aiuto analizzare due regie che diano l’idea di alcune possibilità con cui possono essere rappresentate – a seconda dei casi, più o meno opportunamente – le due diverse versioni. Ci si soffermerà in particolar modo sulla rappresentazione dei due personaggi più cari a Verdi, le streghe e Lady Macbeth, oltre che, naturalmente, sulla coerenza rispetto al testo – in senso lato – della versione scelta. Prima, però, occorre ricordare che, se nel 2020 non ci fosse stata l’emergenza pandemica nota a tutti, si sarebbe potuto affiancare un terzo esempio registico. Infatti, ci sarebbe stata la possibilità di prendere in esame anche la prima riproposizione moderna del Macbeth parigino in lingua francese. Questa importante ripresa, resa possibile grazie alla revisione di Candida Mantica dell’edizione critica curata da David Lawton, era fra i titoli in cartellone del Festival Verdi, e avrebbe dovuto inizialmente essere rappresentata in forma scenica, al Teatro Regio; la sua esecuzione dovette tuttavia essere trasferita all’aperto, nel Parco Ducale, in forma di concerto. Di quell’importante evento è disponibile l’incisione che la casa discografica Dynamic pubblicò l’anno successivo, cui si rimanda in attesa di un’auspicabile ripresa in forma scenica di quella versione dell’opera.

Per la versione del 1847 si è scelto il Macbeth andato in scena al Teatro Regio di Parma nel 2018, con la regia di Daniele Abbado, diretto da Philippe Auguin. Interessante è la rappresentazione delle streghe, assai singolare per la pluralità di sembianze che esse assumono nel corso dello spettacolo. Le sorelle fatali fanno la loro prima apparizione ammantate interamente di nero, per poi svelare progressivamente una sottoveste rossa: si presentano solenni, fiere e misteriose.

Niente a che vedere con l’apertura dell’atto III in cui compaiono in vesti eccentriche che, richiamando un’atmosfera buffa, ricordano un po’ i costumi carnascialeschi, un po’ le cabarettiste dei ruggenti anni Venti e un po’ dei personaggi fantastici. Sembra che in questa stravagante raffigurazione il regista abbia voluto giocare con l’ambiguità di genere e col travestitismo: diverse streghe sono infatti impersonate da uomini o hanno tratti mascolini; tra loro sono da menzionare la strega travestita da regina Elisabetta, al braccio di un re – un omaggio al teatro elisabettiano? ‒, e quella che richiama la figura di una nutrice, tipica dell’opera barocca. Sembra lecito ipotizzare che questi costumi vogliano sottolineare l’aspetto fisico equivoco delle streghe, messo in luce fin dal primo atto da Banco («Dirvi donne vorrei ma lo mi vieta quella sordida barba») e la soprannaturalità dell’«opra senza nome» che esse stanno mescendo. Per quanto riguarda la rappresentazione di Lady, è intuibile un lavoro non indifferente che Anna Pirozzi ha condotto sulla mimica, terribile e spietata, che spicca molto tra la perenne oscurità e staticità sia delle scene sia delle azioni: a Lady non servono costumi appariscenti per incutere timore.

L’allestimento di Phyllida Lloyd del 2004 al Gran Teatre del Liceu di Barcellona mette invece in scena la seconda versione dell’opera, in italiano. In questo caso, al contrario del precedente, non si può parlare di una completa fedeltà alla versione scelta per un elemento essenziale: l’omissione dei ballabili ‒ comune, peraltro, a molte altre regie contemporanee. Quella di Phyllida Lloyd, però, è un chiaro esempio di regia interventista, in cui percepiamo chiaramente l’autorialità della regista sovrapporsi a quella del compositore. Ciò è visibile molto chiaramente in almeno due aspetti: il ruolo drammatico di Lady Macbeth e la resa scenica dello svenimento di Macbeth, che segue le tre apparizioni profetiche nel terzo atto. Per quanto riguarda il trattamento di Lady, è subito chiara la maggiore importanza che il personaggio ricopre rispetto a quanto era stato previsto da Verdi anche nel 1865: sia perché la regina è una presenza pressoché fissa in scena, anche quando non dovrebbe esserlo, sia perché la prossemica e la sua mimica sanciscono senza lasciare dubbi chi sia la vera burattinaia di tutto il gioco nella visione di Lloyd. Non a caso, la regina è artefice persino della propria morte, scegliendo il suicidio per mezzo proprio di un pugnale, la stessa arma con cui era stato commesso il regicidio. La seconda situazione in cui siamo stupiti di vedere la regina in scena ha luogo in concomitanza con lo svenimento di Macbeth nell’atto III. Infatti, quando l’usurpatore perde i sensi, le streghe portano in scena prima un letto su cui la sua consorte giace addormentata e subito dopo alcuni bambini che vanno a circondare la coppia; si entra dunque in una dimensione onirica che ci rivela cosa avrebbero potuto avere i due coniugi, se non avessero assecondato la loro sete di potere: una famiglia. Questa interpretazione è un esplicito riferimento alla tragedia shakespeariana in cui, col celebre verso «Unsex me here», Lady Macbeth rinuncia alla sua fertilità pur di ricevere la forza di perpetrare i delitti necessari, episodio completamente assente in Verdi. Alla luce di questa rappresentazione della sovrana, l’intrusione delle streghe nei fatti della trama potrebbe sembrare frutto di un intervento registico di natura analoga a quanto fatto con Lady, ma è in realtà sostanzialmente diverso per significato drammatico. Infatti, nel caso della regina, si trattava di accentuare l’essenza intrinseca della protagonista, laddove, nel caso delle streghe, si tratta di stravolgerne la natura: da sorelle fatali, e quindi super partes rispetto alle vicende terrene, esse diventano figure quasi terrene che intervengono e interferiscono con le azioni degli altri personaggi. Per citare a titolo esemplificativo qualche passaggio, ricordiamo che le vediamo in scena come messaggere della lettera di Macbeth alla moglie, come scorta di Duncan e, soprattutto, come salvatrici del figlio di Banco dai sicari e questo esula sia da Shakespeare che da Verdi.

Come si è potuto apprendere, quella del Macbeth o, meglio, dei Macbeth di Verdi è una storia molto particolare che, inevitabilmente, incide anche sulle sue possibili messe in scena. È un peccato, però, che tale storia rimanga spesso ignota allo spettatore, che corre il rischio di precludersi la piena comprensione di alcuni particolari della famosa e famigerata opera verdiana.

Lucia Gualandi

in collaborazione con Candida Mantica (Università di Pavia)