Rubriche

Norma, Velleda e Medea

Si è detto negli articoli precedenti che Norma non è la Velleda di Tacito, non è la Medea di Euripide né la Vestale di Spontini anche se le vicende e le storie di queste eroine hanno qualcosa in comune.
La Medea di Euripide resta la donna furente barbara venuta dalla Colchide al seguito di Giàsone, compie fino in fondo il piano delittuoso che comunica sulla scena al Coro, sempre presente e conscio dei disegni umani nella tragedia greca. Un piano delittuoso mirante a distruggere, senza la minima traccia di pietà, la casa di Giàsone finanche negli eredi da lei partoriti in amore. Un piano studiato nei minimi dettagli e per il quale si servirà con perfidia proprio dei figli innocenti. Norma non è Medea non solo perché è sacerdotessa e vate druidica, e Medea è maga, ma perché diversa è la spiritualità che la caratterizza rispetto alla barbarie dell’amante di Giàsone.

Fingerà quindi Medea di approvare le nozze principesche dell’amante con Glauce e chiederà che i figli rimangano nella reggia non già perché restino in un paese ostile alla mercè degli oltraggi nemici, ma perché proprio di loro si servirà per mandare alla principessa il peplo e la corona, suoi doni nuziali, cosparsi però di veleno mortifero. Dopo di che aggiunge: “il gesto da compiere, mi fa gemere:
darò morte ai figli miei e non potrà impedirmelo nessuno.
Sconvolta tutta la casa di Giàsone (con la principessa, attaccata dal veleno, morirà anche suo padre Creonte!), me ne andrò dal paese,
in fuga, lunge dalla strage dei figli amati,
dopo l’audacia di quel gesto empio, nefando…
Giàsone non vedrà mai più quei figli che ebbe da me,
né dalla nuova sposa avrà mai prole,
che il destino vuole che quella trista donna
trista morte trovi pei miei veleni…” (In “Euripide: tutte le tragedie” – Newton – Compton, 2000, pg 88 – trad. di Filippo Maria Pontani).

I figli dunque “teneri” e risparmiati da Norma, “figli amati” da Medea ma usati come strumento di morte e destinati come vittime innocenti sull’altare dell’odio.
Norma non è Medea, infine, perché nella dimensione dell’eroina romantica voluta da Bellini e Romani, nella sacerdotessa druidica, si fa strada non solo il perdono per Adalgisa, ma un atto d’amore cui Medea non è assolutamente disponibile: Norma esorta Adalgisa a raggiungere Pollione, portando in salvo i teneri figli, perché lo sposi e raggiunga la pace e la sicurezza nell’Urbe romana; Medea, uccidendo la principessa Glauce, negherà a Giàsone la possibilità di una ulteriore paternità. E si è detto in precedenza della “Norme” infanticida di Soumet: diversa perché davvero infanticida e suicida col secondo figlio nelle profondità di un lago.
Né vi è comunanza di sorte e di destino fra Giàsone e Pollione: il proconsole romano, come vedremo, si riscatterà alla fine chiedendo di salire al rogo purificatore insieme a Norma; Giàsone prende atto invece della strage dilaniato dall’odio e dal rancore e mentre sui “teneri figli” di Norma e Pollione si stenderà l’ala protettrice – come ancora si vedrà – del “nonno” Oroveso, gli “amati” figli di Medea e Giàsone, trucidati da mano materna, voleranno via sul Carro del Sole donato a Medea per la terra di Egeo dove troveranno sepoltura con un rito in espiazione dell’empio delitto (Euripide, pg. 103 op. cit).

Maria Callas (New York, 2 Dicembre 1923 – Parigi, 16 Settembre 1977)

Ma si torni ora alla scena quarta del secondo atto del melodramma belliniano, a quei “venti di guerra” cui si fa cenno negli articoli precedenti.
In un luogo solitario presso il bosco dei Druidi, cinto da burroni e caverne e in fondo un lago attraversato da un ponte di pietra, i guerrieri galli, cui era stata comunicata la notizia della partenza di Pollione per Roma, attendono il segnale di guerra che però tarda a venire. Oroveso deve informare, suo malgrado, i suoi guerrieri che a Pollione è succeduto un “più temuto e fiero latino condottiero” e che delle decisioni di Norma nulla sa di preciso: la sacerdotessa tace e investigare la sua mente non è possibile; ci si deve, quindi, separare non lasciando tracce del “fallito intento”. Anche lui, Oroveso, freme e “anela all’armi, ma nemico è sempre il cielo e consiglio è simulare, divorare nel cuore lo sdegno
si che Roma lo creda estinto
finché dì verrà che desto ei rieda
più tremendo a divampar”.

I guerrieri si dileguano ed ecco il ritorno in scena della sacerdotessa nel tempio di Irminsul che in un monologo esprime “fidanza” sulla missione di Adalgisa: Pollione tornerà da lei e il “nuvol nero” che le premea la fronte sparirà e il sole le arriderà “come del primo amore ai dì felici”. Vana speranza perché Clotilde, sopraggiunta, le comunica il fallimento di Adalgisa ingiustamente sospettata da Norma di tradirla per scampare alle sue mani e fuggire con Pollione. Adalgisa infatti è al tempio “triste, dolente” e implora “di proferir suoi voti”; Pollione, invece, sicuro di sé, per niente pentito, è pronto a rapire Adalgisa anche presso l’altare del Nume!
Ed ecco la decisione ultimativa di Norma: “troppo il fellon presume,
lo previene mia vendetta, e qui di sangue… sangue romano… scorreran torrenti”
Tre colpi allo scudo di Irminsul e il tempio si riempie di Druidi, di Bardi, ministre e guerrieri. Ora Norma può essere la Velleda tacitiana che incita i Bructeri, con a capo Civile, contro l’invasore romano.
Norma si colloca sull’altare e decreta: “guerra, strage, sterminio… stragi, furore e morti
Il cantico di guerra alzate, o forti”.

Siamo al famoso Coro “guerra, guerra!” che tanto infiammò i cuori dei lombardi e inquietò quelli degli austriaci invasori presenti alla Scala quella sera del 26 Dicembre 1831!
I galli, dunque, spronati da Oroveso sono pronti a combattere, ma dove è la vittima rituale da immolare sull’altare di Irminsul?
Norma è sul punto di proferire il nome di Adalgisa, quando un tumulto interno e l’arrivo di Clotilde annunciano che un romano, sorpreso nella “sacra chiostra delle vergini alunne”, è stato catturato: è Pollione e Norma gioisce per la vendetta imminente.
Oroveso attacca minaccioso il romano il quale oppone al sacerdote il suo petto chiedendo di essere colpito, ma è Norma che vuole serbarsi questo colpo e s’avanza minacciosa verso Pollione pronta a colpire, ma si arresta tra lo stupore dei presenti: vuole interrogare il prigioniero… “investigar qual sia l’insidiata o complice ministra
che il profan persuase a fallo estremo…”
È un espediente per prender tempo, per allontanare i druidi e i guerrieri dalla scena e restare sola con l’amante spergiuro.
Ed ecco siamo, musicalmente e come sviluppo della favola scenica, ai momenti più alti dell’Opera, a quel “in mia mano al fin tu sei;
niun potria spezzar tuoi nodi. Io lo posso” proferito con tono cupo mentre l’orchestra accenna ad una melodia di una estrema liricità.
Norma è pronta a liberare Pollione, decisa a non rivederlo mai più, ma lui dovrà giurare per il suo dio e i figli suoi di rinunziare a sposare la giovane ministra o sarà la fine di tutti, di Adalgisa e dei figli… È l’ultima sfida di Norma cui Pollione risponde offrendosi pronto alla morte. Norma tenta ancora l’ultima carta: “non sai tu che ai figli in core questo ferro?…”
E con pianto lacerante aggiunge: “Si, sovr’essi alzai la punta…
Vedi… vedi… a che son giunta!
Non ferii, ma tosto… adesso
consumar potrei l’eccesso…
un istante… e d’esser madre
mi poss’io dimenticar”

Mezzo busto raffigurante il drammaturgo greco Euripide

Ottonari e puntini sospensivi. Il cuore e l’anima della donna sono franti e sconvolti: Norma è madre e lo riafferma nonostante tutto, mentre il commento musicale si fa possente e tragico e la donna minaccia la distruzione di tutti:
“I romani a cento a cento
fian mietuti, fian distrutti…
e Adalgisa… Adalgisa (infedele a’ suoi voti)
fia punita, nelle fiamme perirà”.
In vano Pollione prega e invoca pietà per la giovane donna ; in vano chiede di morire e placare l’odio di Norma che convoca allora i ministri, i Druidi, i guerrieri tutti per offrire all’ira dei suoi e svelare il nome di una sacerdotessa spergiura che
“i sacri voti infranse,
tradì la patria e il Dio degli avi offese”
Sia preparato il rogo. E mentre tutti chiedono che sia rivelato il nome della rea, Norma, fra sé “io, rea, l’innocente accusar del fallo mio?”. Estremo atto d’amore di una donna che ha saputo amare anche contro i precetti religiosi della sua gente. Adalgisa è salva, non per le preghiere di Pollione ma perché Norma offre se stessa al suo posto. Può davvero tanto il cuore di una donna ferita e tradita? Sulla scena e nella finzione teatrale tutto diventa possibile se non sempre verosimile.
A tutti i presenti infatti appare incredibile l’autodenuncia della sacerdotessa e Pollione interviene per smentirla, ma Norma si riconferma colpevole e chiede il rogo.
Siamo così “al momento sublime del “qual cor tradisti”, forse la più alta melodia di Bellini: ascoltandola si avverte un insuperato struggimento e un incredibile dolore” (In F. Niglio, “Viaggio nel Melodramma italiano – da Bellini a Mascagni”, op. cit. pg 47).
“Quest’ora orrenda – canta con mestizia la donna –
ti manifesti qual cor tradisti, qual cor perdesti” e aggiunge, secondo la visione metafisica dell’amore, che lei e Pollione sono uniti comunque in vita e morte: un nume, un fato più forte, li vuole entrambi sullo stesso rogo; anche sotterra Norma sarà con lui, con Pollione, che in fine, rinsavito, preso dai rimorsi, sente che Amore è rinato più disperato e furente: moriranno insieme!
Oroveso e il Coro, intanto, chiedono a Norma di sconfessarsi, di dire “che stolti accenti uscirono” dalla sua bocca, le chiedono angosciati di discolparsi…

Intanto però Norma e Pollione sono presi dalla comune preoccupazione per la sorte dei due bambini ed ecco ancora una volta la madre prevalere su tutto: sull’odio, sull’essere sacerdotessa e come madre (per Oroveso è una tremenda rivelazione) si rivolge al gran sacerdote, e su un fraseggio dolentissimo degli archi si leva la preghiera di Norma volta a salvare i bambini e la stessa Adalgisa.
Si rivolge al padre ormai furente: “Acquetati.
Clotilde ha i figli miei…
Tu li raccogli… e ai barbari
li invola insieme con lei…”
Al rifiuto del padre, Norma si inginocchia e leva l’ultima, dolente preghiera:
“Ah! Padre… Un prego ancor.
Deh! Non volerli vittime
del mio fatale errore…
Deh! Non troncar sul fiore
quell’innocente età.
Pensa che son tuo sangue…
Abbi di lor pietà…
Padre! Tu piangi!”
Il cuore di Oroveso è oppresso, il suo dolore si manifesta in un pianto liberatorio perché l’amore, o se si vuole, la voce del sangue, o l’innocenza dei piccoli, ha vinto.
Il Coro dei Druidi, però, fermo alla decisione di punire la rea, respinge ogni preghiera:
“Le si spogli il crin del serto:
sia coperta di squallor.
(i Druidi coprono di un velo nero la sacerdotessa)
Vanne al rogo: ed il tuo scempio
purghi l’ara e lavi il tempio,
maledetta all’ultim ora,
maledetta estinta ancor!”

Il potere di vita e di morte dei Druidi viene quindi esercitato sino in fondo sulla sacerdotessa druidica con la dissociazione, però, di Oroveso che, uomo e padre, prima di essere gran sacerdote, esclama: “sgorga al fin, prorompi, o pianto:
sei permesso a un genitor”
Tutto questo mentre l’opera si avvia alla conclusione con un Coro e uno strumentale tra i più lirici e toccanti di quanti mai siano stati concepiti. Basti pensare che sul duetto “qual cor tradisti” sin anche Schopenhauer dovette annotare che: “raramente l’effetto genuinamente tragico della catastrofe, quello che viene conseguito mediante la rassegnazione e la sublimazione spirituale dei personaggi, è stato così ben motivato e trasparentemente espresso come nell’opera Norma (riportato ancora in F. Niglio, op. cit., pg. 49-50)”.
Il finale è una di quelle pagine liriche che si vorrebbe ascoltare all’infinito, un po’ come certe liriche che, vivendo Bellini e Schopenhauer, nel borgo di Recanati andava componendo quel Giacomo Leopardi dall’anima dolente e che a modo suo “andava cercando”.