Concerti 2021

Henrik Nanasi: Verdi e Čajkovskij

Un concerto che ha affascinato con il fuoco e la fresca energia infusa a orchestra e pubblico dal giovane direttore ungherese Henrik Nanasi in un teatro già felicemente pieno, per quanto lo possano essere per ora i nostri teatri che per fortuna ritornano a vivere. In Fenice non c’erano palchi vuoti, in un assolato e luminoso sabato pomeriggio, in una Venezia che godeva della luce dorata cara a molti suoi famosi pittori quali Tintoretto e Tiepolo. E questo pulviscolo magico e aureo sembrava trasfondersi anche in sala, attraverso la musica di Verdi e Čajkovskij, pur in composizioni dall’essenza tragica e scolpita nelle lacrime come la Sinfonia de La forza del destino e la Sinfonia n.5 in mi minore op.64 del grande russo.

Concerto_Nanasi

Ha aperto il concerto la Sinfonia verdiana, dando un chiaro imprinting a tutto il pomeriggio.
La Sinfonia fu aggiunta all’opera dallo stesso Verdi nel 1869; la compose con l’intento che potesse presentarsi non solo come preludio all’opera, ma anche come una composizione a sé stante. Ben presto divenne il cavallo di battaglia delle esecuzioni concertistiche. Dopo la prima di Un ballo in maschera Verdi rimase inattivo per due anni, fino a quando un contratto con il Teatro di Pietroburgo non lo spinse a comporre La forza del destino, su un libretto di F.M. Piave tratto dal dramma di Ángel de Saavedra. La prima ebbe luogo il 10 novembre 1862 a S. Pietroburgo con notevole successo sia di pubblico sia di critica, anche se parecchi giornali ne criticarono la mole eccessiva. È bene ricordare che in un secondo tempo l’autore sentì il bisogno di modificarne alcune parti. Le modifiche approntate per la serata alla Scala, il 10 febbraio 1869, decretarono un successo entusiasmante, non solo dalla parte del pubblico, ma anche da parte della critica più aspra che lodò “la scienza dell’orchestrazione”, “la meditazione e lo studio”, “il progresso immenso”.
La Sinfonia si presenta come una successione di brevi scene drammatiche che anticipano le fasi salienti del dramma, quali il tema del destino di Leonora, con il suo inciso affannoso, correlata dal tema del duetto tra Alvaro e Carlo il tutto unito con elaborazioni ardite e fuori dagli schemi all’onnipresente tema del Destino incombente e travolgente. I sei squilli iniziali che risuonano come una condanna definitiva e decisiva seducono e sgomentano l’ascoltatore. E tutto questo è stato ben reso dalla bacchetta del giovane maestro ungherese che ha trasfuso all’Orchestra del Teatro La Fenice, energia, colore infuocato e ritmo serrato.

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“L’inizio della fine”. Così definì Čajkovskij la sua Sinfonia n.5. La Sinfonia in mi minore di Pëtr Il’ič Čajkovskij, nata tra “indicibili pentimenti e fieri tormenti” nell’annus horribilis (almeno per il suo autore) 1888. Le quattro “fatali parole” le utilizza per primo, del resto, in una delle lettere indirizzate al surreale recapito della invisibile Madame von Meck, proprio l’ormai invecchiato, ma ancora fragilissimo “ragazzo di vetro” (per tornare alla felice invenzione letteraria di Nina Berberova). Pëtr, anzi, per una curiosa coincidenza, fa ricorso, per pronunciarle, proprio alla nobile lingua dell’avo Guillaume che viene così a interrompere il flusso automatico della lingua mater: “Con l’eccezione di Taneev che insiste testardamente nel dire che la Quinta Sinfonia è la migliore delle mie composizioni, tutti i miei sostenitori onesti e sinceri hanno maturato la convinzione che sia mediocre. Davvero, come si dice, mi sono esaurito? Davvero ha già avuto inizio le commencement de la fin?”. Un’autocritica spietata, abbastanza comune per altro tra le carte autobiografiche del compositore. Le scarne opinioni manifestate da Čajkovskij sulla più infelice delle sue sinfonie rivelano del resto un quadro clinico che uno psicoterapeuta, qualche anno più tardi, avrebbe potuto tranquillamente definire borderline, attraversato com’è da frequenti e ricorrenti pulsioni autodistruttive. Un breve sguardo allo sviluppo tematico dei singoli movimenti dovrebbe essere sufficiente a dimostrarlo. La prima apparizione del tema ciclico (un tema ciclico non dà necessariamente luogo a una sinfonia ciclica) avviene nelle primissime battute dell’Adagio iniziale: clarinetti, fagotti e archi gravi espongono il soggetto sul quale si sostiene l’intero edificio architettonico della sinfonia. E in questa forma il tema ha l’andamento lugubre e assorto di un corale o meglio l’incedere severo e inesorabile di una marcia processionale. È vero che poi l’Allegro con anima successivo allinea uno dopo l’altro ben tre temi diversi fortemente differenziati l’uno dall’altro e nessuno in stretta relazione con il tema ciclico. Ma ciascun soggetto viene esposto in modo secco, apodittico, come se si trattasse di altrettante sentenze, risolute e assertive, che non possono e non vogliono creare alcun tessuto tematico relazionale, alcuna artificiosa reciprocità. Tanto è vero che nessuno dei tre temi, nella sezione dello sviluppo, riceve una vera e propria elaborazione: tutti si limitano anzi a essere brutalmente accostati l’uno all’altro, senza nemmeno la presenza di episodi di transizione particolarmente sviluppati (ecco l’avarizia di materiali’di cui si lamenta Čajkovskij nella sua lettera). Una logica assai simile governa il movimento più riuscito, il vero e proprio centro gravitazionale della sinfonia, ossia l’Andante cantabile, con alcuna licenza: il corno disegna una melopea estesa e insistente, il cui codice è manifestamente ispirato alla retorica del patetico, e poi consegna il ductus tematico all’oboe che espone un motivo strettamente imparentato con il precedente. Il secondo soggetto viene a sua volta ripreso dagli archi che lo espandono poi a tutta l’orchestra. Al centro del movimento è il clarinetto a presentare il terzo e ultimo tema prima di essere sommerso dal ritorno fragoroso ed enfatico del tema ciclico consegnato prima al suono cerimoniale e glorioso delle trombe e poi a quello scuro e meditativo dei tromboni. Rispetto al movimento iniziale, dunque, la tecnica delle transizioni è radicalmente cambiata, e i temi invece di essere uniti l’uno all’altro secondo le regole del domino si intarsiano l’uno dentro l’altro con estrema naturalezza di respiro: ma le relazioni tematiche rimangono invariate e ciascun soggetto fa storia a sé, senza entrare minimamente in conflitto o in relazione con i temi fratelli.

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Anche lo Scherzo, in realtà un Allegro moderato in forma di valzer, non sfugge alla regola della più completa indipendenza tematica del materiale melodico: il tema ciclico giunge infatti a lambire i contorni del valzer soltanto nelle misure conclusive, questa volta senza alcuna pretesa retorica e cerimoniale, aggiungendo soltanto allo staccato insistente dei legni e degli archi una tinta lugubre e premonitrice che non assume quasi alcun deciso rilievo melodico. Al più rigoroso e asfissiante monotematismo è infine ispirato il solenne e tonitruante Finale: il tema ciclico è sostanzialmente trasformato in un possente corale in modo maggiore, ma l’apparenza non rende giustizia della metamorfosi e l’ostinato tematico sembra in realtà non subire eccessivi mutamenti, né di carattere ritmico, né di carattere melodico né di carattere timbrico e avanza travolgendo ogni ostacolo tematico per affermare solo e unicamente se stesso. La monumentalità, una volta di più, si riconferma come la manifestazione più compiuta di un devastante, anche se musicalissimo, principio egoico. La crisi psicologica e creativa del compositore sembra coincider anche con la fine delle grandi sinfonie di epoca romantica, con la loro morte simbolica. Come ogni apocalisse, comunque, la fine coincide perfettamente con un nuovo inizio: “Mon commencement est ma fin” recitava il divino Machault e aggiungeva: “Ma fin est mon commencement”… E la cris’ della Quinta è pronta a consegnare nelle mani di Gustav Mahler il compito di far rifiorire (per la terza volta) e poi di portare a nuova sepoltura il corpo sofferente, ma invincibile della “grosse romantische Symphonie”.
Questi sentimenti sono ben definiti dalla compagine veneziana e dal direttore, nel dialogo commosso e ben definito tra flauto, clarinetto ed oboe, nelle note sicure, tese e colme di suggestione degli strumenti ad archi, con personalità ben scolpita tra sezioni ed infine nel sostegno sicuro delle percussioni che scandiscono e scolpiscono i momenti più importanti e culminanti della Sinfonia. Una nota di merito a parte per la sezione degli ottoni, il corno e trombe dal suono preciso, con pennellate liriche e ricerca di fraseggio, nota comune a tutta la lettura di Nanasi. Il maestro ungherese sembra imprimere una nota di speranza, di positività al discorso musicale impresso e deciso dal sommo musicista russo. Quasi una volontà di trovare nella fine un nuovo inizio, una speranza che balena attraverso le tenebre.
Un concerto di qualità, del resto il teatro veneziano ci ha abituato, nonostante il periodo oscuro che ormai volge al termine, per nostra fortuna, ad uscire dalla sua meravigliosa sala soddisfatti e commossi.

Giuseppe Verdi
La forza del destino: Sinfonia
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64
Andante – Allegro con anima
Andante cantabile con alcuna licenza
Valse: Allegro moderato
Finale: Andante maestoso – Allegro vivace

HENRIK NANASI

Orchestra del Teatro La Fenice

Foto fornite dall’ufficio stampa del Teatro La Fenice