Spettacoli 2012
IL CAPPELLO DI PAGLIA DI FIRENZE [Lukas Franceschini] Rovigo, 14 gennaio 2012.
Il centenario della nascita di un compositore “contemporaneo” quale Nino Rota è passato quasi inosservato, in questa grave lacuna, fortunatamente, si è adoperato il Circuito Lombardo dell’Aslico con una produzione de Il cappello di paglia di Firenze che dopo il debutto a Como e le varie tappe a Cremona, Savona, Brescia e Pavia è arrivato a Rovigo nella cornice del piccolo Teatro Sociale.
Questo delizioso spartito nasce a Palermo nel 1955 autori del testo sono lo stesso Rota e sua madre, Ernesta Rinaldi, la fonte letteraria è una commedia di Eugène Labiche “Un chapeau de paille d’Italie”. Più che opera si tratta di farsa, con gags e situazioni divertenti che non scendono mai nella bieca comicità grossolana, ma s’identificano nel raffinato linguaggio dell’eleganza teatrale con un ritmo incalzante. Questo concetto è sviluppato con incredibile maestria da Rota attraverso una scrittura originalissima, moderna, brillante e volutamente ironica cui sono accostate citazioni da altre partiture. Il più celebre è il coro femminile delle sarte che ci rimanda a quello della wagneriana Olandese volante dell’atto II, ma tutta la partitura è costellata d’infinte citazioni, Dukas, Verdi ecc., le quali non sono fine se stesse, ma elaborate e sviluppate in nuova musica di singolare maestria ad opera del sornione e leggiadro compositore.
Sin dalla prima esecuzione il successo non venne meno al Cappello, pur non riuscendo ad entrare a pieno titolo come meriterebbe nel classico repertorio. Ancora una volta si può parlare di successo per questa nuova produzione, la cui parte predominante è costituita dall’allestimento curato da Elena Barbalich. La regista, spostando l’azione agli anni ’20, si adopera in maniera appropriata sui singoli personaggi e sulla narrazione della farsa senza mai perdere di vista il ritmo e vari colpi di scena, riuscendo alla perfezione in sinergia con l’ottima scena e gli eleganti costumi di Tommaso Lagattola, in una resa di altro livello, spassosa, intrigante, talvolta bizzarra (con qualche abbozzo al varietà), ma sempre garantita con un gusto d’ancienne théâtre.
L’orchestra Sinfonica di Sanremo, un complesso volenteroso ma con buoni mezzi che non sfigura nel circuito impegnato, era diretto con ottima finitura da Giovanni Di Stefano che sviluppa la partitura con slancio, sobrietà e brio ragguardevoli. Non demerita il Coro del Circuito Lombardo preparato da Antonio Greco.
Tutta la compagnia canora era omogenea e funzionale sia sotto il profilo vocale sia scenico. Tuttavia è doveroso porre un accento particolare sul protagonista Ferdinand, Leonardo Cortellazzi, che avevamo ascoltato all’Accademia del Teatro alla Scala nell’Occasione fa il ladro qualche mese addietro. Egli è un tenore di ottima finitura con prodezze tecniche di rilievo, efficace sia nel canto pastoso e romantico quanto in quello più incalzante e ritmato del ruolo brillante con voce ben proiettata, armoniosa e lucente. Elena era Manuela Cucuccio un soprano di buone qualità che pur nel ristretto ruolo mette in luce una vitalità appropriata. Spassoso e divertente il Nonancourt di Domenico Colajanni, esilarante la contessa di Marianna Vinci che vorremo sentire presto anche in altro repertorio. La moglie fedifraga Anaide era una simpatica ed appropriata Anna Maria Serra. Puntuali il Beaupertis di Filippo Fontana e lo zio Vazinet di Raoul D’Eramo. Successo trionfale e pienamente meritato.
IL VIAGGIO A REIMS [William Fratti] Firenze, 18 gennaio 2012.
Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino inaugura la Stagione 2012 con un nuovo – e all’apparenza costosissimo – allestimento de Il viaggio a Reims firmato da Marco Gandini che crea uno spettacolo di altissimo valore ed incredibile qualità, riuscendo forse per la prima volta dal 1984, anno della prima esecuzione moderna dell’ultima opera italiana del genio pesarese, a ricostruire filologicamente il contesto primario del libretto originale – l’Europa, oggi come ieri, con le sue tensioni e amicizie tra le Nazioni – pur distaccandosi dalla reale motivazione della sua composizione – l’incoronazione di Carlo X. E così l’Albergo del Giglio d’oro alle Terme di Plombières si trasforma in una modernissima spa con piscina, vasche, zone relax, area massaggi, spazio fitness; mentre i singoli personaggi restano ancorati a un’epoca senza tempo, come a sottolineare l’atemporalità delle problematiche del continente, dove si possono trovare frizzanti bohémien, piuttosto che severi militari o elegantissime signore in abito o tailleur.
Il lavoro di Gandini è fresco, giocoso, ma soprattutto intelligente, ben contestualizzato, studiato fin nei minimi particolari, perfetto nel sottolineare la validità contemporanea di quest’opera sublime. Le bellissime scene di Italo Grassi riproducono fedelissimamente l’interno di un centro benessere a cinque stelle, come pure gli splendidi costumi di Maurizio Millenotti contribuiscono come elemento primario alla quadratura del cerchio nella caratterizzazione dei personaggi, senza tralasciare l’ottima realizzazione del trucco e le valide luci di Marco Filibeck.
Il cast, di altissima qualità e levatura internazionale, è assolutamente ben amalgamato ed il denominatore comune è l’eleganza, per tutti quanti. Annunziata Vestri, Maddalena, apre l’opera con la giusta intensità vocale, apprezzata soprattutto in termini di proiezione ed appoggio. Gabriele Ribis, Don Prudenzio, prosegue l’introduzione con buon vigore, anche se, come la maggior parte dei suoi colleghi, tentenna fortemente sulla frase “ed è meglio d’abbondar”.
Eva Mei, già eccellente Folleville, qui si cimenta con Madama Cortese, l’eccentrica proprietaria del Giglio d’oro, dipinta come una simpaticissima padrona di casa che si sposta da una stanza all’altra trascinando la carrozzina su cui siede – forse per non stancarsi troppo nelle sue copiose faccende domestiche – coi propri piedi. La resa del personaggio è più che ottima, la tecnica vocale è precisissima come sempre, soprattutto nelle agilità e negli acuti; l’aria è impreziosita da interessanti variazioni. Purtroppo in alcuni momenti la voce scompare sotto il suono orchestrale, soprattutto in “Or state attenti, badate bene”.
Leah Partridge è una splendida Contessa di Folleville, resa frivola con la giusta misura, senza eccedere, affascinando il pubblico con un canto perfetto. Nel cantabile mostra una piacevolissima pastosità e pienezza di voce, con fiati lunghi e ben sostenuti, note acute ben salde e gravi non appesantiti, ma sonori e ben appoggiati. La cabaletta è interpretata magnificamente, arricchita di variazioni tutt’altro che semplici, ma ben inserite e amalgamate al contesto. Colorature e virtuosismi sono di altissimo livello.
Il complesso sestetto fra Eva Mei, Marianna Pizzolato, Lawrence Brownlee, Vincenzo Taormina, Marco Camastra e Bruno Praticò è reso in maniera straordinaria, anche grazie all’abilità del giovane Daniele Rustioni, che sa tenere saldo il comando, pur lasciando spazio agli interpreti di rendere colori e sfumature più personali in certi passaggi.
Il flautista Guy Eshed introduce con grande efficacia la scena di Lord Sidney, dove Michele Pertusi sfoggia le sue innate qualità di fraseggiatore, raffinato ed espressivo, tanto nel cantabile quanto nella cabaletta, eseguita ammollo nella piscina del Lys d’or. Il valore vocale dell’artista si fa sentire appieno anche nel quattordicimino, oltre che nella difficile “Dell’aurea pianta” la cui tessitura altissima lo mette per nulla in difficoltà.
Nel successivo duetto Yijie Shi si dimostra essere tenore rossiniano di alta levatura, con bel vibrato, buon uso delle agilità, facile e morbido passaggio all’acuto.
Marco Camastra sostituisce l’indisposto Bruno de Simone nella parte del buffo Don Profondo e lo fa con giusto e misurato vigore e voce sufficientemente brillante, anche se non eccessivamente luminosa.
Marianna Pizzolato e Lawrence Brownlee, nel lungo duetto a loro assegnato, rendono particolare onore allo straordinario numero musicale, presentando al pubblico fiorentino una vera e propria lezione di canto rossiniano. Piani e pianissimi sono più che raffinati, agilità e colorature sono di classe, il fraseggio è espressivo e la tecnica di canto è ineccepibile. Lo stesso valore si mantiene per entrambi gli artisti nei successivi brindisi tutt’altro che semplici, soprattutto per la polacca interpretata dalla Pizzolato.
Bruno Praticò veste i panni di un divertentissimo ed efficace Barone di Trombonok, anche se musicalmente non è più un maestro di precisione. Molto buono resta il recitativo.
Vincenzo Taormina è un valente ed aitante Don Alvaro, ben adeguato nel personaggio, forse un po’ opaco nella vocalità.
Auxiliadora Toledano è una Corinna soave e angelica, molto musicale ed abile nei piani e nei filati delle due lunghe arie, anche se dalla protagonista di un’opera con un cast di tale livello ci si sarebbe aspettati qualcosa di più. Durante “All’ombra amena” è accompagnata sul palcoscenico da Susanna Bertuccioli all’arpa, perfetta nell’esecuzione dello spartito, ma davvero inappropriata nell’appoggiare al leggio la propria borsetta. Forse al Comunale mancano gli armadietti o i sorveglianti?
Completano la rosa degli artisti Enrico Cossutta – Don Luigino, Gabriella Cecchi – Delia, Silvia Mazzoni – Modestina, Mario Bolognesi – Zefirino, Giovanni Bellavia – Antonio, Saverio Bambi – Gelsomino.
Daniele Rustioni, sul podio dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, legge ed esegue con grande equilibrio e profonda eleganza le lunghe pagine della magnifica partitura, con un’omogeneità e un amalgama davvero invidiabili. È preciso nel gesto e vigoroso nell’azione musicale, ma sempre attento a lasciare il giusto spazio agli eccellenti solisti. Buona la prova di Andrea Severi al fortepiano e del Coro diretto da Piero Monti.
TURANDOT [Lukas Franceschini] Bologna, 19 gennaio 2012.
Saggia la decisione del Teatro Comunale di aprire la stagione 2012 con un allestimento non nuovo ma già collaudato, considerati i tempi di recessione e rifuggendo da altezzose posizioni di protagonismo, si dimostra che è possibile fare teatro lirico anche con oculatezza economica. Turandot di Giacomo Puccini ritorna nel teatro del Bibiena dopo tredici anni dall’ultima edizione.
Turandot è l’ultima opera, incompiuta, del compositore toscano il quale s’ispirò ad una favola di Carlo Gozzi, librettisti furono Renato Simoni e Giuseppe Adami. Le vicende di quest’incompiuta sono assai note, e credo tutti sappiano che Puccini completò l’opera sino alla scena della morte di Liù. Il finale terzo restò abbozzato e fu completato da Franco Alfano su incarico di Arturo Toscanini che ne diresse la prima assoluta alla Scala nel 1926. Sappiamo anche che Toscanini bocciò la prima versione di Alfano perché la riteneva troppo personalizzata e chiese un finale breve il quale doveva essere “molto pucciniano” nella forma e nella sostanza, atte a chiudere la drammaturgia dell’opera con il lieto fine. La seconda versione fu quella adottata da Toscanini dalla seconda recita e poi usata in tutte le altre esecuzioni di Turandot. Da qualche tempo è iniziata la prassi di non eseguire il finale perché non composto da Puccini. Trovo sia sbagliato e sotto taluno aspetto illogico poiché rende l’opera mutilata nella sua drammaturgia e pur nella considerazione che non è musica dell’autore, non credo si faccia nessun torto a questi eseguendo un finale che egli non fu in grado di completare causa la grave malattia che in breve gli avrebbe precluso la vita terrena.
Anche a Bologna l’opera è stata eseguita escludendo l’ultima scena ma per motivi ben più complicati che mi limiterò a sintetizzare. L’allestimento con la regia di Roberto De Simone è stato creato per la Fondazione Petruzzelli di Bari nel 2009 e per tale realizzazione il M.o De Simone ha composto un nuovo finale sia musicale sia poetico, il quale non fu possibile eseguire per il divieto di Casa Ricordi e degli eredi Puccini i quali detengono i diritti sul melodramma fino al 2024. Pertanto la prevista “nuova” versione di Turandot a Bari non fu realizzata e di conseguenza anche lo spettacolo fu creato eliminando il finale. Tale prassi è stata adottata anche a Bologna. Nel programma di sala abbiamo letto un’interessante intervista curata da Giovanni Gavazzeni a De Simone, il quale ci spiega i motivi, che condividiamo quasi totalmente, per cui l’opera abbisognerebbe di una nuova stesura con una drammaturgia articolata e sviluppata in maniera più cospicua il cui testo è allegato in appendice al volume.
Sul podio del Comunale bolognese è salito Fabio Mastrangelo un direttore preciso e diligente cui non manca fantasia e coesione di concertazione. La sua lettura era precisa, vibrante e compatta nelle varie sezioni, peccato non sia stato in grado di trattenere le sonorità che spesso risultavano eccessive prevaricando le voci.
Tamara Mancini, soprano statunitense, era una gelida principessa con buona dizione e mezzi anche appropriati ma il registro acuto sfociava spesso in asperità sonore di pessimo effetto. Al contrario di Yonghoon Lee ha tutte le carte in regola per essere un ottimo Calaf. Il tenore coreano dimostrava un’ottima tenuta nel corso della recita, con appropriate sfumature realizzate con vocalità seducente e salda. Karah Son dopo un inizio leggermente in sordina, forse dovuto all’emotività, acquisiva sicurezza e riusciva ad emergere in maniera convincente. Di solida professionalità il Timur di Alessandro Guerzoni, mentre le tre maschere, Marcello Rossiello, Stefano Pisani e Mario Alves, erano ben assortite realizzando in particolare il terzetto del II atto in maniera encomiabile. L’impegno del Coro del Teatro Comunale di Bolgona è stato di grande rilievo.
Lo spettacolo di Roberto De Simone, pur nella tradizione della scena egualmente bellissima ed imponente, si sviluppava in una lettura molto analitica soprattutto sul clima che era reso molto meno fiabesco di quanto solitamente convenuto. Nella città imperiale regna un clima arcaico e conservatore e le vicissitudini della principessa abusata dai tartari rendono Turandot “schiava” della sua antenata e vendicativa nei confronti dei probabili pretendenti. Lei è attorniata da una corte visualizzata meravigliosamente dall’esercito dei Ming, una corte statuaria e fredda. Sarà il sacrificio di Liù, poi deposta nella stessa tomba di Lo-u-Ling, a riscattare la protagonista verso un amore che fino a quel momento credeva impossibile. Un’espressiva realizzazione ove non manca il folklore asiatico, non da cartolina fine se stesso, ma ben realizzato in cambi scena efficaci e resi memorabili da una scenografia maestosa di Nicola Rubertelli con il contributo degli straordinari costumi creati da Odette Nicoletti. Il pubblico ha decretato all’intera produzione un successo pieno e convinto, facendo capire con l’applausometro di aver gradito particolarmente le prestazioni di Calaf e Liù.
IL VIAGGIO A REIMS [Lukas Franceschini] Firenze, 20 gennaio 2012.
Il Viaggio a Reims di Gioachino Rossini è quella grande “festa musicale” che segnò nell’800 l’incoronazione di un Re di Francia e nel ‘900 lo zenit della Rossini-Renaissance al Rossini Opera Festival nel 1984. Lo spartito si credeva perduto e tornò alla luce casualmente, a spezzoni, dal 1976. La cronaca di questa vicenda è stata più volte descritta da un emerito musicologo quale Philip Gossett e non mi dilungherò ulteriormente. E’ opportuno invece rilevare, sull’opera, peculiarità uniche se non eccezionali che ad esempio prevede l’impiego di ben dieci protagonisti oltre ad altre parti secondarie. Poiché fu una cantata “unica” e lo stesso compositore la ritenne non rappresentabile in seguito, al tempo fu scritturato il “gotha” del belcanto parigino. Quando fu eseguita in prima moderna a Pesaro per mesi e mesi ci furono notizie discordanti circa la distribuzione dei ruoli. Oggi sappiamo quali furono e con rare eccezioni possiamo affermare che fu convocato il top del tempo, parallelamente dobbiamo anche riconoscere, con il senno di poi, che lo spettacolo di Luca Ronconi fu uno degli avvenimenti più strepitosi della fine del secolo scorso, caratterizzati da prolifiche ed entusiasmanti riscoperte.
Dopo il 1984 Il viaggio a Reims intraprese un cammino lento ma allo stesso tempo esaltante: Milano, Vienna, Tokio, Ferrara, ancora Pesaro, Berlino, con la maggior parte degli interpreti iniziali e sempre con Claudio Abbado sul podio che fu l’artefice della riesumazione dell’opera. All’estero, in seguito, furono allestite altre produzioni dell’opera ma in Italia fu sempre utilizzata quella iniziale Ronconi-Aulenti.
Oggi la Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino produce per la prima volta un nuovo allestimento de Il viaggio a Reims affidato al regista Marco Gandini, allo scenografo Italo Grassi, al costumista Maurizio Millenotti ed è comprensibile che dopo il successo precedente era abbastanza difficile creare qualcosa di nuovo e di convincente in un’opera identificata così profondamente da uno spettacolo. La fantasia di Gandini invece ci propone una diversa versione di ottimo livello e con uno spirito drammaturgico aggiornato di forte impatto. La vicenda è ambientata in un centro benessere negli anni ’60, struttura moderna di grande impatto scenografico (con tanto di piscina) nel quale gravitano in attesa di andare all’incoronazione i protagonisti, i quali sono identificati nella loro nazionalità, si divertono, si ritemprano ed amoreggiano, con ampi riferimenti all’attuale situazione odierna di un’Europa allargata e non divisa come nel 1825. I colori sono predominanti in questo spettacolo che è brioso e anche vivace, nella seconda parte i palloni colorati come le bandiere dell’Europa fanno la vece della compagnia di teatranti ambulanti in una coreografia appropriata. I solisti canori dopo gli inni mettono una stella sulla mappa europea appesa ad una parete e la chiave di lettura potrebbe essere la futura unità del continente oggi messa in discussione. Lo spettacolo funziona, senza fuochi d’artificio, anche se sarebbe stata auspicabile una maggiore focalizzazione dei personaggi ed è incomprensibile il perché Madama Cortese giri per tutta l’opera su una carrozzina a rotelle movimentata da se stessa con le gambe, l’acconciatura farebbe pensare a Joan Crawford nel celebre film Che fine ha fatto Baby Jane?, ma il nesso con l’opera è inesistente. I costumi erano molto vivaci e di ottima finitura ma in qualche caso non appropriati al fisico di chi li doveva indossare questione che un costumista avrebbe dovuto risolvere con maggiore estetica.
Sul versante musicale abbiamo ritrovato con piacere il giovane direttore Daniele Rustioni il quale concertava con precisione e perizia tecnica di rilievo, mantenendo un buon rapporto orchestra-palcoscenico, il suono era pulitissimo e compatto, talvolta magari con tempi lenti (forse per venie in soccorso a taluni cantanti) ma non ha ancora dalla sua quel brio e quella vivacità intuitiva adatti a questo tipo di spartito.
I solisti s’impegnavano con professionalità ma non rivestivano la caratteristica di fuoriclasse peculiarità fondamentale per questo tipo di opera. Auxiliadora Toledano era un’efficace Corinna ispirata e musicale, di Marinna Pizzolato si ammirano lo smalto vocale e la precisione nel virtuosismo anche se nel repertorio buffo rossiniano non raggiunge i risultati ottenuti in quello serio, ovviamente solo per identificazione con il personaggio. La Folleville di Leah Partridge era imprecisa, greve, poco rifinita e con gravi problemi nel settore acuto, Eva Mei in possesso di molte frecce nel settore acuto interpretava una Cortese efficace e brillante ma sarebbe stato più opportuno, considerate le caratteristiche delle signore, invertire i ruoli.
Yijie Shi è un discreto tenore molto ispirato e di ottime intenzioni peccato troppo linfatico ma è sfumato, al contrario di Lawrence Brownlee che possiede mezzi più autorevoli, ma il gusto e il fraseggio non sono nelle sue corde. Mirco Palazzi si cimenta nella terribile aria di Lord Sidney con impegno, generosità e anche in buona riuscita ma il virtuosismo finale del lungo brano lo mette un po’ alle corde. Marco Camastra si disimpegna con onore nel ruolo di Don Profondo avendo l’intelligenza di non imitare Raimondi; di Bruno Praticò non possiamo che registrare la pregevole presenza teatrale perché vocalmente ormai molto compromesso, ma rende un personaggio spassoso e sornione, Vincenzo Taromina avrebbe verve ed intenzioni ottime ma riesce in una discreta prestazione per mezzi limitati.
Nelle parti secondarie segnaliamo la Maddalena corretta di Annunziata Vestri e l’onesto Prudenzio di Gabirele Ribis. Ottime le prestazioni dei solisti in orchestra: l’arpa di Susanna Bertuccioli e il flauto di Guy Eshed. Bizzarra ed inconsistente la decisione di eseguire l’intervallo dopo l’aria “Medaglie incomparabili” che va a colpire pesantemente la pur deficitaria drammaturgia. Successo al termine ma erano molto preoccupanti i vasti spazi vuoti in teatro soprattutto per un’opera come Il viaggio a Reims.
LES CONTES D’HOFFMAN [Lukas Franceschini] Milano, 24 gennaio 2012.
La seconda opera in cartellone al Teatro alla Scala è stata Les contes d’Hoffman di Jacques Offenbach, che mancava dalla sala milanese dal 1995, nell’allestimento ideato dieci anni or sono da Robert Carsen per l’Opera di Parigi.
Io non vorrei essere ripetitivo e monocorde ma anche in questo caso si è sprecata l’occasione di recuperare un altro spettacolo, di Alfredo Arias, utilizzato una sola volta e poi chissà dove localizzato. Ogni qualvolta si va ad ascoltare Les contes non si sa mai quale musica sarà utilizzata, non mi dilungo sulla genesi dell’opera, è risaputo che esistono diverse, molteplici e confuse versioni perché l’opera fu continuamente rielaborata dal compositore ed ebbe la prima esecuzione dopo la morte di questi. Fu completata da Ernest Giraud, cui seguirono altre versioni comprese quelle degli anni ’70 dopo il ritrovamento di manoscritti originali in possesso degli eredi Offenbach. Elvio Giudici ha stilato una sintesi accurata nella prefazione del suo libro “L’opera in Cd e Dvd”.
Lo spettacolo allestito alla Scala fu creato da Carsen per Parigi nel 2000 ove fu scelta la versione Choudens, con gli inserti dell’edizione Oeser e l’interpolazione di due dei numeri più famosi: l’aria “Scintille diamant” e il Settimino, che furono composti da André Bloch per l’edizione di Montecarlo del 1904, pertanto anche nell’odierna ripresa sono state proposte a tali scelte.
La regia di Robert Carsen è di grande valore e mi si permetta di dire notevolmente superiore al Don Giovanni inaugurale. Coadiuvato dallo scenografo e costumista Michael Levine, egli tratteggia con gusto ed inventiva le vicende del poeta Hoffmann senza adattarsi sulla tradizione fantastica ma entrando in maniera introspettiva nell’animo e nella psicologia dei personaggi. Hoffmann è un poeta idealista ma molto propenso al bicchiere, un protagonista giustamente posto in controluce alle sue debolezze, le sue storie d’amore fallimentari sono il simbolo della sua sconfitta, e non a caso le donne indossano tutte un abito bianco (ma perché far indossare ad Antonia quell’orribile camicione) vincolo di continuità o appartenenza similare. Diversamente il Male (Lindorf, Coppelius, Dappertutto, Dottor Miracle) cambia abito ad ogni scena, tangibile segno che questi si trasforma e riappare in molteplici sembianze. La drammaturgia sconnessa di suo è resa efficacissima da una recitazione esemplare e da quattro scene di spettacolare impatto visivo: un lungo bancone per la taverna nel prologo e nell’epilogo, una sorta di laboratorio medico per l’atto di Olympia e una buca d’orchestra per l’atto di Antonia e una platea teatrale (quella del Palais Garnier) per l’atto di Giulietta. Carsen sviluppa tutte le sfumature possibili per illustrare, senza sconti, i diversi vizi e debolezze di una società piuttosto sorda e cinica, posando sullo stesso piano allegria e disperazione.
Il versante musicale non è stato all’altezza di quello tecnico a cominciare dalla svogliata bacchetta di Marko Letonja che sconfinava sovente nella routine più clamorosa senza enfasi e brio. L’orchestra da par suo, come anche il coro, erano sempre di livello ma le direttive deludevano.
Ramon Vargas avrebbe tutti i numeri per essere un Hoffmann di riferimento, la voce è bella, la recitazione esemplare, fraseggia con gusto ed è credibile, purtroppo ha perso tutto lo spessore che possedeva nel settore acuto, nelle poche occasioni che l’ha tentato risultava limitato e sfogato, e questo grava pesantemente sulla resa complessiva.
Rachele Gilmore possiede qualche nota vorticosa e null’altro, mancava l’aplomb e lo stile della fuoriclasse, pur non sfigurando scenicamente impersonando la bambola per antonomasia ovvero Barbie. Genia Kuhmeier era un’Antonia sfuocata e con qualche problema di modulazione, Veronica Simeoni incantava per bellezza vocale ed affascinante temperamento nel ruolo di Giulietta.
Di Laurent Naouri ho apprezzato più l’interprete che il cantante, tuttavia è morbido e sfumato e riesce a superare la prova dei quattro ruoli. Scadente la Musa di Ekaterina Gubacova volgare scenicamente e sfasata nei registri. Emergeva per stile e proprietà canore Carlo Bosi, William Shimell cesellava due camei a tutto tondo: Crespel e Luther.
AIDA [William Fratti] Parma, 25, 29 gennaio, 8 febbraio 2012.
L’allestimento di Aida ideato da Alberto Fassini per il Festival Verdi 2005, tra quelli classici e tradizionali, è forse il più bello che attualmente è in circolazione, ma proprio per questo andrebbe rivisitato, per eliminare definitivamente quelle falle che ancora possiede il larga misura.
Le imponenti e maestose scenografie di Mauro Carosi hanno un gradevolissimo impatto, sono molto suggestive ed efficienti nonostante la mole; purtroppo già in secondo atto si esauriscono le diverse modalità con cui muovere il possente colonnato, pertanto quelli successivi diventano scenicamente monotoni e soprattutto viene a mancare la necessaria ariosità e ampiezza di spazio che necessiterebbe l’ambientazione notturna sulle rive del Nilo. I costumi, sempre di Carosi, sono sfortunatamente in gran parte sbagliati, innanzitutto per l’utilizzo massiccio di stoffe molto pesanti come i velluti, certamente non necessari per il clima dell’Egitto. Inoltre le ancelle di Amneris, vestite da straccione, sono davvero spregevoli e di cattivo gusto. Le coreografie di Marta Ferri sono da riguardare, poiché la prima è veramente banale e fin troppo simile a quella di Luc Bouy ed eseguita da Carla Fracci nello spettacolo bussetano firmato da Franco Zeffirelli; la seconda è seriamente ridicola; la terza forse è la più gradevole, ma si può fare di meglio. Inoltre il corpo di ballo è parecchio mediocre. La regia di Joseph Franconi Lee è invece abbastanza moderata e le luci di Guido Levi sono veramente affascinanti, anche se in alcuni momenti sarebbe stato preferibile l’utilizzo dei toni freddi, anziché dei caldi.
Se la validità e l’alto livello qualitativo dello spettacolo, nonostante i vari punti di critica, non viene messa in dubbio, il lato musicale è invece in caduta libera e porta il Teatro Regio di Parma ai suoi minimi storici, come già accaduto nell’anno fatidico del Centenario Verdiano del 2001. Antonino Fogliani, pur vantando un curriculum di levatura internazionale, aveva già infastidito il pubblico locale con una direzione molto opinabile di Maria Stuarda a Piacenza. Ora, con Aida, non solo è poco espressivo nel suono e nei cromatismi – anche se gli va riconosciuta una certa intensità in alcune pagine – ma sembra essere il colpevole di numerose inciampate di coro e cantanti. In effetti, per la prima volta dopo oltre un decennio, l’affiatato e pluripremiato gruppo guidato da Martino Faggiani si trova in difficoltà, molto presumibilmente senza averne alcuna colpa, soprattutto nella ripresa di “Gloria all’Egitto” dopo le danze. Le trombe egizie non sono troppo precise durante il trionfo e neppure gli ottoni in buca lo sono durante la scena del processo. Il direttore compie un vero e proprio scempio di tutto il secondo quadro di secondo atto e al termine di alcune recite si odono arrivare dal loggione degli improperi a lui rivolti.
Durante la prova generale di mercoledì 25 gennaio Susanna Branchini si è cimentata con un’Aida molto intensa nel personaggio – forse troppo – e ha dimostrato di avere superato alcuni limiti vocali, soprattutto nel miglioramento dell’intonazione. Purtroppo colori e cromatismi, pianissimi e raffinatezza di fraseggio restano ancora assenti dalla sua performance. La sua bellezza certamente abbaglia il pubblico e stranamente viene graziata al termine della prima del 27 gennaio, dopo una lunga serie di disapprovazioni che hanno colpito i suoi colleghi, primo fra tutti il Radamès di Walter Fraccaro, che è indubbiamente dotato di voce, ma continua a mancare di eleganza, di finezze e di accento. La sua esecuzione potrebbe piacere ad una platea desiderosa di molto volume, ma non è ciò a cui Parma anela e le contestazioni si levano a dismisura.
Mariana Pentcheva si trova in gravi difficoltà e c’è da sperare che si tratti di un malessere passeggero. Purtroppo la voce perde costantemente di fermezza e gli acuti sono seriamente compromessi; “Vieni, amor mio” è alquanto imbarazzante. Non è comprensibile come mai l’artista abbia accettato di continuare a cantare in tutte le serate nonostante le sue condizioni vocali.
Alberto Gazale può davvero essere considerato il solo cantante verdiano di tutta la produzione, espressivo nel fraseggio, chiaro nelle intenzioni, intenso nel personaggio, dotato di voce dai giusti accenti, abile nel legato e nei fiati. Durante il duetto con Aida è sinceramente emozionante.
Giovanni Battista Parodi non è propriamente a suo agio nel ruolo di Ramfis, ma porta a casa la pelle.
Domenica 29 gennaio il ruolo di Aida è interpretato da Tiziana Caruso, che mostra fin dalle prime pagine di possedere un volume non indifferente, purtroppo spesso rasente l’urlo e soprattutto poco raffinato. Il timbro è piacevolmente scuro, ma se fosse ingentilito da più cura nei piani – pressoché assenti – e più ricercatezza di colori – ben poco presenti – sarebbe certamente meglio.
Ji Myung Hoon e Junhua Hao, Radamès e Amneris, sembrano cantare alla recita del conservatorio, talvolta privi di volume, talaltra barcollanti nell’intonazione, spesso imprecisi e secchi. È davvero vergognoso che la sovrintendenza li abbia piazzati in una recita senza nemmeno preoccuparsi della loro preparazione. Non va meglio a George Andguladze, lontano anni luce dal poter impersonare con credibilità il capo dei sacerdoti; le note gravi sono pressoché inudibili.
Invece è molto buona la prova di Vittorio Vitelli nei panni di Amonasro, dotato di un buono squillo e davvero incisivo nella resa del personaggio.
Mercoledì 8 febbraio il ruolo di Radamès è impersonato da Hector Sandoval che va premiato per la modalità con cui ha cercato di portare in scena una certa dose di colori e accenti, ma non possiede le giuste qualità, soprattutto in termini di consistenza e di peso vocale, per poter interpretare al meglio questo personaggio verdiano.
Infine, Carlo Malinverno nelle vesta del Re e Cosimo Vassallo nei panni del messaggero non possiedono assolutamente lo spessore necessario ai rispettivi ruoli; è solo possibile determinare la loro correttezza nel canto. Al contrario Yu Guanqun è una sacerdotessa con tutti i santi crismi e dimostra chiaramente di non aver perso strada, anzi, di averne guadagnata, da Il trovatore dello scorso ottobre. Dopo questo disastro cosa accadrà a Stiffelio? Ma soprattutto molti si domandano cosa accadrà a Otello.
LOU SALOMÉ [Lukas Franceschini] Venezia, 26 gennaio 2012.
La Fenice inaugurando la Stagione Lirica 2012 ha voluto commemorare il suo illustre concittadino Giuseppe Sinopoli, nel decennale della scomparsa, allestendo la sua unica opera Lou Salomé nel trentennale della prima e unica rappresentazione al Nationaltheater di Monaco di Baviera (10 maggio 1981).
Sarebbe improprio definire Giuseppe Sinopoli sommo direttore d’orchestra, tuttavia fu l’attività per la quale divenne celebre a livello internazionale e con risultati eccezionali. Sinopoli fu un vero e proprio intellettuale completo cui si sommano lauree in medicina e archeologia, letterato (nel 1992 pubblica il romanzo “Parsifal a Venezia”), compositore e ovviamente direttore d’orchestra. I suoi studi musicali iniziano al conservatorio di Venezia verso la fine degli anni ’60, proseguono, dopo aver conosciuto Bruno Maderna, a Darmmstadt dove fonda il Bruno Maderna Ensemble, conosce Franco Donatoni che influenzerà tutto il suo percorso musicale senza però diventarne docente. Sinopoli è essenzialmente attratto dalla musica contemporanea e parteciperà più volte alla Biennale Musica di Venezia con suoi lavori fin dagli anni ’70, ma sarà un Macbeth di Verdi alla Duetsche Oper di Berlino nel 1980 ad elevarlo a fama internazionale come direttore. I suoi autori prediletti sono Verdi, Puccini, Wagner, Strauss e Berg, sarà il primo italiano a dirigere il Ring al Festival di Bayreuth.
Fu August Everding nel 1976 a commissionare a Sinopoli un’opera per il Teatro di Monaco, incarico che il compositore accettò con qualche titubanza. Egli stava studiando Sigmund Freud e Daniel Paul Schreber per un altro progetto operistico che poi accantonò, e fu durante questi studi che “conobbe” la figura della scrittrice e psicanalista Lou Andreas-Salomé (1861 -1937) che fu collaboratrice dello stesso Freud. Sinopoli seguì il suo istinto e si gettò a capofitto nella personalità della donna, la quale visse in un periodo di grande evoluzione nel campo dello studio della mente, e assieme al poeta Karl Dietrich Grawe estrasse questo particolare soggetto dal “Liebensruckblick” della stessa Salomé.
L’opera, come cita giustamente Mario Messinis, è il culmine delle speculazioni teologiche e filosofiche dell’autore ove i personaggi sono costruiti su citazioni di poeti e filosofi e il dramma è caratterizzato da una drammaturgia simbolica e antinaturalistica. Non sii tratta di una narrazione continua ma di un teatro dei ricordi a compartimenti stagni che la protagonista giunta al termine della sua vita “visiona” in una forma di remake. La vicenda inizia nel 1861, anno della sua nascita nell’Impero zarista retrogrado che solo in quella data emana la legge della liberazione dei servi della gleba. E’ di quel periodo il ricordo del primo amore, il pastore Hendrick Gillot, che le dischiude il mondo dello spirito. Si trasferisce poi in Svizzera e qui gli incontri sono trai i più affascinanti: Nietzsche, Rilke, Andreas e Paul Ree, persone che influenzeranno la sua vita, il suo modo di vivere, la sua mente, il suo spirito, l’incapacità di mare, la ricerca di Dio, saranno questioni contorte dagli sviluppi psicoanalitici continuamente in contraddizione ed evasivi. Tema principale è il rapporto tra amore e morte (come affermato dallo stesso compositore) ma analizzato nella concezione di Nietzsche conferendo alla morte una forma elevata d’amore e viceversa. Ovvio che i raffronti con il Tristan und Isolde sono impliciti ma è proprio la slegatura da Wagner che differenzia Sinopoli. Egli rivive e rappresenta soprattutto i miti del mondo mitteleuropeo a cavallo dei secoli XIX e XX, anni di grandi evoluzioni filosofiche e mediche soprattutto della mente.
Eccellente produzione quella realizzata dal trio Luca Ronconi-Franco Ripa di Meana-Magherita Palli, tutors degli studenti dello IUAV Facoltà delle Arti di Venezia, creando uno spettacolo “nel teatro” utilizzando la platea quale palcoscenico e collocando l’orchestra nell’originale. Poltrone disposte a cerchio, stile anfiteatro greco, nel quale un eccellente cast, cui non si sa se apprezzare più il canto o la recitazione, ha dato luogo alle vicende della leggendaria protagonista. Tutto misurato e vissuto in un vissuto di altissimo teatro cui la musica geniale, dodecafonica, ma non solo, dello straordinario Sinopoli sviluppa tematiche così intense, partecipate ed esasperate con accenti mirabili. Prevale il teatro che vive senza limiti e spazi predefiniti i ricordi tableaux della drammaturgia.
Ancora una volta lodiamo la presenza del direttore Lothar Zagrosek autorevole concertatore disciplinato e preciso seguito nel gesto da un’orchestra in ottima forma.
Angeles Blancas Gulin è una Lou Salomé di forte temperamento, voce seducente, accenti e fraseggio encomiabili, la quale al termine ottiene un meritatissimo trionfo, assieme a tutto un cast d’incredibile sinergia, comunicativa e omogeneità: Giorgia Stahl, Claudio Puglisi, Gian Luca Pasolini, Matthias Schulz, Roberto Abbondanza, Julie Lellor, Marcello Nardis, Alessandro Bressanello.
PAGLIACCI [Lukas Franceschini] Verona, 27 gennaio 2012.
Al Filarmonico di Verona, per la stagione Invernale della Fondazione Arena, è stata rappresentata l’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo in una produzione firmata Franco Zeffirelli.
Pagliacci è il “manifesto” del verismo musicale italiano, cui va associata Cavalleria rusticana di poco precedente e per molto tempo rappresentati in coppia. Saranno i tempi, infelici economicamente, ma stavolta Pagliacci soni soli pertanto un’opera di circa settanta minuti (con un incredibile intervallo di trentacinque) a Verona “fa serata”.
La vicenda è un fatto realmente accaduto nell’ottocento cui il compositore ebbe un ricordo forte poiché il padre, magistrato, condannò in seguito l’omicida. Nessuna musica è riuscita a penetrare in maniera così efficace il mondo dei clown come quella di Leoncavallo, un mondo sovente di miseria la cui finzione riduce in parte lo squallore. La melodia esprime i sentimenti non estranei a tutti gli individui ma de dissonanze sonore dello spartito rilevano che tale vita errabonda e fatta di ristrettezze possa calpestare affetti e buone maniere. La malvagità di Tonio, il tenue tratto di Nedda, e l’irruente protagonista, Canio, sono personaggi scolpiti nella loro personalità. È vero sono figure non nuove al melodramma ma qui ritratte in nuove vesti e soprattutto con nuovi colori musicali.
Franco Zeffirelli, che firma sia la regia sia le scene, ambienta l’opera in una non identificabile epoca del secondo dopoguerra italiano. Sul palcoscenico ci troviamo in una periferia con tanto di edificio popolare a ringhiera in costruzione, probabilmente abusivo, qualche piccolo negozio e un bar a chiosco improvvisato. Ecco dunque il degrado suburbano forse di una grande città ove c’è poco o nulla di bello ma tanta povertà e consunzione. La chiave di lettura è esemplare e di grande effetto, la realizzazione molto meno perché Zeffirelli sovrabbonda il palcoscenico di comparse, mimi, giocolieri, animali, fino all’impossibile. Vi troviamo marinai, poliziotti, prostitute, travestiti, sposi appena usciti dalla chiesa e chi più ne può pensare ne aggiunga. Questa sua pagliacci vr_3peculiarità l’avevamo già affermata in Carmen all’Arena ma in quel caso era scusato per i grandi spazi dell’anfiteatro da riempire, nel caso di una rappresentazione al chiuso serviva molto meno. L’entrata della carovana dei clown era preceduta da continue piroette di acrobati che rasentava l’assurdo, perché sembrava arrivasse la famiglia Orfei al completo. Sappiamo invece che i nostri poveri protagonisti poco o nulla hanno, sono quattro e s’identificano in quei saltimbanchi erranti che si potevano vedere fino nel primo dopoguerra. Sempre alla ricerca dell’effetto Zeffirelli aggiunge situazioni che vanno completamente fuori dalla logica, come il presunto bambino di Nedda al quale lei fa il bagno in un catino durante la scena con Tonio, oppure il duetto d’amore con Silvio che termina con un tentativo di amplesso in piena piazza quando invece dovrebbe essere un incontro furtivo, nascosto. Spezzare lo spettacolo con un intervallo è un’altra trovata poco efficace perche s’interrompe la drammaturgia di un’opera sintesi già di suo e ridotta all’osso, poi l’impianto del secondo atto con tanto di cartelloni che cambiano la scena certo non concorda con le ristrettezze degli artisti di strada. I costumi di Raimonda Caetani sono molto belli ma troppo ispirati a stilisti anni ’60 che sicuramente quella gente non poteva certo permettersi. Poco efficace il lavoro sulle luci.
Julian Kovatchev dirigeva con poco entusiasmo e scarsa aderenza, ora troppo forte ora troppo piano, guardando più all’effetto che al contenuto dello spartito. Mancava una linea coerente di narrazione e sono state perse molte occasioni di grande struttura melodica (duetto Nedda-Silvio) e di ampio respiro (Intermezzo).
La compagnia di canto non ha sfigurato ma era ben lungi da qualcosa di veramente apprezzabile. Il Canio di Rubens Pelizzari era solido e preciso, però non chiedetegli un accento, una sfumatura, un colore, sono termini che non compaiono nel suo vocabolario. Mediocre la Nedda di Amarilli Nizza caratterizzata da un canto sfuocato e spesso con problemi d’intonazione. Alberto Mastromarino, Tonio, sarebbe l’unico con le carte in regola, crea un personaggio credibile e di consumato mestiere, peccato che i passaggi sul registro acuto siano sempre il suo tallone d’Achille. Bravo il Peppe di Paolo Antognetti rifinito e con bella vocalità, cosa che non si può affermare per il Silvio di Devid Cecconi dalla voce ingolata, poco sensuale e non credibile scenicamente. Sufficiente la prestazione del coro, non sempre calibrato.
Al termine il pubblico, il quale finalmente gremiva la platea del Filarmonico ha tributato un caloroso successo a tutta la compagnia e un autentico trionfo con standing-ovation alla comparsa del regista.
ELEKTRA [William Fratti] Piacenza, 4 febbraio 2012.
Fortunatamente, dopo lo scempio de I Lombardi, il Teatro Municipale di Piacenza ritorna alla qualità con la nuova produzione di Salome firmata da Manfred Schweigkofler. La fortunata collaborazione con il Teatro Comunale di Bolzano aveva già contribuito alla costruzione di una validissima edizione di Elektra, sempre in coproduzione con il Teatro Comunale di Modena, come pure all’approdo sul palcoscenico piacentino dell’allestimento di Roméo et Juliette ideato per l’Opera Company di Philadelphia, pertanto ci si augura che tale connubio perduri lungamente nel tempo.
Il regista altoatesino, coadiuvato da Franz Braun, si avvale di un impianto simile a quello di Elektra, moderno, attuale, decisamente all’avanguardia, che per la vicinanza e le similitudini tra i due capolavori si adatta perfettamente a entrambi e l’effetto che ne deriva è sempre di alto impatto emotivo. Nella scenografia immaginaria, surreale e altamente suggestiva di Walter Schütze, costruita in proscenio e sapientemente illuminata dalle luci di Claudio Schmid, compaiono i simboli del dramma di Wilde, dalla luna alla luce argentea che questa riflette, nonché gli emblemi di un potentato in decadenza, gli stessi che identificano e hanno identificato le dittature di sempre, fatte di specchi di brame e desideri, scale che conducono al nulla dei castelli in aria. La vicenda ruota attorno ad un gioco di denaro, sesso e potere; tutto ciò annuncia tristemente che in oltre duemila anni di storia nulla è cambiato. I costumi di Kathrin Dorigo sanno caratterizzare i personaggi, divisi tra la ridicola lussuria di Erode, la razionalità e la tenacia di Erodiade e l’apparente candore di Salome.
Niksa Bareza dirige con fermezza e precisione il doppio organico costituito dall’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento e dall’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, dove la musica sa essere protagonista, senza prevaricare. Ottima la pagina della danza. Un plauso va anche a tutta la preparazione tecnica, in quanto direttore e cantanti possiedono soltanto un paio di monitor per comunicare, essendo l’organico orchestrale situato sul fondo del palcoscenico.
Cristina Baggio sa essere interprete coinvolgente, intensa e toccante, arricchendo il personaggio e la vocalità di Salome con una drammaticità molto forte, ma non eccessiva, sapientemente e giustamente determinata. Nell’aria finale la soprano da sfogo a tutta la bellezza della sua voce, prodigandosi in un canto così emozionante da trattenere il fiato. Volendo cercare il pelo nell’uovo, alcune frasi acute in forte non vengono concluse in maniera troppo pulita, molto vicine all’urlo, ed il vibrato, in qualche punto, è un poco eccedente.
Samuel Youn è un Jochanaan dalla voce molto luminosa e squillante, facile all’acuto, ben salda nei gravi, dotato di fraseggio molto espressivo. Musicalità e interpretazione si sposano perfettamente in un’esecuzione davvero virtuosa.
Il tenore americano Scott Mac Allister è un Herodes sinceramente azzeccato tanto nel ruolo vocale, quanto nel personaggio e mostra una bella vocalità limpida oltre a spiccate capacità di recitazione.
Anna Maria Chiuri, già Clitennestra nella precedente edizione di Elektra, porta in scena una Herodias espressivamente unica ed ineguagliabile. Inoltre la sua voce si trova perfettamente a suo agio con questa tipologia di ruoli, sapendo usare molto bene forti e fortissimi, con la giusta proiezione e l’adeguata potenza, mai esagerando, mai arrivando all’urlo, abilissima anche nel parlato.
Buona la prova di Harrie van der Plas, pur forse un po’ secco, nella parte di Narraboth e di Jelena Bodrazic nelle vesta del paggio. Efficaci gli ebrei di Michael Scott, Rouwen Huther, Ulfried Haselsteiner, Giorgio Misseri e Patrick Simper, anche se uno dei tenori non era in perfetta forma vocale, come pure i nazareni di Kristof Klorek e Riccardo Botta. Completano il cast Roman Ialcic, Jakob Christian Zethner, Vito Maria Brunetti e Martina Bortolotti.
IL SUONO GIALLO [Lukas Franceschini] Verona, 11 febbraio 2012.
Uno degli appuntamenti più importanti di Verona Contemporanea Festival 2012 è stato l’allestimento de Il Suono Giallo, al Teatro Ristori, su drammaturgia di Vasilij Kandinskij e musiche di Alfred Schnittke.
La corretta dicitura dello spettacolo è azione coreografica per soprano, coro e Orchestra da Camera e si rifà alle “composizioni sceniche” dell’artista russo, che definire solo pittore è riduttivo. Le sue realizzazioni sono un’accomunante di musica, danza, colore e luce, rappresentavano l’avanguardia artistica astratta dei primi del novecento. Le difficoltà di questo linguaggio furono un deterrente alla realizzazione che ebbe numerosi rifiuti e fu rappresentata solo nel 1975 in Provenza con le musiche di Schnittke. Una successiva realizzazione avvenne a New York ma con musiche di Gunther Schulle.
La proposta veronese, che è a tutti gli effetti non solo una prima nazionale ma un’importante riproposta a livello europeo, si rifà “filologicamente” alla versione francese.
Il bellissimo spettacolo è realizzato da Susanna Beltrami, coreografa, costumista e regista (assieme a Fabio Zannoni), la quale coglie appieno il senso atemporale della drammaturgia di Kandinskij, libera di esprimersi in un linguaggio a compartimenti stagni senza una “legatura” di sintesi o di narrazione. La Beltrami forgia l’azione avvalendosi degli ottimi solisti della sua compagnia di danza, puntuali precisi, espressivi sia nel passo sia nell’espressione corporale, perfettamente in simbiosi con musica e comunicazione. Mario Mattioli germina immagini in proiezione di altro valore artistico e pur rifacendosi a Kandinskij non scivola sulla banale copiatura, ma realizza uno spettacolo visivo parallelo a quello danzante-musicale.
È peculiare rilevare ancora una volta come l’Orchestra dell’Arena (a ranghi ridotti) primeggi nel repertorio contemporaneo, avvalendosi dell’ottima bacchetta di Pietro Borgonovo, preciso e convincete direttore, il quale che sviluppa sonorità appropriate incisive nel linguaggio musicale a completamento dell’azione scenica. Di rilievo la prestazione del coro diretto da Armando Tasso ed una particolare citazione per il soprano solista, Alda Caiello, figura di spicco in questo repertorio.
Pubblico molto numeroso per uno spettacolo di nicchia, che sicuramente non attira il grande pubblico sia della concertistica e del balletto classico, ma la perizia e la singolarità delle scelte di Fabio Zannoni fa di questa rassegna una delle più importanti e preziose sulla musica contemporanea di livello nazionale.
COSÌ FAN TUTTE [Lukas Franceschini] Venezia, 21 febbraio 2012.
Terzo appuntamento Mozart-Da Ponte alla Fenice con Così fan tutte ideato, come i precedenti titoli, dal trio Damiano Michieletto (regia), Paolo Fantin (scene) e Carla Teti (costumi).
L’opera, o meglio il dramma giocoso, è considerata oggi dai musicologi il capolavoro musicale-teatrale di Mozart ma sin dalla prima esecuzione nel 1790 non godette i favori sia della critica sia del pubblico. Guardando la cronologia delle rappresentazioni al teatro alla Fenice ci sorprende che la prima locale avvenne solo nel 1934 con i complessi della Wiener Staatsoper e la leggendaria bacchetta di Clemens Krauss.
La struttura del dramma si basa su un esilarante gioco di simmetrie tra due coppie d’innamorati. Lo scambio delle coppie, tema azzardato, è mascherato da una scommessa del vecchio filosofo Don Alfonso, il quale è intenzionato a sfatare il mito dell’assoluta fedeltà. La novità del libretto consiste nel non romanzare il sentimento posto a buon fine ma la terrena e umana irrequietezza della passione, il turbamento del cuore, in sostanza le debolezze umane. Questa pennellata di verità non fu accolta dalla borghesia del tempo di buon merito, e oggi tutto sommato si tende a pensare che sono gli altri a comportarsi in tale modo… quando invece… forse tutti siam cosi?
Non sempre l’attualizzazione delle opere porta ad una coerente simbiosi con il libretto. Damiano Michieletto è regista molto innovativo e con idee chiare spesso molto azzeccate. In Don Giovanni centra il bersaglio alla perfezione, in Nozze di Figaro pur con momenti geniali non realizza il dramma-giocoso, nell’odierna Cosi fan tutte recupera il suo humour, anche se in taluni casi mi è parso eccessivo. L’idea originale di ambientare la vicenda in un albergo è spettacolare: don Alfonso è il direttore o proprietario (orribile però quella parrucca che ci ricorda la disgustosa accoppiata televisiva de “I soliti idioti”), i quattro amanti sono ospiti dell’albergo, mentre la povera Despina è una cameriera dell’hotel e qui il ruolo è un po’ ridotto scenicamente anche se la simpatica Di Tonno è gustosissima. Lo scambio di coppia è visto dal regista in maniera cruda, quasi moralistica, perché alla fine non c’è il lieto fine dei ritrovati amanti, il sestetto finale è drammaticamente solistico, da quella che doveva essere una burla tutti escono diversi, più riflessivi e probabilmente non con gli stessi sentimenti iniziali. Don Alfonso potrebbe essere anche identificato in un povero vecchio insoddisfatto delle sue prestazioni amorose, forse per questo denota una predilezione per l’alcool, il quale riesce nel mettere effettivamente dubbi che non si chiariranno mai tra le coppie di fidanzati. Il primo atto è molto divertente, il secondo un po’ meno. Era proprio necessario far sbandierare a Despina un preservativo? La vis comica è stuzzicante con entrate ed uscite serrate, dalle stanze, dalla hall, dall’ascensore, la disperazione delle due sorelle all’inizio quasi isterica, la contrapposizione dei due uomini talvolta burrascosa quasi bullesca. In taluni casi manca la caratterizzazione della commedia dell’arte, Despina che si traveste da dottore o da notaio, ma qui proprio non ci stava, anche se tradiva la parte essenziale del libretto. La mano del regista è pertinente e tuttavia si può apprezzare la produzione anche con qualche caduta di gusto.
Affermare che le scene di Paolo Fantin sono eccezionali è probabilmente riduttivo, quattro spaccati di hotel che ruotano su stessi in continuazione per creare scena su scena insiemi e assoli di gusto elevatissimo. I costumi di Carla Teti sono attuali, magari raffinati ma che alla vista dello spettatore ricordano forse più i film dei fratelli Vanzina.
La parte musicale era dominata dalla bacchetta di Antonello Manacorda che in Mozart trova uno spiccato senso teatrale ed interpretativo. Il ritmo è serrato e vibrante, anche se non sempre seguito parallelamente dall’orchestra che denota qualche lacuna negli ottoni e nelle percussioni.
La compagnia di canto è mediocre anche se recita splendidamente. I migliori in campo sono il preciso e puntale Guglielmo di Markus Werba e la frizzante e carnosa Despina di Caterina Di Tonno. La Fiordiligi di Maria Bengtsson pur con un notevole fraseggio denota limiti nell’omogeneità vocale con tendenza teutonica al suono fisso, la Dorabella di José Maria Lo Monaco è limitata ed insignificante. Marlin Miller, Ferrando, accusa limiti che in Britten può mascherare meglio, Andrea Concetti stranamente mi è parso stanco e vocalmente irriconoscibile, speriamo sia solo un momento passeggero.
TOSCA [William Fratti] Firenze, 21 febbraio 2012.
L’allestimento di Tosca ideato da Mario Pontiggia nell’ottobre del 2008, già riproposto nel dicembre del 2010, è il secondo appuntamento nel cartellone della Stagione 2012 del Teatro Comunale di Firenze. Con le scene e i costumi di Francesco Zito e le luci di Gianni Paolo Mirenda, lo spettacolo estremamente classico e tradizionale è altamente funzionale e lascia che la musica di Puccini sia il solo vero protagonista della rappresentazione.
Gli unici dubbi restano quelli riguardanti i costumi maschili, forse troppo intrisi di elementi settecenteschi, quando invece gli abiti femminili sono in perfetto stile impero.
In questo repertorio Daniel Oren, sul podio dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, sa sempre dirigere con grande efficacia, portando con se musicisti e cantanti in un amalgama di fuoco e passione, puntando sull’effetto del suono e dei colori, talvolta a discapito della raffinatezza, ma ottenendo risultati di alto impatto emotivo.
Martina Serafin è una Tosca prima spensierata e innamorata, poi gelosa e vendicativa; quindi impaurita, spaventata e terrorizzata, poi rassegnata; ancora speranzosa e infine tragica. L’abile soprano di origine austriaca sa portare in scena un personaggio intenso e misurato, oltreché una vocalità lirica dalle tinte drammatiche ben omogenea e con una morbida linea di canto.
Piero Giuliacci sostituisce l’indisposto Fabio Armiliato ed interpreta un Cavaradossi con tutti i crismi, tanto vocali quanto drammaturgici, mancando però di quella passione e quel fervore che avrebbero potuto migliorare la sua prestazione: la recitazione è più che buona, a mancare sono solo gli intenti. “Recondita armonia” è un vero tripudio di colori e sfumature, dove il tenore romano mostra l’originalità del vecchio canto all’italiana; inoltre tutto il duetto successivo con Martina Serafin è una lunga pagina eseguita con precisione, musicalità e buon uso del fraseggio. Forse il terzo atto è la parte meno espressiva e quindi meno riuscita, ed è probabilmente la vera ragione dei dissensi manifestati da una piccola parte del pubblico al termine dello spettacolo.
Scarpia è Alberto Mastromarino, che parte un po’ in sordina, ma si rifà immediatamente col finale primo, dove in “Và, Tosca! Nel tuo cuor s’annida Scarpia” mostra una voce ben salda e proiettata, anche se poco brillante e scarsamente luminosa. Il canto si fa via via sempre più morbido ed omogeneo in secondo atto, quando la tensione sale all’apice nel duetto con Martina Serafin e la successiva scena “M’hai tradito… Vittoria!” con un’emozionante Piero Giuliacci. Purtroppo il personaggio è molto compresso e Alberto Mastromarino ne riesce a trasmettere solo il grado di nobiltà, null’altro. Anche la sua esecuzione è accolta dagli spettatori con alcune contestazioni.
Carlo Striuli è un Angelotti abbastanza insignificante, anche sotto il profilo vocale; mentre Angelo Nardinocchi è un Sagrestano davvero simpatico e vocalmente efficace. Mario Bolognesi è un buon Spoletta, mentre Cristiano Palli sostituisce last minute l’indisposto Dario Giorgelè nel ruolo di Sciarrone. Vito Luciano Roberti è un carceriere, mentre Eleonora Ronconi è un pastorello. Buona la prova del Coro del Maggio Musicale Fiorentino guidato da Piero Monti e de I Ragazzi Cantori di Firenze diretto da Marisol Carballo.
AIDA [Lukas Franceschini] Milano, 25 febbraio 2012.
Al Teatro alla Scala, dopo ventisei anni, è riproposta Aida di Giuseppe Verdi nel celebre allestimento di Franco Zeffirelli e Lila De Nobili del 1963.
È innegabile che uno degli aspetti più interessanti di questa produzione sta proprio nell’allestimento, il quale nella storia nel teatro milanese, e non solo, è ricordato come uno degli avvenimenti più strepitosi. Ben ha fatto la direzione a “recuperare” e “ricostruire” questo meraviglioso spettacolo, il quale seppur datato rende ancor oggi lo spirito più tradizionalista del teatro d’opera, coreografico ed illustrativo, di grande fascino ed effetto. Quest’Aida è una delle migliori realizzazioni di Franco Zeffirelli, da affiancare all’altra celebre “La Bohème”, al quale e a pari merito si affianca la grande Lila De Nobili autrice di costumi di straordinaria bellezza e ancor più di scene dipinte incomparabilmente affascinanti e costituite da “velari” come si usava nel teatro ottocentesco. La regia è stata ripresa da Marco Gandini, assistente di lungo corso del maestro fiorentino, che si è attenuto alle indicazioni originali con garbo e precisione, tranne in qualche piccolo particolare, come il bacio di Radames dato ad Amneris alla fine del duetto del IV atto, davvero incomprensibile, ma purtroppo non molto efficace nella realizzazione scenica degli stessi protagonisti, sovente lasciati allo sbando e con una personalità insignificante. Non saprei se tale peculiarità sia da imputare al regista o ai singoli cantanti “poco attori”.
Di grande effetto le danze eseguite dal Corpo di ballo del Teatro alla Scala e dagli allievi della Scuola di ballo dell’Accademia scaligera.
Il cast ha rilevato quanto oggi sia difficile rappresentare Verdi con eccezionalità, le tipiche voci verdiane sono sommariamente rare e pertanto dobbiamo accontentarci. Tuttavia si deve lodare la prestazione di Liudmyla Monastyrska, un’Aida molto interessante con una buona linea di canto, morbida e sostenuta in tutti settori, ben sfumata ed espressiva. Allo stesso modo il giovane Radames di Jorge De Leon è un efficace tenore squillante e fantasioso, manca in parte d’eroicità ma si riscatta bene nell’espressione pur concedendo l’attenuante che il ruolo andrebbe sicuramente forgiato sugli accenti.
Deludente l’Amneris di Marianne Cornetti, la quale oltre ad essere scenicamente impresentabile nel gesto, è affetta da gravi lacune vocali: settore grave afono, registro acuto stridente e fraseggio banale. L’Amonasro di Andrzej Dobber si attesta in una prestazione di ruotine, senza luci ma neppure particolari ombre, fosse capace di qualche fraseggio più colorito ed un’interpretazione più veemente avremo un cantante di altra levatura.
Giacomo Prestia è un efficace Ramfis, imponente sia vocalmente sia scenicamente, restituendo al personaggio tutta la sua statuaria caratterizzazione del capo religioso. Aspetto in parte assente in Roberto Tagliavini, il quale pur con correttezza caratterizza un Re convenzionale. Buono l’intervento di Enzo Peroni, il messaggero, anonima la sacerdotessa di Pretty Yende.
E veniamo al direttore Omer Meier Wellber. La sua direzione in questa produzione, stando alle cronache dei giornali, è stata pesantemente contestata alla prima, e ciò rappresenta in parte un’eccezione perché difficilmente un direttore viene così violentemente ammonito. Ovviamente chi scrive recensisce della recita cui ha assistito e in questo caso tutto è filato liscio. Mi pare però doveroso fare una premessa. Questo giovane direttore è artista di talento seppur ancor giovane ed ebbi occasione di sentirlo in un paio di produzioni in Veneto negli anni scorsi. A ciò va sommata una ricercata campagna di marketing che probabilmente ha alzato le attese di pubblico e critica. Quando ha esordito lo scorso anno alla Scala, la sua direzione in Tosca non mi colpì particolarmente pur non lasciandomi totalmente deluso. Ora quest’aura di enfant prodige, probabilmente non voluta dallo stesso, grava pesantemente e in maniera eccessiva sulle sue esibizioni. Per quanto riguarda la serata cui ho assistito, devo affermare che la sua concertazione non mi ha convinto totalmente pur non mancando di momenti molto belli. La sua direzione è molto altalenante con tratti molto banali e talvolta sfibrati affiancati ad altri molto efficaci e pertinenti. In Wellber manca una lettura omogenea e una drammaturgia coesa nella prova orchestrale, al che dobbiamo aggiungere che anche l’ensemble scaligero non pareva molto in forma e preciso rispetto al suo solito standard. Resta comunque il concetto che il giovane direttore deve anche forgiarsi considerata la sua giovane età, e questo non dovrebbe avvenire su un palcoscenico come La Scala, ove lui stesso avrebbe dovuto fare scelte o rinunce più oculate. Al termine successo caloroso per tutti. Unico inconveniente è che per realizzare questa Aida con intervallo ad ogni atto servano ben quattro ore e quindici minuti… un po’ troppo!
L’OPERA DA TRE SOLDI [Lukas Franceschini] Venezia, 8 marzo 2012.
Alla Fenice è stata rappresentata, probabilmente in prima locale, L’opera da tre soldi di Brecht-Weill, nell’allestimento del Teatro Stabile di Napoli. Die Dreigroschenoper è un’opera teatrale di Bertolt Brecht il quale rielaborò la celebre Beggar’s Opera di John Gay cui si aggiunsero le splendide musiche di Kurt Weill.
L’azione si sviluppa nell’ambiente della malavita londinese e dei mendicanti, ma mette in scena, in realtà, il cinismo del mondo aristocratico con i suoi affari, interessi ed intrighi. L’opera fu rappresentata per la prima volta nel 1928 al teatro Schiffbauerdamm di Berlino. L’autore metteva in scena il mondo del sottoproletariato, dei banditi e dei derelitti, con intenzione provocatoria nei riguardi del pubblico borghese, che avrebbe dovuto scandalizzarsi di fronte all’ambiente, ai personaggi e al loro linguaggio scurrile. “Il pubblico ideale” per Brecht doveva essere il proletariato, cioè gli operai dell’industria, indicando provocatoriamente e volutamente il prezzo del biglietto d’entrata. Paradossalmente questi disertarono le rappresentazioni, mentre il pubblico borghese ne decretò il successo, con sorpresa e un certo disappunto dell’autore. Brecht fu colpito dalla Beggar’s Opera (Opera del mendicante) soprattutto da due elementi: la satira socio-politica e la parodia del melodramma italiano, in un testo inglese (1728), nel quale John Gay prendeva di mira un’aristocrazia i cui affari erano molto simili a quelli della malavita, raccontando una storia ambientata nei bassifondi di Londra tra rapine, tradimenti, prostituzione, amori, profitti e delitti. E’ curioso che il numero musicale d’apertura Die Moritat von Mackie Messer fu aggiunto poco prima della prima berlinese, quando l’attore che impersonava Macheath, Harald Paulsen, minacciò di andarsene se il suo personaggio non avesse ricevuto una presentazione adeguata. Il song diverrà il più famoso dell’intera opera, grazie anche alla successiva traduzione in inglese che ne ha ampliato notevolmente la fortuna. Oggi il pezzo è uno standard, non solo in ambito jazz, e vanta innumerevoli interpretazioni anche nella musica pop, non dimenticando che il brano “Jenny dei pirati”è stato reinterpretato da Nina Simone nel 1964, la quale diede alla canzone un sottofondo civile e rivoluzionario.
L’allestimento, con la regia di Luca De Fusco, è ambientato a cielo aperto davanti al diroccato Real Albergo dei Poveri di Napoli, cui in fronte si trovano cataste d’immondizie, tra cui vecchi computers (riferimento alla finanza) e alle grandi finestre compaiono prostitute di varia estrazione. Il regista colloca le vicende, traffici finanziari e corruzione, a cielo aperto, l’idea è geniale anche paragonandola alle attuali vicende nazionali e mondiali. Il team, costituito oltre a De Fusco anche dall’abile scenografo Fabrizio Plessi, dal geniale lighting desinger Maurizio Fabetti e al costumista Giuseppe Crisolini Malatesta (non particolarmente ispirato), realizza una visione molto cruda del mondo ove l’aurea è decadente e il confine tra corrotto e corruttore è inesistente. Dobbiamo considerare che il testo di Brecht, seppur con debite attualizzazioni, purtroppo sia sempre attuale, i riferimenti odierni sono molteplici. La musica di Kurt Weill s’ispira alle melodie in voga negli anni ’20 e resta un esempio di commedia musicale di altro valore cui non servono ulteriori aggettivi per declamarne bellezza ed originalità. Tuttavia è necessario rilevare che L’opera da tre soldi non è proprio un’opera lirica, ma come suddetto commedia con musica, la traduzione di Paola Capriolo è ottima, ma eseguirla nella sua integralità è eccessivo quando la parte musicale occupa un’ora scarsa delle tre complessive dello spettacolo.
Di grande pregio il cast radunato, nel quale spicca il Mackie Messer di Massimo Ranieri, attore e cantante eclettico, calatosi perfettamente nel ruolo, e non saprei quale altro artista posso oggigiorno cimentarsi con tanta bravura ed immedesimazione nel ruolo. Con lui la ieratica, drammatica e travolgente Jenny di Lina Sastri seppur con marcato accento partenopeo, e la simpatica e vanesia Polly di Gaia Arpea, cantante di gran classe. Aggiungo che si devono citare anche i bravi Ugo Maria Morosi, Peachum, Margherita di Rauso, Celia, Patrizia di Martino, Lucy, Paolo Serra che interpretava Jackie.
L’orchestra della Fenice ovviamente a ranghi ridotti, era ben diretta da Francesco Lanzillotta il quale centrava perfettamente il gusto weilliano, tempi concisi e vibranti tipici del teatro musicale inizio ‘900.
Non tutto il pubblico si aspettava uno spettacolo così “diverso” infatti, vi sono state numerose diserzioni dopo la prima parte, ma chi è restato ha decretato un sincero e vibrante successo a tutta la compagnia.
LA TRAVIATA [Lukas Franceschini] Bologna, 9 marzo 2012.
Al Teatro Comunale del capoluogo emiliano è stata riproposta La Traviata di Giuseppe Verdi con la regia di Alfonso Antoniozzi produzione del Comunale di Bologna 2010.
Questa produzione di Traviata è stata denominata “low-cost” ma a mio parere è errato, per non dire offensivo, etichettare un allestimento con tale aggettivo. Uno spettacolo è ovvio può piacere o no senza dover tassativamente rilevare l’aspetto “faraonico” di scene e costumi. Quello che più conta è la concezione registica, una drammaturgia sviluppata coerentemente e soprattutto comprensibile, se poi per tale operazione non si sperperano denari e si realizza ugualmente un prodotto di altro livello, beh questo non può, anzi deve essere, un merito sia per i realizzatori sia per i committenti. È il caso di quest’allestimento realizzato da Alfonso Antoniozzi, alla regia, assieme a Paolo Giacchero, per le scene, Claudia Pernigotti, costumista, Andrea Oliva, lighting designer. Antoniozzi è un nome che ogni frequentatore di teatro conosce per una carriera, tuttora in corso, di basso-baritono a livello internazionale. Da qualche tempo si è dedicato anche alla regia di cui ricordiamo con piacere un Don Pasquale, sempre a Bologna, qualche anno addietro.
Il regista realizza una regia di grande pregio e sottile linguaggio senza copiature oziose. È una Traviata della solitudine, molto borghese, ove l’eroina è al centro della scena nella splendida villa del primo atto, attorniata da amici e tenutari, i quali spariscono e sono solo presenza fisica nella scena di Flora e soprattutto all’ultimo atto. La bella scenografia si realizza non in un’elegante villa di campagna (atto II) ma in una casa molto semplice con poco arredamento (fedeltà al testo, lei sta vendendo tutto per permettersi di vivere questo nuovo amore). Un certo riscatto sociale s’intravede dal semplice tailleur di chaneliana memoria, ma tutti i costumi sono molto eleganti al primo atto assistiamo quasi ad una sfilata di griffe, per ricadere poi nel grigio conformismo di una vita che si vuole cambiare, ma tutto sommato non si può. La drammaturgia dei personaggi è coerente e non scontata, la protagonista e vittima di se stessa paga il prezzo del suo libertinaggio con l’isolamento cui si aggiunge la malattia, Alfredo è un giovanotto fors’anche innamorato ma non del tutto convinto, Germont un padre subdolo ed egoista, al quale non basta e non serve il pentimento finale. E’ qui sta la vera “novità” di quest’allestimento. Cambiando le carte in tavola, al terzo atto vediamo una stanza vuota e la protagonista a terra che dorme. Quando inizia la scena, notiamo che le donne sono due, una sosia è vicina a lei. Devo ammettere che con difficoltà riesco a capire che Violetta è già spirata, e tutto quello che avviene, non è un flashback, bensì come avrebbero voluto i Germont, soprattutto padre, ottenere seppur in estremo il perdono di Violetta e la benedizione al figlio per un futuro matrimonio. Questa diversa concezione della storia è molto avvincente, di grande effetto ed ancor più commuovente. Onore per una soluzione molto originale e per niente storpiante rispetto al libretto.
Il versante musicale ha riservato sorprese molto belle a cominciare dal giovane Michele Mariotti, il quale si sta formando proprio con l’orchestra bolognese, e dopo qualche prova circa positiva, con questa Traviata centra un bersaglio di altissimo valore. Oserei affermare che la poesia era il denominatore comune della sua concertazione, tutto era poetico e calibrato, sonorità precise e mai ostentate, una calibratura di grande pregio cui ha risposto una compagine orchestrale in gran spolvero. Strepitoso e commuovente il preludio atto III, con un’intensità e uno struggimento davvero non comuni.
Yolanda Auyanet era una protagonista di grande pregio. La voce è bella, la recitazione accuratissima, il fraseggio eloquente, il colore e la drammaticità erano espressione di grande classe ed intelligenza musicale. Non si può dire altrettanto del giovane tenore Javier Tomé Fernandez (che sostituiva il previsto Giuseppe Gipali) cui non manca una bella voce e anche una dizione precisa, ma la tecnica non è ancora rifinita e i fiati sono precari, essendo sempre forte e poco sfumato. Vengo a sapere nell’intervallo che è quasi un debuttante pertanto l’incidente al termine della cabaletta si perdona, con l’augurio di ritrovarlo in futuro più rifinito e puntuale. Stefano Antonucci interpretava Germont Padre. La voce del cantante è purtroppo usurata e poco omogenea, ma gli dobbiamo riconoscere un’interpretazione da manuale, un fraseggio che raramente capita di ascoltare, intenzioni e sfumature preziose, esegue la celebre aria con dovizia e pathos commuoventi. Peccato il taglio della cabaletta. Molto appropriate le scelte dei numerosi comprimari tra i quali emergevamo per ottima scena e voce interessante Vladimir Reutov e Mattia Olivieri. Il coro ha fornito prova di grande professionalità e ottima finitura. Successo entusiastico al termine.
IRIS [Lukas Franceschini] Verona, 16 marzo 2012.
Iris, opera di Pietro Mascagni, composta sul finire del secolo scorso su libretto del celebre Luigi Illica, non è titolo frequente sui palcoscenici sia italiani sia internazionali. Dai teatri veronesi mancava da oltre un secolo, quando nel 1908 la diresse lo stesso autore.
Strana carriera quella nel compositore livornese, dopo il successo trionfale d’esordio con Cavalleria Rusticana (1890), compose altre sedici partiture operistiche le quali furono sempre inferiori alla prima sia per qualità musicale sia per favore del pubblico. Tra queste solo L’amico Fritz e Iris hanno goduto e godono, soprattutto la prima, un certo consenso e una discreta riproposta nei cartelloni teatrali. Tuttavia non si può negare che negli spartiti di Mascagni manchino pagine di grande fattura ma il tutto è ridotto a qualche aria, duetto o scena, non sufficienti per parlare di capolavori.
Iris è senza dubbio il dramma lirico più peculiare per scrittura musicale e soggetto. Penalizzante per l’opera è un libretto, di Illica, troppo intriso di simbolismi, termini arcaici e una prolissità macchinosa che ha più realizzazione nelle intenzioni. Anche perché a tale libretto sopperisce la musica di Mascagni e non ad esempio di Debussy e pertanto Iris resta una partitura dalle grandi ambizioni non risolte. Applicare ad un tema esotico, tanto in voga a fine ‘800, anche la chiave verista tanto cara al compositore si è rivelata alfine operazione poco riuscita, anche se alcune pagine come l’Inno al sole, la romanza di Osaka e le due della protagonista si collocano su un livello ben più alto dell’intera opera.
La realizzazione dello spettacolo proposto al Filarmonico aveva un grande pregio nel proporre lo spettacolo di Federico Tiezzi, il quale come si legge nelle note del programma di sala non cerca una via riparatrice ma rappresenta l’opera per quello che è realmente: uno stridente cocktail di verismo, simbolismo e favola. Le scene, di Pier Paolo Bisleri, molto belle seppur minimaliste, ripercorrono sia la classicità (nella ricostruzione della casa del Cieco) sia nell’avanguardia (creando un bar con tanto di lap-dance per realizzare il quartiere del piacere). Giovanna Buzzi come di consueto adopera la sua mano eccellente nel creare costumi di altissima finezza, cromatici e lineari di quel popolo giapponese che anche tuttora non riesce a staccarsi nell’ufficialità dalle sue tradizioni.
Sul podio è salito un direttore illuminato come Gianluca Martinenghi capace di plasmare la partitura nei più spigolosi contrasti, ottenendo sonorità espressive ed emozionanti, sempre attento alla narrazione e all’espressione musicale così innovativa.
Rachele Stanisci è stata una valida interprete e cantante, la quale si esprime in un fraseggio eloquente ed un vivido colore negli accenti fanciulleschi, applicandosi con buoni risultati nella morbidezza del canto estasiato quanto nella drammaticità dell’epilogo.
Diversamente l’Osaka di Sung-Kyu Park, che sostituiva all’ultimo momento Francesco Anile, sfoggiava una voce di primordine ma povera di colore, dolcezza e pathos, caratterizzata soprattutto nel canto forzato e spesso legnoso.
Di grande rilievo il Kyoto di Bruno De Simone, che per la prima volta ascoltavo in un ruolo non buffo. La sua caratterizzazione del personaggio è stata veramente una sorpresa per accenti e vis spregevole pertinenti. Brava e con bella vocalità anche Francesca Micarelli nel breve ruolo della Guècha, ruvido e sgraziato il Cieco di Manrico Signorini anche se devo riconoscergli un tentativo di fraseggio più curato ma non sempre andato a buon fine. Tra i comprimari emergeva per stile e precisione Iorio Zennaro. Il coro era ben istruito ma un tantino forzato nel celebre inno d’inizio opera. Teatro non affollato, molto cordiale al termine decretando un bon successo.
RIGOLETTO [William Fratti] Torino, 18 marzo 2012.
Il Teatro Regio di Torino si riconferma produttore ed esecutore di alto livello anche nel caso di spettacoli low cost. La ripresa del Rigoletto a concorso firmato Fabio Banfo è un successo sotto ogni punto di vista. L’ambientazione rinascimentale, ma non troppo caratterizzata, è un adeguato compromesso tra il rispetto della tradizione e il volere originario di Giuseppe Verdi, il cui intento principale stava nel consumo di un dramma sul potere, l’orgoglio e la famiglia.
Le semplicissime scene di Luca Ghirardosi, composte da soli cinque carri e poca attrezzeria, sono opportunamente efficaci e sapientemente illuminate dallo stesso Banfo; i costumi di Valentina Caspani, seppur adeguati ed in linea con l’intero allestimento, non sono sempre piacevoli alla vista, soprattutto quelli di Gilda e Rigoletto; le coreografie di Anna Maria Bruzzese sono efficaci. Le scelte di regia sono pulite e non invasive, anche se alcuni punti sembrano essere un po’ vuoti e necessiterebbero di un maggior movimento.
Giovanni Meoni è un Rigoletto liricissimo, che dispiega le pagine del difficile ruolo in maniera molto intelligente, senza strafare, prodigandosi solo in alcune delle variazioni di tradizione. Il fraseggio è ottimo, ben arricchito da un buon uso dell’accento verdiano, anche se un po’ deficitario di tinte drammatiche. La tecnica del passaggio è eccellente, in perfetto accordo con una linea di canto molto omogenea.
Désirée Rancatore è una Gilda strepitosa, precisissima nell’esecuzione dello spartito, accurata nelle belle e piacevoli variazioni intrise di acuti e sovracuti, eccellente nelle colorature, nei cromatismi, nei virtuosismi e davvero ottima è la tecnica dei fiati. “Caro nome” è una vera e propria lezione di canto e strappa al pubblico un lungo e scrosciante applauso.
Piero Pretti è un Duca dall’adeguato spessore vocale e ridona a questo ruolo, troppo spesso eseguito in maniera eccessivamente leggera, un maggiore tocco di verdianità. La linea di canto è particolarmente morbida, il passaggio all’acuto è ben omogeneo, la voce è squillante e corposa, i piani sono ben dosati e il fraseggio sa essere intenso ed emozionante. Lo studio continuo ed il confronto con i ruoli adeguati possono creare per il giovane tenore il giusto terreno per un futuro davvero roseo.
La scena più commovente di tutta l’esecuzione è il duetto che vede interpreti Désirée Rancatore e Piero Pretti, affiatati nella resa della drammaturgia ed eccellenti in ambito vocale.
Ziyan Atfeh, con la sua facilità all’acuto, dispiega sapientemente le pagine dedicate a Monterone. Altrettanto efficaci sono Armando Gabba e Davide Motta Fré nei panni di Marullo e Ceprano. Adeguati sono Matthew Pena, Ivana Cravero, Franco Rizzo e Pierina Trivero nelle vesta di Borsa, la Contessa, un usciere ed un paggio.
Purtroppo il risultato non è altrettanto felice per gli altri interpreti. Lo Sparafucile di Alessandro Guerzoni sembra possedere una voce compromessa dall’usura, ma ci si augura che sia soltanto un malessere passeggero. La Maddalena di Irini Karaianni non è assolutamente classificabile; già altre volte ha dato la medesima impressione nello stesso ruolo, pertanto ci si domanda come mai tante colleghe decisamente migliori siano a casa senza lavoro. La Giovanna di Maria Di Mauro è anch’essa fortemente inadeguata.
Eccellenti il coro maschile diretto da Claudio Fenoglio e l’Orchestra del Teatro Regio di Torino.
Una nota particolare va al talentuoso Daniele Rustioni, che dirige con buona intenzione verdiana, lasciando il giusto spazio alle variazioni, ai passaggi e alle cadenze dei singoli interpreti. Molte giovani promesse, nell’affrontare la partitura di Rigoletto, hanno disatteso le aspettative di pubblico e artisti. Ciò non accade al direttore di origine milanese che, seppur non compiendo una mirabolante lettura, esegue correttamente il suo dovere, con l’aggiunta di qualche bel colore.
DIE FRAU OHNE SCHATTEN [Lukas Franceschini] Milano, 20 marzo 2012.
È singolare costatare che un capolavoro come Die Frau ohne Schatten di Richard Strauss sia stata allestita al Teatro alla Scala solo in quattro produzioni dal 1940, la prima in versione italiana. C’era dunque grande attesa per questo nuovo spettacolo coprodotto con la Royal Opera House Covent Garden di Londra.
L’opera nasce dalla collaborazione tra il compositore e il letterato Hugo von Hofmannsthal e segna un vertice, nel quale si somma anche Elektra e Der Rosenkalier, di difficile raggiungimento. Dopo il successo del Rosenkavalier, i due artisti si operarono nella realizzazione in una sorta di “magica fiaba” mettendo in contrasto il mondo terreno e quello fantastico prendendo spunto dalle fiabe dei fratelli Grimm, Le mille e una notte e il Faust di Goethe. Centrale è il tema dell’amor coniugale di due coppie sterili cui patti e compromessi, superamento di prove (chiara l’ispirazione da Die Zauberflöte), porteranno al definitivo buon termine quando l’Imperatrice riuscirà a liberarsi dell’ombra che la rende infeconda. E’ indubbio che Strauss fu il compositore operistico “più sinfonico” di tutto il panorama musicale tra ottocento e novecento, e proprio nella Frau l’enorme compagine orchestrale si sviluppa in forti e rappresentative sonorità spesso facendo ricorso ad un leitmotiv. La strumentazione si differenzia ovviamente tra i personaggi terreni (Tintore e sua moglie) e quelli fiabeschi (Imperatore ed Imperatrice) ove la ricchezza del suono e l’inventiva di narrazione sono di encomiabile realizzazione. Il tema finale che s’identifica nella pura moralità e fedeltà coniugale trova in Strauss un eccellente inventore di sonorità di carattere forse più umano, ma di ampio ed innovativo respiro orchestrale. L’imponenza della drammaturgia, che potremo definire complicata, e le difficoltà vocali dei ruoli non ha impedito alla partitura un felice e prolisso veicolare in area tedesca, mentre nei teatri italiani è da considerarsi ancora una rarità.
Il regista Claus Guth scioglie il nodo della difficile realizzazione eliminando completamente il lato fiabesco della vicenda puntando sul versante psicoanalitico, infatti, l’Imperatrice all’inizio dell’opera si trova su un letto di un ospedale psichiatrico in preda alle memorie fanciullesche soggiogata dal padre, il quale è rappresentato dal simbolismo di un’antilope mentre lei è una sperduta gazzella. Questa concezione che oserei affermare surrealistica emoziona e sotto taluni aspetti affascina ma privare tutta la vicenda del lato favolistico è a mio avviso un errore, anche se la caratterizzazione dei personaggi è di altro valore. La claustrofobia, ben realizzata dalle povere ma efficaci scene di Christian Schmidt autore anche di anonimi costumi, è opprimente e forse incisiva ma non abbiamo il fantastico mondo finale d’atto con la redenzione della Tintora e finalmente la liberazione da parte della Donna dell’ombra. Anzi, con idea anche azzeccata, il regista pone le due donne come una lo specchio dell’altra in un’equazione di emancipazione femminile. Ben tracciato teatralmente il buono e laborioso tintore, inespressiva la caratura dell’Imperatore. Di grande fascino teatrale la figura scenica della nutrice che rasenta memorie hitchcockiane.
Sul podio del Teatro alla Scala è salito Marc Albrecht, che sostituiva il previsto Semyon Bychkov. In questo direttore abbiamo trovato un eccellente concertatore, attento e dedico a sonorità espressive di primordine, egli incanta per la profonda conoscenza dello spartito, cui dedica tempistica, dinamismo e puntualissima partecipazione di archi ed ottoni. L’orchestra era in forma smagliante e pertanto non è l’orchestra della Scala ad essere appannata, come qualcuno ha rilevato in recenti esibizioni, ma è la bacchetta che ne valorizza la classe e lo stile, ed Albrecht è appunto tale.
Il cast ha messo in luce le difficoltà, di sempre, per realizzare quest’opera, Strauss non lesina alquanto ad utilizzare voci di grande levatura e non si risparmia nell’impiegarle. Abbiamo avuto una più convincente aderenza teatrale che musicale a partire dalla protagonista Emily Magee che in questo ruolo ha fatto il passo più lungo della gamba non possedendo sia fascino vocale sufficiente sia un registro acuto solido e l’impressionate Michaela Schuster, dotata di voce autorevole, segue la stessa linea in quanto a forzature. Di tutto rispetto l’Imperatore di Johan Botha, corretto e puntuale ma scarso di caratterizzazione ed accenti. Molto migliore Falk Struckmann, seppur ormai in lunga carriera, efficace e ancora pertinente per modulazione di espressione sofferta. Elena Pankratova sopperisce le sue lacune tecniche più in Strauss che in Verdi, convincente perché in parte trattenuta ma espressiva e puntuale. Buone le numerose parti di fianco, nelle quali spicca Samuel Youn, mentre fratelli del tintore erano notevolmente imprecisi e disomogenei. Buon successo al termine con ovazioni per il direttore che debuttava al Teatro Scala.
ANNA BOLENA [William Fratti] Firenze, 21 marzo 2012.
Il capolavoro donizettiano, mai rappresentato al Teatro Comunale di Firenze in epoca moderna, avrebbe dovuto essere l’apice della Stagione 2012, mentre l’assenza dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino in sciopero e del direttore Roberto Abbado, contribuiscono fortemente all’esecuzione di uno spettacolo parecchio noioso sotto molti aspetti, anche se salvato in parte dalla presenza della “Mariella Nazionale” come spesso viene chiamata la Signora Devia dai suoi fan più sfegatati.
Ai già citati problemi va aggiunta la presenza delle telecamere e dei microfoni RAI, impegnati nella registrazione video e nella trasmissione radiofonica, danneggiate dallo sciopero, con un’eventuale conseguenza di disastri economici.
Un grande plauso va alla serietà del teatro e degli interpreti, che accettano di andare comunque in scena a salvaguardia dell’interesse del pubblico. Una meritata ovazione è indirizzata al bravo pianista Andrea Severi. Purtroppo nella recita di mercoledì 21 marzo il podio passa ad Antonino Fogliani, spesso presente in concomitanza con Mariella Devia, che manca di verve e non è chiaramente maestro di precisione nella conduzione dei cori e dei concertati.
L’allestimento veronese ideato da Graham Vick è piacevole ed efficace sotto molti aspetti, ma è davvero monotono ed in certi punti addirittura banale. L’idea del regista britannico di non focalizzarsi sul falso realismo, né sulla caratterizzazione romantica dei personaggi è molto interessante, ma è sviluppata attraverso un eccessivo distacco, troppa freddezza, un simbolismo corretto ma esageratamente scontato – come il trono caduto a terra dopo il crollo di Anna; oppure il letto inizialmente vuoto di Anna, su cui poi Smeton sogna di amarla; l’enorme spada accusatrice di Enrico; la luna che prende le sembianze di una corona di spine – e il risultato che ne consegue è una forte mancanza di contatto umano. Non è piacevole assistere a concertati in cui più persone che comunicano tra di loro si trovano distanti e non si guardano neppure. È chiaro che oggi una corretta rappresentazione del Donizetti, del Bellini o del Rossini serio non può avvenire attraverso l’uso smisurato della teatralità verdiana o della passionalità pucciniana, ma una via di mezzo che permetta un maggior coinvolgimento del pubblico sarebbe certamente auspicabile.
Dunque scene e costumi di Paul Brown sono a tratti apprezzabili, ma talvolta poco consone allo sviluppo della vicenda. L’accomunarsi dei simboli del letto coniugale e dei troni nella prima scena non è così necessario; l’appostamento di Anna ed Enrico su cavalli contrapposti nel primo concertato può essere piacevole da un punto di vista fotografico, ma nell’esecuzione della bella pagina musicale sembra che ognuno canti per sé, incurante delle presenze altrui; lo sfondo paesaggistico che ricorda le Alpi svizzere è assolutamente fuori luogo; oltre alla grossa spada, che riempie la scena centrale del secondo atto, che fa specchio alle luci ed acceca tutto il pubblico accomodato sui palchi di sinistra. I costumi disegnati per il Re sono straordinari, ad eccezione di quello indossato nella scena del consiglio; quelli di Anna sono gelidamente efficaci; i restanti sono in parte accattivanti, ad esclusione di quello di Giovanna, al momento in cui implora Enrico di non firmare la sentenza di condanna, che starebbe meglio indossato da una Butterfly pseudo-rinascimentale.
Da un punto di vista vocale occorre sottolineare fin da subito la difficoltà dell’uso degli accenti e delle tinte drammatiche senza la potenza orchestrale. L’accompagnamento al pianoforte è certamente un ostacolo per i solisti, anche se dei grandi professionisti come quelli impegnati in questa produzione non dovrebbero avvertire certi impedimenti.
Grande cantante, vocalista sempre precisa e accurata, Mariella Devia esegue con cura da cesellatrice la parte di Anna – ad eccezione di qualche piccola incertezza nella prima aria e nei sovracuti – ma l’interpretazione del personaggio è pressoché polare. Se la sua voce sembra avere una linea diretta col Cielo, l’anima ne pare distaccata, tanto da risultare perfino poco armonica e musicale. Addirittura nella lunga e difficile doppia aria finale, se lo spettatore meno “vociofilo” non sa concentrarsi sull’invidiabile tecnica di canto, perde costantemente l’attenzione. Non c’è dubbio che la celebre soprano, icona e simbolo nazionale, sia un’inconfutabile Numero Uno, di cui si apprezzano, nonostante l’età, il rigore e la tenacia, ma è altrettanto vero che la forza della tragedia non scorre nelle sue vene. Di un cantante lirico occorre valutare sia la voce che l’interpretazione e non è obiettivo criticare questa Anna Bolena considerando solo l’uno o l’altro aspetto. Purtroppo non è possibile parlarne bene, ma come non è possibile parlarne male.
Sonia Ganassi non si presenta particolarmente morbida e qualche acuto, nella prima aria di Giovanna, appare un po’ stiracchiato. Si nota un decisivo miglioramento già dal duetto con Enrico e ancor più efficace è il duetto con Anna, in cui si crea un bell’amalgama. La pagina meglio riuscita è la cabaletta “Ah! Pensate che rivolti” anche se gli acuti più estremi non sono particolarmente puliti.
Shalva Mukeria è un Percy senza spessore né vocale, né scenico. Il recitativo di sortita è uno scempio e le note più basse non si odono neppure nel silenzio. Il tenore georgiano è molto musicale, pertanto il canto spianato gli riesce davvero bene, soprattutto in “Vivi tu, te ne scongiuro” ma tale pregio non è sufficiente per fare di lui un fuoriclasse. Inoltre il personaggio è purtroppo completamente privo di carica drammatica.
Roberto Scandiuzzi, annunciato indisposto e fischiato alla recita precedente, porta sul palcoscenico del Comunale una presenza scenica davvero invidiabile, che se fosse supportata da accenti più marcati contribuirebbe certamente a creare un Enrico VIII di altissima levatura. Il cantabile sarebbe dei migliori, poiché arricchito da un’ottima dizione e da un buon uso dei colori, ma è purtroppo penalizzato da una voce malferma, che nel recitativo sfocia in un’intonazione non troppo precisa.
José Maria Lo Monaco dimostra fin dalla prima aria di saper dosare i colori e di possedere la tinta perfetta per dare vita al ruolo en travesti di Smeton, anche se vocalmente un po’ chiusa.
Efficace, nel canto e sulla scena, il Rochefort di Konstantin Gorny. Corretto Luca Casalin nei panni di Hervey. Svogliato il Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Piero Monti.
LA TRAVIATA [William Fratti] Piacenza, 23 marzo 2012.
Esattamente come lo scorso anno, il Teatro Municipale di Piacenza conclude la Stagione Lirica con l’ennesimo scempio di un titolo verdiano, con il nuovo allestimento de La traviata firmato da Rosetta Cucchi e prodotto dal Teatro Comunale di Modena. Il celebre melodramma della signora delle camelie è uno dei titoli più rappresentati al mondo, ma allo stesso tempo è uno dei più difficili da mettere in scena – se lo si vuole fare con tutti i santi crismi – e purtroppo quest’occasione ne è la prova inconfutabile, essendo deficitario sotto tutti quanti gli aspetti.
Rosetta Cucchi, coadiuvata da Tiziano Santi alle scene, Claudia Pernigotti ai costumi e Andrea Ricci alle luci, crea un allestimento semplice e scarno, molto probabilmente a sottolineare ulteriormente il sentimento della solitudine, come ribadito nelle note di regia, anche se non era strettamente necessario, poiché l’intero dramma di Verdi ruota attorno alla morte, così come espresso fin dalle prime note del preludio. Interessante è l’idea di vedere Violetta come una pianta di camelie che lentamente sfiorisce e perde le foglie. È invece altamente fastidioso assistere ad una regia non filologica – con Violetta che giudica il suo “oh qual pallor!” senza possedere uno specchio, o Annina che non “dà accesso a un po’ di luce” nonostante l’ordine della sua padrona, solo per citare alcuni episodi – e alla protagonista che si arrampica sul suo letto di morte, troppo inclinato per essere anche solo lontanamente naturale. Le disapprovazioni del pubblico al termine della rappresentazione sono dunque giustificate, soprattutto trattandosi di un nuovo allestimento, dunque di denaro pubblico buttato dalla finestra.
Pietro Rizzo è sul podio dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, ma sembra non esservi. I musicisti della Fondazione Arturo Toscanini avrebbero potuto suonare da soli ottenendo il medesimo risultato. Purtroppo il suono non è mai all’altezza della verdiana memoria.
Irina Lungu è uno dei soprani tra i più acclamati in Italia in questo momento e ciò è davvero curioso. È indiscutibilmente bella, in possesso di una forte presenza scenica, abile nella recitazione, con un bel timbro di voce, ma assolutamente deficitaria sotto molti aspetti tecnici e il fatto che il suo mi bemolle sia saldo, non fa di lei una brava cantante. Purtroppo La traviata non si fa con una nota soltanto. Nel duetto di primo atto le basse sono un po’ vuote, gli acuti un po’ tirati e le appoggiature non sono tutte al loro posto. Inoltre qualche nota calante fa capolino. Il problema sul passaggio all’acuto – già notato in precedenti situazioni come ne Il corsaro e Il turco in Italia – si nota ancor di più durante l’aria, tra l’altro priva di pianissimi e della seconda strofa. Le agilità della cabaletta riescono bene e, affiancate al buon mi bemolle, strappano uno scrosciante applauso al pubblico piacentino, che forse non ascolta una corretta interpretazione del ruolo da oltre un decennio. La tenuta dei fiati non la aiuta nemmeno nel drammatico duetto con Germont: i piani di “Dite alla giovine” sono solo accennati; meglio invece l’impeto di “Morrò! La mia memoria”. Il difficile terzo atto è a malapena mediocre e anche “Addio, del passato” è spogliato dei filati e della seconda strofa. Al termine dell’esecuzione gli spettatori sono divisi: molti in sala applaudono, tanti altri fischiano.
Non va meglio all’Alfredo di Giuseppe Varano, in possesso della giusta voce, ma non dell’adeguato spessore, né dei necessari colori, né di un minimo di personaggio.
Simone Piazzola è invece un Germont di assoluto rilievo. Il suo miglioramento nel giro di pochi anni è davvero sorprendente, poiché è chiaro quanto il ruolo sia cresciuto a stretto contatto con la sua maturazione vocale. Il fraseggio è davvero espressivo ed interessante, in perfetto accordo con l’interpretazione, veritiera, realistica e notevolmente intensa. L’uso dei colori è veramente importante e ben amalgamato all’omogenea linea di canto, squillante negli acuti e solida nei gravi. Una nota di particolare encomio va all’esecuzione della cadenza “ma se alfin ti trovo ancor”.
Buona è la prova di Milena Josipovic nei panni di una Flora molto efficace, come pure Valdis Jansons e Daniele Cusari nei ruoli del marchese e del dottore. Soddisfacente l’Annina di Paola Santucci. Deludenti Stefano Consolini, Matteo Ferrara, Marco Gaspari e Stefano Cescatti nelle rispettive parti di Gastone, Douphol, Giuseppe e il commissionario.
Il Coro Lirico Amadeus guidato da Stefano Colò non è certamente quello del Teatro Municipale di Piacenza e si sente la differenza.
Decisamente fuori dall’ordinario è la bellissima coreografia di Monica Casadei durante i cori delle zingare e dei mattadori. Assolutamente bravissimi i ballerini professionisti Sara Muccioli e Vittorio Colella, intensi nell’interpretazione, eleganti nella postura, precisi nell’esecuzione.
LUCIA DI LAMMERMOOR [William Fratti] Berna, 5 aprile 2012.
Lo Stadttheater di Berna mette in scena, per ben sedici recite, un nuovo allestimento del massimo capolavoro donizettiano, firmato dal regista berlinese Kay Kuntze e diretto dal maestro serbo Srboljub Dinic, con la vicentina Silvia Dalla Benetta nei panni della protagonista.
L’ambientazione di Kuntze, coadiuvato alle scene e ai costumi da Duncan Hayler, sarebbe davvero interessante, se non fosse stata forzatamente riempita e farcita di inutili fronzoli contemporanei, che perdono completamente senso essendo inseriti in un contesto differente. La romantica Scozia di Walter Scott diventa una sorta di periferia di città, bagnata, sporca e pericolosa; mentre la lotta politica tra le famiglie Lammermoor e Ravenswood sembra trasformarsi in uno scontro tra bande criminali. Fin qui tutto ha un senso, e in alcuni punti la trasposizione è resa in maniera davvero forte, quasi fastidiosa tanto è intensa. Purtroppo le scelte di regia cadono su alcuni ornamenti davvero superflui, come Lucia che nella scena con Enrico sembra uscire da un bozzolo, o Arturo che assomiglia a Il corvo di Alex Proyas, o ancora Lucia che nella cabaletta conclusiva consuma un ridicolo banchetto di nozze con i fantasmi della sua famiglia, che verosimilmente assomigliano più a brutti zombi che partecipano all’ultima cena. Ancor peggiore è la decisione di tagliare alcuni recitativi che non si accordano con la regia: purtroppo ciò che accade è che ci si trova a dover ascoltare Arturo che domanda “Dov’è Lucia?” quand’ella si trova esattamente davanti a lui.
Infine è doveroso spezzare una lancia a favore della sicurezza dei lavoratori del teatro. L’ambientazione dalle tinte forti voluta da Kuntze è molto suggestiva, anche se un po’ troppo leather, ed è resa ancora più reale attraverso l’ideazione in scena di una pioggia continua, con tanto di acqua sul pavimento del palcoscenico. Tutti gli interpreti possiedono giustamente anfibi o scarpe antiscivolo e pesanti mantelli cerati – che tra l’altro si inseriscono perfettamente nella concezione registica – tranne la povera Lucia, provvista di un solo abitino premaman in jersey bianco e di ballerine ai piedi. Occorre ricordare che durante la recita del 9 marzo Silvia Dalla Benetta ha avuto un grosso incidente, decidendo comunque di portare a termine lo spettacolo, ma dovendo rinunciare alla rappresentazione successiva per motivi di salute. Inoltre al termine della serata del 5 aprile, uno dei figuranti a piedi nudi è pesantemente scivolato sull’acqua. Questi episodi non dovrebbero avvenire.
Srboljub Dinic dirige con gusto la precisa Berner Symphonieorchester, anche se in alcuni momenti il suono pareva essere leggermente più forte del dovuto. È un vero peccato che l’opera sia rappresentata con quasi tutti i tagli di tradizione.
Silvia Dalla Benetta è un’interprete fuori dall’ordinario, non solo per la precisione musicale e l’ottima resa del personaggio, ma soprattutto per la vocalità. In tempi recenti si è abituati ad ascoltare il ruolo di Lucia eseguito da soprani leggeri, mentre l’artista vicentina, col maturare della voce, gode ora di tinte ben più drammatiche, naturalissime e mai forzate. La differenza la si nota fin da subito con “Regnava nel silenzio”, aria intrisa di note gravi in cui spesso occorre abbassare l’impostazione, ma ciò qui non accade. L’intera cavatina è eseguita con un elegante canto spianato, arricchita di tutti i piani e gli acutini necessari, e il da capo della cabaletta è impreziosito di belle variazioni e di una cadenza filata da pelle d’oca. Il fraseggio del successivo duetto con Edgardo è davvero espressivo – peccato che i pianissimi siano un poco coperti da un suono orchestrale eccessivo per quella pagina – e la carica drammatica del duetto con Enrico è notevolmente intensa. Durante la scena della pazzia, Silvia Dalla Benetta porta sul palcoscenico una raffinatezza musicale non comune, attaccando “Alfin son tua” con un filo di voce ed eseguendo la cadenza – accompagnata dalla straordinaria flautista Sakura Kindynis – con dei filati naturalissimi e davvero commoventi.
Giacomo Patti è un buon Edgardo e possiede una voce dal bel timbro squillante, con acuti sonori e ben saldi. Le sue qualità e le caratteristiche naturali sono certamente notevoli, ma avrebbero bisogno di essere abbellite da maggiore rotondità e ingentilite da un fraseggio più efficace, che certamente arriveranno con il tempo. Ciò che occorre migliorare da un punto di vista tecnico sono l’uso dei colori e dei fiati, quest’ultimi al fine di affinare piani e pianissimi. “Verranno a te sull’aura” e il concertato della scena del matrimonio sono pagine eseguite molto bene, mentre il duetto della torre è meno riuscito. L’aria finale è corretta, ciononostante la scarsità di colori la rende un poco monotona.
Michele Govi sostituisce all’ultimo minuto l’indisposto Robin Adams nel ruolo di Enrico e di lui si apprezzano la tipica vocalità di baritono all’italiana e il bel passaggio all’acuto. Purtroppo le note basse e i recitativi non sono così apprezzabili e la sua performance passa così in secondo piano.
Carlos Esquivel nella parte di Raimondo non è all’altezza della situazione, presentando una voce che sembra addirittura usurata nonostante la sua giovane età.
James Elliot è un Arturo dalla bella voce chiara, anche se gli acuti appaiono leggermente indietro e la dizione è un po’ British. Stjepan Franetovic è un Normanno davvero efficace, ottimo nell’interpretazione e provvisto di parecchia voce, seppur non eccessivamente musicale. Hélène Couture è una corretta Alisa.
Buona la prova del Chor des Stadttheaters Bern diretto da Simon Rekers.
JAKOB LENZ [Lukas Franceschini] Bologna, 12 aprile 2012.
Il Teatro Comunale di Bologna segna un vertice elevato nella sua stagione operistica inserendo tre recite dell’opera Jakob Lenz di Wolfgang Rihm, in occasione del suo sessantesimo genetliaco, ricorrenza celebrata in tutta Europa ma passata quasi inosservata nel nostro paese. E’ il Direttore Artistico Nicola Sani all’inizio della rappresentazione a salire sul palcoscenico per tenere un breve discorso per l’occasione, mettendo in luce il peculiare progetto bolognese.
Jakob Lenz è un’opera da camera del 1979, pertanto un lavoro contemporaneo, che ebbe il suo battesimo alla Staatsoper di Amburgo l’8 marzo 1979 e probabilmente segna uno dei maggiori successi del compositore tedesco. Il linguaggio musicale di Rihm non è molto distante dai suoi predecessori, anche se egli ha sempre voluto prenderne le distanze, la sua musica rispecchia soprattutto il turbamento espressivo e per alcuni aspetti rispecchia l’atonalità di Berg, centrando sullo sprechgesang il tormento del protagonista. Nella musica moderna, soprattutto tedesca, non si può certo parlare di canto, ma recitar cantando, quando nella parola è inserita la chiave musicale del pensiero, delle frustrazioni del caso in oggetto. La composizione ha tuttavia un suo effetto importante, la crudeltà del linguaggio ben si adopera alla truce e delirante vicenda del poeta Lenz e il libretto di Michael Frohling è di fattura superiore alla media operistica. La vicenda narra l’epilogo della vita dello scrittore Jakob Lenz, il quale colpito da malattia mentale, fu gravemente paralizzato nella sua creatività, vagando per molteplici soggiorni terapeutici. In tali itineranti permanenze in cliniche conobbe Friedrich Oberlin, pastore protestante, che non fu in grado di “curare” con terapie il protagonista. L’ultimo decennio di vita fu per Jakob una tortura infernale e il declino della sua mente fu narrato da Georg Buchner in un romanzo del 1839. Il lavoro del librettista Frohling, basato su questa biografia, è divenuto tessuto di creazione per Rihm, un soggetto forte correlato di altrettanta musica moderna. L’accomunante con Wozzeck di Berg, cui sovente si suole associare l’opera di Rihm, è in parte arbitraria, sia per scrittura musicale sia per soggetto. Tuttavia, il compositore è da ascrivere quale frutto dell’espressione musicale di estetica totale con una forte predominanza del progetto formale, espressa come da lui stesso affermato in un frammento di blocco unico musicale.
Lo spettacolo proposto a Bologna è un riuscito allestimento del Macerata Opera Festival del 2007 di Henning Brockhaus, regia, scene e luci, il quale in una scena unica di drammatica visione, una stanza vuota, sporca, con porte fittizie e un bagno in stato di degrado a destra, descrive in maniera significativa gli ultimi giorni di vita del poeta. L’acqua, elemento di ancor più degrado, incombe sin dalla prima scena, cui seguono quadri di assoluta astrattezza nel continuo girovagare del protagonista fino al drammatico epilogo. Ben caratterizzata la recitazione di tutta la compagnia, cui va il plauso al regista nel creare una claustrofobica e delirante drammaturgia che fin dall’inizio fa capire allo spettatore che non avrà sbocchi risolutivi.
Ottima la direzione di Marco Angius a capo della ridotta orchestra del Comunale, la quale risponde con somma professionalità in un repertorio difficile e di non consueta frequentazione.
Nel cast lodi vanno all’efficace, combattuto e perdente protagonista Tomas Moews, che attraverso una recitazione da manuale e un canto, rasente alla dodecafonia, scolpisce uno Jakob di altissimo livello. Non meno potrei dire di Markus Hollop e Daniel Kirch, Oberlin e Kaufmann, dei quali non si sa se lodare più l’aspetto canoro o quello attoriale. Di rilievo l’apporto musicale delle sei voci soliste e superlativa quella dei mimi.
Successo pieno al termine, ma com’era ovvio prevedere, il Teatro Comunale era semivuoto, questo tipo di repertorio cosi raramente eseguito in Italia, non attira il grande pubblico anche per le sole tre recite in programma.
LE NOZZE DI FIGARO [Lukas Franceschini] Milano, 17 aprile 2012.
Al Teatro alla Scala è stata riproposta per l’ennesima volta l’opera buffa Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart nel celebre allestimento di Giorgio Strehler del 1981 giunto alla nona ripresa.
Scrivere ancora su questo superbo capolavoro operistico è alquanto limitativo e banale per tutto quanto è risaputo e ormai focalizzato. Altrettanto non si dovrebbe aggiungere sullo spettacolo del Maestro triestino, con scene di Ezio Frigerio e costumi di Franca Squarciapino, se non confermarne la strabiliante bellezza che dopo trent’anni mantiene ancora intatta, assieme alla freschezza e alla verve. A chi sostiene che dopo un così considerevole tempo lo spettacolo denota la sua età, si potrebbe rispondere che altre proposte recenti e più moderne (come quella di Venezia ad esempio) non hanno avuto esiti così convincenti. Marina Bianchi, la quale riprendeva la regia, si è attenuta con precisione alle indicazioni di Strehler forgiando la compagnia in una recitazione di altissimo livello. Le splendide scene di Frigerio sono ancor oggi di mirabile delicatezza, come i costumi della Squarciapino, raffinati ed elegantissimi.
La singolarità di questa produzione era costituita dalla presenza di Andrea Battistoni, che è stato il più giovane direttore d’opera a salire sul podio del Teatro alla Scala. Qui mi si permetta una parentesi. I media hanno volutamente rilevare quest’aspetto ancor prima di averlo sentito dirigere. Sue precedenti perfomance al Regio di Parma, ove ricopre la carica di direttore ospite, al Teatro Filarmonico e all’Arena di Verona e in altre sedi concertistiche, hanno avuto esiti favorevoli ma anche recensioni non sempre unitariamente lusinghiere. A tale ovvietà bisogna ricordare che Battistoni ha solamente venticinque anni! Sarebbe più opportuno non creare l’enfant-prodige, bensì lasciarlo studiare e lavorare per formarsi, e tale formazione dovrebbe avvenire nei Teatri di provincia e in qualche sede di Fondazione con progetti ragionati, non essere pertanto catapultato su una delle scene più importanti e famose, la quale potrebbe mettere a repentaglio un talento sicuro ma ancora per molti versi “acerbo”. Tuttavia la sua concertazione era pienamente studiata in un’esecuzione precisa, a volte troppo lenta o troppo veloce, la quale non perde mai il controllo della buca con il palcoscenico, ma tutto ciò a discapito del colore musicale, delle armonie, del pathos e del brio interpretativo. Non si tratta dunque di una lettura musicale di scarsa fattura ma solamente molto accademica che suppongo una successiva esperienza potrà portare a risultati molto più convincenti.
Tra gli interpreti vi sono state delle conferme ma anche qualche delusione. Ildar Abdrazakov era un Figaro spigliato, ben rifinito e vocalmente morbido, Pietro Spagnoli un conte altezzoso di grande fascino scenico e puntuale. Mi ha sorpreso la prova di Aleksandra Kurzak, la quale tracciava una Susanna briosa, simpatica dalla vocalità forbita, ben diversa dalle sue incursioni nel repertorio rossiniano. Delude in parte Dorothea Roschmann una contessa di grande fascino teatrale ma dal timbro ruvido ed aspro nel settore acuto, insignificante il Cherubino di Katija Dragojevic, la quale era stilizzata ma dalla voce piccola e con ben poco da spartire con il registro di mezzosoprano. Natalia Gavrilan disegnava una Marcellina caricata e stridula, Maurizio Muraro confermava la sua valida professionalità nel ruolo di Bartolo. Ottimi il Basilio di Leonardo Cortellazzi e l’Antonio di Davide Pelissiero, Emanuele Giannino era un bravo Don Curzio, Pretty Yende una Barbarina di routine. Successo al termine.
STIFFELIO [William Fratti] Parma, 18 aprile 2012.
La brevissima Stagione Lirica 2012 del Teatro Regio di Parma, dopo il grave insuccesso di Aida, termina con Stiffelio, opera raramente rappresentata, rivisitata dallo stesso Verdi e tramutata in Aroldo, altrettanto sporadicamente messo in scena. È proprio l’aulica sala parmense l’artefice della rinascita moderna di Stiffelio, avvenuta nel 1968 dopo oltre un secolo dalla sua ultima esecuzione, nella forma, avallata dalla censura, di Guglielmo Wellingrode. Purtroppo il melodramma, uno dei più sperimentali di Verdi, gode di pochissima letteratura, pertanto una sua corretta realizzazione musicale avrebbe bisogno di interpreti assolutamente ben ferrati in materia verdiana, soprattutto della parte più giovanile. E ciò non vale solo per i cantanti e il direttore, ma anche i responsabili musicali. Pertanto ciò che ne è uscito è una messa in opera sommaria.
Il primo grave errore è stata la scelta di Andrea Battistoni come maestro concertatore e direttore. Nessuno vuole mettere in dubbio la sua bravura, il suo bel gesto e lo sfavillante svolgimento della sua folgorante carriera, ma a soli venticinque anni non è matematicamente possibile avere l’esperienza necessaria per operare su uno spartito pressoché sconosciuto, che non ha certamente una scrittura precisa come Otello e Falstaff. Pertanto ciò che ne risulta è una visione musicale abbastanza piatta, poco cromatica e che predilige forti e mezzo forti.
Roberto Aronica si cimenta con un ruolo molto arduo e pesante, che necessita di notevoli spinte e tinte drammatiche, oltreché essere parecchio centrale, ma se non si è attentissimi all’uso dell’accento e dei colori, per non parlare dei fiati e del fraseggio, ciò che ne consegue è un canto quasi urlato, poco raffinato e di conseguenza poco pulito, sia negli attacchi che negli acuti, fino a sembrare che la parte inizi pian piano a consumare la voce dell’interprete. Dunque i pochi piani – nonostante lo spartito sia intriso di p e pp – non sono molto nitidi, mentre più piacevoli sono frasi come “Chi ti salva, o sciagurato” e “Iddio l’ha maledetto”. È indiscutibile la difficoltà di alleggerire e sfumare con questa scrittura, ma è proprio per questo che in un’opera del genere diventa indispensabile il lavoro dei responsabili musicali, che dovrebbero essere in grado di trasmettere ai cantanti e al direttore la vera intenzione verdiana.
Guaqun Yu è una Lina corretta ed elegante, che ben esegue la preghiera di primo atto ed il seguente duetto col padre, e dotata di buona padronanza tecnica, anche se i pianissimi possono essere ancora migliorati. La soprano cinese è certamente meritevole di tutti gli applausi ricevuti. Ciononostante è vittima della sua inesperienza. Ella non commette sbagli, ma l’errore grave è quello della sovrintendenza che approfitta di un’interprete giovane e volenterosa nel coprire un ruolo che avrebbe certamente bisogno di maggior spessore, perizia e competenza. Cantare Lina in costume in un grande teatro, non è come cantare Leonora a Busseto in forma di concerto.
Roberto Frontali, oltre ad avere debuttato più della metà dei titoli verdiani, già si è cimentato con la parte di Stankar a Londra nel 2007, pertanto gode di quel valore aggiunto che nessun’altro interprete possiede in questa rappresentazione. E la differenza si sente. Egli presenta un accento da vero interprete verdiano fin dalle primissime frasi, esibendo poi un fraseggio elegante ed espressivo nel duetto con la figlia. Il recitativo “Ei fugge!” è ben condito di tinte drammatiche e l’aria successiva “Lina, pensai che un angelo” mostra una linea di canto davvero invidiabile, con un passaggio solidissimo.
Gabriele Mangione è un Raffaele non troppo intonato e George Andguladze è uno Jorg con poco spessore. Efficaci il Federico di Cosimo Vassallo e la Dorotea di Lorelay Solis.
Il nuovo allestimento coprodotto con l’Opéra di Monte Carlo, firmato da Guy Montavon, con scene e costumi di Francesco Calcagnini, è molto sobrio e funzionale allo scopo, anche se certe scelte di regia cadono tra la banalità e il falso realismo. Ad esempio, simbolicamente parlando, è interessante avere un Raffaele – personificazione del tradimento – vestito di rosso, unico colore acceso in un tripudio di tonalità del grigio e del marrone; ma, realisticamente parlando, cosa ci fa il nobile Leuthold così abbigliato in una comunità di mormoni? Lo stesso vale per Lina che, a simbolo del perdono, veste di bianco nel finale; ma nella realtà lo avrebbe mai fatto? Per non parlare delle pietre che scendono dal soffitto a rinforzo della parabola dell’adultera. Poi ci si potrebbe domandare come mai Lina si inginocchia a scrivere la lettera, avendo a sua disposizione due seggiole; oppure come mai Stiffelio strappa i fogli perduti dicendo “Ardan col nome del seduttor. Colla cenere disperso sia quel nome e quel delitto”.
Buona, ma non eccelsa, la prova del Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani.
LA GAZZA LADRA [Lukas Franceschini] Verona, 20 aprile 2012.
È abbastanza curioso che l’opera La gazza ladra, grande successo scaligero di Gioachino Rossini, fu stata rappresenta a Verona solo nel 1824 prima dell’edizione odierna che conclude la stagione lirica invernale 2011/2012.
In effetti, il melodramma è da ascrivere al genere “semi-serio”, categoria operistica importata cui molti compositori si produssero in maniera encomiabile. Rossini aveva già esordito nel teatro milanese non con grande successo, ma con la Gazza ottenne un trionfo vero e proprio, il tutto confermato dalle lettere spedite alla madre. L’opera circolò in tutta Europa per diversi anni cadendo poi nell’oblio sul finire del secolo XIX. Anche nel ‘900 le riprese si contano sulle dita di una mano. Non è certo il capolavoro del pesarese, anche se la sinfonia divenne celebratissima ed eseguita spesso sia in sede concertistica sia in sala d’incisione, ma La gazza ladra rappresenta un nuovo modello sul quale Rossini non tornò sovente. Il titolo fu scelto per inaugurare il 1° Rossini Opera Festival (1980), seguì un’altra edizione nel 1989 e la successiva del 2007 (coproduzione con Bologna e Verona) che finalmente approda al Teatro Filarmonico.
In Rossini il vigore è soprattutto ritmo e la sinfonia lo dimostra chiaramente. La drammaturgia segue un canone specifico ove la favola, il romanzo e la tragedia si mescolano in modo caratteristico e la musica conduce la vicenda come “una pulsione cardiaca” (G. Marchesi) verso il lieto fine. La mescolanza degli aspetti patetici, i personaggi di Ninetta e del padre, con altri drammatici, il carcere, il processo, la condanna a morte, cui si aggiungono quelli comici, la “gazza” e il personaggio di Pipppo, forgiano una partitura difficile sia dal punto di vista strumentale sia vocale, proprio per quell’equilibrio tra candore e fasto musicale di raffinata scrittura. Altra peculiarità dell’opera è che in quest’occasione Rossini non si avvalse di nessun autoimprestito da precedenti lavori.
Lo spettacolo proposto a Verona è appunto la produzione del Rof, eseguita anche a Bologna, con la regia di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti. Al suo esordio fu un vero successo, e ciò è riconfermato anche oggi. Il regista intelligentemente parte dal presupposto che la trama è alquanto bizzarra, una ragazza è condannata a morte per il furto di una posata, pertanto realizza durante la sinfonia una sorta di sogno-incubo, nei quali spessi si “vivono” situazioni assurde e la gazza è rappresentata da bimba che non riesce a dormire e sogna in seguito la curiosa storia dell’uccello che ruba la posata del cui furto è condannatala protagonista. È una visione molto centrata e ben realizzata con la bellissima scena di Paolo Fantin, il quale rifacendosi ai giochi dei bimbi realizza nel primo atto una sorta di “lego” a tubi che crollano drammaticamente nel secondo quando l’azione precipita vertiginosamente nel drammatico con la prigionia e il processo per sfortunata Ninetta. Ammetto che è molto difficile realizzare una recitazione appropriata su un testo così ibrido, ma l’idea del regista è geniale e molto pertinente, egli rifugge come suo consueto da classici e scontati stereotipi. L’idea di far interpretare la gazza ad un’acrobata è ancor più spettacolare oltre che scenicamente di rilievo, tuttavia Michieletto non approfondisce minimamente l’aspetto comico della vicenda puntando più sul dramma-incubo della giovane ragazza e realizza uno spettacolo nel suo insieme di estrema finitura e brillante fantasia coadiuvato da luci di pregio ed utilizzando l’acqua nel secondo atto, elemento “distruttivo” di decadenza, anche se dalla platea del Filarmonico non creava lo stesso fascino che era visibile a Pesaro.
Dal punto di vista musicale abbiamo avuto il debutto di Giovanni Battista Rigon al Filarmonico. Il direttore vicentino si è adoperato con buona professionalità guidando l’orchestra locale con precisione ma la sua concertazione è caratterizzata da un’interpretazione esclusivamente drammatica più votata alla pesantezza mentre sarebbe stato opportuno mantenere un equilibrio, seppur difficile, semi-serioso. Inoltre mancava in parte nelle sonorità sia orchestrali sia nel rapporto palcoscenico – buca, ed ha attuato dei tagli che oggigiorno non possiamo condividere.
Majella Cullagh era una Ninetta preparata e sufficientemente idonea nonostante una voce poco sensuale, non armoniosa e un registro acuto molto forzato, fortunatamente la parte è soprattutto centrale e pertanto non abbiamo avuto evidenti scivolate come avvenuto in sue recenti performance nel repertorio belcantistico. Mario Zeffiri era un’improponibile Giannetto sia per un timbro non seducente sia per carenze tecniche, cui va aggiunto un registro acuto esile e non centrato. I migliori cantanti schierati erano i due giovani bassi Roberto Tagliavini e Mirko Palazzi. Il primo, che interpretava Fernando, offriva una vocalità pastosa e rotonda, magari non sempre raffinato ma sicuramente molto efficace ed espressivo, il secondo, che interpretava il Podestà, anche se non sempre preciso negli acuti della difficilissima aria del II atto, dimostrava nobiltà d’accento ed espressione virtuosistica appropriata cui si sommano accenti ed intenzioni meritevoli di lodi. Pippo è stato sostituito all’ultimo momento e l’annuncio dato via altoparlante ad inizio d’opera. Silvia Regazzo del contralto non ha proprio nulla, anzi sembrerebbe un soprano corto e scuro, ma non ha fatto danni. Buone le prove di Omar Montanari e Giovanna Lanza, cantanti precisi, musicali e molto bravi scenicamente. Appropriati gli interventi degli altri interpreti nei ruoli secondari: Iorio Zennaro, Cosimo Panozzo, Matteo Ferrara e Gocha Abuladze. Purtroppo in locandina non troviamo il nome dell’acrobata che impersonava la “gazza”, tuttavia merita un plauso per la sua esibizione ginnica e per i perfetti interventi nello spettacolo. Teatro quasi esaurito, pubblico partecipe anche se non del tutto convinto dalla partitura sconosciuta che comunque al termine ha tributato un caloroso successo a tutta compagnia.
DON PASQUALE [Natalia Di Bartolo] Agrigento, 21 aprile 2012.
Grande successo al Teatro Luigi Pirandello del Don Pasquale di Gaetano Donizetti. L’Opera buffa del genio bergamasco, da alcuni considerata il suo capolavoro, ha chiuso in bellezza la 1ª Stagione Lirico Sinfonica 2011-2012 “Agrigento all’Opera” del Teatro della città dei Templi.
Protagonista dell’Opera donizettiana, nei panni di Don Pasquale, il basso buffo di origini agrigentine Salvatore Salvaggio, che ha curato anche una spumeggiante ed originale regia. Il giovane cantante, che ha recentemente ricoperto il ruolo di Don Abbondio nel Musical I promessi sposi diretto da Michele Guardì, ha ben reso il carattere del personaggio, oltre che con voce ben impostata ed adatta al ruolo, anche grazie ad una lodevole e consumata presenza scenica; nonché ha colto dal punto di vista registico lo spirito giocoso dell’Opera.
Il M°. Salvaggio è stato affiancato e coadiuvato da un cast di tutto rilievo: il soprano Tullia Bellelli, una Norina, apprezzabile soprattutto quando alle prese con le agilità di una tessitura sorridente, ma non certo di agevole esecuzione; il tenore Nicola Pisaniello, un Ernesto dalla bella voce chiara, potente e soprattutto promettente a fronte di studi che ne perfezionino meritatamente la bella pasta giovanile e l’emissione; il divertente baritono Emilio Marcucci, un dott. Malatesta ammiccante e perfettamente calato nel ruolo sia vocale che scenico; il basso-baritono Salvo Terrazzino, spiritoso Notaro alle prese con una obsoleta macchina da scrivere e tanti “eccetera”.
Alla guida della sempre brillante Mediterranea Chamber Orchestra Città di Agrigento, il M° Concertatore e Direttore d’Orchestra Francesco Di Mauro, che ha dato verve e giusta spinta alla partitura donizettiana, rispettandone ed a volte esaltandone i tempi giocosi nelle parti puramente orchestrali. Originale l’intermezzo pianistico da tabarin anni ’30, voluto dal regista, eseguito dal M° collaboratore Salvatore Galante. Corretto e gradevole il Coro Polifonico Luigi Pirandello, diretto dal M°. Giuseppe Messina. Apprezzabili l’ambientazione scenica di Cinzia Carollo ed i costumi della Sartoria Pipi.
Da rilevare decisamente, nel complesso, come gradevoli ed ammirevoli soprattutto la coesione e la sintonia di ogni parte dello spettacolo, che è risultato così fluido e fruibile in ogni aspetto, a tutto vantaggio di un’opera che, nonostante il proprio altissimo valore artistico, non è nota al grande pubblico tanto quanto il delizioso L’Elisir d’amore o la struggente, divina Lucia di Lammermoor dello stesso autore.
L’opera buffa del genio bergamasco ha portato quindi una ventata di sorrisi al pubblico agrigentino, reduce da una commovente e coinvolgente La Bohème pucciniana, per la regia di Paolo Panizza, che ha registrato, come tutte le altre manifestazioni della Stagione, un vero successo di pubblico e critica; il che spinge gli Organizzatori a perseguire tenacemente l’obiettivo di far proseguire nel tempo le Stagioni Lirico-Sinfoniche di produzione, dello splendido Teatro della città dei Templi, con eventi che lo hanno già messo alla stregua dei teatri più prestigiosi e che certamente si dimostreranno nel tempo sempre più pregevoli.
Il sindaco di Agrigento avv. Marco Zambuto, Presidente della Fondazione Teatro Luigi Pirandello Valle dei Templi Agrigento, il Direttore Generale di questa prof. Massimo Muglia e, non ultimo, il lodevolissimo Direttore Artistico della Stagione M° Onofrio Claudio Gallina, coadiuvati da un compatto e motivato Staff, hanno profuso ogni energia durante l’intera Stagione, perché l’Opera ed i Concerti di Classica tornassero ad Agrigento nel proprio habitat naturale, con la massima trasparenza ed offrendo alla città tutta ed ai turisti che l’affollano tutto l’anno un’occasione culturale decisamente da non perdere.
Un successo annunciato e soprattutto fortemente voluto, quindi, quello del Don Pasquale e, nel suo complesso, dell’intera Stagione, perché non a caso i detti popolari rispecchiano la realtà delle cose: l’unione fa la forza.
E se all’unione si unisce l’esperienza accumulata in loco e concretamente anche in un’intera Stagione da parte di chi abbia profuso ogni energia mentale, nervosa e fisica per organizzarla e porgerla al meglio al pubblico ed alla critica, la forza diventa prorompente e non si può che chiudere con il meritato successo la prima fase di un’impresa improba, che a molti era apparsa quasi come un’utopia; il capitolo d’apertura di quella che ormai appassionati ed anche neofiti auspicano come la prima di una lunga serie di Stagioni Lirico-Sinfoniche al ritrovato, magnifico Teatro Pirandello di Agrigento.
TURANDOT [William Fratti] Genova, 22 aprile 2012.
Il Teatro Carlo Felice di Genova, dopo aver passato momenti davvero difficili, torna ad essere un vero e proprio punto di riferimento per l’opera italiana, mettendo in scena il classico e già più volte applaudito allestimento di Turandot firmato da Giuliano Montaldo, con scene di Luciano Ricceri, costumi di Elisabetta Montaldo Bocciardo, luci di Luciano Novelli e coreografie di Giovanni Di Cicco. Lo spettacolo non ha bisogno di presentazioni, né di critiche, ma è doveroso sottolineare che funziona ancora benissimo, in maniera efficacissima.
Questo appuntamento avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello del Teatro e della Regione, con la partecipazione di artisti di fama internazionale e dalle origini liguri, tra cui Montaldo, ma il forfait di alcuni di loro non ha permesso di portare il progetto fino in fondo.
Sul podio è il genovese Marco Zambelli, che forse non è abilissimo nello sviluppo dei colori pucciniani più raffinati, prediligendo le parti più intense e passionali, ma sa rendere l’orchestrazione in maniera coinvolgente.
Giovanna Casolla, che quest’anno festeggia 35 anni di carriera, è ancora una Principessa Turandot di riferimento, sia per la voce che per l’interpretazione, dotata di una tecnica importante che le permette di affrontare il personaggio mantenendo sempre intatta un’ottima linea di canto, omogenea anche nei frequenti passaggi dalle frasi in forte e mezzo forte, alle frasi in piano e pianissimo. Gli acuti sono puliti e solidissimi. Forse i centri e i gravi non sono più così corposi come un tempo, ma passano in secondo piano.
Antonello Palombi accetta di interpretare il ruolo di Calaf anche nelle prime recite, pur essendo impegnato in altre produzioni e lo fa col giusto vigore. Volendo cercare il pelo nell’uovo, i suoi acuti non sono sempre squillanti, ma accade che siano indietro o ingolati e ciò potrebbe avvenire per eccessiva stanchezza. Ciononostante la resa è più che apprezzabile e meritati sono gli scroscianti applausi.
Mariella Devia, ligure di nascita, debutta il ruolo di Liù dopo tanti anni di impegno nel belcanto, ma ciò non deve sorprendere, partendo dal presupposto che il canto è lo stesso e che la tecnica è una sola. La Signora Devia, come di consuetudine, porta sul palcoscenico la perfezione fatta persona, soprattutto nell’uso del legato. La lunga scena ed aria di terzo atto è elegante ed emozionante, sia nella voce che nella resa del personaggio, che questa volta risulta essere intenso e non distaccato come in altre occasioni. Purtroppo non si può dire lo stesso di primo atto. Nonostante il canto sia puntuale e compiuto, manca di spessore. In effetti “Signore ascolta” e il successivo terzetto sono molto centrali e l’orchestrazione sottostante è decisamente importante.
Alessandro Guerzoni è un Timur che passa molto inosservato.
Giovanni Guagliardo è un Ping molto efficace, sia nell’interpretazione vocale che scenica. Leonardo Alaimo è un Pong dalla bella voce elegante, forse leggermente piccola nei pezzi d’assieme più corposi. Meno adeguato è il Pang di Federico Lepre.
Molto appropriati l’Imperatore Altoum di Massimo La Guardia e il Mandarino di Fabrizio Beggi.
Buona la prova del Coro guidato da Marco Balderi.
STIFFELIO [Lukas Franceschini] Parma, 24 aprile 2012.
La Stagione Lirica 2012 del Teatro Regio di Parma si conclude con Stiffelio di Giuseppe Verdi, in un nuovo allestimento firmato da Guy Montavon in coproduzione con l’Opéra di Monte Carlo.
Stiffelio è un’opera sul confine della maturità di Giuseppe Verdi, infatti, è datata 1850, ultimo lavoro prima della trilogia romantica e dei capolavori successivi. Altra particolarità consiste nel fatto che assieme a Simon Boccanegra è lavoro cui il compositore mise mano facendone un radicale rifacimento nel 1857 creando Aroldo. Credo che assieme ad Alzira sia l’opera “più dimenticata” di Verdi ed ingiustamente! Stiffelio possiede un senso drammatico d’altissimo valore e una linea intimistica che sarà maggiormente sviluppata in spartiti successivi. Non si può sottovalutare che l’opera è tratta dal dramma da “Le Pasteur” di Emile Souvreste ed Eugène Bourgeois, con libretto di Francesco Maria Piave. Trattasi di un tema scabroso come l’adulterio, anche se ambientato in una comunità protestante, che viene parzialmente lavato con il sangue da parte del padre dell’adultera e definitivamente dal protagonista, il marito, rifacendosi ai dettami della bibbia. Come di consueto Verdi cerca canovacci non facili e i problemi con la censura non mancarono, la scena finale che si svolge in una chiesa fu ritenuta blasfema e malamente tagliata. Da sempre non fu una trama facilmente compresa o accettata soprattutto dai pubblici italiani e anche con il successivo rifacimento cadde nell’oblio fino ai tardi anni ’60 del XX secolo, ma anche da allora il suo recupero è stato abbastanza sporadico.
Le recite programmate nella breve stagione di Parma, due titoli, sono un altro capitolo per la messinscena di tutte le opere di Verdi in vista dell’anniversario nel 2013. Lo spettacolo presentava delle eccellenti scene di Francesco Calcagnini, il quale curava anche dei costumi efficaci tutti grigi per lo spirito quasi di puritanesimo che contraddistingue la setta, una nota di colore era il costume rosso del seduttore Raffaele. La regia non trovava una linea di lettura particolarmente efficace e Guy Montavon non sprigionava idee spettacolari, anzi nel primo atto la banalità era dominante, meglio la caratterizzazione del secondo, scena del cimitero, e ben realizzata la terza ove dal tetto della chiesa scendevano una serie di sassi che nessuno poteva prendere così rifacendosi al sermone “chi è senza colpa scagli la prima pietra”. Resta comunque uno spettacolo apprezzabile seppur non memorabile.
Sul podio Andrea Battistoni che nel giovane Verdi trova spazi migliori che nel recente Mozart scaligero. Tuttavia la sua direzione non è plasmata da particolari ricerche interpretative, in particolare nell’aspetto intimistico della partitura, ma esegue tutto con una sommaria piattezza e il colore orchestrale è a lui estraneo pur non perdendo il percorso narrativo.
Roberto Aronica debuttava nella difficile e poco edificante parte del protagonista. Affetto nelle recite precedenti da indisposizione, all’ultima alla quale ho assistito, è stato uno Stiffelio nobile ed intimamente lacerato, ma il fraseggio non è ben risolto, oltretutto non è prevista per lui nessuna grande aria il che penalizza il ruolo e se non si riesce ad emergere nello stile e nella parola verdiana poco si aggiunge alla monotonia.
Sua moglie Lina, nell’opera, era Yu Guanqun soprano asiatico in possesso di un buon materiale vocale ma ancora troppo acerbo e pertanto incapace di risolvere a dovere la temibile aria del secondo atto. Non ha fatto danni ma è passata quasi inosservata in attesa di future, speriamo, più forbite performance.
L’unico cantante in stile con Verdi era Roberto Frontali, una sicurezza in tale repertorio. Non è sua abitudine una ricerca particolareggiata degli accenti ma la voce è rotonda e sicura e il personaggio ne esce a tutto tondo, aspetto condiviso anche dal pubblico che gli ha tributato un’autentica e meritata ovazione.
Il Raffaele di Gabriele Mangione era corretto e preciso come ben assortiti erano anche gli altri interpreti nei loro brevi interventi: George Andguladze, Cosimo Vassallo e Lorelay Solis. Di fattura la prestazione del coro istruito da Martino Faggiani. Buon successo al termine.
RINALDO [William Fratti] Reggio Emilia, 27 aprile 2012.
A conclusione della Stagione d’Opera 2011-2012, il Teatro Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia ripropone Rinaldo di Friedrich Händel nello spettacolo creato ed interamente firmato da Pier Luigi Pizzi nel 1985.
Innanzitutto è doveroso sottolineare l’alto livello qualitativo e professionale delle proposte reggiane – una delle poche realtà che oggi ancora crede nel concetto di fare cultura, e non di restringe il cartellone ai soli titoli popolari – le cui uniche pecche, negli ultimi anni, si sono riscontrate solamente in alcune produzioni provenienti ed interamente curate da altre istituzioni. In secondo luogo occorre rimarcare l’interesse artistico e la convenienza economica nel riallestimento di messinscene molto ben riuscite come quella in oggetto.
Lo spettacolo di Pizzi è efficacissimo ed elegantissimo, interamente votato al classicismo e non al realismo, sorprendentemente in continuo movimento, mai noioso o monotono, nemmeno durante alcune delle lunghe e ripetute arie, grazie ad alcuni accorgimenti di regia davvero opportuni. Il plauso va anche alle luci di Vincenzo Raponi, non solo per la suggestività, ma soprattutto per la precisione dei puntamenti. Altrettanti consensi vanno alle coreografie di Roberto Maria Pizzuto e a tutti i figuranti, impegnati nello spostamento dei carri che sorreggono i protagonisti e nei giochi di luce e movimento creati coi mantelli.
Ottavio Dantone, sul podio dell’Accademia Bizantina, oltreché seduto al cembalo, guida sapientemente l’orchestra nei cromatismi più raffinati della musica di Händel, accurato nello sviluppo della partitura e pregevole nell’uso dei colori.
Delphine Galou, contattata all’ultimo minuto per sostituire l’indisposta Marina De Liso, inizialmente veste i panni di Rinaldo con leggera insicurezza, anche nella voce che si presenta lievemente opaca, ma col procedere della vicenda acquisisce maggiore padronanza del palcoscenico ed ottiene certamente un buon risultato nell’esecuzione musicale e vocale e nella recitazione.
Maria Grazia Schiavo è un’Almirena abile nel fraseggio e nell’uso dei colori, ben dosata nell’interpretazione e giustamente patetica nella celebre aria “Lascia ch’io pianga” in cui si nota un piacevolmente omogeneo passaggio all’acuto.
Roberta Invernizzi possiede le giuste tinte drammatiche per dare vita al personaggio di Armida in maniera efficace e ben costruita. È affiancata da Riccardo Novaro nel ruolo di Argante, dove mostra uno squillo ben chiaro e limpido.
Krystian Adam veste in maniera opportuna i panni di Goffredo ed adeguati sono Antonio Vincenzo Serra e William Corrò nei ruoli del Mago e dell’Araldo, oltre a Lavinia Bini che dona voce alla Donna e alle Sirene.
DER ROSENKAVALIER [William Fratti] Firenze, 4 maggio 2012.
Zubin Metha inaugura la settantacinquesima edizione del Maggio Musicale Fiorentino riproponendo uno dei capolavori della cultura musicale mitteleuropea, quel Der Rosenkavalier di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, che manca a Firenze dal 1989.
È un grande successo per tutti la serata inaugurale del Maggio Musicale Fiorentino che, giunto alla sua settantacinquesima edizione, propone un programma intenso e ricco di appuntamenti ad alto contenuto culturale. I prezzi della prima di Der Rosekavalier sono molto alti, ma fortunatamente la seconda galleria è gremita di melomani appassionati; purtroppo lo stesso non si può dire per la platea, i palchi e la prima galleria, dove nonostante l’alto numero degli invitati (non si capisce perché non si sia ancora riusciti ad eliminare questo cancro dell’opera, la cui crisi economica è in costante aumento e il numero degli omaggi o dei crediti amministrativi non dà segno di diminuzione) i posti vuoti sono diversi e particolarmente vistose sono le personalità assenti.
Der Rosekavalier non è un’opera di facile messinscena, ma in quest’occasione il Maggio riesce a mettere insieme il giusto gruppo di lavoro, ottenendo un buon risultato sotto ogni punto di vista. Al termine della rappresentazione il pubblico si mostra caloroso e accogliente con tutti, soprattutto con i cantanti protagonisti e il Maestro Mehta. Pochissimi e fievoli dissensi nei confronti dell’orchestra e del regista sono nascosti da scroscianti applausi ben più numerosi.
Il vero protagonista della commedia di Strauss è la musica, e la precisione di Zubin Mehta, che talvolta può risultare troppo severa nel repertorio ottocentesco più popolare, qui è ben accetta, anzi, indispensabile. Gli oltre cento musicisti in gioco sono guidati con polso perfetto e la compagine orchestrale si muove con un respiro all’unisono, prodigandosi nei cromatismi straussiani come da spartito. La performance è talmente buona da far dimenticare lo scomodo sciopero durante la precedente Anna Bolena.
Caitlin Hulcup interpreta un Octavian accattivante, ma dalla sua esecuzione vocale ci si aspettava molto di più. Non si possono segnalare errori o sbavature, ma il suo canto spesso passava in secondo piano. In poche parole non reggeva il confronto – inevitabile – con il realismo espressivo della bravissima Angela Denoke, né con la delicata finezza di Sylvia Schwartz.
Angela Denoke è una Marescialla prima sensuale poi totalmente affranta, autoritaria ma materna allo stesso tempo ed impersona magnificamente l’elemento del declino, della sfioritura e del dolore che ne consegue, senza eccedere. La voce del soprano tedesco è molto importante, sa essere elegante ed espressiva, col solo appunto di qualche nota non propriamente intonata. Il meritato successo che ottiene si riferisce particolarmente al finale di primo atto e al terzetto che chiude l’opera, magistralmente interpretati.
Kristinn Sigmundsson è un Barone Ochs divertente e giustamente misurato, che sa esprimersi in situazioni spassose senza cedere negli stereotipi buffi ottocenteschi, al massimo occhieggiando al Falstaff verdiano. Mostra un buon fraseggio, particolarmente piacevole nello sviluppo del suo ruolo, e una vocalità decisamente adeguata, seppur poco solida ed imponente nelle note più basse.
Sylvia Schwartz è una Sophie davvero pregevole e raffinata, abilissima nei filati e nei pianissimi, salda negli acuti ben impostati. Della soprano anglo-spagnola si apprezza particolarmente la morbida linea di canto – notevole la scena in cui Octavian le consegna la rosa, forse la migliore dell’esecuzione – in un’opera in cui il canto parlato la fa da padrone.
Eike Wilm Schulte, nel ruolo di Faninal, mostra una bella voce squillante e un facile passaggio all’acuto. Lo affianca Ingrid Kaiserfeld nei panni di un’efficace Marianne Leimetzerin.
Anna Maria Chiuri e Niklas Björling Rygert, Annina e Valzacchi, sono indiscutibilmente i personaggi più divertenti di questa produzione. La costruzione della loro parte, anche nei punti in cui non cantano, è realizzata con estrema cura e nella resa i due interpreti sono chiaramente abilissimi. Inoltre il mezzosoprano di origine altoatesina si prodiga in un canto corposo e imponente, ma anche raffinato nei pianissimi, dimostrando una certa padronanza dello stile straussiano.
Celso Albelo è interprete della celebre aria del cantante italiano, ma pur esibendo la sua bellissima voce, non sa donare il giusto colore e l’adeguato fraseggio patetico a quella che dovrebbe essere la musica più affascinante dell’opera.
Ben eseguiti ed efficaci gli altri ruoli comprimariali, compresi quelli muti.
Buona la prova del coro diretto da Piero Monti, con particolare menzione per il Coro di voci bianche della Scuola di Musica di Fiesole guidato da Joan Yakkey.
Lo spettacolo firmato da Eike Gramss è un buon esempio di classicismo espresso con sistemi moderni. Innanzitutto si nota una particolare attenzione alla parola scenica: gli interpreti hanno sempre la possibilità di esprimersi senza incorrere in scomode scelte di regia. Inoltre si percepisce immediatamente – e senza alcun fastidio, anzi, con vero piacere – l’atemporalità che si è voluta trasmettere, o meglio, il prolungamento dell’epoca scenica, non più confinata al tempo dell’Imperatrice Maria Teresa, ma estesa fino agli ultimi momenti della potenza asburgica, quasi a sottolineare i quasi 150 anni impiegati, dalla Rivoluzione Francese alla Prima Guerra Mondiale, al compimento del declino della nobiltà europea. Il pregevole impianto scenografico di Hans Schavernoch forse risulta essere un poco monotono in primo atto e non propriamente azzeccato in terzo, ma comunque sempre elegante e di buon gusto. I bei costumi di Catherine Voeffray sono azzeccatissimi e contribuiscono ad una migliore caratterizzazione dei personaggi; davvero pregevoli gli abiti indossati dalla Marescialla e Sophie, oltreché da Marianne e Annina. Le luci di Manfred Voss sono particolarmente suggestive, soprattutto all’apertura della scena della consegna della rosa e del finale ultimo.
Un successo meritato per tutti.
Peccato che la temperatura eccessivamente bassa dell’impianto di condizionamento abbia causato una vera e propria epidemia di starnuti in sala durante secondo atto, disturbando chiaramente lo svolgimento musicale.
POWDER HER FACE [Lukas Franceschini] Venezia, 4 maggio 2012.
La Stagione del Teatro La Fenice prosegue al Teatro Malibran con Powder Her Face, opera contemporanea di Thomas Adès su libretto di Philip Hensher, nell’allestimento del Teatro Rossini di Lugo di Romagna e del Teatro Comunale di Bologna.
L’opera, sviluppata in otto scene, è una delle più belle e funzionali realizzazioni della contemporaneità musicale internazionale. Il soggetto è ispirato ad alcuni momenti della vita di Ethel Margaret Whigham, la quale passò alla storia soprattutto in Gran Bretagna per essere imputata in uno dei più celebri processi d’infedeltà coniugale che ebbe ampio eco sulle pagine dei giornali per i particolari pruriginosi. La protagonista, nata da ricchissima famiglia scozzese, sposò in prime nozze, il signor Sweeny, poi nel 1951 il duca di Argyll il quale seppur blasonato era oppresso dai debiti. Il padre della neo duchessa pagò tutti i debitori del secondo marito, il quale si seppe poi, la sposò solo per interesse. Donna bellissima ed esponente del bel mondo a livello internazionale fu corteggiata ed ammirata da personaggi famosi, Cecil Beaton le fece un celebre ritratto, Cole Porter compose un song per lei Nel 1963 dovette affrontare una celebre causa di divorzio nella quale il marito duca portò in aula, a scopo ricattatorio, alcune foto che la ritraevano mentre compiva atti di erotismo orale con un uomo, il quale non fu mai indentificato, ma circolarono i nomi di Douglas Fairbanks jr. e il ministro Duncan Sandys (genero di Winston Churchill). La causa di divorzio della Duchessa invase le pagine di tutti i giornali per le vicende pruriginose (una sorta di bunga-bunga del secolo scorso) cui si aggiunse per colpo ferire la sentenza pronunciata dal giudice che la definì “donna sessualmente sfrenata non appagata dai normali rapporti sessuali iniziando così pratiche erotiche per soddisfare impulsi degradanti”. Anche dopo la condanna occupò la scena del jet-set internazionale, con frequentazioni anche nella casa Reale Windsor, cacciata dalla suite del Grosvenor House Hotel ove viveva, con un debito di parecchie migliaia di sterline, morì sola ed in miseria in una casa di cura di Pimlico nel 1993. Volle essere sepolta accanto al primo marito, pur mantenendo il doppio cognome ed il titolo di duchessa.
La drammaturgia dell’opera, definita da camera, è sviluppata in una sorta di flashback, si parte dalla triste fine della protagonista per evocare i punti salienti della sua vita: il divorzio dal primo marito (1934), il matrimonio con il duca (1936), uno dei tanti rapporti sessuali (con un cameriere d’albergo 1953), il divorzio (1955) e l’intervista concessa ad una giornalista di moda (1970). Il titolo poi non ha una traduzione dall’inglese esatta, potrebbe essere adattato in quel “powder” anche a polvere ovvero a sostanze stupefacenti molto in uso nelle classi altolocate e ad altra sostanza organica maschile cui la duchessa avrebbe abusato nei suoi rapporti sessuali.
Il libretto di Philip Hensher è di altra fattura drammatica e molto coinvolgente, rifugge (salvo alcuni termini ineluttabili) dal linguaggio scurrile e sviluppa le vicende della duchessa non tanto quanto “peccatrice” di moralità (chi potrebbe oggigiorno essere giudice di comportamenti privati) ma quanto a vittima di se stessa e di una società (inglese) bigotta e puritana in pubblico, assai più procace in privato, ispirandosi anche a modelli femminili come Lulu di Alban Berg o Baba la Turca dal Rake’s Progress di Igor Stravinskij.
La parte musicale realizzata dal talentuoso Thomas Adès (oltre che compositore anche direttore d’orchestra e pianista) è un intreccio originale e personalissimo di refusi del novecento, affiancati da citazioni più liberty come il tango, melodie di Cole Porter, e accenni al musical. Tuttavia egli realizza l’opera con varianti ritmiche affascinanti con una predominante fusione al canto spiegato tanto utilizzato, restando in area inglese, da Britten. Proprio da Britten il compositore trova l’ispirazione per dei “magici” interludi che separano le scene della vicenda e rilevo non trattasi di copiatura bensì di stile.
Lo spettacolo, nato per il Teatro Rossini di Lugo, era interamente firmato da Pier Luigi Pizzi che ancora una volta conferma l’eccezionalità della sua professione, pur con qualche distinguo. La scena è unica e raffinata tutta di colore rosa acceso e rosso, giustamente per entrare nel linguaggio delle vicende erotiche. Pizzi non cade nel facile filone dell’allestimento “porno” ma gioca il tutto sull’intuito dello spettatore, il quale non manca certo di capire come va la faccenda. Egli crea uno spettacolo coinvolgente senza essere arbitro, o meglio giudice, della duchessa che disegna quale dama sicuramente aristocratica, da mozzafiato i suoi costumi d’ispirazione chaneliana, ma anche donna con i suoi desideri forse eccessivi e allo stesso tempo vittima di se stessa, per imprudenza nei piaceri, per vicende personali che ci fanno capire che la vita anche se altolocata e abbiente non è mai così rosa fiori, e della società la cui figura subdola del giudice che emette la famosa sentenza era al tempo concessa per moralità di facciata, oggi ridicola per cambiamento del costume. Unici difetti sono la scena unica, che seppur realizzato con un ottimo gioco di luci, avrei preferito diversa in base agli anni della vicenda, invece ci troviamo sempre nella stanza da letto rosa. Altro punto non proprio realizzato è il processo che avviene a semi sipario chiuso con il giudice che emette la sentenza in un monologo leggermente prolisso. Avrebbe potuto ispirarsi a celebri processi cinematografici che avrebbero reso ancora più elettrizzante il racconto. Tuttavia capisco che l’opera è stata allestita a Lugo il cui teatro ha dimensioni molto ridotte, pertanto è probabile che la scena fissa fosse l’unica soluzione possibile.
L’organico della Fenice, quindici elementi, era superbamente concertato da Philip Walsh, il quale manteneva un ritmo serrato e particolarmente conciso della narrazione, regalandoci negli interludi preziosi momenti di alta atmosfera musicale cameristica.
La protagonista, Olga Zhuravel, è dotata di una voce pertinente atta a risolvere la scrittura vocale con grande pathos, in particolare sono emblematici gli accenti nell’aria finale. Inoltre è interprete eccellente grazie ad un fraseggio variegato e ad una figura bellissima ed elegante cui Pizzi ha istruito a dovere nelle movenze.
Zuzana Markova realizza i sui cinque personaggi (cameriera, amica, amante del duca, ficcanaso, giornalista) con superlativa vocalità nel settore acuto, rendendosi altamente apprezzabile nei vari ruoli con colori vocali azzeccati.
Luca Canonici si disimpegna a dovere anche lui in altrettanti personaggi, la presenza scenica è eccellente, e la sua voce trova ora una sicura carta vincente in questo repertorio per sicurezza ed omogeneità.
Meno riuscita vocalmente la performance di Nicholas Isherwood cui vanno addebitate tecnica e musicalità non proprio precise, ma i personaggi sono sufficientemente eloquenti, in tono minore quello del Duca.
Successo travolgente al termine anche se il Teatro Malibran non era del tutto esaurito come quest’opera avrebbe richiesto, ma fiducioso del passaparola auspico ad una prossima ripresa una frequenza molto più consistente.
DER ROSENKAVALIER [Lukas Franceschini] Firenze, 11 maggio 2012.
Il Cavaliere della rosa è un’opera profondamente europea, anzi mitteleuropea, in un momento ancora felice, non per tutti, alle soglie del primo conflitto mondiale ove gli abbienti giocavano ancora al bel vivere costituito da galanterie ed etichette, le quali sfociano nell’artefatto, romantico ed incantevole momento della “presentazione della rosa” tradizione del fidanzamento qui rappresentato come giovinezza dell’avvenire contrapposta alla decadenza dell’età matura, trentacinque anni! Ma siamo nel ‘700!
È curioso che uno specialista straussiano come Zubin Mehta abbia diretto Der Rosenkavalier per la prima volta solo alla 75° edizione del Maggio Musicale Fiorentino. Era pertanto attesa, e senza mancare di rispetto agli interpreti, la sua concertazione era l’aspetto più interessante di tutta la locandina. Mehta si distacca da una certa prassi viennese in maniera autonoma ma egualmente superba, ottiene dall’ottima Orchestra del Maggio un suono denso e particolarmente vibrante ma nell’insieme straordinariamente compatto ed aderente allo stile della commedia realizzata con poco sentimentalismo ma più ironia. La cifra indicativa non è il languore della Marescialla dei bei dì perduti, quanto la reale presa di coscienza che poco s’adatta la breve storia con il giovane Quiquin, cui lascia il suo avvenire con sorniona realtà. Il gesto del maestro è vibrante quanto mai udito anche nei celebri walzer, leitmotiv dell’opera, i quali sono vigorosi, sonori, riempitivi di fascino d’oltralpe e per alcuni aspetti nostalgici.
La compagnia di canto era all’altezza della situazione pur non riservandoci preziose sorprese. La marescialla di Angela Denoke non sprigionava particolare fascino sensuale e non si soffermava su frasi ed accenti cromatici ma era vigorosa e matronale, interpretazione più che accettabile anche se poco sfumata. L’Octavian di Caitlin Hulcup, perfetta nel fisique du role, soggiogava per la squisita impostazione giovanile, ma vocalmente era povera di ardimento pur restando sempre nella correttezza. Migliore Kristinn Sigmundsson che interpretava un Barone Ochs di alto livello, nobile ma anche pruriginoso e alquanto predisposto alla commedia tanto da rendere il personaggio un vero cameo nell’insieme. Brava Sylvia Schwartz, Sophie, mesta e puntuale fidanzatina leggermente spaesata ma con appropriato cristallino vocale. Particolare la caratterizzazione di Eike Wilm Schulte, un Faninal elegante e musicale, e di Ingrid Kaiserfeld, una Marianne briosa e squisitamente intrigante. Musicale e di fattura la prestazione di Celso Albelo nel ruolo del cantante italiano, l’aria lo mette in parte a disagio nel settore acuto e nel legato, ma non sfigura rispetto a colleghi forse più blasonati. Ottima anche la coppia intrigante di Valzacchi e Annina interpretati da Niklas Bjorling Rygert e Anna Maria Chiuri come tutti i numerosi cantanti nei piccoli ruoli.
Lo spettacolo era diretto da Eike Gramss e si deve rilevare l’ottima realizzazione della commedia, ben recita e vissuta da tutti i cantanti ai quali ha chiesto una particolare aderenza al libretto. Il tutto gioca come un grande divertissement viennese di tardo decadentismo molto affascinante. Non c’è nulla di rivoluzionario tranne il letto della marescialla costituito da cumulo di cuscini e uno specchio che ricalca altre regie ma che qui trova una soluzione anche funzionale nel rispecchiare tutti i personaggi, moltiplicandoli, e riproducendo le fastose colonne dei palazzi viennesi ma a volte questi riflessi disturbano la visione. Le scene di Hans Schavernoch non sorprendono e non affascinano, al contrario dei costumi di Catherine Voeffray, austeri ma di grande eleganza. Successo trionfale al termine ed ovazioni per Mehta saluto sul palcoscenico con tutta l’orchestra.
TOSCA [Lukas Franceschini] Milano, 15 maggio 2012.
Archiviato definitivamente l’allestimento di Luca Ronconi, alla Scala Tosca, l’opera di Giacomo Puccini, la quale aprì il nuovo secolo musicale nel ‘900, è ripresa per la prima volta nell’allestimento di Luc Bondy che lo scorso anno suscitò perplessità in tutti i teatri coproduttori: Opera di Stato di Monaco di Baviera, Metropolitan di New York e appunto alla Scala.
Questa “nuova” Tosca non lascia molta traccia per un’asettica visione cui si aggiunge una regia non del tutto specifica che nel corso delle varie riprese è cambiata in continuazione. Luc Bondy usa la mano forte è innegabile, ma mi domando se nel 2012 il pubblico sia così ottuso per cui si debbano applicare censure, o meglio accomodamenti, per non suscitare scandali. Mi riferisco in particolare alla scena finale del primo atto nella quale alla fine del Te Deum Scarpia bacia in modo forse blasfemo l’immagine della Madonna segno comunque della superiorità egocentrica del potere anche sulla religione. Segue poi all’apertura del sipario nel II atto un palazzo Farnese gremito di giovani squillo, oggi si chiamano escort ma il mestiere è quello, che allietano la serata del Barone in maniera esplicita. Queste trivialità sono state tolte sia a New York sia soprattutto alla Scala. Il motivo è abbastanza ovvio, ma ritengo che non sia necessario, eventualmente non sarebbe stato opportuno inserirle, questa era la visione drammaturgica del regista e tale doveva restare. Tosca è un’opera che trova la sua cifra in un’ambientazione precisa che non deve essere tassativamente quella reale del libretto, tuttavia i luoghi, i personaggi e la vicenda sono circoscritti in un brevissimo spazio temporale pertanto trovo assurda l’atemporalità espressa sia dal regista e soprattutto dallo scenografo Richard Peduzzi, il quale a forza di creare muri e pareti ha in parte annoiato. Chiesa tanto spoglia ed insignificante non si ricorda, tanto più a Roma ove le cerimonie religiose in tutti i tempi assumono aspetti “faraonici”. Poco sviluppata la scena dell’assassinio di Scarpia, per non parlare della ridicola partita a scacchi di Cavaradossi prima della fucilazione. Di pregio invece la scena del Te Deum con quell’avanzare solenne e lento degli ecclesiastici fin sul proscenio. Sugli interpreti non mi pare sia stato effettuato un vero e proprio lavoro di studio del personaggio, essi sembravano lasciati all’istinto individuale: una protagonista di maniera, un Cavaradossi sopra le righe, un Barone volgare. Non saprei se addebitare tale risultato all’incapacità attoriale degli stessi. Milena Canonero ha dato nel suo lavoro prodotti di gran lunga migliori di quelli offerti in questa occasione.
Ho assistito all’ultima replica delle nove programmate e per dovere di cronaca riporto che alla prima tutta la produzione è stata vivamente contestata. Col passare delle recite gli animi si sono calmati, tuttavia questa Tosca, con il primo cast in locandina, evidenzia più ombre che luci. La direzione di Nicola Luisotti è molto alterna e poco incisiva, l’orchestra era anche in buona forma ma mancava una scansione emotiva dei colori che in Tosca sono elemento primario. Mai un momento di tensione, di suspense… semmai qualche scollatura tra palco e buca, forse, anzi probabilmente, dettato dalla prudenza. Da Luisotti mi aspettavo molto di più, speriamo in altre occasioni.
Imbarazzante la protagonista Martina Serafin che offre un personaggio banale e abbondanti lacune vocali soprattutto nel registro medio e acuto. Il primo sempre in bilico d’intonazione il secondo stridulo e sfocato. Marcelo Alvarez ha ancora mezzi di prima grandezza ma purtroppo sprecati per voler fare il classico tenore “macho” anni ’50, tutto polmoni e muscoli a scapito dell’espressione e del fraseggio. Oltretutto abusa, soprattutto nel terzo atto, di mezze voci discutibili, rasenti al parlato perché non sorrette da una tecnica appropriata. George Gagnidze è uno Scarpia scurrile e poco nobile nel personaggio, è abbastanza sicuro vocalmente ma altrettanto piatto nel fraseggio da non lasciare particolari segni. Segnalo con lode Alessandro Pagliaga che ha impersonato un sagrestano compito e convincente senza proporre le solite ed abusate macchiette.
Ottimi invece i ruoli secondari a cominciare dal bravo Angelotti di Deyan Vatchkov, all’intrigante Spoletta di Massimiliano Chiarolla e allo spettrale Sciarrone di Davide Pelissero. Completavano con onore la locandina Ernesto Pannariello, un carceriere, e la puntuale Barbara Massaro nel ruolo del pastore. Al termine l’intero cast è stato accolto da convinti applausi.
L’ITALIANA IN ALGERI [Lukas Franceschini] Bologna, 18 maggio 2012.
Il primo vero grande successo di Gioachino Rossini fu L’italiana in Algeri (Venezia, 1813) e con tale opera fu consacrato come uno dei più importanti compositori dell’Ottocento. Paradossale il fatto che tutti i melodrammi rossiniani, salvo alcune rare eccezioni, scomparvero alla fine del XIX secolo dalla programmazione dei teatri sia italiani sia esteri.
Non si sottrae alla prassi neppure il Teatro Comunale di Bologna, infatti, scorrendo la cronologia delle rappresentazioni troviamo ben quattro edizioni dal 1814 al 1830, poi oltre un secolo di silenzio fino al 1968, da quell’edizione fino a quella presentata nella stagione 2012 siamo arrivati a cinque ma bisogna considerare che dal centenario della morte del compositore siamo in piena Rossini-Renaissance, pertanto, e fortunatamente, un capolavoro come L’italiana in Algeri è divenuta opera di repertorio.
Già la sinfonia è un pezzo di assoluta levatura cui bisogna ascrivere la capacità del compositore di creare ironia col solo utilizzo della musica. Quanto poi ci si aggiunge un testo raffinato come quello creato da Angelo Anelli, abbiamo il vertice di quello che rappresenta l’opera buffa italiana. Rossini con la sua musica vuol far divertire e ci riesce appieno senza crearsi problemi, e crearli alla censura, di deridere in ironicamente il mondo islamico. Anzi con furbizia e genio inventivo mette a confronto in chiave burlesca due civiltà molto differenti tra loro ed è solo attraverso i costumi di ognuna che trova la vena intelligente per creare buffoneria, è solo la scaltra protagonista ad avere la meglio poiché donna e di spiccata intraprendenza. Gli altri coprotagonisti, italiani e turchi, sono “macchine” usate a suo piacimento.
L’opera in oggetto è un piacere allo stato puro, meno artificioso rispetto a colleghi antecedenti di Rossini, ma caratterizzata da un “rapimento veloce” (G. Marchesi) rasente alla follia, ne è prova lo stravagante, surreale ed unico concertato finale atto I. Aggiungiamo che i personaggi, anche i minori, sono tutti rifiniti con peculiarità personali, sia drammaturgiche sia musicali, tali da renderli singolari nella storia dell’opera.
Al Comunale di Bologna L’italiana in Algeri è importata dal Teatro San Carlo di Napoli con la regia di Francesco Esposito, che cura anche i costumi, e la scena di Nicola Rubertelli. Lo spettacolo nasce per un Auditorium, quello della Rai di Napoli, perché al tempo il S. Carlo era chiuso per restauro, pertanto sia gli spazi probabilmente ristretti sia la locazione non hanno dato modo di creare uno spettacolo veramente teatrale. Tuttavia resta una realizzazione non completa, certamente raffinata ma scarsa d’idee e situazioni e nell’Italiana i suggerimenti sarebbero molteplici. I personaggi non sono particolarmente sviluppati ma fine se stessi, il clima e l’ambiente inerte, fortunatamente il regista non cade nella macchietta e si deve rilevare almeno una certa eleganza. Se l’idea del linguaggio dei fazzoletti colorati è originale, i siparietti di cambio scena erano molto banali ancorché noiosi. La cifra del costumista è notevolmente minore alla mano registica, nella quale si può apprezzare solo la cromaticità. La scena fissa non entusiasma anzi lascia perplessi e sarebbe stata opportuna una migliore perizia di luci.
Paolo Olmi dirige con pertinenza e rigore, non perde mai il senso del teatro e il rapporto buca-palcoscenico, ciò che gli manca è il brio e la vitalità che contraddistingue in molti punti la partitura, ma tutto sommato resta una concertazione onesta.
Ho assistito ad una recita con il secondo cast che ha riservato sorprese positive. Innanzitutto il Mustafà di Abramo Rosalen, un giovane cantante dalla voce robusta e ben equilibrata, abbastanza disinvolto nelle agilità e ben efficace scenicamente. Anche la giovane Chiara Amarù ha fornito prova di pregi, la voce è tipicamente mezzosopranile pur con qualche falla nel settore acuto, ma la scioltezza e il brio virtuosistico è di buona fattura, tuttavia lo stile denota una sommaria impersonalità che auspico migliorabile, semmai è la recitazione che andrebbe maggiormente forgiata e in quest’occasione il regista pare non essersi molto applicato. Molto buono anche il Taddeo di Marco Filippo Romano, baritono chiaro ma molto musicale e dotato di una vis comica innata. Deludente il Lindoro di Enrico Iviglia cui va riconosciuto il massimo tentativo di reggere un ruolo così impegnativo, ma sia i mezzi sia la tecnica non gli permette di arrivare alla sufficienza, anche se è doveroso lodare la presenza scenica e in parte la musicalità. Dignitose le donne dell’harem, Elvira e Zulma, la prima leggermente stridula, e corretto l’Haly di Clemente Antonio Daliotti. Grande successo al termine.
IL RATTO DAL SERRAGLIO [Lukas Franceschini] Vicenza, 21 maggio 2012.
È consuetudine che le Settimane Musicali del Teatro Olimpico di Vicenza, giunte quest’anno alla XXI edizione, propongano un’opera lirica in una versione peculiare. Per il 2012 la scelta è caduta su Il ratto dal serraglio di Wolfgang Amadeus Mozart.
Si tratta di un’edizione italiana della celebre Die Entführung aus dem Serail in una versione curata da Pietro Lichtenthal per il Teatro alla Scala nel 1838 e mai rappresentata. Pertanto possiamo affermare che siamo di fronte ad una “nuova opera” la cui partitura autografa è conservata nella Biblioteca del Conservatorio G. Verdi di Milano. Lichtenthal fu medico e compositore dilettante, a Milano ricopriva la carica di funzionario dell’Impero Austriaco e venne a stretto contatto con l’ambiente musicale della capita del Lombardo-Veneto. Grande ammiratore di Mozart, e amico del figlio Karl Thomas, fu l’artefice delle rappresentazioni della trilogia dapontiana a Milano e a seguito di questi successi vi fu il tentativo di far rappresentare anche Die Entführung aus dem Serail. Al tempo era prassi che le opere si eseguissero nella lingua locale, pertanto anche in quest’occasione il testo fu tradotto, ma l’ostacolo principale, e la conseguente rielaborazione, fu quello di “trasformare” l’opera al gusto italiano. Infatti, il singspiel non era nelle corde, o meglio, nelle orecchie del pubblico della penisola, pertanto si doveva rendere l’opera più consona alle usanze e alle caratteristiche abituali. Oggigiorno tale prassi sarebbe considerata un arbitrio se non addirittura musicalmente blasfema ma usuale per tutto l’800. Oltremodo l’opera fu in parte stravolta nella sua impronta principale, adattata quasi ad opera buffa e aggiungendo parti musicali di altre composizioni di Mozart e dello stesso Lichtenthal.
Spariscono così i recitativi parlati e sono inseriti quelli accompagnati, il ruolo del Pascià diviene un ruolo per basso profondo al posto di Osmino e questi a sua volta nel classico basso-baritono buffo tipico del periodo (1838). Molte musiche furono soppresse con inserimento di altre orchestrate tra le quali ho riconosciuto: la sonata KV 526, l’aria da concerto “Ch’io mi scordi di te” che diviene l’aria di sortita di Costanza, la celebre marcia turca, la sonata KV 331, l’aria di Papageno come grande aria finale dell’opera, altro esempio tipicamente ottocentesco. Tutte tali aggiunte e soppressioni meriterebbero un più accurato discorso, dobbiamo invece considerare questo spartito originale come una delle possibili attualizzazioni dell’opera settecentesca, interessate dal punto di vista musicale e comunque attuato da un esperto conoscitore ed estimatore del compositore salisburghese. Bene ha fatto il Festival Vicentino a proporla poiché rarità e particolarità sconosciuta, perché ricordiamolo l’opera fu preparata da Lichtenthal per la Scala ma mai eseguita.
L’incomparabile cornice del Teatro Olimpico palladiano non permette una regia vera e propria causa la particolarità del palcoscenico in più parti interdetto dalle belle arti, abbiamo avuto come in altre occasioni un’esecuzione in forma semi-scenica, con la gravante di un’ulteriore limitazione perché l’orchestra era collocata sul palcoscenico e non nella “buca” sottostante. Dunque parlare di regia è inopportuno e per successive edizioni sarebbe proprio il caso di adottare l’esecuzione in forma di concerto considerato che i costumi erano aggiunte di carta su abiti da sera degli stessi cantanti, i quali tuttavia non sfiguravano.
La parte musicale era affidata all’orchestra del Teatro Olimpico, complesso discreto ma non ottimale nel suo insieme come si vorrebbe per un Festival inserito nel circuito dei Festival Europei. La bacchetta di Giovanni Battista Rigon è efficace e anche volenterosa pur producendosi sempre in contrasto con lo spazio, che non è nato per l’esecuzione operistica, le sonorità erano eccessive, spesso coprivano le voci, ma non mancava di stile e fantasia narrativa. Di ruotine la prestazione del coro I Polifonici Vicentini.
Della compagnia di canto non si può che registrare il volonteroso impegno, ma per parti cosi impervie sarebbe stata opportuna altra perizia, ad eccezione di Filippo Morace, Osmino, che seppur trasportato nel ruolo di buffo del basso-baritono all’italiana ha fornito prova di grande carisma e ottime prodezze vocali. Il Belmonte di Francesco Marsiglia è leggermente debole per tale parte, tuttavia non sfigura ed è sufficientemente musicale. A Sandra Pastrana manca in parte la drammaticità vocale che il ruolo richiede, anche se risulta difficile un paragone con considerato che le tre arie della partitura originale non erano non presenti in questa nuova versione e le varianti hanno comunque mostrato un timbro asprigno e non particolarmente fermo. Molto ridotta la parte di Bionda, quasi a ruolo comprimariale, ma Tatiana Aguiar è decorosa al pari del Pedrillo di Carlos Natale, non singolarmente omogeneo nel timbro Gabriele Sagona nel “nuovo” ruolo di Selim. Teatro non esaurito, probabilmente per la particolarità del titolo, ma molto prodigo di applausi al termine.
LA SONNAMBULA [Lukas Franceschini] Venezia, 22 maggio 2012.
L’opera La Sonnambula di Vincenzo Bellini è il primo grande successo del compositore catanese, il quale di lì a poco avrebbe creato gli altri due melodrammi, Norma e I Puritani, che lo consacrarono alla fama europea poco prima purtroppo della fulminea scomparsa in età ancor giovanile.
La Sonnambula è una delle opere di un ristretto gruppo ottocentesco a sopravvivere al turbine verista di fine secolo e questo soprattutto in virtù del particolare sapore di vaudeville, soave, lineare, dolce, accoppiato a un canto patetico e a un acrobatismo vocale di prim’ordine. Il mondo montanaro creato da Bellini, assieme all’ottima poesia di Felice Romani, è quasi favolistico, fin troppo, i teneri e placidi contadini appartengono ad un “eden” illusorio cui lo spettatore nel momento d’evasione s’immerge con piacere. Tutti i personaggi in parte sono tracciati in doppio aspetto, l’ingenuità e l’eccessiva gelosia di Elvino, la maliziosa buona fede del Conte, l’acidità che giustifica i mezzi di Lisa, Alessio che perdona pure le evidenze ed infine Amina, la dolce e innocente protagonista, la quale potrebbe lasciare spazio al dubbio di non essere malata e così candida come si crede. Tuttavia l’opera è tipicamente “larmoyante” e il finale intriso prima di suspense, poi di trionfo dei buoni sentimenti rende alla perfezione il senso del romanticismo ottocentesco.
Il Teatro La Fenice allestisce l’opera per la prima volta nella sala restaurata e a dodici anni dalla precedente produzione al PalaFenice. Questa è uno spettacolo tutto veneziano affidata Bepi Morassi, regista stabile alla Fenice, coadiuvato da Carlos Tieppo per i costumi e Massimo Checchetto per le scene. I tre artefici della messa in scena non si staccano dalla tradizione che colloca il melodramma in un incantevole e tenero arcaico melò. La bellissima scena di Checchetto ci trasporta negli anni ’30/’40 del secolo scorso in una stazione sciistica svizzera ove più che contadinelle e pastori troviamo ricchi villeggianti in piena settimana bianca, vi è pure una funivia e un autobus delle nevi. Abbiamo pertanto la visione di una Sonnambula ad alta quota immersa in un lussuoso candore, i costumi pregevoli e di gran fattura di Tieppo sono in linea con lo stile sobrio ed elegante. Il regista non si pone il problema di scavare nella vicenda soluzioni o situazioni psicoanalitiche, adagiandosi invece comodamente sulla classica lettura di tradizione, soluzione patinata, quasi da promozione turistica elvetica, che non dispiace, ma neppure entusiasma o almeno visto le prerogative iniziali, mi sarei aspettato un po’ più “rivoluzionaria”.
Sul podio saliva Gabriele Ferro, esperta bacchetta “belcantistica” che in quest’occasione si è limitato a tenere unito l’ensemble strumentale e seguire i cantanti. Al contrario avrebbe dovuto dare un’impronta più incisiva alla lettura, che spesso scivolava nella lenta monotonia, sferzare il ritmo e magari con qualche colore più incisivo, senza contare i tagli dei da capo, proprio lui che per anni fu un artefice della filologia esecutiva.
All’uscita dallo spettacolo ci si è reso conto che l’unica attrattiva di questa Sonnambula era la protagonista Jessica Pratt, giovane soprano australiano che sta muovendo passi sostanziali nel panorama internazionale. Dico subito che il suo limite potrebbe essere l’espressione e la caratura dell’accento, ma quanto a perizia tecnica, impostazione vocale, facilità nel settore acuto ed omogeneità nei registri si colloca nel vertice odierno. Sicuramente la giovane età è determinante, ma in futuro credo possa colmare alcune piccole lacune raggiungendo la pienezza del ruolo. Al contrario Shalva Mukeria ha deluso, in parte, rispetto alla Lucia dello scorso anno. Non abbiamo trovato un tenore raffinato e dal fraseggio variegato, sfumato e dalle vibranti colorazioni. Probabilmente impaurito dal ruolo, uno dei più difficili, era attento alla tenuta generale che non è mancata, ma viste le performance precedenti mi sarei aspettato una differente caratura. Il timbro non è molto soggiogante, ma Mukeria avrebbe molte frecce da utilizzare, in quest’occasione non è mancata un’emissione controllata ma solo quella, oltre ad aver evitato in più occasioni puntature nel registro acuto. Il Conte di Federico Sacchi avrebbe anche una voce importante e ben istruita, ma è povero di morbidezza, fraseggio e personalità, non fa danni evidenti ma nel complesso la sua è una prestazione in minore. Non lascia il segno neppure Elena Viola, una Lisa qui innalzata a coprotagonista perché canta entrambe le arie, ma il timbro è infelice e le proprietà stilistiche approssimative. Efficaci gli altri interpreti: Julie Mellor, Teresa, Dario Ciotoli, Alessio e il notaro di Emanuele Pedrini. Buon successo al termine con ovazioni trionfali per la protagonista.
PETER GRIMES [Lukas Franceschini] Milano, 5 giugno 2012.
Il rapporto Britten-Teatro alla Scala è sempre stato di altro valore musicale e teatrale, in particolare per l’opera Peter Grimes che proprio nel teatro milanese ebbe la prima esecuzione italiana, in lingua locale, nel 1947 diretta da Tullio Serafin.
In seguito non si possono dimenticare le edizioni del 1976, con protagonista Jon Vickers, concertata da Sir Colin Davis, e del 2000, con Philip Langridge nel ruolo in titolo e il valente Jeffrey Tate sul podio. Il quarto appuntamento con l’opera ha registrato il miglior spettacolo finora allestito dal Teatro alla Scala nel corso dell’attuale stagione.
Peter Grimes fu il primo vero grande successo internazionale, sia di pubblico sia di critica, di Benjamin Britten. L’opera fu commissionata dalla Fondazione Koussevitzky per volere di Sergej Koussevitzky, celebre direttore d’orchestra d’origine russa-americana, che così volle onorare la memoria della moglie Natalie. In precedenza Britten si era imbattuto nel poema The Borough di George Crabbe ambientato sulle rive del Mare del Nord a Suffolk, ove lo stesso compositore trascorse l’infanzia. Il soggetto indusse il musicista a comporre un nuovo lavoro teatrale al quale partecipò nella stesura della sceneggiatura anche Peter Pears, suo compagno, il quale fu poi il primo interprete del ruolo. La principale differenza tra il racconto di Crabb e la pièce musicale di Britten è la trasformazione del protagonista da personaggio nocivo ed iniquo in uomo introverso, affetto da tormenti e soprattutto vittima oltre che di se dell’incomprensione della società ipocrita e meschina del paese. Vi sono due aspetti in quest’opera non messi volutamente a fuoco: l’estraneità del protagonista rispetto alla società e l’omosessualità. La prima è una forma d’isolamento caratterizzato da comportamenti non usuali e da una certa violenza nei modi che fondano sul rapporto di emarginazione di colui che è “diverso”. Tale diversità potrebbe sfociare anche nel secondo aspetto, il quale avrebbe tutti i sentori del “diverso” inteso come omosessuale. Un tema complicato e difficile da inquadrare in Peter Grimes, che preso dalla disperazione per gli eventi e dal rifiuto degli altri porta alla morte. Tuttavia è un aspetto irrisolto e credo volutamente, per dare ad ognuno il proprio metro di giudizio. Doveroso ricordare che il tema dell’omosessualità è seppur latente presente in molte opere di Britten, il quale in quest’occasione non esita nella severa condanna della società che vuole far adattare tutti alla stessa omologazione morale che si è imposta. Infine non è possibile non considerare il rapporto esagitato e struggente tra uomo e ragazzo, forse anche il calpestio della candida infanzia, forse i pregiudizi, la vita circoscritta a tragico epilogo, che Britten riproporrà in maniera emblematica in Death in Venice.
La potenzialità della partitura è contrassegnata da un’invenzione di altissima finitura ed inedita, con tinte di nuova e cruda drammaturgia ma anche con pennellate ironiche, infondendo a tutti i personaggi una loro peculiare caratteristica che difficilmente passa inosservata dallo spettatore. Infine, si devono rilevare gli impareggiabili sei interludi orchestrali che nel corso degli anni hanno reso ancor più celebre l’opera poiché inseriti sovente nei programmi di musica sinfonica.
Questo nuovo spettacolo di Richard Jones è semplicemente un eccezionale lavoro di grande teatralità e raffinata precisione drammatica. Il regista è uomo di teatro e si capisce subito dalla prima scena quando vediamo schierato tutto il cast e il coro, perché sotto taluni aspetti Peter Grimes è anche opera corale, ove ognuno ha una propria identità specifica, un gesto personale, identificati anche dai costumi, preziosi di Stewart Laing, autore anche di una meravigliosa scena raffigurante una periferia inglese contemporanea con tanto di gabbiani cangianti in postura sui tetti. I bravissimi cantanti sono tutti anche mirabili attori, immedesimati nel ruolo alla perfezione. Jones non accenna minimamente all’omosessualità del protagonista, ma sceglie la strada forse più logica e scontata dell’emarginazione e dell’impossibilità per un “escluso” di riprendere il proprio ruolo nell’ambiente settario e moralistico della città. Eccezionali i movimenti coreografici creati da Sarah Fahe. In questa visione John Graham-Hall calza a pennello sia vocalmente sia scenicamente i panni del protagonista, e dire straordinaria la sua esibizione è riduttiva. Ben lo segue la giovane maestra Ellen, Susan Gritton, incapace di recuperarlo. Devo citare, tra i tanti interpreti, almeno l’asprigna Auntie di Felicity Palmer, per non parlare dell’intrigante Mrs. Sedley di Catherine Wyn-Rodger, il tormentato capitano di Chrisopher Purves e il Bob di Peter Hoare. Tutti erano bravissimi come raramente capita in una rappresentazione d’opera.
Ultimo, ma non ultimo, il direttore Robin Ticciati, il quale debuttava in sede operistica alla Scala. Egli aveva a disposizione un’orchestra di splendida forma e pertanto ci ha fornito una perfetta concertazione su un repertorio a lui molto consono, ove il rigore stilistico, la precisione degli attacchi, l’incalzare della tensione, soprattutto della tempesta, si sono amalgamati ad un colore orchestrale di grande fascino, non dimenticando la perfetta esecuzione degli interludi. Successo trionfale al termine con innumerevoli chiamate per cast, direttore e coro.
TOSCA [William Fratti] 7 giugno 2012.
L’annuale appuntamento benefico organizzato dal Comitato Parma col Cuore torna sul palcoscenico del Teatro Regio con Tosca. La sala è gremita e pochissimi sono i posti vuoti. La serata è aperta e presentata da Mara Pedrabissi e Monica Bertini, che ricordano l’addio a Tosca di Raina Kabaivanska avvenuto nel 2002, ma dimenticano in maniera troppo evidente un doveroso saluto al compianto Salvatore Licitra, protagonista all’ultima rappresentazione dell’opera pucciniana avvenuta a Parma nel 2009.
Massimiliano Catellani apre la recita con una buona interpretazione di Cesare Angelotti. Lo segue il Sagrestano di Riccardo Certi, più abile nella resa del personaggio che in quella vocale.
Lorenzo Decaro è Mario Cavaradossi, in sostituzione del precedentemente annunciato Aquiles Machado. Come già detto in precedenti occasioni, l’artista noiano sa fare correttamente il suo mestiere, ma non gode di vocalità particolarmente squillante. La voce è tanta e di bel timbro, ma sembra mancare leggermente del canto sul labbro tipico del tenore all’italiana. “Recondita armonia” passa molto inosservata, ma il miglioramento è evidente già dal duetto successivo.
Tosca è Daria Masiero, purtroppo un po’ impacciata a causa della necessaria presenza dello spartito. La sua è una vocalità tipica da eroina pucciniana e lo dimostra anche nei passaggi più drammatici, in cui non forza, ma riesce sempre con naturalezza, anche grazie ad una morbida linea di canto. Il lungo duetto di secondo atto è la pagina più bella di tutta la serata e il successivo “Vissi d’arte” è reso egregiamente.
Carlo Colombara è la vera star della rappresentazione e si prodiga in un canto da manuale. L’impiego di un fraseggio altamente espressivo, l’uso di colori opportunamente efficaci, uniti ad un’omogenea linea di canto e ad un’ottima tecnica sui fiati e sulla proiezione, fanno del basso bolognese un’artista di sicuro riferimento. Nonostante il ruolo di Scarpia sia baritonale, Carlo Colombara lo sa affrontare con intelligenza, oltreché con la doverosa impostazione, nascondendo in un parlato davvero adeguato quei brevissimi e comunque rarissimi passaggi che altrimenti potrebbero danneggiare il risultato complessivo. Nonostante la presenza dello spartito, anche la resa del personaggio è davvero ottima.
Concludono il cast i bravi Eugenio Masino e Alessandro Bianchini nei panni di Spoletta e Sciarrone.
Buona la prova di Walter Attanasi sul podio dell’Orchestra I Musici di Parma. Bene il Coro Lirico Terre Verdiane diretto da Corrado Casati e il Coro Voci Bianche Ars Canto guidato da Gabriella Corsaro.
LUISA MILLER [Lukas Franceschini] Milano, 12 giugno 2012.
Torna al Teatro alla Scala l’opera Luisa Miller di Giuseppe Verdi ad oltre vent’anni dall’ultima realizzazione passata alla storia per la contestazione alla protagonista, non dimenticando l’esecuzione in forma di concerto eseguita nel centenario Verdiano del 2001.
Nel 1848 Verdi attinge a Friedirch Schiller per la nuova opera che ha in contratto con il Teatro San Carlo di Napoli. Schiller è un autore che già conosce ed ammira, dello stesso autore sono I masnadieri composti per Londra e Giovanna d’Arco per la Scala, e in occasione del nuovo progetto assieme al librettista Salvatore Cammarano s’ispirano al dramma borghese “Kabale und Liebe” soprattutto per non incorrere nella severa censura borbonica. Luisa Miller segna un punto fondamentale nella produzione verdiana. Innanzitutto è la partitura che di poco precede la “trilogia romantica” (Rigoletto, Trovatore, Traviata) la quale sarà il punto di svolta nella maturazione musicale, poi non si può sottovalutare l’ambiente borghese della vicenda che sempre più affascina il compositore e porterà a frutti d’elevato spessore cui possiamo affermare che l’opera composta per Napoli ne è il preludio. La passione è l’aspetto che contraddistingue la Miller e segna la conclusione del primo periodo musicale verdiano, anche se taluni momenti si rifanno al classico mondo ottocentesco, ad esempio le cabalette cui Verdi piacevano e di mala voglia in seguito le eliminò. La novità consiste in una nuova drammaturgia, riscontrabile soprattutto nel III atto alla quale si affianca un mondo intimo famigliare di elevata raffinatezza compreso il “nuovo recitativo” melodico e peculiare della futura scrittura verdiana.
Dopo il felice debutto con Cavalleria Rusticana e Pagliacci il regista Mario Martone ritorna alla Scala con questa nuova produzione che ha destato più di una perplessità e qualche delusione. La scena è sempre in esterno, bellissimo il bosco sul fondo creato da Sergio Tramonti, anche se Luisa Miller è opera da interno che andrebbe giocata su specifici conflitti famigliari interiori. Martone sceglie la via del sogno-incubo della protagonista ma non gioca la carta del flash-back conscio del non happy end, sarà il letto uno dei protagonisti muti della scena, ora con lenzuola candide quando vi dorme Luisa, ora con lenzuola rosse quando vi si adagia Federica in preda ad una seduzione molto audace nei confronti di Rodolfo. Quando ci dovremo trasferire al castello di Walter ecco apparire due ipotetici scranni di assemblea parlamentare, inspiegabili ed ermetici. Nel finale sarà ancora un letto il talamo sacrificale della coppia infelice, forse sostenendo un amore più carnale che poco a che fare con il dramma. Si deve lodare invece il pregevole e raffinato lavoro di Martone sulla recitazione dei singoli, Rodolfo escluso, cui va il merito di soluzioni ben azzeccate come il gioco girevole di Luisa mentre scrive la lettera sotto ricatto e il magnifico finale nel quale i due padri, con i figli appena deceduti, si fissano attoniti, furibondi e forse vendicativi. Uno spettacolo che non coinvolge appieno, ma in fondo non disturba. Ursula Patzak firma degli anonimi costumi, Pasquale Mari delle efficacissime luci.
Gianandrea Noseda, debuttante nella sala del Piermarini, conferma le sue peculiari doti di concertatore. Raffinato, drammatico, incalzante nel racconto, già nella sinfonia si colgono colori e preziosi particolari. Con i cantanti si nota un lavoro certosino di liricità musicale e scolpiti fraseggi. In tale contesto emerge in maniera importante anche il coro ottimamente preparato da Bruno Casoni.
Elena Mosuc, Luisa, affronta una parte che oltrepassa il limite della sua cifra vocale, per spessore e drammaticità, ma lo fa con una grande forza di temperamento ed una capacità stilistica che le permette di superare con onore l’ardua scrittura risultando al termine onesta professionista. Marcelo Alvarez avrebbe invece mezzi idonei, ma li sperpera in una grossolana interpretazione tutta votata al “muscolo” e all’esibizione folkloristica che potrebbe essere paragonata a canzoni quali “Granada” e “O sole mio”, senza contare il minimo sforzo per concupire un fraseggio e un colore variegato e consoni al ruolo. I due cattivi, i bassi Vitalij Kowaljow e Kwangchul Youn, dimostrano buona concezione del ruolo, ma il secondo è veramente accattivante quanto a recitazione e perfetta dizione. Daniela Barcellona che si esibiva un ruolo contraltile non belcantistico stranamente sfoggiava tumultuosi suoni di petto, i quali poco s’addicono sia al personaggio sia alla cantante di fama stilistica. Ottimo il giovane Jihan Shin, il contadino, ed efficace Valeria Tornatore quale Laura.
Infine resta il nostrano baritono Leo Nucci che a tutti gli effetti è stato il trionfatore della serata da parte del pubblico. Affermare oggi che Nucci sia ancora in possesso di freschezza vocale, dopo quattro decenni di carriera, non è rispettoso nei suoi confronti. Difetti se ne riscontrano: voce non più morbida, taluna calatura, qualche nasalità. Sorprende invece il personaggio e la tenuta del cantante, perché quando Nucci affronta un ruolo così nobile, l’immedesimazione è totale e convincente fin nella singola parola, chiaro, preciso, sorretto da intenzioni e di vero interprete verdiano, e giocando le sue carte in maniera ottimale copre o quantomeno mette in secondo piano inevitabili cedimenti dovuti a cotanta gloriosa carriera. Ottimo successo al termine.
LE NOZZE DI FIGARO [Lukas Franceschini] Bologna, 19 giugno 2012.
È curioso che un capolavoro come Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart abbia avuto un rapporto molto saltuario con il Teatro Comunale di Bologna. La prima edizione è addirittura del 1940 per poi contarne altre cinque fino alla settima allestita in questa stagione 2012.
Non mi dilungo sui grandi pregi della straordinaria partitura mozartiana la quale probabilmente occupa l’apice della fattura ma anche della preferenza da parte del pubblico. La folle journée di Beuamarchais è altrettanto in Mozart, continui colpi di scena, intrighi, gelosie, ammiccamenti, tradimenti, matrimoni, per arrivare al lieto fine. Un happy-end apparente perché tuttavia lascia non risolte tutte le questioni poste in gioco: il conte sarà sempre libertino, la contessa infelice, Susanna pur amando Figaro non cesserà la sua civetteria, e via di seguito. Ogni volta che si assiste ad una rappresentazione delle Nozze sorprende l’incalzante e vorticosa trama, il limpido gusto musicale, ora scintillante ora malinconico. Merito anche del libretto, mai sufficiente lodato, di Andrea Da Ponte il quale attraverso l’eleganza della scrittura incide con energia verbale nei comportamenti dei singoli e scaglia una massiccia critica ai costumi convenzionali.
Bene ha fatto la direzione del Comunale di Bologna a riprendere l’allestimento di Mario Martone, uno spettacolo di altro profilo teatrale. Il regista sceglie fortunatamente un’ambientazione originale, e non si produce in machiavelliche soluzioni moderne tanto in voga in quest’ultimo periodo. L’impianto scenografico, di gran pregio per mano di Sergio Tramonti, è composto di una terrazza, due scalinate, un grande tavolo disposto lungo tutto il palcoscenico. La scena è fissa e potrebbe scivolare sulla banalità, ma la maestria di Martone fa in mondo che non accada anzi, la rende viva, frizzante e molto analitica lavorando con grande perizia sulla psicologia dei personaggi. Per attuare questo ha avuto la brillante idea di creare anche una sorta di passerella attorno alla buca dell’orchestra e far recitare i cantanti su essa utilizzando pure la sala, il pubblico aveva una vicinanza ancora più immedesimato con l’azione. Tutti gli interpreti sono perfettamente calati nei loro ruoli, in perfetto equilibrio con le ambiguità del dramma, rendendo questo nozze 3spettacolo davvero apprezzabile e di sicuro impatto. I costumi di Ursula Patzak sono di una semplicità ammirevole senza eccessi e con misurata realizzazione cromatica, non bisogna dimenticare le luci di Pasquali Mari così ben realizzate tali da offrire l’affascinante cambiamento della scena dal giorno alla notte.
Michele Mariotti, direttore stabile al Comunale, credo che per la prima volta si cimentasse con questa partitura. Rilevando che di questo giovane direttore non si fatta giustamente una campagna mediatica di nuovo prodigio della bacchetta, ma altrettanto si può affermare che si sta ritagliando un personale posto nel nuovo panorama italiano della concertazione. Costruendo la sua carriera su titoli di sicuro stampo sette-ottocentesco si è prontamente affermato anche in quest’occasione. Il gesto sicuro, la particolare attenzione dei dettagli, il senso teatrale, il rapporto buca-palcoscenico sempre controllato e di grande teatralità. Sono mancati in taluni momenti, sinfonia e qualche finale d’atto, un particolare brio e un’incisività più personale, ma mai ha perso l’ottimo controllo delle diverse sezioni orchestrali, offrendoci nel complesso una lettura pertinente e teatrale.
La compagnia di canto costituita da elementi tutti italiani ha ben figurato nel suo insieme, mettendo in luce un ottimo lavoro sia con il direttore sia con il regista, particolare non sottovalutabile che in questo caso ha portato ad un ottimo lavoro d’ensemble.
Il Figaro di Nicola Ulivieri era preciso e leggermente strafottente ma sempre giustamente elegante, impagabile la verve e la brillantezza espressa da Cinzia Forte, una Susanna vocalmente puntuale che trova in questo personaggio una delle sue migliori realizzazioni. Carmela Remigio era una brava contessa, malinconica e contenuta, già conscia del suo destino infelice che non cambierà, la voce è sempre morbida senza particolare pathos risolvendo il ruolo con accenti molto appropriati. Di estrema fattura il conte di Simone Alberghini, nobile ed accattivante, sinuoso e allo stesso tempo seducente ma sempre conscio del suo rango. Leggermente inferiore il Cherubino di Marina Comparato, che non possiede mezzi particolari per emergere in un ruolo all’apparenza semplice, ma si ammira la volontà che sopperisce ad alcuni limiti. Sornione e simpaticissimo il Bartolo di Bruno Praticò che assieme alla briosa e fortunatamente non isterica Marcellina di Tiziana Tramonti nozze 4costituisce una coppia di grande impatto scenico. Bene anche le parti minori: il Basilio di Mert Sungu e la deliziosa Barbarina di Cristiana Arcari. Successo pieno e meritato al termine.
DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Verona, 22 giugno 2012.
Talvolta le novità sono avvincenti, talvolta le attese superiori alle realizzazioni. Entusiasmante che l’Arena di Verona abbia scelto Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart per inaugurare il 90° Festival nel suo monumento storico. Per la prima volta un’opera di Mozart è eseguita in Arena, e questo di per sé è già un successo o almeno una svolta nella soporifera ruotine dei titoli degli ultimi anni.
Scorrendo la cronologia degli spettacoli all’Arena si scoprono eventi che oggigiorno lasciano attoniti: diciannove recite de Il figliol prodigo di Amilcare Ponchielli nel 1919 ma tanto Wagner, che allora si cantava in italiano, Lohengrin, Die Walküre, Parsifal, Die Meistersinger, ma anche titoli non proprio di repertorio per un teatro all’aperto come ad esempio Loreley, Le Roi de Lahore, Martha. È pur vero che l’Arena di Verona fu in ambito internazionale il primo festival operistico all’aperto, questa peculiarità spesso si dimentica, pertanto non era così scontato che solo i titoli di repertorio facessero parte della programmazione. Negli ultimi anni purtroppo si è giocata la carta della ruotine e del sicuro incasso, la quale alla lunga ha o avrebbe prodotto forse un’assuefazione da parte del pubblico. Pertanto ben vengano le novità, anzi speriamo che passato il Festival del prossimo anno quello del centenario e dell’anniversario della nascita di Verdi e Wagner la programmazione sia più omogenea e la direzione artistica si sforzi nel creare nuovo e più comprensibile entusiasmo nella ricercatezza delle opere da proporre anche in considerazione della forte concorrenza attuale di festival sparsi in tutta Europa. È toccato ancora una volta a Franco Zeffirelli ideare il nuovo spettacolo per l’apertura della stagione, il regista e scenografo segna così l’ennesimo contributo areniano dopo Carmen, Trovatore, Turandot, Aida, Madama Butterfly. La visione zeffirelliana dell’opera è ridondante, è palese e in questo Don Giovanni si è riconfermato. L’impianto scenografico è imponente e anche molto bello: una facciata, in parte scomponibile, tipicamente sei-settecentesca barocca con tanto di maestoso cancello dorato che segna l’ingresso della casa del Commendatore. La scena è pressoché fissa e tutto si svolge su ampie scalinate e piazze di una Spagna immaginaria ma molto coreografica. Purtroppo ci dobbiamo fermare qui. Nel contesto registico manca un vero scavo sui personaggi, lasciati sovente ad improvvisazioni personali e il voler sempre mettere innumerevoli comparse in scena non ha fatto altro che rendere confusa e talvolta ridicola la drammaturgia. Già l’ingresso del protagonista, con il fido Leporello, a cavallo parafrasava il Don Quichotte che poco o nulla a che vedere con l’opera. Non sono stati accentuati momenti che renderebbero l’opera ricca di suspense come nel caso di Donna Elvira che entra su una lettiga a mano più consona ad un cardinale, e che poi gira per una piazza brulicante di tutto e di più (mulattieri, facchini, nobildonne, artigiani) scorgendo don Giovanni durante un massaggio da parte di un ambulante. La festa di nozze di Zerlina e Masetto, contadini e di estrazione plebea, pare il matrimonio di un nobile con tanto di danze e ballerini degni dell’aristocrazia, e sorvoliamo sulla coreografia tipicamente in stile tarantella partenopea. Nel finale dell’opera, quando mi sarei aspettato il vero colpo di teatro, la sala da pranzo di Don Giovanni, con una servitù così numerosa che avrebbe fatto impallidire il Duca d’Alba, si ritrasforma nel cimitero della scena precedente da dove sbuca il commendatore che porta negli inferi il dissoluto. Alla fine non posso non registrare la grande abilità dello scenografo che crea sicuramente un grande effetto d’impatto, ma il regista non realizza un dramma musicale, si mantiene solo su una certa eleganza d’immagine calcando la mano sulla ridondanza di comparse inutili e destabilizzanti. A tutto ciò, che è giudizio personale, si aggiunge il grave errore registico di spezzare l’intero melodramma con pause non brevi per il cambio scena tali da rallentare in maniera eccesiva la drammaturgia, che diversamente in Don Giovanni è vorticosa ed incalzante. I costumi creati da Maurizio Millenotti erano di altissima fattura sartoriale e di lussuosa eleganza, anche troppa, soprattutto per quelle dodici livree rosso fuoco che indossavano i servitori del protagonista. Le luci, di Paolo Mazzon, non erano particolarmente curate nelle sfumature e diverse impostazioni che diversamente avrebbero reso migliore la visione.
Anche la scelta del direttore, Daniel Oren, non è stata delle più azzeccate. Il repertorio del maestro israeliano è tipicamente diverso dall’opera mozartiana e risultati eccelsi si riscontrano soprattutto nel verismo. In Mozart è notevolmente carente il senso teatrale, oltre alla mancanza del ritmo, sinfonia lentissima come molte altre parti, e la febbrile partecipazione.
Sui cantanti ho riscontrato molte ombre e poche luci, tuttavia poiché i più sono specialisti nei loro ruoli certe forzature forse erano dovute al fatto che Mozart raramente è rappresentato all’aperto, anche se l’amplificazione o il riporto della voce, come si voglia chiamare, era ben fatto e distribuito acusticamente.
Ildebrando D’Arcangelo era un protagonista splendidamente misurato ed istrione scenicamente ma vocalmente spesso intubato e legnoso, la mezza voce carente ma il recitativo imponente e raffinato. Bruno De Simone tracciava un Leporello molto rossiniano nei modi e nei gesti, caricato talvolta (non so se voluto dal regista), il canto era pastoso e morbido e ben rifinito anche se per tale ruolo avrei preferito più spessore e credo che lo stesso artista, di ottima fattura, in spazio chiuso raggiunga risultati ancor più lusinghieri. Molto lacune, sia tecniche sia di pronuncia, ho riscontrato in Anna Samuil, una donna Anna volenterosa ma quanto mai approssimativa. Molto meglio per temperamento e varietà d’accenti l’Elvira di Carmen Giannattasio che ha negli acuti, da perfezionare, il suo tallone d’Achille. Saimir Pirgu interpretava un don Ottavio educato e composto ma presumo per il luogo, la sua vocalità rasentava quella di Radames, anche se stilisticamente qualche proprietà l’ha fatta intravedere. Molto brava la Zerlina di Geraldine Chauvet, dalla voce ben assortita, spigliata e briosa, peccato alcune movenze scurrili di pessimo gusto, ma anche in questo caso non saprei a chi attribuirne la responsabilità. Vincenzo Taormina interpretava un verace Masetto ma di buona impostazione, del Commendatore gutturale e stanco di Paata Burchuladze meglio non dilungarsi oltre. Successo al termine e con ovazioni per Zeffirelli, ma molte le uscite nelle pause sopra citate, compresa quella del ministro Fornero, e nel finale dopo la morte di Don Giovanni quando molto del pubblico credeva l’opera terminata.
A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM [Simone Ricci] Roma, 24 giugno 2012.
A midsummer night’s dream è la versione operistica dell’omonimo lavoro di Shakespeare musicato da Benjamin Britten: la première risale all’11 giugno del 1960 al Festival di Aldeburgh, con lo stesso autore a dirigere l’orchestra, un’opera ricca di dissonanze e spunti fantastici.
I sogni si fanno al museo: è questo il pensiero che può venire in mente dopo aver assistito a A midsummer night’s dream al Teatro dell’Opera di Roma. Il Costanzi ha avuto il merito di mettere in scena per la prima volta in assoluto l’opera “shakespeariana” di Benjamin Britten, una rappresentazione riuscita dal punto di vista vocale e musicale, ma forse da rivedere sotto il profilo della regia. Si tratta di una edizione nuovissima a cura dallo scozzese Paul Curran, il quale si è avvalso delle scene e dei costumi di Kevin Knight. Ebbene, bisogna spiegare la frase menzionata all’inizio.
In effetti, lo stesso Curran ha deciso di ambientare questa storia raffinata e allettante in un museo di storia naturale, con la finzione e la realtà che vengono fatte convivere insieme e i rapporti sentimentali fra le coppie dell’opera che vengono incastonati in un mondo dominato da folletti e fate. Questa edizione comincia proprio quando il teatro comincia a riempirsi, con alcuni dei protagonisti che sono presenti sul palco a svolgere alcune mansioni di pulizia e di allestimento di questo museo; prima ancora che vibri nell’aria la prima nota assistiamo all’inaugurazione di una installazione di arte moderna, una scala piuttosto misteriosa e tetra, la quale dà immediatamente l’idea di qualcosa di magico.
Non è mai semplice allestire il “sogno” di Britten e questo per vari motivi: molte regie hanno fallito clamorosamente negli ultimi anni, con scene poco leggibili e comprensibili, senza dimenticare che il cast vocale è composto da ben diciannove persone e amalgamare le loro ugole non è affatto semplice. Nel caso di queste recite romane, le scelte registiche non sono epocali, ma comunque si bada al sodo e la recitazione dei cantanti è davvero ben sviluppata. I sentimenti vengono bene a galla: i giochi, gli amori, i contrasti, i vari scambi, persino alcune allusioni ai rapporti erotici, il resto lo deve fare l’immaginazione, visto che questa scenografia è senza dubbio a basso costo, una opzione non certo imprevedibile in questi tempi di crisi economica.
Il nome di Britten non è poi così presente nei cartelloni del nostro paese e dunque la curiosità poteva spingere il pubblico ad assistere allo spettacolo: purtroppo, però, si notavano immediatamente numerosi posti vuoti e col passare delle ore il teatro è andato anche svuotandosi. Eppure, vi sono degli elementi che possono sicuramente far venire dei rimpianti a chi non era presente. Ad esempio, la direzione musicale di James Conlon: il direttore americano sta percorrendo da qualche anno un percorso che mira a far meglio conoscere e apprezzare Britten e questa sua passione si è avvertita parecchio, con una concertazione essenziale, ma mai banale, visto che l’orchestra ha letto la partitura in maniera professionale e anche il coro di voci bianche diretto da Josè Maria Sciutto che ha adempiuto in modo impeccabile al suo compito.
Gli interpreti in scena non sono stati da meno e parlare di un migliore e di un peggiore sarebbe fuori luogo: ovviamente, però, si possono lodare le doti di Lawrence Zazzo, un Oberone dalla buona emissione falsettistica e piuttosto elegante nel fraseggio, senza dimenticare Claudia Boyle, una Tytania sensuale e anche molto spigliata nel gioco di scena. Le coppie di amanti beneficiavano di registri vocali molto godibili oltre che di molta freschezza. Ben inserite, poi, sono state le quattro soliste delle voci bianche che impersonavano i folletti. Personalmente ho molto apprezzato il Puck di Michael Batten, debuttante non certo allo sbaraglio nel mondo della lirica; allo stesso modo, un plauso va ai quattro rustici, con il Peter Quince interpretato da Peter Strummer che primeggiava sugli altri.
Il calore del pubblico non è mancato, anche se gli applausi tiepidi del finale del primo atto erano piuttosto eloquenti: magari serviva un pizzico in più di sensibilità nei confronti dell’aspetto notturno e fantastico e una riproposizione meno moderna dei personaggi ateniesi, uno dei consueti tentativi registici di far approdare a teatro il maggior numero di persone di tutte le età.
LA TRAVIATA [William Fratti] Firenze, 25 giugno 2012.
La ripresa de La traviata firmata da Franco Ripa di Meana al Teatro Comunale di Firenze è occasione, per i dipendenti della Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino, di manifestazione contro la sovrintendente e tutto l’apparato dirigenziale, con manifesti e volantini appesi e distribuiti all’ingresso del teatro. Fortunatamente si tratta di una protesta muta – come vogliono fare intendere gli orchestrali, in piedi prima dell’inizio dell’opera, ad attendere che venga pronunciato dalla galleria lo slogan del malcontento: “Colombo… a casa e non da sola”; e i coristi, che accolgono i loro applausi al termine del secondo atto con la bocca coperta da nastro adesivo – e nessuno sciopero od interruzione va ad inficiare l’esecuzione del celebre melodramma. Le ragioni dell’alterco sono più che evidenti; i sindacati denunciano “un’incapacità nella gestione e nella programmazione del lavoro mai viste fino ad ora”; il sindaco Matteo Renzi risponde a garanzia della sovrintendente Francesca Colombo e minacciando l’annullamento di eventi in programma. La speranza è che le parti trovino presto un terreno di confronto, poiché i soli a subirne i veri danni sono l’arte, la cultura e gli ignari spettatori che pagano biglietti molto salati.
In un mondo di Traviate più o meno giovanissime e dai nomi più o meno esotici, Silvia Dalla Benetta – e poche altre che non sono oggetto di questa recensione – spicca come una stella. Dopo tante Violette davvero belle da vedere, ma approssimative nell’intonazione e nella tecnica, con colori e accenti quasi inesistenti, finalmente si torna ad udire una voce con venti anni di carriera alle spalle che canta all’italiana, con un fraseggio altamente espressivo, che sa eseguire lo spartito con i pianissimi, i legati, gli accenti, le marcature, le appoggiature, le note battute e ribattute, senza mai cadere in errore, imprecisioni, o perdere il focus sul personaggio, passando da un’emozione all’altra, dalla spensieratezza alla gioia dell’innamoramento, dalla preoccupazione alla serenità, dal sacrificio al dolore della perdita, dall’offesa alla consapevolezza della morte, come se tutto ciò fosse la realtà, portando lo spettatore nel dramma di una “povera donna, sola, abbandonata”. Silvia Dalla Benetta esegue eccellentemente tutto il primo atto; magicamente il secondo e nel terzo è davvero insuperabile, tanto da poter essere considerata oggi una delle Traviate di riferimento. La lettura di “Teneste la promessa” con le lacrime agli occhi e un nodo stretto in gola è notevolmente toccante; “Addio del passato” interpretata con tutti i pianissimi è intensissima; fino ad arrivare al dolore profondo di “Dille che dono ell’è di chi nel ciel tra gli angeli” eseguito con un solo filo di voce.
La scelta della direzione artistica di mettere assieme Silvia Dalla Benetta, Aquiles Machado e Simone Piazzola è davvero fortunata, poiché le loro voci e il loro modo di cantare ed interpretare i ruoli di questo melodramma si sposano alla perfezione. Nel celebre duetto “Un dì, felice, eterea” i due protagonisti si prodigano in un canto elegante e raffinato, ricco di pianissimi e mezze voci, colori e sfumature di notevole levatura. Aquiles Machado dimostra di saper alleggerire dove occorre, nonostante la sua voce sia recentemente orientata ad un repertorio più pesante, e ne risulta un Alfredo carico di accenti alla maniera verdiana. Ben eseguiti sono i falsetti di “Parigi, o cara”. Anche la resa del personaggio è degna di nota, mai reso troppo ingenuo o adolescenziale. Peccato per gli attacchi irosi con conseguente caduta di sedie e tavoli, ma molto probabilmente si tratta di una scocciante richiesta del regista e non di una colpa del cantante.
Simone Piazzola, nonostante la sua giovane età, sta facendo di Germont uno dei suoi cavalli di battaglia e la resa è davvero eccellente, mostrando una bella voce di baritono lirico, con inflessioni azzeccatissime, fraseggio pregevole e chiaroscuri di altissima qualità. Il lungo duetto con Silvia Dalla Benetta è una pagina più che rimarchevole, in cui i filati di “Dite alla giovine” e “Conosca il sacrifizio” si amalgamano stupendamente con le sfumature di “Sì, piangi, o misera” e “Siate felice”.
Purtroppo la rosa dei comprimari non è delle migliori. Le esecuzioni vocali di Antonella Carpenito, Emanuela Grassi, Gabriele Domenico Bolletta e Juan José Navarro nei ruoli di Flora, Annina, Marchese e Dottore, non sono nemmeno classificabili, neppure nell’intonazione. Molto probabilmente sono stati tutti vittima di un’epidemia che ha causato un malessere alle vie respiratorie. Addirittura Bolletta, che non ha una parte molto lunga da memorizzare, sbaglia una battuta, dicendo “la verità ignorate”, anziché “novità”. Un pelo migliori sono Eduardo Hurtado e Dario Shikhmiri nei panni di Gastone e Douphol. Efficaci Davide Cusmano, Romano Martinuzzi e Lisandro Guinis nelle vesta di Giuseppe, un domestico e un commissionario.
Giampaolo Bisanti sostituisce Andrea Battistoni sul podio dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e porta a casa una Traviata più o meno soddisfacente, ma non certo eccellente come la campagna mediatica ha cercato di fare credere. Il mondo dell’opera è sempre alla ricerca di novità, che vengono spesso eccessivamente spinte da spot celebrativi o addirittura sfruttate in lavori oltre le loro possibilità, andando ad intaccare quello che può essere davvero un talento naturale. Non è corretto che gli addetti ai lavori giochino con la vita e la professione degli artisti. Giampaolo Bisanti è veramente un abile direttore, dal gesto pulito e sicuro, ma non è in grado, in questa sede, di dare a quest’opera così popolare e ricca di così tanta letteratura, il valore aggiunto che i media hanno tanto voluto pubblicizzare. Ottimo è l’accompagnamento del duetto di Violetta con Germont; altrettanto lo è l’accondiscendenza alle esigenze degli interpreti, ma certi passaggi sono un po’ rudi – Verdi direbbe “tagliati con la roncola” – e tal altri leggermente grossolani o imprecisi, come la cabaletta di Germont e i cori di secondo atto.
Infine, per quanto riguarda lo spettacolo di Franco Ripa di Meana, senza infamia e senza lode, restano le fastidiose scorrettezze filologiche di Violetta che pronuncia le sue frasi “Oh qual pallor” in primo atto e “Oh, come son mutata!” in terzo senza mai guardarsi allo specchio; di Alfredo che scaraventa tavoli e sedie a terra; di Violetta, Gastone, Alfredo e Douphol che prima del brindisi dovrebbero conversare privatamente e invece si ritrovano in punti opposti della scena con conseguente svilimento di quelle che dovrebbero essere delle confidenze. Per non parlare delle coreografie e della scenografia della festa in casa di Flora, monotone e con poco significato le prime, poco piacevoli da vedere le seconde. Degni di nota particolare sono invece i bei costumi di Silvia Aymonino e le belle scene della prima parte di secondo atto e di terzo atto disegnate da Edoardo Sanchi. Talvolta accattivanti, talvolta molto semplici, le luci di Guido Levi riprese da Luciano Roticiani.
Passabili le prove di Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino.
CARMEN [Lukas Franceschini] Venezia, 26 giugno 2012.
C’era molta attesa per il ritorno dell’opera Carmen di Georges Bizet in laguna e soprattutto per l’allestimento non covenzionale di Calixto Bieito che è stato premiato nel 2011 con il premio Abbiati ma nacque per il Festival di Peralada nel 1999, in seguito rielaborato in una nuova versione per il Teatro Liceu di Barcellona che l’ha coprodotto con il Teatro Regio di Torino, il Teatro Massimo di Palermo e La Fenice.
Ogni qualvolta che si allestisce Carmen il problema è circoscritto all’edizione e in questa occasione i problemi non si sono posti poiché il regista aveva già deciso di ridurre all’osso i dialoghi utilizzando solo i pezzi musicali di Bizet, facendone così una versione sua con qualche brandello dei recitativi musicati da Giraud. Quanto potere lasciano i direttori artistici e i sovrintendenti ai registi!!
Chi scrive preferisce notevolmente la versione Oeser con i dialoghi parlati perché teatralmente efficace e completa, tuttavia devo anche registrare che uno spettacolo di tale impatto drammatico e violento come quello creato da Bieito è una vera forza della natura teatrale. Per chi non ne fosse a conoscenza ricordo che il regista spagnolo è salito alle cronache del teatro per sue letture registiche molto particolari, talvolta volgari e disturbanti, ponendosi tra i più irriverenti stage directory del pianeta. Con Carmen è la seconda volta che Bieito approda in Italia dopo The Rake’s Progress di qualche anno fa al Comunale di Bologna, che alla fine tanto scandalo non fece.
Nell’opera vista a Venezia, possiamo ipotizzare di trovarci intorno alla metà degli anni ’70 in pieno epilogo franchista. Proprio per questo il mondo militare è sempre presente in tutti gli atti dell’opera. Quando si apre il sipario, non siamo nella piazza di Siviglia ma nel cortile di una caserma di frontiera al momento dell’alzabandiera alla quale partecipa tutto il plotone tranne un soldato in punizione che marcia di corsa e in mutante lungo il perimetro. Già s’intuisce che ci troviamo in una zona degradata della Spagna di confine dove l’esercito, forse un po’ allo sbando, impone il bello e il cattivo tempo, costituito anche di soprusi e traffici illeciti. Via via le divise lasciano spazio a corpi di militari accaldati fino ad arrivare ad un nudo integrale che durante il preludio del terzo atto, sotto una gigantografia raffigurante un toro, mima una corrida creando un momento di grande poetica teatrale (in sala si sono sentiti mormorii, per un corpo nudo!?!). La vicenda dunque si sviluppa in un luogo degradato ed estremamente violento, una violenza che s’impone a tutto tondo, forse talvolta eccessiva ma coerente con la concezione registica. Lillas Pastia è una sorta di capo clan che gestisce tutto il malaffare del luogo, Dancaire e Remendado due spietati banditi e killer che obbligano alla prostituzione Frasquita, Mercedes, la stessa Carmen e anche la bambina al loro seguito, e i loro modi sono i più comuni a chi si oppone. Carmen è sempre la donna libera che conosciamo e chi il libretto ci fa intendere, ma questo è solo un sogno o una realizzazione cui vorrebbe arrivare. Qui è soprattutto vittima e succube di un mondo maschilista opprimente e distruttivo. Anche le due persone che s’innamorano di lei, Don José ed Escamillo, lo sono in maniera di feroce prevaricazione sia sociale sia sessuale. Il duetto finale tra i due amanti è l’apoteosi di tale cruda realtà: lei con una mise ridicola è l’emblema della donna che vuole riscattarsi, ma non ci riesce, lui trasfigurato dalla gelosia, prima di assassinarla con un taglio di gola stile “macello taurino” abusa del suo corpo con la mano sotto la gonna, un’umiliazione dell’animo femminile ferocemente voluto.
Per un tale spettacolo ci volevano dei cantati-attori di prim’ordine ove la scena non era secondaria alla musica. La sapiente mano di Bieito ha esercitato un lavoro di prim’ordine su tutti ma con risultati alterni, ma le scene spoglie di Alfons Flores sono d’effetto e i costumi di Mercè Paloma azzeccatissimi.
Di Béatrice Uria Monzon non si può che apprezzare la valenza interpretativa, meno quella vocale non avendo una voce sensuale né tanto meno un registro omogeneo con gravi deficitari e acuti non sempre timbrati. Stefano Secco, anch’egli impegnato in una magnifica recitazione, è uomo perdente già al suo apparire, cui solo la follia da il coraggio di osare l’impossibile. Il tenore mi è parso stanco rispetto a sue recenti esibizioni tuttavia non ha sfigurato, ma è passato diciamo nella ruotine. Anche Alexander Vinogradov non era al meglio e probabilmente il ruolo di Escamillo non è dei suoi migliori, sia per spavalderia sia per veemenza vocale. Ekaterina Giotas era una discreta Micaela dal timbro piuttosto aspro, ma il regista l’ha voluto non più secondaria ma coprotagonista rendendole il ruolo più incisivo rispetto la tradizione, geniale il gesto dell’ombrello che rivolge a Carmen nel finale atto III. Brave le due zingare Chiara Fracasso e Sonia Ciani, frizzanti e spavalde come si conviene, meno i due malavitosi Francis Dudziak e Rodolphe Briand. Straordinario scenicamente e buon cantante il Morales di Matteo Ferrara.
Orchestra e coro del Teatro La Fenice erano diretti da Omer Meir Wellber, giovane bacchetta israeliana emergente. La sua concertazione è stata alterna ma notevolmente superiore alle recenti performance scaligere. Wellber parte con un’overture incalzante e violenta e tiene tuttavia il ritmo in tutta la partitura, calando stranamente in alcuni momenti come il quintetto del secondo atto, o il duetto Micaela-Josè, ove il ritmo lascia spazio ad una deludente monotonia. In definita pur avendo momenti molto validi, la sua direzione è parsa spesso priva di colore, di emozione, d’incisività. Ottimo il coro del Teatro e bene la prestazione dei Piccoli Cantori Veneziani. Al termine successo pieno per tutta la compagnia, ma ho assistito alla quinta recita, alle prime le cronache narrano di contestazioni alla regia, ma ciò era anche prevedibile quando si varcano taluni confini tradizionali.
MANON [Lukas Franceschini] Milano, 29 giugno 2012.
Una buona dose di sfortuna è calata su questa nuova produzione di Manon di Jules Massenet al Teatro alla Scala. Prima è arrivato il forfait di Nathalie Dessay, la protagonista annunciata, poi anche quello di Anna Netrebko che la sostituiva per qualche recita, pertanto tutte le rappresentazioni sono state cantate da Ermonela Jaho, la quale era prevista come seconda cantante in locandina.
Accantonato lo spettacolo di Nicolas Joel (utilizzato solo due volte), il nuovo allestimento della Scala è una coproduzione con il Covent Garden di Londra, il Metropolitan di New York e il Capitole di Tolosa con la regia di Laurent Pelly, maestro francese innovatore del nuovo teatro d’opera d’avanguardia. Lo spettacolo di Pelly è finemente incentrato sul mondo traballante di Manon, una vita tutto sommato vissuta di espedienti e non certezze nella scalata sociale, pertanto il tutto è frammentario e d’improvviso ed inevitabile tracollo. L’azione è ambientata nel tardo Ottocento, volutamente dal regista per accostare Manon ad altre due eroine che violano i dettami della società: Violetta e Carmen. I magnifici costumi, sempre per mano di Pelly, sono in bianco e nero per gli uomini per porre l’accento sul potere maschilista, sfarzosamente colorati e sensuali quelli femminili di ottima fattura ed estasiante visione. Le sei scene che compongono l’opera, realizzate da Chantal Thomas, rappresentano in chiave estetica la drammaturgia senza particolari stravolgimenti. Nel primo atto una piazza infossata con grande scalone, il secondo l’appartamento è una deliziosa soffitta contorta architettonicamente con tanto di scala a terrasse che domina una veduta mozzafiato di Parigi. Cour-la-Reine offre ancora una volta la grande scalinata ma qui non è la scena ad imporsi quanto lo sfarzoso e perfetto sincronismo delle masse abbigliate sontuosamente. Nella scena di Saint-Sulplice il letto di Des Grieux in angolo stride concettualmente, mentre la chiesa è fortemente inclinata. L’hotel della Transilvania si scosta dalla classica casa da gioco, sembrerebbe quasi una discoteca moderna disposta su alterni livelli, ed infine la strada di Le Havre è un’immensa proiezione di una banale via di campagna ma resa in maniera efficace per il vuoto che la circonda. A termine spettacolo possiamo affermare che la mano del regista resta validissima, tolti alcuni particolari che chi scrive non condivide, ma il personaggio di Manon è sfaccettato a misura seconda della vicenda, gli altri si collocano nella perfetta frammentazione attorno ad essa. Le scene perfettamente riuscite sono al secondo atto e al quinto, però in quest’ultimo sarebbe stata necessaria una più oculata realizzazione di luci. Pelly realizza una visione anche onirica non staccandosi mai dal romanzo di Prevost, cui Massenet si attiene letteralmente. La cornice sia intima sia di massa è sempre a puntino, e le danze riecheggiano quel settecento, che seppur non visivo, è palesemente presente anche musicalmente.
Sul podio del Teatro alla Scala debuttava il genovese Fabio Luisi, principale direttore al Metropolitan. La sua concertazione era vibrante e sensuale, il ritmo non era in nessun istante latente. L’orchestra lo seguiva a dovere sfoderando un suono compatto e delicato, un rapporto di alto valore che non veniva a meno neppure con i singoli e il coro, il quale era molto preciso e in gran serata. La buona fattura di questa bacchetta dovrebbe portare senza dubbio a future collaborazioni milanesi.
Ermonela Jaho la ricordavo come imprecisa Violetta a Verona lo scorso anno, in questa Manon invece ho avuto modo, e con piacere, di ricredermi. Il soprano ha dimostrato una maggiore perizia tecnica, un ottimo dosaggio di colori e fraseggio, e se qualche acuto, nel III atto, non è stato pienamente centrato, non è gran male tanto era partecipe sia scenicamente sia interpretativamente. Una bella prova soprattutto considerato l’onere di sostenere tutte le recite con il breve preavviso dovuto a quanto sopra. Non altrettanto si può dire di Matthew Polenzani, al quale va imputata un generico stile musicale e una non raffinata perizia vocale. Il suo Des Grieux non emana sensualità, trasporto o ardore, ma è compito talvolta anche corretto ma privo di emozioni. Baldanzoso e farabutto il Lescaut di Russell Braun puntuale nei suoi interventi, di gran lusso il Comte Des Grieux di Jean-Philippe Lafont che esibiva classe e signorilità. Molto azzeccati tutti i ruoli secondari: spassose e leggiadre Simona Mihai, Louise Innes e Brenda Patterson rispettivamente Poussette, Javotte e Rosette; da manuale Guillot e Bretigny impersonati da Christophe Mortagne e William Shimell. Successo pieno al termine con particolari apprezzamenti per il soprano e il direttore.
CARMEN [Lukas Franceschini] Verona, 30 giugno 2012.
Il terzo appuntamento della Stagione Areniana proponeva l’opera Carmen di Georges Bizet nell’ormai collaudato e ripetitivo allestimento di Franco Zeffirelli, nato nel 1995 e rielaborato nel 2009.
In effetti, dovremo parlare di due allestimenti differenti sia per la scenografia sia per la presenza di comparse e ballerini. La rielaborazione è dovuta anche alle restrizioni dell’utilizzo del palcoscenico imposte dalla Sovrintendenza alle belle arti, modificando di molto le produzioni areniane. Personalmente preferivo la prima, anche se la trovavo affollatissima oltre ogni limite. In questa nuova versione si possono apprezzare i luoghi tipici ma purtroppo realizzati ora con dei tableau e non con le sontuose scenografie che erano il pregio della mano di Zeffirelli. Quanto alla regia non c’è molto da aggiungere da quanto detto anche negli anni precedenti: prevale una non regia sui personaggi se non nell’apparente visione ma con poca scansione, è l’aspetto coreografico delle scene a prevalere nella concezione della scena d’insieme che ricrea una Siviglia colorata e folkloristica. Anche nella nuova versione ci si attiene a questi criteri ma non potrei dire quanto il maestro Zeffirelli sia intervenuto in questa ripresa, impegnato nel Don Giovanni inaugurale e purtroppo minato in parte dalla salute. Confrontata con la recente Carmen veneziana, questa è solo illustrativa e ipertradizionale, l’altra seppur estremizzata aveva un concetto registico seppur opinabile. Dopo la stagione del 100° il prossimo anno sarebbe il caso anche di valutare possibilità diverse per proporre l’opera più rappresentata in Arena dopo Aida.
Julian Kovatchev saliva per l’ennesima volta sul podio dell’orchestra dell’Arena di Verona confermandosi un discreto concertatore ma con tempi molto dilatati e a tratti scarso di fantasia nel creare pathos, seduzione, lirismo, tuttavia non perdeva mai il controllo con il palcoscenico e il suo accompagnamento non può che essere valutato dignitosamente.
Nel cast abbiamo ritrovato con piacere Anita Rachvelishvili, unica interprete veramente calata nel personaggio. Voce sensualissima e di gran finitura la cantante ha ormai nelle sue corde Carmen in maniera indicativa, sicura in tutti i registri, disinvolta scenicamente crea una protagonista di grande effetto e pur essendo all’aperto cerca per quanto possibile un fraseggio eloquente e sensuale rendendo al personaggio il ruolo di femme-fatal che le compete. A voler essere puntigliosi non sono mancati suoni di petto, ma si deve sempre tener conto che l’Arena è un o spazio immenso e non sempre la calibrazione del suono può essere perfetta come in un teatro al chiuso.
Nel ruolo di don José Marco Berti sostituiva il previsto Marcelo Alvarez, purtroppo ormai molto abituato ai forfait. Berti dopo le fatiche di Aida affronta anche le prime due recite di Carmen e per certi versi si sente il gravoso impegno, tuttavia egli intende il personaggio non un uomo vinto e debole, ma un eroe macho e violento sin dall’inizio, perorando tale causa con una vocalità spinta e senza raffinatezze. E’ il classico esempio di Don José anni ’50 tutto muscoli e potenza che poco si addice oggigiorno, però bisogna riconoscerli una tenuta esemplare. Il personaggio di Micaela sta un po’ stretto a Fiorenza Cedolins vuoi per temperamento vuoi per liricità, inoltre l’ho trovata asettica vocalmente, puntuale sì ma poco emozionante quale coraggiosa innamorata. Carlo Sgura avrebbe buone capacità vocali, validate in altri ruoli e teatri, ma forse in questa recita non era propriamente in forma perché il suo volume era limitato e vivacità ed irruenza scenica assenti. Discreta la coppia dei contrabbandieri che erano Fabio Previati e Carlo Bosi, buona la Mercedes di Cristina Melis, alquanto aspra e stridula la Frasquita di Francesca Micarelli. Dei gendarmi Gianluca Breda e Gianfranco Montresor dire che erano approssimativi è un eufemismo. Di gran rilievo come sempre la partecipazione del Balletto spagnolo di Lucia Real, innesto appassionato di folklore andaluso, peccato come dalla prima edizione che non fosse inserita l’Arlesienne nel IV atto considerato che ci sono simili danzatori che si sono ben assortiti con il bravo Corpo di Ballo Areniano. Il coro era in buona forma, le voci bianche meno. Successo trionfale al termine, ma di Zeffirelli manco l’ombra.
NORMA [Natalia Di Bartolo] Taormina, 8 luglio 2012.
Ragguardevole successo per la Norma inaugurale del Bellini Festival 2012, allestita nella suggestiva cavea del Teatro Antico di Taormina. La seconda replica, martedì 10 luglio, è stata trasmessa in diretta Rai via satellite nei cinema del mondo. E già il 14 luglio la registrazione è approdata su Rai5, per festeggiare lo “switch-off”, avvento del digitale terrestre, della Sicilia, tramite l’Opera più significativa del sommo Musicista etneo.
Ragguardevole successo per la Norma inaugurale del Bellini Festival 2012, allestita nella suggestiva cavea del Teatro Antico di Taormina. La location indubbiamente merita questo ed altro e l’atmosfera era garantita da un cielo tutto siciliano, che sia pur lontano dagli algidi cieli druidici, non poteva che fare da tetto infinito ed adeguato alle note divine del Cigno catanese.
Delusione del folto pubblico per il forfait dell’indisposta Daniela Dessì, che è stata sostituita dalla volitiva Daniela Schillaci, al debutto nel ruolo. Inevitabile il ritorno alla mente dello spettatore di altre edizioni di Norma che si sono susseguite negli anni nel suggestivo sito archeologico siciliano, non ultima la controversa e discussa, ma per chi scrive certamente fascinosa, prova del 1989 dell’allora splendente Katia Ricciarelli, al debutto nel ruolo, affiancata da un già attempato Pollione Gianfranco Cecchele e da un sempre straordinario Paolo Washington nel ruolo di Oroveso. L’autorevole bacchetta era quella di Anton Guadagno, già avvezzo ad areniani, veronesi successi. Tempi lontani, ma non meno sontuosi allestimenti, voci e protagonisti che, comunque, restano a far parte della storia dell’Opera Italiana nel mondo e dei ricordi, sia pure non sempre concordi, dei melomani più accaniti.
Inestimabile, per la Schillaci, questa occasione di debutto, che ha rivelato un’interprete vocalmente immedesimata, tanto più efficace quanto più motivata a non far rimpiangere in nulla l’attesa e forse ormai provata Dessì. La voce “giovane” e squillante della Schillaci ha risuonato con accenti a volte sentiti, a volte più intenti alla tecnica di emissione che all’interpretazione ed alle parole del libretto, in una resa del personaggio ancora non perfettamente messa a fuoco dall’interprete siciliana, che ha dimostrato, però, una vocalità assolutamente da valorizzare. Apprezzabile sarà ascoltarla nuovamente nello stesso ruolo fra qualche tempo, quando avrà “maturato” anche l’insita drammaticità e la crisi lacerante, materna ed amorosa, del non facile personaggio. L’indiscussa chiarezza della dizione e l’emissione corretta e ben sostenuta, ma forse un po’ troppo “spinta”, andranno sicuramente sempre meglio modulate ed affinate. Attendiamo beneauguranti.
Decisamente inossidabile il tenore Gregory Kunde (dai giovanili, leggendari sovracuti), ormai maturo ma autorevole Polllione, che ha dimostrato una vocalità scurita ma ancora “fresca” e capace di rendere abbellimenti che raramente vengono eseguiti da Pollioni di solito un po’ sgraziati e, qualche volta, tremebondi nei confronti di sovrastanti Norme.
Assai raffinata la performance dell’Adalgisa di Geraldine Chauvet, che si spera, però, sia resa conto, almeno dalla generale, di trovarsi a Taormina e non a Catania, avendo dichiarato nelle prove di sentirsi particolarmente emozionata dall’esibirsi accanto alla casa natale di Bellini…Ma glielo perdoniamo volentieri, a fronte di un’eleganza e di una vocalità da mezzo-soprano alla “francese”, ovvero da soprano dotato di vocalità “scura” ed estensione spiccata nel registro medio-basso, ma non priva di rimarchevoli acuti. Per tale motivo si è dimostrata perfettamente adatta al ruolo, com’è giusto che sia per Adalgisa (spesso, nel passato, impersonata da mezzo-soprani dal timbro fin troppo scuro, ma prevista dall’autore per soprano). Positivamente impossibile, quindi, il confronto fra le due voci delle protagoniste, ma notevole l’azione in duetto, tra squilli da una parte ed armonici rotondi e ben assestati dall’altra. Ammirevole l’emissione dell’artista francese, perfettamente modulata e nettamente esperiente, che ben si conformava alla parte e che dimostrava uno studio del personaggio che si confaceva a quella che è la “Tradition”, in questo caso dell’Opera Italiana, a cui i cugini d’oltralpe si attengono con tanta solerzia e che curano fin nei minimi dettagli, dalla postura della maschera, fino all’uso dell’intero corpo quale quasi danzante risonatore e “portatore” in avanti del suono.
Dell’Oroveso di Enrico Iori non può che dirsi bene, soprattutto nella seconda parte dell’Opera, dove le tonalità decisamente da basso vengono mitigate, a favore di una vocalità da basso-baritono, che l’artista ha dimostrato di possedere. Auspicabile, anche in lui, un affinamento del dato psicologico del personaggio, soprattutto dal punto di vista “paterno”.
Corretti e gradevoli Massimiliano Chiarolla, Flavio, e Maria Motta, Clotilde.
Di buon livello la prova della nutrita Orchestra Nazionale dei Conservatori, composta meritoriamente da giovanissimi orchestrali scelti tramite apposita audizione, valorizzati dall’esperiente concertazione e direzione d’orchestra del M° Giuliano Carella. Da sottolineare la resa della sezione dei fiati e, in quella degli archi, l’azione dei violoncelli. Il Maestro Carella ha optato per una direzione decisamente dinamica, che evitasse la staticità che l’Opera tende ad avere in mano ad alcuni direttori che ne esasperano a volte la lentezza (che non sempre è sinonimo di solennità!) nei recitativi soprattutto, ma anche in altre parti, indulgendo costoro pure ad un “romanticismo” che nettamente non era nelle corde dell’immenso Bellini. Se da una parte, ogni tanto (Sinfonia compresa) nell’azione del Carella si notava una certa “speditezza” nei tempi, allo stesso modo questa era, invece, perfettamente appropriata e musicalmente attendibile in parti che avrebbero potuto diversamente risultare addirittura falsate e dare all’insieme una parvenza di prolissità che l’Opera non possiede, ma che la tradizione direttoriale (Bonyngiana, per prima) inevitabilmente ed inspiegabilmente le ha imposto. Una Norma “scattante”, coinvolgente e mai foriera di noia, quindi: concertazione e direzione da lodare.
Calore di accenti è stato dimostrato dal Coro Lirico Siciliano diretto dal M° Francesco Costa, nel quale hanno lavorato e potuto esprimersi al meglio circa settanta giovani potenzialità vocali, che meritano ulteriori affermazioni, a fronte, anche da parte loro, di un rafforzarsi dell’esperienza e della compattezza vocale dei ranghi, nonché della capacità di saper affrontare con assoluta sicurezza anche quelle parti acute che l’Opera impone, soprattutto ai soprani.
In non facile fusione con la scena in pietra del magnifico teatro greco-romano, ma pure evocative, le scene di Enrico Castiglione, autore anche dell’accurata regia teatrale e televisiva, che ha ricreato una sorta di primitiva Stonehenge, tra riti druidici e giganteschi dolmen. Un’ambientazione mitologico-barbarica sottolineata dai costumi fluenti ed accarezzati dalla brezza taorminese di Sonia Cammarata, che ha evocato sul palcoscenico l’eleganza di una sfilata d’alta moda per le due protagoniste, ma che avrebbe potuto fare a meno di certi elmi dorati che adornavano di lucenti ottoni le teste druidiche.
Un’accurata scelta registica delle luci ha poi arricchito decisamente ogni scena, colmando quei vuoti e vuotando quei pieni che spesso impediscono la messa in atto di scenografie che sfruttino la profondità, a causa delle dimensioni e della forma del palcoscenico dell’antico teatro. Illustre assente, purtroppo, la luna, coperta dall’afa che in questi giorni opprime la Sicilia.
Ad applaudire lo spettacolo un pubblico folto, alquanto rumoroso, ma anche da grandi occasioni, con un prestigioso parterre che annoverava stelle come Monica Bellucci, Letitia Casta, Isabella Rossellini, Dolce e Gabbana e diversi altri personaggi della moda e della cultura. Una serata anche un po’ da vip, quindi, supportata da un abile ed intenso battage pubblicitario, ma che, in fondo, mantenendo la rappresentazione entro canoni registici, vocali e orchestrali aderenti alla tradizione ha accontentato positivamente anche il pubblico dei meno esperti.
L’appuntamento con il capolavoro di Vincenzo Bellini si è rinnovato, quindi, nei giorni a seguire, sul grande e sul piccolo schermo. La seconda replica, martedì 10 luglio, è stata trasmessa in diretta Rai via satellite nei cinema del mondo e il 14 luglio la registrazione è approdata su Rai5, per festeggiare lo “switch-off”, avvento del digitale terrestre, della Sicilia, tramite l’Opera più significativa del sommo Musicista etneo.
AIDA [Lukas Franceschini] Verona, 11 luglio 2012.
Aida di Giuseppe Verdi è l’opera emblema dell’Arena di Verona e come di consuetudine è il secondo titolo della stagione ma con il maggior numero di repliche. Il prossimo anno, stagione del centenario dell’anfiteatro, saranno utilizzati ben due allestimenti, attingendo al magazzino della Fondazione, come a rimarcare l’importanza del titolo quale vessillo.
Anche quest’anno si utilizza l’abusato spettacolo anni ’80 di Gianfranco De Bosio ispirato ai bozzetti di Ettore Fagiuloli artefice della prima Aida del 1913. Bisogna rilevare che si tratta di uno degli spettacoli di maggior richiamo a Verona e la concezione kolossal è predominante. Seppur caratterizzato dalla più classica tradizione, è a suo modo funzionale e scorrevole, anche gradevole, ma trent’anni di riproposte adesso sarebbero eccessive. Oltremodo De Bosio non approfondisce la dinamica drammaturgica dei personaggi i quali sono lasciati sovente a se stessi, ma rende tuttavia la visione molto lineare senza abusare dell’effetto spettacolare di affollamento tipico di molti spettacoli areniani. Manca inoltre anche di alcune scene esotiche di grande effetto frequentemente realizzate con gusto retrò del secondo dopoguerra. Non aiuta un gioco di luci rasente al banale e per nulla spettacolare, come le ormai stridenti coreografie di Susanna Egri che potrebbero essere rielaborate o meglio cambiate. Anche l’utilizzo dei figuranti sulle scalinate posteriori è totalmente privo di gusto ed identificazione ma solo d’aspetto illustrativo che pare piaccia ancora tanto… ma se si provasse qualcosa di diverso?
Daniel Oren ritorna a dirigere due titoli nell’estate areniana e dopo l’insuccesso mozartiano ritrovarlo in Verdi, proprio con Aida, le cose cambiano radicalmente in meglio. Della concertazione di Oren si apprezzano sia la varietà musicale sia l’istinto naturale del sapiente accompagnatore. È vero che sbraccia sempre eccessivamente ma ci mette l’anima e le cose funzionano, lirico e talvolta raffinato nei momenti intimistici, vigoroso ed esplosivo in quelle più concitate, cui offre particolare cura ad un cast non proprio ottimale.
Hui He è la sola presenza in locandina ad essere cantante di pregio, anzi oggi si può affermare che è l’unica Aida a livello internazionale. Il volume è possente e ben utilizzato in piani e pianissimi, dovuti ad una tecnica ragguardevole e a scelte di repertorio, mai azzardate. A questo bisogna aggiungere un fraseggio eloquente, un espressività del canto, acuti timbrati.
Jorge De Leon subentrava a Marco Berti trasferito in Carmen a seguito la defezione del collega titolare. Si possono confermare le impressioni avute alla Scala nello scorso inverno: cantante musicalmente abbastanza dotato, ha una voce scorrevole con timbro di pregio ma non è supportato da una tecnica appropriata per cui è costretto a venire a patti con acuti non sempre centrati e corti, qualche problema d’intonazione e di tenuta, la mezza voce è totalmente assente.
Imbarazzante la performance di Andrea Ulbrich che si presenta come un’Amneris irruenta ma con tante carenze da far rabbrividire, oltre ad un gusto compassato si denotano appariscenti scompensi nei registri.
Ambrogio Maestri avrebbe le carte in regola per essere un buon Amonasro, la voce è importante e ben calibrata, tolto qualche acuto impreciso, ma sono il fraseggio e il gusto del cantante che abbassano di molto una prestazione che potrebbe essere molto differente. Tra i due bassi s’impone Carlo Cigni corretto Re, mentre Giorgio Giuseppini pur nella ruotine passa inosservato per mancanza d’ampiezza e vigore. Appropriato il messaggero di Antonello Ceron, sfasata e sgradevole la sacerdotessa di Maria Letizia Grosselli. Il coro ha ben figurato come il corpo di ballo, con la brava Myrna Kamara prima ballerina ospite. Successo pieno al termine, ma allestire Aida con tre intervalli, per due ore e dieci minuti di musica, è oggigiorno eccessivo.
LES CONTES D’HOFFMANN [William Fratti] Monaco di Baviera, 19 luglio 2012.
La Bayerische Staatsoper durante il Münchner Opernfestspiele 2012 ripropone Les contes d’Hoffmann nell’allestimento più che collaudato di Richard Jones. Purtroppo, per chi è abituato ad altro tipo di concezione del repertorio francese, questa produzione sembra molto provinciale, a cominciare dalle scene di Giles Cadle che, seppur adeguate alla narrazione, mal interpretano le caratteristiche di grandiosità ed imponenza della musica di Offenbach.
Migliori sono i costumi di Buki Shiff, ma avrebbe potuto azzardare di più nell’atto di Giulietta, anche se la regia certamente non aiuta, avendo costretto i protagonisti in quella che sembra la camera di un motel, invece di un gran palazzo di Venezia affacciato sul Canal Grande. Semplici, ma adatte, le coreografie di Lucy Burge e luci di Mimi Jordan Sherin.
Marc Piollet e la Bayerisches Staatsorchestyer sono i veri protagonisti della serata, precisi, musicali, maestosi dove occorre, con giusti accenti ed efficaci francesismi, emozionanti nel magico sviluppo della vicenda Offenbachiana.
Rolando Villazon è un Hoffmann decisamente sottotono e delude molte aspettative. Il suo fraseggio impareggiabile resta inalterato, ma la performance canora della serata, probabilmente inficiata da qualche indisposizione, è davvero modesta. Il passaggio all’acuto è troppo evidente, addirittura fastidioso e tutta la zona alta è indietro, tanto da perdere volume e proiezione. In effetti, quando il peso orchestrale si fa pressante, o perfino durante i duetti con le protagoniste femminili, la sua voce quasi non si ode.
Al contrario John Relyea interpreta i quattro ruoli di Lindorf, Coppélius, Dappertutto e Miracle in maniera più che soddisfacente. È ben misurato nella resa dei personaggi e la voce dal timbro scuro, ma facile all’acuto, ben si adatta a questo tipo di repertorio. La linea di canto è particolarmente omogenea, le note alte sono salde e ben appoggiate, i cantabili sono accurati, molto musicali e ben eseguiti, come pure le sfumature e l’uso dei colori. I cromatismi, i piani e gli accenti nel terzetto con Hoffmann e Crespel e nella successiva lunga scena con Antonia sono eccellenti ed emozionanti. Anche il prologo è particolarmente degno di nota, ed intensa è l’aria del diamante nell’atto di Giulietta.
Angela Brower è un Nicklausse ben dosata nel personaggio, reso efficace e accattivante, in possesso di un bel timbro, una piacevole rotondità e una buona intonazione. Il livello della sua performance è molto alto, seppur non è possibile non segnalare l’esecuzione di diversi acuti un po’ aciduli, soprattutto durante la prima aria. Migliore è “Une poupée aux yeux d’émail” e ancor di più lo è “Vois sous l’archete frémissant”, dove Angela Brower mostra un bel legato e un buon uso dei piani.
Diana Damrau, inizialmente prevista nei tre ruoli femminili, è la grande assente della serata, ma comunque il pubblico accoglie calorosamente le tre artiste sostitute.
Il soprano americano Brenda Rae è una bambola molto corretta nell’esecuzione vocale e adeguata nell’interpretazione, ma ancora lontana dall’eccellenza ed inevitabile è il confronto con altre interpreti di levatura internazionale. Le note ci sono tutte, ma non sempre sono perfettamente pulite. Ciò non significa che la sua qualità artistica sia messa in discussione, anzi, esattamente il contrario, ma bisogna tenere ben presente chi sta sostituendo ed in quale occasione.
Antonia è Olga Mykytenko e la sua performance è davvero toccante. Ogni pagina, ogni singolo passaggio è eseguito con sincero trasporto, evidente emozione e grande pathos, il tutto sostenuto da una vocalità lirica di forte impatto. Il duetto con Hoffmann è pregevole e il duetto con Miracle è forse la parte migliore di tutta la serata, sia nell’interpretazione che nella resa vocale di Olga Mykytenko e John Relyea.
Anna Virovlansky porta a casa la pelle, ma probabilmente il ruolo di Giulietta non è nelle sue corde e gli acuti sono spesso stonacchiati.
Dean Power, nei panni di Nathanaël, si presenta con una bella voce chiara e brillante e con una musicalità francesizzante davvero azzeccata.
Altrettanto positiva è la prova di Kevin Conners nelle vesta di Frantz. Nella bella aria “Jour et nuit” mostra una voce pastosa, in grado di accentuare colori e sfumature con piani e mezze voci ben eseguite.
Molto buona è la prova vocale di Christoph Stephinger nel ruolo di Crespel, anche se il personaggio pare molto distaccato, e ugualmente lo è quella di Tim Kuypers nelle vesta di Hermann.
Positiva è l’esecuzione anche degli altri comprimari: Okka von der Damerau, Ulrich Ress, Christian Rieger, Andrew Owens.
Entusiasmante è il Chor der Bayerischen Staatsoper, sia nella parte musicale che nell’interpretazione, guidato da Sören Eckhoff.
LA TRAVIATA [William Fratti] Torre del Lago Puccini, 28 luglio 2012.
La Fondazione Festival Pucciniano, arrivata alla cinquantottesima edizione del Festival Puccini, per la prima volta si cimenta con un’opera di un altro compositore, scegliendo La traviata per aprire ufficialmente i festeggiamenti per l’imminente Bicentenario Verdiano.
Purtroppo le aspettative erano molte, in gran parte disattese, soprattutto nell’allestimento firmato da Paolo Trevisi. La regia ha l’unico pregio di essere filologica e di seguire pedissequamente le note del libretto; per il resto è monotona e noiosa, tiene i protagonisti quasi immobili al centro del palcoscenico e il coro pressoché disposto alla greca. Le scene fisse di Poppi Ranchetti avrebbero avuto la loro efficacia con un’attività e un gesto più presenti; in questo modo invece aggiungono altro tedio al lavoro soporifero. I costumi della Fondazione Cerratelli non rendono omaggio, né all’opera, né ai protagonisti: Violetta è abbigliata in modo goffo, il coro e i comprimari sono quasi sempre in nero. In poche parole: è tutto funzionale, ma manca totalmente il nervo verdiano.
Al contrario, lo spigliato e disinvolto Fabrizio Maria Carminati, dirige egregiamente e con buon polso l’Orchestra del Festival Puccini, sempre attenta e ben concentrata sulla sua bacchetta.
Silvia Dalla Benetta, considerata da alcuni artisti presenti in sala una delle migliori Violette degli ultimi tempi, è certamente un’interprete di altissimo livello, ma costretta nell’immobilità di una regia banale e quasi inesistente, oltreché obbligata a non poter rendere al meglio certe sfumature vocali a causa della pessima acustica del Gran Teatro all’aperto Giacomo Puccini, non riesce a superare se stessa, come invece è accaduto di recente al Maggio Musicale Fiorentino. Da notare è la bellezza dei legati, soprattutto in primo atto, probabilmente richiesti dal Maestro Carminati e che presumibilmente le hanno causato sforzo nei lunghi fiati, ma il risultato è ottimo. Le pagine meglio riuscite sono quelle di terzo atto, dove l’artista vicentina riesce a trasmettere l’emozione del momento proprio grazie alla staticità ed insuperabile è la resa vocale di “Addio del passato”, di cui esegue anche l’intensa seconda strofa e cimentandosi in una cadenza davvero toccante.
Massimiliano Pisapia sarebbe ancora un eccellente Alfredo se non chiudesse i suoni delle vocali aperte e se i suoi acuti non fossero spesso indietro. Per il resto l’intonazione e il fraseggio sono buoni, ma la mancanza di omogeneità nel passaggio e la chiusura di certi suoni non rendono piacevole all’ascolto la sua esecuzione.
La performance di Stefano Antonucci nei panni di Germont è ottima, accurata e precisa. Il fraseggio è espressivo, i colori sono ben dosati e la linea di canto è particolarmente morbida. L’unico neo lo si può riscontrare nelle note molto basse, in cui si percepisce una qualche incertezza. Oltre alla celebre “Di Provenza il mar, il suol” anche il lungo duetto con Violetta è reso in maniera eccellente e col giusto pathos.
La rosa dei comprimari, provenienti dal Maggio Formazione, è indiscutibilmente di bassissimo livello, esattamente come già accaduto a Firenze poche settimane fa. Ciò non contribuisce certamente alla buona resa dello spettacolo ed è incomprensibile come si sia potuto ripetere lo stesso errore, alle spalle dei giovani artisti che stanno investendo sul loro futuro.
Accattivanti le coreografie, nel solo coro dei mattatori, di Walter Matteini, ben eseguite dagli Imperfect Dancers.
Buona la prova del coro diretto da Stefano Visconti.
CIRO IN BABILONIA [Lukas Franceschini] Pesaro, 7 agosto 2012 (prova generale).
La trentesima edizione del Rossini Opera Festival ha tra le sue novità la messa in scena dell’opera Ciro in Babilonia. Ormai siamo giunti agli ultimi titoli per il completamento integrale delle opere rossiniane e mancano solamente altre due partiture: Aureliano in Palmira ed Eduardo e Cristina.
Ciro in Babilonia non è uno dei tanti capolavori di Rossini, trattasi della prima opera seria composta per Ferrara durante la Quaresima del 1812. Infatti, è difficile identificarla come opera vera e propria perché nata quale oratorio, diversamente non sarebbe stata eseguita. E’ altrettanto vero che in seguito fu rappresentata come opera e non sempre con entusiastici favori anche se si contano un cospicuo numero di rappresentazioni fino al 1830, anche fuori confini italiani. La musica è quasi tutta originale tranne alcuni pezzi presi in prestito da lavori precedenti, come di prassi nel compositore, soprattutto dalle farse veneziane, altri pezzi andranno a far parte di opere successive.
Prima interprete di Ciro fu Maria Marcolini cantante che restò legata al pesarese per alcune prime rappresentazioni, ma di quest’opera fu validissima interprete anche la Pisaroni, e con tali interpreti le esecuzioni non mancarono in giro per l’Italia, un duetto confluì addirittura in un centone di Stefano Pavesi, come a dimostrare una certa diffusione e successo, cui si appaiono i tonfi di Firenze 1813 e Venezia 1816. Del Ciro manca l’autografo, che in parte spiega la proposta quasi finale del Rof, pertanto Ilaria Narici e Daniele Carnini si sono basati su un cospicuo gruppo di copie ottocentesche della partitura al fine di presentare una revisione affidabile. Le partiture consultate sono per lo più copie d’archivio e hanno nella maggior parte dei casi un rapporto con una rappresentazione documentata. Non sono mancate versioni discordanti tra esecuzioni, bolognesi, romane, fiorentine, ma i nostri validi musicologi si sono adoperati per una quanto più possibile aderenza allo stile di Rossini nel proporre questa revisione sulle fonti, nell’attesa forse effimera che a oltre due secoli dalla prima esecuzione possa sorprendentemente affiorare la partitura autografa.
Per questa nuova produzione il Rof ha richiamato alla regia Davide Livermore, il quale si era cimentato qualche edizione scorsa nel Demetrio e Polibio dello stesso autore. Livermore cerca in qualche modo di complicare le cose per seguendo una personale via drammaturgica, ma in quest’occasione non posso concordare con visioni in parte fuori luogo. Egli ambienta l’overture in una primaria sala cinematografica d’inizi ‘900, il coro è il modesto pubblico che s’immedesima in quei film epici tanto in voga al tempo, il richiamo è ai kolossal di Cecil B. de Mille o al nostrano Cabiria. In questa visione ci presenta una vicenda che parte dalla pellicola per realizzarsi poi teatralmente, attingendo ai tableau didascalici di quei film ed utilizzando anche proiezioni con i cantanti che s’ispirano alla recitazione del muto. In se l’idea sarebbe anche apprezzabile, qualora fosse stato solo un incipit di preludio, ma la visione continua, e contrastante, tra cinema e teatro era troppo stridente. Inoltre attuare sul teatro una recitazione statica e d’ispirazione cinematografica non contribuiva a rendere un’opera già in parte “zoppa” di suo e con pagine anche raffinate ma non sicuramente unitaria nel suo insieme. Le scene e il progetto luci, curati di Nicolas Bovey, erano di pregio, ricostruzione storica di una Babilonia immaginaria quanto di comune ricordo da antichi film, mentre i costumi di Gianluca Falaschi erano di altissimo pregio, raffinata sartoria, sfarzosi e d’indiscussa presa emotiva.
Sul podio un debuttante a Pesaro quale Will Crutchfield, apprezzato musicologo e direttore americano, il quale non segna particolarmente l’estro rossiniano sia in tempistica, sia in colori e sonorità. La sua concertazione è anche scrupolosa ma cade spesso nel banale e stantio accompagnamento uniforme ma non galvanizzante, almeno in quei numeri nei quali avrebbe potuto maggior enfasi, ritmo incalzante, virtuosismi frenetici. L’orchestra del Comunale di Bologna non era al meglio, in parte slegata talvolta approssimativa, così anche il coro il quale, seppur non impegnato al massimo, ha parte di rilievo in varie occasioni.
Il cast proponeva Ewa Podles quale protagonista. Il contralto polacco con una carriera quasi quarantennale alle spalle è giunta all’appuntamento con Ciro certamente in ritardo ed è comprensibile che i migliori momenti della sua arte siano ormai andati. Tuttavia parliamo di una grande artista che proprio in campo rossiniano ha fornito prove di altissimo livello, una piccola ammenda dovrebbe farla la direzione del Rof che l’ha utilizzata in precedenza solo una volta nel 2001 per la cantata “Le nozze di Teti e Peleo”. La voce della signora Podles ha oggigiorno perso la sua uniformità, il canto è slegato e l’abuso della voce di petto è pressoché d’obbligo. Anche con tali “difetti” che possono essere circoscritti alla parabola conclusiva della sua carriera, in particolar modo in tale repertorio, lei ha fornito una grande prova di stile e senso del canto rossiniano sia nei recitativi, articolari e vibranti, sia nell’accento sempre valido e di proprietà.
Ho apprezzato molto il soprano Jessica Pratt, cantante in continua ascesa. La voce bellissima e di facile estensione le ha consentito di interpretare un’Amira di alta classe, riuscendo sia nei momenti virtuosi sia nei momenti patetici con finezza e grande proprietà stilistiche. Se devo fare un appunto, ma forse non sarebbe il caso, è il recitativo ad essere sovente monotono non solo nell’accento ma anche scenicamente, potrei formulare l’ipotesi che probabilmente ciò era dettato dalla regia e non imputabile alla cantante considerate le sue ultime performance e in particola alla sua “Adelaide” dello scorso anno.
Nell’attuale penuria di tenori la presenza di Michael Spyres, il quale debuttava al Rof, è elemento d’interesse. Che Spyres sia un baritenore è questione molto dubbia per carenze sia naturali sia tecniche, tuttavia egli risolve la parte con proprietà d’accento e riuscendo con pregio nella sua grande aria “Misero, me”, che risolve più che decorosamente anche se la zona centrale non è molto poderosa, e di conseguenza e giustamente sviluppa soprattutto in un acuto fermo e pertinente.
L’opera come in precedenza specificato nasce quale oratorio pertanto anche ai ruoli minori è assegnata un’aria. Devo registrare che per tali ruoli non c’è stata altrettanta perizia nella scelta degli interpreti. Mirco Palazzi non era in serata felice, sempre ruvido ed ingolato, leggermente migliore Raffaele Costantini ma con gravi pecche d’intonazione. L’Arbace di Robert Mcpherson era notevolmente impersonale per non dire imbarazzante e Carmen Romeu, alla quale era riservata la peculiare aria su una sola nota, non è sembrata molto timbrata e soprattutto slegata.
Il pubblico, che stipava il Teatro Rossini, al termine ha particolarmente applaudito i protagonisti maggiori, ma è restato molto tiepido con i cantanti minori e il team registico.
MATILDE DI SHABRAN [Lukas Franceschini] Pesaro, 8 agosto 2012 (prova generale).
E tre! La semisconosciuta Matilde di Shabran ha l’onore di essere rappresentata per la terza volta al Rossini Opera Festival, riprendendo lo spettacolo del 2004 di Mario Martone.
Il titolo è l’ultimo lavoro semiserio di Gioachino Rossini, anche se in origine doveva essere un dramma giocoso e ha una gestazione molto peculiare. Rossini nel 1820/21 faceva la spola tra Napoli e Roma ed era oberato d’impegni tanto da non riuscire a fornire il nuovo lavoro (ovvero Matilde) entro la data prevista del 20 dicembre 1820, ovvero il giorno nel quale doveva essere inaugurata la stagione di carnevale del Teatro Apollo in Roma. C’è da considerare che il soggetto iniziale e in parte già messo in versi da Jacopo Ferretti (quello della Cenerentola) non soddisfacesse Rossini, si ricorse allora al dramma del commediografo francese François-Benoît Hoffmann Euphrosine et Coradin, ou Le Tyran Corrigé, ma essendo già annunciato il titolo dell’opera, la protagonista Euphorosine divenne Matilde, Shabran fu aggiunto dal librettista. In tale situazione il compositore attinse a suoi lavori precedenti (Eduardo e Cristina e Ricciardo e Zoraide), com’era sua consuetudine, ed inoltre convinse Giovanni Pacini, che si trovava a Roma per una sua prima, a comporre alcuni pezzi per il secondo atto. L’opera in questa veste (che chiameremo versione di Roma) andò in scena al Teatro Apollo il 24 febbraio 1821 con un successo non entusiasmante. Rossini rientrò in seguito a Napoli e l’opera fu rappresentata anche nella città partenopea, a tal fine il compositore rimpiazzò la musica di Pacini con la propria mentre altre parti furono eliminate. Dal successo attribuito all’opera dagli spettatori napoletani, iniziò una notevole presenza sia nei teatri italiani (Venezia, Parma, Firenze, Milano) sia all’estero (Vienna, Londra, New York) per terminare la sua fortuna ottocentesca a Firenze nel 1892. L’autografo di Matilde di Shabran si trova al Conservatorio di Bruxelles e contiene tutti i numeri musicali della versione napoletana ma non i recitativi. È stato compito di Jürgen Selk ricostruire l’opera nella sua edizione critica basandosi sulla versione napoletana poiché tutta la musica è di Rossini e aggiungendo i recitativi recuperati dalle copie manoscritte esistenti. Trattasi di un lavoro di altissima finitura musicale, anche se dimenticato per quasi un secolo, ove le grandi pagine solistiche si alternano a più numerosi pezzi d’assieme di grande levatura del maggior Rossini che in questo caso resta in equilibrio tra l’ironico e il drammatico con sfumature ed inventiva maggiore di altri titoli semiseri più celebri.
Nel secolo scorso è stata ripresa, salvo errori di chi scrive, solo negli anni ’70 a Genova (con titolo di Corradino cuor di ferro), la grande Lella Cuberli incise il rondò finale della protagonista in un bellissimo cd Fonit-Cetra, poi l’oblio. Ci pensò ovviamente il Rof nel 1996 dopo la stesura dell’edizione critica. Quella produzione (lo spettacolo era di Pier’Alli) passerà alla storia perché fu il debutto assoluto di Juan Diego Florez sul palcoscenico. L’allora tenore peruviano era impegnato in un’altra opera in un ruolo minore, stava tentando di muovere i primi passi e giustamente come di prassi s’inizia con personaggi minori. Tuttavia la sorte cambiò le carte in tavola, il tenore titolare si ammala e la direzione del Festival non trova il sostituto, Florez impara la parte in pochi giorni ed è catapultato in scena. Inizia una grande carriera! Florez, oltre ad altri grandi successi rossiniani è sicuramente legato a Matilde, infatti, ne è interprete sempre al Rof nel 2004, produzione che dopo sarà “esportata” a Londra e nell’edizione attuale.
Il meraviglioso spettacolo di Martone è in parte modificato per adattarlo al nuovo spazio dell’Adriatic Arena, ma oserei affermare che è ancora più affascinante ed intrigante. La scena quasi fissa, di Sergio Tramonti, è costituita da una doppia scala elicoidale in continuo movimento da dove scendono e salgono i protagonisti come in un immaginario scalone del castello del perfido Corradino. Basandomi sui ricordi personali penso che questo riallestimento sia stato ancora più felice soprattutto sul versante umoristico della vicenda, non mancando tuttavia di porre i giusti accenti sugli aspetti drammatici. Ho ammirato i bellissimi costumi lineari e in stile ma di grande fattura di Ursula Patzak, mentre le luci, di Pasquale Mari, potevano essere più sfumate e fantasiose.
Ancora una volta Juan Diego Florez trionfa nel ruolo di Corradino, che curiosamente non ha un’aria solistica, ciò non rende la prestazione meno impegnativa per i tanti pezzi d’assieme e il tenore risolve tutto con grande classe, facilità nel settore acuto e una non trascurabile presenza scenica. Un Florez in grande serata! Al suo fianco nel ruolo protagonistico Olga Peretyatko, giovane soprano russo che nel precedente Otello al Rof non mi aveva per nulla convito. In un ruolo brillante ha potuto mettere più in luce la sua vivacità e un canto molto composto e musicale, seppure non in possesso della stoffa della grande virtuosa come avrebbe preteso il rondò finale, nel complesso la sua performance è stata onesta e piacevole alla visione.
Tra i bassi emerge Paolo Bordogna, Isidoro, per gusto teatrale ed appropriata musicalità, di rilievo l’Aliprando di Nicola Alaimo sornione e puntuale, corrette le prestazioni di Simon Orfila e di Chiara Chialli, alla seconda va riconosciuta una valida verve teatrale.
La penuria di voci gravi si è fatta sentire anche in questa produzione perché l’Edoardo di Anna Goryachova non era certo all’altezza delle altre voci e la sua perfomance è stata caratterizzata da voce gutturale e stentorea oltre ad una discutibile tecnica. Corrette le altre parti comprimariali tra le quali si faceva notare l’Egoldo di Giorgio Misseri.
L’orchestra del Comunale di Bologna, la quale si presentava una sera dopo il Ciro, era in forma più smagliante tolto l’assolo dell’ottone nel secondo atto, davvero imbarazzante. Buono l’apporto del coro istruito da Lorenzo Fratini. Sul podio c’era il loro direttore musicale Michele Mariotti, che in questo repertorio ci offre esecuzioni di pregio. La sua concertazione era briosa e vivace, i tempi molto serrati e sostenuti, creando un clima musicale d’apprezzabile stile rossiniano. Non sono mancati enfasi e languori nelle parti più specificatamente drammatiche ma sempre sorrette da notevole spessore. Al termine un trionfo per tutti e ovazioni per Florez.
IL SIGNOR BRUSCHINO [Lukas Franceschini] Pesaro, 9 agosto 2012 (prova generale).
Il terzo titolo del Rof 2012 è la farsa Il signor Bruschino, la quale mancava dalla programmazione pesarese da circa tre lustri.
Il debutto operistico di Rossini fu a Venezia, in un teatro minore il San Moisè, con il genere della farsa. Ne compose in totale cinque tra il 1810 e il 1813 e furono il trampolino di lancio dell’artista, l’ultima della serie fu appunto Il Bruschino, la quale precede di pochi mesi il vero trionfo nell’opera seria con Tancredi, ma in mezzo ci sono pure lavori come Ciro in Babilonia e la più articolata Pietra del paragone. Il signor Bruschino lasciò il pubblico della laguna molto perplesso non tanto per la musica o il soggetto quanto per quel battito degli archi sul leggio durante l’esecuzione della sinfonia, tuttavia questo spartito si può annoverare tra i lavori di un giovane compositore ove si trovano tutti i germi di quel genio che sarebbe stato il primo compositore per gli anni a venire: innovative e nuove intuizioni strumentali, senso gustoso del teatro buffo farsesco il quale è si debitore al ‘700 ma l’attualizzazione è notevolmente inedita tale da imprimere un segno decisivo nelle composizioni a venire.
Accantonato lo storico spettacolo di Bruno de Simone, il Rof ha deciso di affidare l’incarico della nuova produzione dell’opera ad una realtà locale Il Teatro Sotterraneo in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti dell’Università di Urbino. Il Teatro Sotterraneo, debuttante al Rof, si è distinto come uno dei gruppi più interessanti della nuova scena teatrale italiana del teatro comico-leggero iniziando la loro avventura a Firenze circa un decennio addietro. Altra particolarità è che il gruppo è composto da ragazzi under 30.
Il loro primo approccio all’opera non ha sortito effetti particolari, se non una grande fucina d’idee, anche superflue, e non sempre focalizzate. Lo spettacolo inizia all’interno di centro commerciale o parco divertimenti con una recitazione senza musica ove tutta la compagnia arriva in abiti borghesi e si capisce che da lì a poco si sarebbe rappresentata un’opera. Un ipotetico direttore di scena da istruzioni a tutti e rimprovera il direttore d’orchestra in ritardo che approda in buca dal palcoscenico. Dunque la vicenda di Bruschino, il classico cambio di persona e un amore segreto, si consuma tra ilarità, equivoci ed ambiguità sotto i frequentatori del parco, i quali sono una famiglia di stranieri a Mirabilandia, ops scusate qui siamo a Rossiniland, una coppietta amorosa, il rasta di turno, la maestrina con i bimbi. Insomma un po’ troppa carne al fuoco che seppur con un tocco di novità tende a sminuire la brillantezza della farsa, senza rendere o far percepire il buffo, insito e sorretto da splendida musica, dei personaggi. La scena è anche carina nella sua bizzarria e i costumi briosi nel contesto di mischiare stili ed epoche. Uno spettacolo che non disturba, ma che non suscita gli effetti sperati, cui non servono mezzi banali come il pacco di popcorn dei ragazzi o il motorino ambulante per far ridere, quando la recitazione resta confinata a pura presenza e non utilizzando appieno il magnifico libretto colmo di controsensi e battute esilaranti ancor oggi.
A sollevare le sorti della rappresentazione ci ha pensato la bacchetta del bravo Daniele Rustioni, anch’esso debuttante a Pesaro. Il direttore milanese a capo dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini (che con tutto il rispetto ed un’onesta professionalità non è compagine blasonata come quella del Comunale di Bologna) ha avuto il talento di non sconfinare nella ruotine accompagnatoria ma attivandosi in tempi precisi ora romantici, ora vorticosi; capace inoltre di contenere un suono omogeneo nel colore e dando il giusto mordente al ritmo. Una prova che qualifica Rustioni come una delle bacchette più interessanti della nuova generazione italiana, e si potrebbe affermare che nel Rossini della farsa trova un autore molto congeniale considerando anche la precedente esperienza ne L’occasione fa il ladro alla Scala.
Nel cast c’era una grave falla nella presenza di Maria Aleida la primadonna. La cantante che dovrebbe essere uscita dall’Accademia Rossiniana mi è parsa ancora troppo acerba sia per affrontare i passi romantici, piattissimo il duetto con il tenore, sia i passi acrobatici, l’aria “Ah, donate il caro sposo” per scarsa modulazione e una fissità nel registro acuto. Il Rof, nelle scorse edizioni, ci aveva abituato ad interpreti ben più ragguardevoli. I due bassi, Carlo Lepore e Roberto De Candia, tolte alcune ruvidità vocali, sono stati i veri artefici dell’esecuzione cui va riconosciuto un carisma innato (e non dettato dalla regia) per tali ruoli rendendosi simpatici ed efficaci. David Alegret è un tenore leggero di buone qualità ma ancora da raffinare nel gusto e nell’accento. Sprecata la presenza di Chiara Amarù nel ruolo di Marianna, la cantante meriterebbe qualcosa di più che del semplice comprimariato, corretti gli altri interpreti.
LA BOHÈME [Simone Ricci] Macerata, 10 agosto 2012.
A oltre cent’anni dal suo debutto al Regio di Torino, La Bohème di Giacomo Puccini mantiene intatto tutto il suo fascino e la purezza dei sentimenti. Ispirato a un romanzo di Henri Murger (“Scènes de la vie de bohème”), il suo libretto ebbe una gestazione piuttosto laboriosa, soprattutto a causa della difficoltà di adattare personaggi e situazioni alla struttura di un’opera in musica.
Più invecchio, più mi convinco che La Bohème è un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello. Questo giudizio di Igor Stravinskij può essere sottoscritto pienamente ancora oggi e non c’è regia moderna che tenga, la storia emoziona sempre e la musica va dritta al cuore. Anche la scelta del Macerata Opera Festival è stata improntata alla trasposizione temporale della vicenda: non più la Parigi del 1830, ma quella più vicina ai giorni nostri del “maggio francese” e della contestazione del 1968. Di conseguenza, anche i costumi, le scene e le coreografie sono state adeguate alla nuova epoca.
Volendo essere ancora più precisi, c’è da dire che questa messa in scena è la rivisitazione che è stata proposta dal regista Leo Muscato: la sua Bohème ci mostra una soffitta un po’ diversa a quella a cui si è abituati quando si pensa al titolo pucciniano, più che altro Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline vivono in una sorta di comune, più che dei bohémien sono dei precari che vivono alla giornata. Anche nel secondo quadro la fantasia non è mancata, nel tentativo di attirare un pubblico che fosse il più variegato possibile. Il Café Momus è stato trasformato in un locale alla moda dei giorni nostri, con scene che non avrebbero sfigurato una trentina di anni fa e delle fantasie zebrate forse un po’ troppo eccessive. Le grandi parrucche, le luci fluorescenti e i pantaloni a zampa completavano il tutto.
In questa maniera, La Bohème si è trasformata in un musical rumoroso e affollato, non certo il modo migliore di mettere in evidenza la storia d’amore tra Rodolfo e Mimì, “segnalati” tra la folla da un semplice occhio di bue. Dopo aver trasformato la barriera d’Enfer in una acciaieria in preda a scioperi e contestazioni, eccoci giunti al quarto quadro. In quest’ultimo caso, la drammaticità della vicenda viene finalmente a galla, con Mimì che viene trasportata da alcuni infermieri in scena. Tutti sperano nella guarigione, ma non ci si fanno illusioni ed è veramente crudele aver modificato il celebre finale. Il libretto di Illica e Giacosa, infatti, non prevede l’arrivo di alcun medico, in questa versione maceratese, invece, è proprio un dottore a sancire la morte di Mimì, coprendo il suo volto con la coperta e lasciando il povero Rodolfo invocare il nome dell’amata in solitudine, senza la possibilità di un ultimo abbraccio.
Dal punto di vista vocale, poi, tutto il cast è stato applaudito in maniera calorosa, con maggiore convinzione in alcuni casi, come è normale che sia. La Mimì di Carmen Giannattasio è giovane e leggera, seducente e vocalmente valida, anche se in qualche punto manca di precisione per quel che riguarda la comprensione delle parole. Non è un caso che Serena Gamberoni, Musetta seducente e intraprendente, abbia ricevuto una ovazione, se non maggiore, almeno pari a quella riservata al soprano. Francesco Meli brillava come Rodolfo, i registri omogenei e la padronanza del fraseggio sono state senza dubbio le sue armi principali.
Il cast è stato completato dal bravo Damiano Salerno nei panni di Marcello, da Andrea Porta, Schaunard preciso e puntuale, e dall’ottimo Colline di Andrea Concetti: la sua “Vecchia zimarra” ha conquistato molti applausi, così come anche al momento dei ringraziamenti finali. Infine, non si può non ricordare il buon contributo offerto dal Coro Lirico Marchigiano Vincenzo Bellini e l’efficace Coro di voci bianche Pueri Cantores “D. Zamberletti” e “S. Stefano”. Un plauso particolare, poi, deve andare al direttore Paolo Arrivabeni, elegante e pulito nel coordinare canto e musica, gestendo al meglio l’orchestra Filarmonica Marchigiana.
MATILDE DI SHABRAN [William Fratti] Pesaro, 20 agosto 2012.
La scelta del Rossini Opera Festival di rappresentare Matilde di Shabran nella versione per Napoli è certamente una decisione che rispetta il Rossini più puro, trattandosi di un’edizione in cui lo stesso compositore andò a rimusicare molte pagine, riadattandone anche il libretto, che precedentemente furono scritte da Pacini o mutuate da opere precedenti. È un vero peccato che così venga a mancare l’aria del protagonista, in origine presa a prestito da Ricciardo e Zoraide, ma si tratta di una scelta obbligata.
Il lavoro musicale svolto dal direttore Michele Mariotti e del maestro collaboratore responsabile Giulio Zappa è davvero sorprendente e rispettoso di quell’intenzione rossiniana che al ROF si cerca di mantenere inalterata. La lettura di Mariotti è davvero appassionata fin dall’ouverture e col procedere della vicenda diventa sempre più sublime, raffinata e ricchissima di chiaroscuri. L’amalgama creato nei pezzi d’assieme è meraviglioso, sia per l’ intensità emotiva, sia per la precisione e perfezione esecutiva. Alla fine del difficilissimo e riuscitissimo quintetto di primo atto, il pubblico è davvero in visibilio.
Olga Peretyatko è una Matilde sopraffina ed elegantissima, sia nella voce che nell’interpretazione. Nel duetto con Aliprando si mostra subito aggraziata ed accurata, eccellente nell’uso dei colori e sinceramente sorprendente nell’ appoggio e nel sostegno delle note più gravi. Altrettanto incantevole lo è nel quintetto e nel finale primo. Tutta la parte è eseguita così bene che non riesce a superare se stessa nel rondò finale, anch’esso comunque reso con dovuta perizia tecnica ed interpretativa.
Juan Diego Florez è un Corradino insuperabile sotto ogni punto di vista. Nel primo quartetto il celebre tenore palesa immediatamente la sua magia, donando al pubblico una vera e propria lezione di canto. Le tinte drammatiche di “Alma rea!” sono ammirevoli; il personaggio è efficacissimo nella trasformazione da serio a comico e il finale di primo atto è divertentissimo. La voce sempre avanti, il canto sul labbro, le incantevoli mezze voci, l’accurato vibrato rossiniano e la cesellatura nelle agilità sono i segni distintivi di questo fuoriclasse che ha saputo fornire di una tecnica veramente importante le doti naturali ricevute dal cielo.
L’Edoardo di Anna Goryachova può essere considerato il solo anello debole di questa produzione. Indiscutibilmente ha le doti per diventare una grande professionista, ma si sente che è ancora acerba e la strada da percorrere è molta. Soprattutto si nota un passaggio all’acuto decisamente acidulo.
Nicola Alaimo è un Aliprando ben dosato nel personaggio, davvero eccellente nell’esecuzione del duetto con Matilde. Ottimo nei pezzi d’assieme.
Nel ruolo di Isidoro è Paolo Bordogna, che ridà vita alla parte scritta in dialetto napoletano. L’eccellente baritono non è avulso da questo genere di performance e lo fa con voce brillantissima da vero interprete rossiniano, con un vibrato, uno squillo, un uso dei colori più che perfetti, a cui si aggiungono spiccate doti di attore.
Ginardo è interpretato da Simon Orfila, musicale ed omogeneo tanto recitativi quanto nel canto spianato e nei virtuosismi, ma ha il suo tallone di Achille nelle note più basse, che perdono di corposità e talvolta di intonazione.
Sorprendente è la resa del ruolo della Contessa d’Arco. Chiara Chialli è dotata di forte personalità e di una voce ben impostata, con un bel timbro particolarmente brunito, anche se non è sempre perfettamente pulita nell’esecuzione.
Molto bene anche l’Egoldo di Giorgio Misseri e il Raimondo di Marco Filippo Romano.
Il riallestimento dello spettacolo firmato da Mario Martone, realizzato nel 2004, si rivela essere una scelta adeguata ed efficace, cui contribuiscono le valide scene di Sergio Tramonti, i bei costumi di Ursula Patzak e le luci suggestive di Pasquale Mari.
Ottime le prove dell’Orchestra e del Coro del Teatro Comunale di Bologna diretti da Michele Mariotti e da Lorenzo Fratini.
IL SIGNOR BRUSCHINO [William Fratti] Pesaro, 21 agosto 2012.
La nuova produzione de Il signor Bruschino si avvale della presenza di molte giovani promesse e ne risulta uno spettacolo riuscito, sia sotto il profilo musicale, sia nell’allestimento.
Le belle scene e i costumi sono ideati dall’Accademia di Belle Arti di Urbino, che realizza una sorta di parco divertimenti dedicato al compositore pesarese, in cui vengono quotidianamente messe in scena le sue opere. L’adeguato progetto luci è di Roberto Cafaggini. La regia concepita dal Teatro Sotterraneo è efficace, divertente e accattivante, anche se, col procedere della vicenda, la continua interazione dei protagonisti coi turisti di Rossiniland diventa inopportuna e decisamente fastidiosa. Forse avrebbe sortito un migliore risultato relegarla ai soli numeri della sinfonia e dell’introduzione.
La guida della valida Orchestra Sinfonica G. Rossini è affidata al talentuoso Daniele Rustioni, che già aveva entusiasmato il pubblico nella direzione de Il Viaggio a Reims al Teatro Comunale di Firenze. Il giovane direttore si cimenta in un’energica ouverture e carica di nervo tutta la partitura, risolvendola precisamente fino alla fine. È coadiuvato dall’esperto maestro collaboratore responsabile Carmen Santoro.
Roberto De Candia, esperto interprete di questo tipo di ruoli e già Bruschino padre nella precedente edizione del 1997, è eccellente innanzitutto sotto il profilo vocale, ma anche nella resa del personaggio, divertente e misurato, mai spinto all’eccesso.
Carlo Lepore è un Gaudenzio di pregio e lo dimostra fin dalla prima aria, eseguita col giusto brio, in cui sfoggia note basse ben salde, ma la pagina meglio riuscita è indubbiamente il duetto con Sofia. Il personaggio è accattivante e ben curato.
Maria Aleida è una Sofia elegantissima nei toccanti filati naturali, efficacissima negli appoggiatissimi sovracuti e nelle accurate agilità, ma è un po’ acidula nel registro acuto. Il suo materiale vocale è ottimo e prezioso, ma questa nota aspra va assolutamente curata al più presto, prima che si fossilizzi e rischi di creare dei problemi.
Davide Alegret, nei panni di Florville, si presenta con una voce particolarmente raffinata e più che adatta a questo parte del repertorio rossiniano. Ne varrebbe di certo la pena di riudirlo in un ruolo più ampio.
Andrea Vincenzo Bonsignore è Filiberto. Il baritono possiede una buona ed omogenea linea di canto e lo si nota soprattutto nel duetto con Florville.
Molto bene i ruoli comprimari di Marianna, interpretata da Chiara Amarù, eccellente nel primo recitativo, che si vorrebbe riascoltare in una parte più corposa; e del Commissario e Bruschino figlio, eseguiti da Francisco Brito.
CIRO IN BABILONIA [William Fratti] Pesaro, 22 agosto 2012.
La nuova produzione di Ciro in Babilonia dovrebbe essere il fiore all’occhiello della XXXIII edizione del Rossini Opera Festival, ma i dubbi sono piuttosto numerosi.
Innanzitutto la regia concepita da Davide Livermore, pur essendo particolarmente elegante, è poco chiara: non si comprende l’esigenza di rappresentare il dramma come se fosse una vecchia pellicola di inizio ‘900, né si capisce quale sia la ragione dell’interazione tra gli attori e i presunti spettatori di tale film. Inoltre la continua simulazione della rottura o dell’inceppamento della bobina è particolarmente fastidioso per la vista. Infine la comparsa di tableau, come accade nel muto, con la conseguente eliminazione dei sovratitoli, non è certo agevole per i numerosi spettatori che, molto presumibilmente, non hanno mai assistito ad una rappresentazione dal vivo di quest’opera.
I costumi di Gianluca Falaschi sono raffinati tanto quanto la concezione di Livermore, ma altrettanto poco comprensibili: mentre gran parte dei babilonesi vestono abiti che ideologicamente rimandano alla loro epoca, non tutti i persiani sono immediatamente riconoscibili e non appare molto logico – nonostante la dubbiosa visione cinematografica – che Amira sia più riconducibile ad una diva del Liberty. Le scene e le luci di Nicolas Bovey e il video design di D-Wok sono efficaci nel rendere l’idea di regia, anche se non accessibile a tutti.
Ewa Podles è chiaramente una professionista di livello supremo, dotata di fortissima personalità e presenza scenica ragguardevole, tanto da creare un personaggio veramente intenso, nonostante le tremende lacune del libretto. Purtroppo la sua linea di canto è arrivata al tramonto e si presenta con una disomogeneità tale da cantare con una voce che sembra non essere la sua, sia dopo il passaggio all’acuto, sia nel registro grave. Nulla da dire sull’intonazione, né sull’appoggio, tantomeno sullo stile, ma non si può più dire che l’ascolto sia piacevole. La meritatissima ovazione ricevuta dal pubblico è da riferirsi alla sua grinta e alla sua carriera, ma non alla sua performance.
Jessica Pratt si riconferma sopraffina interprete di questo Rossini, dotata di bel colore, ottimi filati naturali ed eccellenza nei virtuosismi, con acuti e sovracuti perfetti e pulitissimi. Purtroppo, nonostante l’esibizione quasi esemplare, non è stupefacente come in Adelaide di Borgogna, forse complice l’inadeguatezza della regia, ma forse ancor più corresponsabile la staticità della direzione di Will Crutchfield.
Michael Spyres è un Baldassarre dalla voce chiara e duttile e mostra le sue doti – bellissime le note basse – fin dal primo duetto con Amira. La padronanza tecnica, anche se non pregevole, è più che sufficiente a portare in scena col dovuto controllo le sue qualità naturali, dall’intonazione alla stabilità, dal vibrato all’uso degli accenti e la lunga scena della profezia è certamente la pagina meglio riuscita di tutta la rappresentazione.
Robert McPherson è un Arbace brillantissimo e squillante; Mirco Palazzi manca un po’ di elasticità nell’introduzione, ma si riprende nel secondo atto; Carmen Romeu è un’Argene corretta, mentre Raffaele Costantini è un Daniello appena sufficiente.
La prova musicale di Will Crutchfield è corretta e ben equilibrata, ma ci si ferma qui. Manca di brio e di verve rossianiana, è povera di colori e di accenti e non pare molto corretta la decisione di non accogliere al fortepiano il maestro collaboratore responsabile Gianni Fabbrini.
Buona la prova dell’Orchestra e del Coro del Teatro Comunale di Bologna.
GIANNI SCHICCHI – L’HEURE ESPAGNOLE [Simone Ricci] Roma, 12 settembre 2012.
Gianni Schicchi ha trovato un nuovo e frizzante accoppiamento con L’heure espagnole di Maurice Ravel: i due atti unici hanno in comune la durata, inferiore all’ora, ma anche il brio e la spigliatezza della musica e dei personaggi. Due compositori molto diversi, ma capaci entrambi di dare lustro e risalto alla tradizione della Commedia dell’Arte.
La più “spagnola” delle opere di Maurice Ravel da una parte e la frizzante rappresentazione dell’ironia e del sarcasmo dall’altra: si può sintetizzare in questa maniera l’accoppiata L’heure espagnole – Gianni Schicchi che l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha allestito presso la sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica. L’accostamento poteva sembrare forzato, ma in realtà i punti in comune ci sono. Anzitutto, la brevità e la comicità sono due elementi che spiccano in entrambi i casi, ma non si tratta soltanto di questo. In effetti, bisogna sottolineare come le due partiture, anche se i contesti e gli stili sono differenti, riescono ad amalgamarsi bene per quel che riguarda l’equilibrio dal punto di vista musicale e teatrale.
Santa Cecilia ha affidato questa esperienza alle sue forze più giovani, vale a dire i cantanti di Santa Cecilia Opera Studio, i cui corsi di perfezionamento e i miglioramenti possono essere apprezzati proprio in serate come queste. Senza nulla togliere all’opera di Ravel, Gianni Schicchi è riuscito a conquistare maggiori simpatie, vuoi per la lingua, ma anche per l’arguzia e la vivacità che sprizzavano da ogni cantante, valorizzato appieno da una regia intelligente, mai sopra le righe ma sempre appropriata alle situazioni. Seguiamo il rigoroso ordine cronologico della serata.
La prima opera messa in scena è stata L’heure espagnole: questo lavoro, rappresentato per la prima volta nel 1911 all’Opéra-Comique di Parigi, ha mantenuto intatto quel suo fascino iberico, uno dei lati della personalità che Ravel voleva far emergere con la sua musica, essendo di origini basche. La direzione di Carlo Rizzari ha messo in evidenza in modo efficace i metronomi dissimulati nella bella ouverture, l’ora spagnola è poi proseguita senza intoppi. L’unica lacuna è stata l’assenza dei sottotitoli, in quanto la lingua francese ha spiazzato più di uno spettatore, il quale ha intuito la trama dalla recitazione. Carmen Romeu ha impersonato in maniera brillante il ruolo di Conception, la moglie dell’orologiaio Torquemada che, in assenza proprio di quest’ultimo, viene sedotta in modo buffo o esagerato da alcuni pretendenti: la sensualità spagnola del personaggio è stata messa ben in evidenza, come anche il suo carattere civettuolo.
Davvero interessante è stato il Gonzalve di Flaviano Bianchi, tenore molto promettente per il futuro, senza dimenticare il Ramiro di Dario Ciotoli, la cui dizione è apparsa migliore rispetto a quella del resto del cast. In aggiunta, il Torquemada di Moises Marin Garcia e il Don Inigo Gomez di Dionisos Tsantinis hanno beneficiato di una rappresentazione molto pittoresca del personaggio, a vantaggio del divertimento. Dopo il breve intervallo, la scena, costituita anche in questo caso, come nell’opera di Ravel, da un teatrino con sipario smontabile, si è proiettata in una Firenze appena accennata. La scelta della regia ha privilegiato uno spostamento temporale della vicenda, non più il classico Medioevo a cui si è abituati con Gianni Schicchi, ma una data più moderna, con abiti e arredamenti che forse avremmo ammirato nell’800.
Il cast in questo caso è stato molto affiatato, con un inevitabile predominio di Sergio Vitale, baritono ventottenne che ha tratteggiato con maestria un ruolo non facile, proprio quello di Gianni Schicchi, mattatore assoluto della vicenda. Gli insegnamenti di “mostri sacri” come Juan Pons e Mirella Freni cominciano a dare degli ottimi frutti, la perfezione ritmica è stata encomiabile, come anche l’emissione, corretta ed equilibrata. Rosa Feola ha strappato qualche applauso con il suo “O mio babbino caro”, anche se forse in quest’aria è stata leggermente penalizzata da alcuni acuti poco convinti, ma l’esperienza maturata con direttori del calibro di Riccardo Muti e Zubin Metha le ha consentito di essere molto spigliata e sicura.
Per il resto, Davide Giusti, classe 1986, ha impressionato per la sua freschezza ed efficacia scenica nel ruolo di Rinuccio, nonostante in qualche occasione l’orchestra tendesse a coprire la sua voce. Molto affiatati, come già sottolineato, tutti gli altri parenti di Buoso Donati, a tutto vantaggio dell’umore. Questo “esperimento” dello Gianni Schicchi in compagnia dell’Heure Espagnole potrebbe essere ripreso in futuro: l’atto unico di Puccini è stato smembrato dal resto del Trittico (il Tabarro e Suor Angelica sono le sue tradizionali “sorelle”) sin dal 1918, l’anno della première, e non è raro vederlo accostato ad altre opere brevi (in primis Cavalleria Rusticana). Per concludere, si può ricordare la direzione di Carlo Rizzari, con la giovane orchestra Ensemble Novecento che non ha voluto strafare ed è stata apprezzata per la morbidezza dei suoni.
BELISARIO [Lukas Franceschini] Bergamo, 21 settembre 2012.
La Settima Edizione del Donizetti Festival è stata inaugurata da Belisario, in effetti una rarità, la cui riscoperta a Venezia nel 1969 si deve al concittadino del compositore il compianto direttore Gianandrea Gavazzeni. L’opera ebbe una diffusione effimera e dopo le recite veneziane fu ripresa a Bergamo l’anno seguente, approdò a Napoli poi in America meridionale, a Buenos Aires, e forse e in qualche teatro tedesco ma nulla più. Anche le case discografiche hanno sempre ignorato la partitura donizettiana, e solo un disco della fine degli anni ’60 inciso da una memorabile Montserrat Caballé contiene la cavatina della protagonista femminile.
La proposta del Donizetti Festival pertanto è di grande interesse musicale poiché, salvo errori, rappresenta la prima edizione del XXI secolo. Purtroppo oggigiorno è molto difficile se non improbabile trovare cast all’altezza dei difficili ruoli donizettiani, considerando poi le limitate risorse cui gode un festival sì importante ma tuttavia di provincia e “isolato” da coproduzioni internazionali, cui meriterebbe, la locandina ci offre sulla carta quello che può essere una probabile ripresa, non certamente, col senno di poi, quello che dovrebbe essere un momento chiave di riproposta donizettiana di altro valore, ma questo non è solo un problema bergamasco, le recenti vicende pesaresi sono segno tangibile dei nostri tempi.
L’opera fu composta nel 1836 per il Teatro La Fenice e ha per protagonista un baritono, terzo appuntamento donizettiano del caso, per cui il compositore rinuncia al tradizionale rapporto amoroso: qui prevalgono l’amor filiale e la vendetta della madre per il figlio morto. Le pagine musicali tra padre e figlia concepite per Belisario, troveranno un successivo sviluppo in molti lavori verdiani, e ciò conferma l’altra scrittura musicale dell’opera. Ben equilibrata nella melodia è un tipico caso di scrittura drammatica imponente anche se non del tutto magistrale, soprattutto per l’apporto del coro relegato a marce militari, ma questo non dequalifica l’opera anzi è in parte inspiegabile il suo isolamento dai cartelloni teatrali quando lo stesso Donizetti lo considerava solo inferiore a Lucia di Lammermoor, giudizio espresso all’editore francese nel 1837.
Dario Solari, il protagonista, è un baritono dalla voce importante e solida ma il tutto è lì circoscritto. Al suo canto è precluso ogni qualsiasi accento, modulazione, fraseggio e dimensione del personaggio. Belisario rappresenta vocalmente una parte per grande baritono cantabile e l’interprete Solari non ha certo le carte in regola per tale prerogativa, la sua esibizione non è stata di rilevo e si è limitata ad una generica piattezza, aspettarsi di più era illusorio.
Donata D’Annunzio Lombardi era la protagonista Antonina, che subentrava ad una collega annunciata precedentemente. Anche in questo caso la scelta della cantante deve essere stata un ripiego poiché lei non ha per nulla tra le sue corde un ruolo come quello eseguito. La Lombardi, che è cantante anche pregevole, fa il passo più lungo della gamba e se i risultati non sono stati ottimali essendo la parte troppo pesante per la sua voce la quale ne ha risentito nell’acuto, spesso stridulo, e nella zona centrale messa a dura prova da pesantezze che non le appartengono. Tuttavia si deve lodare l’impegno e lo sforzo proferito, ella ha dato il massimo di quanto poteva e non è certo stata aiutata in tale compito né dal direttore né dal regista, quest’ultimo volendola relegare in una recitazione prosaica quanto enfatica rasente al ridicolo.
Lo sconosciuto tenore Andeka Gorrotxategui era difettoso per voce ingolata e una perizia tecnica approssimativa, risultando sovente alterno e compromettendo gravemente la grande scena del secondo atto in particolar modo la cabaletta “Trema Bisanzio”.
La parte di Irene è piuttosto ambigua collocandosi tra il mezzosoprano e il soprano corto, Annunziata Vestri non rappresenta né l’uno né l’altro, ma non sfigura nel suo complesso pur non possedendo né carisma né pasta vocale di primordine.
Nessun plauso per il Giustiniano di Francesco Palmieri, pur collocandosi nella bassa routine come tutti gli altri interpreti dei ruoli minori ad eccezione dell’Eutropio di Andrea Biscontin, imbarazzante ed improbabile cantante.
Roberto Tolomelli a capo dell’orchestra del Festival s’impegnava in una direzione energica nei tempi e vigorosa, ma perdeva sovente il controllo con il palcoscenico durante i concertati che erano approssimativi e sfasati, tuttavia riusciva a tenere le fila, seppur stentoree, di una partitura di forte impatto sonoro, cui si deve segnalare un miglioramento della compagine strumentale rispetto alle edizioni precedenti. Allo stesso modo un plauso al Coro diretto da Fabio Tartari che ha trovato in quest’occasione più compattezza e uniformità.
Dello spettacolo, ideato da Luigi Barilone, non c’è molto da dire: tradizionale nell’ambientazione, scena di mattoni e costumi banali di Angelo Sala, ma povero d’inventiva e caricaturale nella recitazione, cui non sono avvalse situazioni di particolare drammaticità le quali sarebbero potute essere almeno valorizzate da luci più raffinate.
Teatro esaurito, con molto pubblico straniero, e fin troppo generoso di applausi.
BELISARIO [William Fratti] Bergamo, 21 settembre 2012.
Anche quest’anno il Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti propone un’edizione riveduta sull’autografo di un’opera pressoché scomparsa dal grande repertorio, rimarcando il sempre più crescente interesse culturale della città e del numeroso pubblico italiano e straniero che interviene alle rappresentazioni del teatro bergamasco. Purtroppo anche se si registra un fievole miglioramento, ma continuo negli anni, nella qualità delle messinscene e delle masse artistiche, la rassegna musicale di Bergamo è ancora molto lontana dal livello minimo indispensabile che dovrebbe raggiungere per portare alto il nome di Donizetti nel mondo.
In Italia esistono numerose manifestazioni che possiedono il nome di Festival, ma che nella realtà dei fatti non lo sono, né per la loro calendarizzazione, né per l’apporto culturale. Bergamo invece ha tutte le carte in regola per poter diventare una seconda Pesaro, soprattutto per l’ingente bagaglio musicale ancora da riscoprire, ma è necessario cambiare ricetta, sotto ogni punto di vista, altrimenti non sarà mai fatto un solo vero passo in avanti. E la nuova produzione di questo Belisario ne è la prova.
Innanzitutto la regia di Luigi Barilone è pressoché inesistente. Gli intenti sono chiari e non serviva rimarcarli nelle note allegate al programma di sala. Ciò che manca sono il gesto e tutto l’impianto delle masse. In poche parole sembra che siano stati previsti solo ingressi, posizioni in scena e uscite. Null’altro. Gli interpreti hanno tutti una gestualità differente, ciò significa che sono stati lasciati allo sbaraglio. I cori sono invece delle greggi che entrano ed escono dal palcoscenico, mentre questo grande titolo donizettiano prevede che siano dei veri protagonisti della vicenda. Le scene e i costumi di Angelo Sala sono solo in parte efficaci, e una caratterizzazione più conveniente degli spazi e dei personaggi avrebbero scaturito un miglior effetto. Valido, ma banale, il disegno luci di Claudio Schmid.
Roberto Tolomelli dirige senza infamia e senza lode la svogliata Orchestra del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti. Forse qualche prova in più avrebbe migliorato le sorti musicali dello spettacolo, i cui protagonisti sono spesso lasciati a se stessi. Il Coro diretto da Fabio Tartari si comporta meglio delle scorse edizioni, ma la strada da percorrere per raggiungere la sufficienza è ancora moltissima.
Dario Solari è un baritono dotato di forte liricità, ma per rendere al meglio il ruolo di Belisario avrebbe bisogno di rinforzare l’accento drammatico, il fraseggio e l’uso dei chiaroscuri. Alcuni passaggi sono di grande musicalità, altri invece poco precisi.
Donata D’Annunzio Lombardi è un’Antonina molto generosa e il suo più grande pregio sono certamente i filati naturali, ben posizionati e sonori. La vocalità del soprano si sta lentamente muovendo verso un repertorio più drammatico, ma manca ancora di quello spessore necessario a dare vita e corpo alle eroine del Donizetti serio.
Andeka Gorrotxategui possiede le doti naturali del tenore lirico, complice una bella voce limpida, ma ci sono alcuni passaggi tecnici da sistemare, soprattutto per questo tipo di repertorio. Tutto sommato il suo Alamiro è nella media della riuscita dello spettacolo.
Annunziata Vestri, nei panni di Irene, è una vera delusione, spesso stridula negli acuti e stonata, tanto da rischiare di buttare fuori i colleghi nei pezzi d’assieme.
Francesco Palmieri è un Giustiniano un po’ traballante nella voce e poco autorevole nel personaggio.
Imbarazzante l’Eutropio di Andrea Biscontin. Appena sufficienti gli altri comprimari: Sonia Lubrini, Carlo Bonarelli, Francesco Cortinovis, Francesco Laino nei ruoli di Eudora, Eusebio, Ottario, Un centurione.
LA BOHÈME [Lukas Franceschini] Milano, 28 settembre 2012.
Dopo la pausa estiva, l’attività del Teatro alla Scala ricomincia con la ripresa dell’opera La Bohème, di Giacomo Puccini, nello storico allestimento del 1963 con la regia di Franco Zeffirelli e i costumi di Piero Tosi.
In questo contesto è superfluo instradarci in un’analisi dell’opera che è da sempre una delle più amate dal pubblico e rappresentate al mondo. L’atmosfera bohémienne parigina scolpita nelle note di Giacomo Puccini resterà per sempre un emblema musicale di valore inestimabile, il quale dopo un secolo, ancora ci emoziona e commuove e non è difficile trovare in qualche piccolo frangente anche un qualcosa di vissuto personale.
La ripresa di questo spettacolo, che dal 1963 è stato unico allestimento utilizzato per l’opera alla Scala, ha inoltre un sapore celebrativo considerando i cinquant’anni di vita non solo milanesi, anche viennesi, newyorkesi, e tanti altri teatri a livello internazionale. Affermare che è e resterà l’allestimento di riferimento e di storia del teatro milanese è pura e sacrosanta verità. Anche per coloro che oggi assistono per la prima volta allo spettacolo non può mancare il senso analitico di una regia perfetta, di un’ambientazione straordinaria: insuperabile il finale atto II con la banda che passa sopra il Caffè Momus, per non parlare della scena del III con la neve continua che scende sulle note del celebre quartetto. Un tributo non solo all’opera, che scorrendo gli annali della Scala si scoprono innumerevoli allestimenti con i più importanti artisti di ogni epoca, ma anche un omaggio ad uno degli spettacoli che ha fatto la storia dell’opera italiana e che la Scala ha veicolato come segno tangibile della sua levatura artistica. Alla prima edizione concertatore fu Herbert von Karajan e dopo di lui si sono succeduti altri grandi direttori, per non parlare degli interpreti il cui elenco, lunghissimo, è da brivido.
L’odierna produzione, che si articola da fine settembre per tutto il mese di ottobre in undici recite, vanta una foltissima locandina di cantanti e sarebbe stato impossibile ascoltare tutte le varianti del cast, sono stato alla seconda recita che differenziava dalla prima per molti sostanziali ruoli.
Ho ritrovato Vittorio Grigolo, che tanto mi aveva entusiasmato lo scorso anno in Romeo et Juliette. Altrettanto si deve dire in quest’occasione, anzi la sua voce è ideale per il ruolo di Rodolfo, chiara, squillante e spontanea, oltre a possedere doti sceniche di primordine. Tuttavia, forse per l’emozione, in quest’occasione l’ho sentito leggermente vuoto al centro, pur affermandosi come un uno dei migliori interpreti sia del cast sia sulla piazza odierna.
La protagonista femminile, Maria Agresta, è una delle voci di soprano più interessanti apparse sulle scene negli ultimi tempi. La sua Mimì era cantata in maniera precisa e ricercata, uniforme nei registri e scrupolosamente attenta ai segni della partitura, fin troppo, qualche momento d’abbandono non sarebbe guastato e magari con il tempo raffinerà il ruolo con colori più cromatici, nel complesso una performance di rilievo.
Mario Cassi, Marcello, parte nella scena del primo atto leggermente sfasato, ma in seguito si riprende e offre una buona prova, altrettanto si deve registrare l’esibizione di Massimo Cavalletti, il quale interpreta uno Schaunard brillante. Note meno positive per Pretty Yend, educata cantante ma totalmente anonima, mentre il Colline di Marco Vinco era imbarazzante per voce intubata e mediocre linea di canto.
Daniele Rustioni saliva per la seconda volta sul podio del Piermarini e la sua direzione era accuratissima nei segni e nelle espressioni, confermando le notevoli doti del direttore. La scelta dei tempi era personale e specificatamente lenti, tuttavia avevano il loro fascino, e l’accuratezza nel calibro delle sezioni strumentali notevole, anche se avrei preferito maggior brio in qualche occasione.
Pubblico piuttosto freddo durante l’esecuzione ma al termine prodigo di applausi.
RIGOLETTO [Lukas Franceschini] Parma, 5 ottobre 2012.
Il Festival Verdi 2012 ha avuto nel corso dell’estate una repentina modifica dovuta anche alla non riconferma del sovrintendente uscente, Francesco Meli, e alle note vicende politiche della città Emiliana.
Sarebbe superfluo addentrarci nei meandri della politica, prendiamo la situazione come sta ora: il Regio di Parma è in attesa di nomina direzionale e in attendendo nuove disposizioni è tornata a suonare al Regio l’Orchestra Filarmonica Toscanini poiché la costituita Orchestra del Teatro Regio non era legalmente, a quanto pare, lecita secondo i termini di legge.
Accantonato il previsto Otello, è stato ripreso un vecchio allestimento di Rigoletto in accoppiata con La battaglia di Legnano, già posticipata dalla precedente programmazione di gennaio.
L’odierno Rigoletto è un celeberrimo spettacolo di Pier Luigi Samaritani, oggi riallestito da Elisabetta Brusa, che tanto successo ebbe negli anni ’80, che ripropone l’opera nella sua classica ambientazione, lineare senza invenzioni astruse cui oggi siamo abituati. Una regia dunque ben accurata, nei gesti e nella drammaturgia, scene di suggestiva visione e costumi di un ‘500 mantovano di raffinata fattura. Elisabetta Brusa si attiene alle indicazioni del compianto Samaritani con scrupolo, e devozione, riuscendo in un prodotto di ottima fattura.
Ancora una volta Leo Nucci è Rigoletto, ruolo al quale ha legato in maniera intangibile la sua lunghissima carriera. Non è il caso di soffermarci sulle doti vocali del cantante, di lui tanto abbiamo scritto e lodato, oggi la sua voce non ha più la freschezza di un tempo, sarebbe irrispettoso parlare di peculiarità vocali, possiamo registrare la raffinata arte del consumato artista che riesce dopo tanti anni reggere ancora il ruolo, pur concedendosi delle attenuanti e non sfigurando, il mestiere insegna anche questo. Resta tuttavia un grande interprete che sa scavare nella psicologia interpretativa del personaggio reso mirabilmente con gesto ed intenzioni primari, la cui voce seppur nasale e in parte legnosa, sia controllata con sapienza, non puntualizziamo troppo su note, passaggi, eccetera, lodiamo l’artista nel suo autunno artistico anche se l’ovazione al termine di “Cortigiani” era un tributo alla carriera non certo al momento specifico.
Il resto del cast è invece “giovane”. Jessica Pratt è una Gilda di rilievo con un magnifico legato, ampiezza di voce e capacità ammirevole nel registro sovracuto (anche se non sempre perfetto). Interpretativamente è leggermente fredda, ma il gusto e l’accento erano di grande finezza. Penalizzata in molti passi da una bacchetta lenta, è riuscita a dimostrare ottime qualità tecniche di tenuta e morbidezze davvero rilevanti.
Piero Pretti è un tenore dotato di voce squillante e bella, ma non del tutto calibrata tecnicamente, la zona media è spesso “vuota” e l’appoggio sul fiato ancora da maturare. Infatti, spesso ha “sporcato” il canto con probabili raucedini, ma il settore acuto è sicuro e prestante. Non è molto raffinato in colori ed accenti (l’aria del II atto passa quasi inosservata) ma regge frasi e passaggi (duetto atto primo, cabaletta atto II e quartetto) abbastanza bene.
La Maddalena di Barbara di Castri ha poco del mezzosoprano e tende a gonfiare le note per rendersi più pertinente ma senza compromettere la parte, cosa che puntualmente fa Felipe Bou, Sparafucile, rozzo e sfuocato cantante. Il resto del cast non era certo all’altezza del Regio a cominciare dallo sgangherato Monterone di George Andguladze, ma mostrava come Valdis Joanson, Marullo, e la Giovanna di Alisa Dilecta, validi cantanti.
Infine Daniel Oren, il quale è tutto tranne un direttore filologico nel senso elevato del termine. A parte il taglio del da capo della cabaletta del duca, inaccettabile al Festival Verdi, seppur di tradizione, certi tempi fossero troppo manierati se non lenti e senza enfasi: duetto Gilda-Rigoletto atto I e soprattutto l’aria del soprano condotta con inaccettabile lentezza. Oren tuttavia riesce in alcuni punti, il preludio e il temporale, con ottimi risultati di colore e polso energico, guida una buona orchestra, la ritrovata “Toscanini”, in ottime finiture producendosi complessivamente in una lettura di routine senza grandi emozioni. Buono il coro del Regio diretto da Martino Faggiani e decisamente superfluo e poco richiesto il bis della “Vendetta” al finale atto II.
RIGOLETTO [William Fratti] Parma, 5 e 26 ottobre 2012.
Il Rigoletto-salva-Festival inaugura l’edizione 2012 del cartellone interamente dedicato al compositore più popolare del mondo, in un momento particolarmente difficile per il Teatro Regio e la Città di Parma. Il calendario precedentemente presentato dal sovrintendente uscente e dal commissario è stato quasi interamente spazzato e sostituito. Ma una nota giornalista ha giustamente detto che ripresentare Rigoletto a Parma è patologico. Non è l’opera ad essere malata, né gli artisti chiamati in causa. Ma riproporre lo stesso titolo, con lo stesso allestimento, per la terza volta nel giro di pochi anni, sta a significare che c’è un serio problema.
Purtroppo in Italia accade spesso che si vengano a creare delle voragini economiche e finanziarie che mettono in ginocchio i conti pubblici e a farne le spese sono sempre e soltanto i cittadini. Il celebre artista Leo Nucci è stato chiamato a soccorrere una situazione davvero difficile e non sono mancate le polemiche. In questa sede si vuole fare critica e non si desidera prendere parte a nessun tipo di fazione, ma è doveroso riportare le voci che corrono nel foyer, nel loggione e nei corridoi dei palchi, poiché sono gli spettatori a pagare il biglietto (molto salato) e hanno tutto il diritto di parlare, a torto, o a ragione.
La fine del rapporto con l’Orchestra del Teatro Regio S.r.l. e il ritorno della Fondazione Arturo Toscanini, la querelle tra Leo Nucci e Michele Pertusi risalente al 2010 e oggi trasformata in un rinnovo del rapporto d’amicizia, l’alto numero degli artisti impegnati provenienti dall’agenzia Ariosi Management, il cachet dei protagonisti: sono questi gli argomenti scottanti che imperversano e passano da una bocca all’altra. Del resto il malcontento dei cittadini è comprensibile, poiché dopo l’enorme insuccesso del Centenario Verdiano del 2001, non si aspettavano una simile situazione alle porte del 2013. È la storia che si ripete.
Lo spettacolo è un successo annunciato. Anche se le ombre sono molte, anzi, moltissime. Innanzitutto nella serata di venerdì 5 ottobre si notano alcuni palchi e diverse poltrone vuote; e ciò non è mai successo a Parma con questo titolo.
Riguardo l’intramontabile baritono bolognese, non c’è alcunché da dire in merito all’interpretazione e alla resa del personaggio, poiché continua ad essere il migliore Rigoletto dell’ultimo ventennio, addirittura con l’avanzare dell’età risulta ancora più credibile. Ma la voce inizia a subire i colpi della senescenza: diverse frasi si volgono più al parlato che al cantato e la tenuta non è sempre stabile. Ciononostante le emozioni, fino alle lacrime agli occhi, sono assicurate, soprattutto in “Cortigiani, vil razza dannata” e in “Sì, vendetta, tremenda vendetta” rigorosamente bissato a grande richiesta del pubblico.
Jessica Pratt si conferma essere una delle migliori belcantiste del momento. I suoni che riesce a produrre, sempre morbidi ed omogenei, sono naturalissimi e di altissima levatura. Purtroppo non ha le physique du rôle e la sua Gilda non è pertanto molto credibile. Ma la qualità vocale è così importante che è sufficiente chiudere gli occhi. Tra i momenti migliori è da segnalarsi il duetto con il Duca.
Piero Pretti, già notato nel medesimo ruolo sul palcoscenico torinese, riafferma le sue doti e qualità, soprattutto nell’ostico passaggio all’acuto. Le temibili frasi “D’invidia agli uomini sarò per te” ed “ei che le sfere agli angeli” sono assolutamente ragguardevoli. Da rimarcare è il fatto che solo lo studio continuo ed il confronto con i ruoli adeguati possono creare per il tenore nuorese il giusto terreno per un futuro davvero roseo. Invece, leggendo il suo prossimo programma, sembra che voglia seguire le sorti di molti altri tenori italiani, e con ciò rischierebbe di diventare uno dei tanti.
Daniel Oren, alla guida della validissima Filarmonica Arturo Toscanini, dipinge un Rigoletto tenebroso, dal clima scuro e nebbioso, donando al pubblico emozioni forti, tanto quanto gli interpreti principali. Purtroppo ogni tanto si assopisce su qualche tempo un po’ troppo lento, dando un senso di discontinuità. Oltretutto mancano molti legati e la partitura soffre di qualche taglio di troppo.
Il Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani resta uno dei migliori del panorama musicale verdiano, anche se soffre dell’abbandono di alcuni validissimi elementi.
Sfortunatamente le gioie del Rigoletto-salva-Festival finiscono qui. Le voci degli altri interpreti sono pressoché nella norma e non rientrano certamente nell’immaginario di quello che mediaticamente era stato definito il Rigoletto-come-si-deve. Felipe Bou e Barbara Di Castri svolgono dignitosamente il loro compito, ma l’eccellenza è parecchio lontana, sia in termini di timbro e colore, sia in termini di proiezione. Valdis Jansons, Patrizio Saudelli, Alessandro Busi, Alessandro Bianchini e Alisa Dilecta portano a casa la pelle. George Andguladze, senza colori né sfumature, e Leonora Sofia, poco intonata, non sono presentabili. Un tempo il loggione parmigiano non avrebbe permesso a questi artisti di passare indenni.
Infine, riguardo lo sfruttatissimo allestimento di Pier Luigi Samaritani, in questa particolare occasione si è voluto eliminare ogni ammodernamento apportato da Stefano Vizioli nel 2008 – e con lui Alessandro Ciammarughi alle scene e costumi e Franco Marri alle luci – in favore di un ripresa dello spettacolo originale, curata da Elisabetta Brusa, coadiuvata da Andrea Borelli alle luci. Purtroppo in questo caso la vecchia ricetta verdiana “torniamo all’antico e sarà un progresso” non funziona, poiché manca quel nervo, quella potenza, quell’invenzione, quel pathos, quella velocità che ci si aspetta dal teatro di oggi. Inoltre i duetti tra i protagonisti sono stati poco curati nel gesto e raramente si toccano o si rivolgono l’un l’altro, ma più facilmente sono intenti in altre attività. Ad esempio è quasi ridicolo che Gilda, nel confessare al padre di essersi innamorata del giovane “studente e povero”, sia più attenta a riallacciarsi il vestito, piuttosto che a chiedergli aiuto e soccorso.
Applausi numerosissimi per tutti. Ovazioni per Nucci, Pratt e Oren.
nella serata del 26 ottobre, ultima data in cartellone, il ruolo della figlia del buffone è affidato a Désirée Rancatore. Il celebre soprano è indubbiamente la Gilda del momento e la sua interpretazione, affiancata a quella di Nucci, è all’apice del realismo. Purtroppo è affetta da una forte indisposizione alle vie respiratorie e il suono non può materialmente essere così pulito e perfetto come di sua consuetudine – fortunatamente ciò si nota solo in pochissimi punti – e riesce ad eseguire l’intera partitura, bissando “Sì, vendetta, tremenda vendetta”, senza alcun problema, certamente grazie alla solidità della sua tecnica. La raffinatezza, l’intonazione, la morbidezza, l’omogeneità della linea di canto ci sono tutte e questo fa della Rancatore una grande professionista.
Le è accanto il Duca di Celso Albelo, la cui delicatezza rimanda indubbiamente all’insegnamento ricevuto da Carlo Bergonzi. La levatura del suo canto già si nota in “Questa o quella”, gli acuti sono ben impostati in avanti e il passaggio ben uniforme si fa sentire soprattutto nel duetto con Gilda. Peccato che “Partite? Crudele!” venga completamente scordato. Il buon fraseggio e il corretto uso dei colori escono principalmente in “Parmi veder le lagrime”. Il pubblico richiede fortemente il bis de “La donna è mobile”, in cui certamente la vocalità del tenore si fa maggiormente contemplare e ammirare, ma va segnalato che tale apprezzamento non tiene in considerazione il fatto che l’esecuzione non è propriamente a tempo.
Michele Pertusi torna al ruolo che lo ha visto debuttare venticinque anni fa e lo fa con una classe e un’eleganza ineguagliabili. Il suo modo di cantare raffinato, il suo saper fraseggiare in maniera altamente espressiva, la sua attenzione alla parola e al gesto, il suo impegno nella purezza del suono, fanno di lui un cantante di grandissima professionalità e, del suo Sparafucile, un personaggio di altissima statura. È però doveroso sottolineare che pur possedendo saldamente le note gravi che Verdi ha dedicato a questo cattivo – il fa grave di “Sparafucil” e il Sol bemolle grave di “Buonanotte” – l’artista non ha il colore che abitualmente è affidato a questo ruolo, pertanto certamente incontra il favore degli amanti del belcanto, ma non quello dei sostenitori della tradizione.
LA TRAVIATA [Simone Ricci] Roma, 7 ottobre 2012.
Accolta alla sua prèmiere con fischi e critiche, La Traviata è diventata poi un titolo da inserire necessariamente in cartellone. Trovare voci adatte per i due protagonisti principali non è semplice, ma le giovani leve dello Sperimentale di Spoleto hanno cominciato a farsi notare proprio con l’opera di Verdi.
Violetta Valery, la Traviata di Verdi, è l’emblema della gioventù, seppure sfiorita: di conseguenza, non c’è niente di meglio che vedere allestito il celebre capolavoro del Cigno di Busseto con un cast giovane e desideroso di affermarsi, vale a dire quello che ha dominato le scene lo scorso mese a Spoleto, in occasione della sessantaseiesima stagione lirica del Teatro Sperimentale. Si potrebbe parlare di una scommessa per quel che riguarda la scelta del Teatro Italia di Roma, in quanto la Traviata non è un’opera semplice da cantare e ha mietuto più di una vittima tra i debuttanti, ma la mancanza di esperienza non è stata un ostacolo alla serata del 7 ottobre. L’allestimento è stato praticamente lo stesso sfruttato nella città umbra, con la regia, le scene e i costumi di Stefano Monti. Il piccolo teatro romano traboccava di curiosità e pubblico per questa Traviata così giovane, ma alla fine gli applausi scroscianti hanno ripagato una scelta che poteva sembrare inizialmente azzardata.
Le scene sono essenziali, ma al tempo stesso efficaci: questa regia di Stefano Monti era già stata sfruttata anni fa a Savona e presenta diversi elementi interessanti: in particolare, molti simboli ed eventi si susseguono sulla scena, come le due grandi cornici vuote che racchiudono idealmente la vicenda, ma anche le bianche camelie che dominano lo sfondo, in onore al fiore-simbolo di quest’opera. Gli effetti cromatici, poi, sono stati eleganti ed equilibrati. Passiamo ora a esaminare il cast vocale. La serata del 7 ottobre (nei ruoli principali vi sono state alcune alternanze nei giorni precedenti) è stata letteralmente conquistata da Anna Maria Carbonera, una Violetta che sa emozionare e che non cerca mai di eccedere: non c’è stata la ricerca disperata del bel suono, ma gli acuti sono stati aggressivi, come richiede il personaggio. Non è un caso che la Carbonera abbia vinto nel 2011 il concorso dello Sperimentale di Spoleto.
Il cast era pieno di altri vincitori del concorso in questione, più precisamente l’ultima edizione di quest’anno. Ad esempio, Giuseppe Distefano è stato il tenore che ha trionfato nel 2012 ed il ruolo di Alfredo è stato affidato proprio a lui: l’ingombrante omonimia può essere affrontata meglio, il primo atto è stato un po’ incerto, forse penalizzato dall’emozione, con l’emissione che non convinceva più di tanto, poi, come un motore diesel, ha cominciato a carburare e ha dimostrato di aver meritato il suo premio, nonostante qualche esse sibilante di troppo. La Flora di Chiara Osella ha colpito per freschezza e vivacità, le due doti che meglio si addicono a un personaggio che è sì secondario, ma non da sottovalutare: anche il mezzosoprano piemontese ha conquistato il primo posto nel concorso spoletino. Meno convincente è stato il Barone Douphol di Jacopo Bianchini, anch’egli tra i vincitori, ma non troppo a suo agio in questo ruolo. L’ultima vincitrice da menzionare è Silvia Pantani, una Annina ordinaria e lineare.
Una nota di merito deve essere fatta per Costantino Finucci, il quale ha già dimostrato di essere a suo agio nei ruoli rossiniani e donizettiani: il Giorgio Germont che riesce a dipingere è il classico padre verdiano, intriso di pregiudizi ottocenteschi, ma poi pronto a perdonare. Il suo Di Provenza il mar, il suol è arrivato fino al cuore, è un peccato che si sia deciso di tagliare il finale dell’ottava scena del secondo atto, quel No, non udrai rimproveri in cui Finucci non avrebbe sicuramente sfigurato. Il cast è stato poi completato dal baldanzoso Marchese D’Obigny di Tiziano Antonelli, dal premuroso Dottor Grenvil di Jacopo Colella e dall’amichevole Gastone di Marco Rencinai, oltre ai piccoli ruoli di Antonio Trippetti (Giuseppe), Giuseppe Conti (domestico) e Nicola Di Filippo (commissionario).
La direzione sicura e vigorosa di Carlo Palleschi ha fatto da cornice a tutte queste voci: dalle prime file si poteva scorgere e udire l’energia profusa nel condurre, la sua orchestra ha ben interpretato i due preludi, dimostrando di sapere alternare le due “fasi” verdiane, l’alternanza tra pacatezza e vigoria musicale. La prova del coro è stata discreta, negli attacchi non è stata mostrata alcuna difficoltà. Verdi amava ripetere come il ritorno all’antico sarebbe stato un successo: il suo concetto di “antico” era però riferito a quello caratterizzato da fondamento e solidità. Per l’appunto, la solidità drammaturgica messa in scena al Teatro Italia si è avvertita, questi giovani hanno voglia di mostrarsi e migliorarsi, la speranza è di vederli presto anche in altre piazze.
LA BATTAGLIA DI LEGNANO [William Fratti] Parma, 9 ottobre 2012.
Dopo dilazioni e ripensamenti, La battaglia di Legnano approda finalmente sul palcoscenico del Teatro Regio di Parma.
Purtroppo lo fa durante il Festival-della-salvezza, in un clima economico, finanziario, politico e soprattutto direzionale molto incerto e il risultato che ne deriva è una messinscena che potrebbe essere applaudita con sincerità solo nella provincia più provinciale che ci sia, mentre i cittadini di Parma, il tanto temuto loggione, le tanto preparate associazioni musicali del territorio (che sono inorridite durante la prova generale), accolgono con smisurato entusiasmo, con ovazioni da stadio, con calore sconfinato uno spettacolo che, rappresentato in altri tempi, sarebbe stato interrotto dai fischi soltanto dopo la prima aria: ciò non è fanta-storia, ma è ciò che è accaduto in ben più di un’occasione e se ne potrebbero citare a decine, a partire dalla quasi totalità dei titoli proposti nel 2001, fino ad arrivare al Rigoletto che ha fatto crollare e concludere l’era Rubiconi. Complice di tanto entusiasmo è il timore che il tempio della lirica chiuda definitivamente le sue porte; complice è il desiderio della città di ricominciare (un’altra volta); complice è la speranza derivante dai neoeletti Amministratore esecutivo Carlo Fontana e Direttore artistico Paolo Arcà. La speranza è l’ultima a morire, ma nel frattempo si vendono biglietti di platea che vanno da € 120 a € 250, proponendo esecuzioni che dovrebbero essere il massimo dell’ispirazione verdiana, ma il compositore delle Roncole, durante questa Battaglia, non si è fatto vedere neppure in una vecchia e scolorita fotografia.
E i posti vuoti, tra platea e palchi, si fanno notare numerosi.
L’allestimento interamente firmato da Pier Luigi Pizzi è senza pretese, molto semplice, ma opportuno ed efficace, soprattutto elegante nel disegno delle situazioni e suggestivo nell’impianto luci di Vincenzo Raponi. Purtroppo si tratta di un’accuratezza più fotografica che teatrale, poiché succede poco e ci si annoia. È vero che Verdi e Cammarano non hanno dato il meglio di sé in questa vicenda, ma è anche vero che se ci si affida ad uno dei migliori registi al mondo, si pretende che in scena accada qualcosa di diverso. Arrigo è spesso fermo in proscenio; Lida è quasi sempre a terra; Barbarossa è improbabilmente circondato da avversari armati che non lo colpiscono.
Dal punto di vista musicale Boris Brott, che sostituisce l’indisposto Andrea Battistoni, offre un’esecuzione che non va oltre la media; neppure la Filarmonica Arturo Toscanini compie le prodezze cui spesso ha abituato il proprio pubblico. Il Coro del Teatro Regio di Parma, diretto da Martino Faggiani, è la vera star della serata, anche se non si prodiga nel proprio meglio.
Alejandro Roy ricopre il difficile ruolo di Arrigo fermandosi alla lettura dello spartito. Presenta una voce dal volume ragguardevole, ma poco morbida nel timbro e non riesce neppure ad avvicinarsi a quelle sfumature di colori e accenti minimi indispensabili al canto verdiano. Pertanto la resa dell’aria “La pia materna mano” è quasi trascurabile; il duetto con Lida riesce meglio, ma è evidente che il tenore si trova a suo agio solo col canto in forte; infine il finale manca quasi completamente delle mezze voci, dei chiaroscuri e di un minimo di espressività nel fraseggio.
Aurelia Florian appare inizialmente molto più navigata e sortisce con una cavatina ricca di lirismo, di colori e di eleganti filati naturali, che danno un senso alla sua interpretazione di Lida, pur mancando di tinte drammatiche, assolutamente necessarie nell’esecuzione del ruolo. Con la cabaletta arrivano a farsi notare i primi grandi difetti, tra cui poca preparazione nelle agilità, gravi poco udibili e certe raucedini – soprattutto dopo la discesa dal registro acuto – che portano a un canto non sempre pulito. La parte meglio riuscita è il duetto con Arrigo, mentre terzo e quarto atto sono intrisi di numerose incespicate, soprattutto nel recitativo e duetto con Rolando e nella preghiera.
Gezim Myshketa è da sempre un baritono elegante ed espressivo, ma in altro repertorio. La sua vocalità non è sufficientemente dotata di spessore, capacità d’accenti e buon squillo per poter affrontare il repertorio verdiano, soprattutto quello più drammatico. Ad ogni modo, tra un intoppo e l’altro, riesce comunque ad arrivare alla bella aria di secondo atto ornandola di qualche bel colore, ma la voce è troppo stanca, a causa di una tessitura a lui non consona, per poter eseguire correttamente la cadenza e la successiva cabaletta.
L’affascinante William Corrò, che prima pronuncia le poche battute del Primo Console, veste i panni di un intrigante Federico Barbarossa, ma l’esecuzione canora si ferma esattamente là dove comincia il canto verdiano. Purtroppo, nonostante sia corretto e intonato, non può ricoprire a dovere un ruolo affidato ad una vocalità ben più scura della sua, facendo così risultare poco consistente il bellissimo concertato di secondo atto.
Voce corposa e ben intonata quella del Marcovaldo di Valeriu Caradja; soddisfacenti Erika Beretti nel ruolo di Imelda e Emanuele Cordaro in quello del Secondo Console e del Podestà; non classificabile l’araldo di Cosimo Vassallo.
MARIA STUARDA [Lukas Franceschini] Bergamo, 12 ottobre 2012.
Gaetano Donizetti decise di comporre l’opera Maria Stuarda dopo aver assistito ad una recita della tragedia omonima di Friedrich Schiller nella traduzione di Andrea Maffei, che in seguito divenne amico personale di Giuseppe Verdi. Maria Stuarda approda al Bergamo Musica Festival Gaetano Donizeti in una nuova produzione dopo l’edizione del 2001.
Un romanzo storico dunque, il quale non si attiene scrupolosamente a fatti storici precisi, ma è enfatizzato per esigenze di palcoscenico e mette in luce le due antagoniste, Maria ed Elisabetta I, in maniera diversa creando la “buona” e la “cattiva”, elemento fondamentale per una drammaturgia operistica rilevante.
Opera creata per il San Carlo di Napoli la cui esecuzione fu proibita perché il libretto presentava, per la concezione d’allora, situazioni troppo imbarazzanti e fu lo stesso Re del Regno delle Due Sicilie a vietare la rappresentazione. Donizetti non si scoraggiò e qualche tempo dopo approntò l’opera per la Scala di Milano, ovviamente modificando il testo, e rimaneggiando anche la partitura poiché la protagonista sarebbe stata Maria Malibran. Pertanto abbiamo due versioni dell’opera quella napoletana e quella milanese appunto denominata anche “versione Malibran”. Uno dei momenti su cui la censura si accanì pesantemente fu il testo dello scontro tra le due regine nel finale atto II che opportunamente fu rimaneggiato omettendo termini come “meretrice”, “vil bastarda”, ma pare che la Malibran nelle recite milanesi cantò i versi originali, contribuendo così, forse, al ritiro dell’opera, la quale oggigiorno è da considerare tra i capolavori del bergamasco.
Il Donizetti Festival sceglie la versione milanese, la quale è da considerarsi la prima edizione andata in scena. Una nuova produzione creata da un team giovani: regia di Federico Bertolani, scene di Giulio Magnetto e costumi di Manuel Pedretti. Un allestimento lineare e bello, con un inizio leggermente enigmatico che poi invece è chiaro e di grande effetto. La scena è unica, astratta, affascinante e molto teatrale: un cubo, con lati aperti e ante scorrevoli, che segna “l’incubo” della protagonista coinvolta dagli eventi che la porteranno alla decapitazione. Una visione quasi claustrofobica della prigionia. L’altra regina entra in scena su un trono collocato sopra il suddetto cubo, una chiara visione di chi ha in mano il potere e decide le sorti altrui, tanto da trionfare vittoriosa al termine dell’opera ancora sul trono. Drammaturgicamente i personaggi sono ben delineati, Maria Stuarda mite e remissiva, anche nell’impennata del duetto, ma tragicamente lucida del suo destino. Elisabetta è austera, quasi violenta, volutamente regale e artefice della condanna della cugina. Gli altri interpreti ruotano intorno alle due regali donne con dovizia scenica, ma il ruolo di Cecil è quello più rifinito e sinistro nella sua crudezza e viscidità. I costumi, molto curati, sono rigorosamente d’epoca e la sola Elisabetta sfoggia sontuosità regale, la Stuarda veste, stranamente, un elegante abito bianco che si presume simbolo di candore o innocenza.
Sul versante musicale abbiamo trovato una valida bacchetta nel direttore Sebastiano Rolli, attento alle dinamiche strumentali, buon ritmo, colori pertinenti e una scansione drammaturgica di rilievo, se avesse avuto un’orchestra di maggior pregio, le cose sarebbero andate anche meglio, tuttavia non si può non rilevare che l’Orchestra del Bergamo Musica Festival ha fatto dei progressi rispetto alle edizioni passate. Chi invece ha notevolmente migliorato le sue prestazioni collocandosi quale maestranza di rilievo è il Coro diretto da Fabio Tartari, che in quest’occasione è stato efficacissimo e splendente.
Protagonista dell’opera è stata Mariella Devia, la quale ha tratteggiato una Stuarda trepidante e vittima. La Devia resta l’ultima delle grandi primedonne italiane seppur giunta nella fase finale della sua strepitosa quarantennale carriera, e in tale contesto è forse superfluo affermare che il ruolo non è proprio nelle sue corde e le attuali condizioni vocali, che hanno del miracoloso, non le permettono un accento e un vigore che la parte richiederebbe, senza contare i fiati che ovviamente si sono accorciati. A parte ciò, devo porre l’accento che la signora Devia in questa produzione è stata una validissima interprete vocale, nel colore, nell’espressione e tutti i recitativi, seppure nella sua corda, affetti di mordente, qualità che lei generalmente non elargiva con tanta dovizia. Una vera lezione di stile e canto impegnato, forse con qualche accomodamento, ma sicuramente di rilievo.
Altrettanto non si può dire per la sua rivale, José Maria Lo Monaco, la quale impersonava una regina convincete solo nel gesto, ma la voce è artefatta in basso, spesso forzata, il centro gutturale e il registro acuto incerto e fisso.
Dario Schmunk avrebbe anche intenzioni pregevoli, ma la voce è fissa e senza accenti, oltre a non possedere una tecnica dignitosa.
Dei due bassi, che non hanno parti rilevanti, Mirco Palazzi ha stonato parecchio oltre a non possedere particolare proiezione timbrica pur avendo a disposizione un ottimo materiale, Marzio Giossi era impressionante nella caratterizzazione del personaggio anche se talvolta piuttosto ruvido. Efficace Diana Mian nel ruolo di Anna.
Teatro esaurito in ogni ordine, con pubblico prodigo di applausi, trionfo scontato per Mariella Devia.
TURANDOT [William Fratti] Pisa, 12 ottobre 2012.
Il Teatro Verdi di Pisa apre la Stagione Lirica 2012-2013 con l’ultimo capolavoro di Giacomo Puccini nell’allestimento proveniente dal Festival di Torre del Lago firmato da Maurizio Scaparro.
Nella serata inaugurale del 12 ottobre è una vera gioia vedere la sala stracolma di giovani e senza alcun posto vuoto, e assistere all’annuncio del Dott. Maurizio Cecchini che fieramente informa il pubblico che il Teatro Verdi di Pisa, il primo in Italia, è stato dotato di un defibrillatore e una parte del personale è stata formata al suo utilizzo.
Le scenografie di Ezio Frigerio, studiate per il grande spazio all’aperto di Torre del Lago, riempiono fieramente il palcoscenico pisano, pur non soffocando nella loro mole imponente. Efficacissime, con qualche richiamo liberty al lavoro originario di Chini, sanno rendere in maniera appropriata il clima del palazzo imperiale cinese, giustamente e validamente coadiuvate dai bei costumi di Franca Squarciapino. Forse manca un po’ di quel carattere suggestivo che una miglior illuminazione avrebbe potuto donare; presumibilmente il disegno luci di Valerio Alfieri non è stato toccato nel suo trasferimento al chiuso, pertanto ogni tinta chiara è sembrata più forte del dovuto.
La regia di Maurizio Scaparro è pulita e adeguata, anche se si notano alcuni momenti di vuoto, il coro è quasi ridotto alla folla e ai ragazzi, e si presentano alcune inesattezze rispetto al libretto, ad esempio quando i ministri vogliono far vedere la testa mozza del principe di Persia a Calaf, questa è già scomparsa; oppure i ministri cercano di tenere il principe ignoto lontano dal gong, che però non è in scena, ma arriva solo al momento in cui viene suonato; o ancora quando la folla pronuncia “Ecco Ping. Ecco Pong. Ecco Pang” questi sono già in scena e mai se ne erano andati.
La direzione di Valerio Galli è particolarmente morbida e fluida e ciò contribuisce a trasmettere una certa tranquillità al palcoscenico, ottenendo come risultato un amalgama e una coesione consistenti. Ciononostante l’Orchestra del Festival Puccini non appare proprio precisa e la qualità del suono non è delle migliori. Lo stesso vale per il Coro diretto da Stefano Visconti, i cui tenori spesso sforano nel canto in forte. Si comporta meglio il Coro Voci Bianche guidato da Sara Matteucci.
Giovanna Casolla è Turandot. La sua non è un’interpretazione, bensì la personificazione della “Principessa di morte! Principessa di gelo!” e ben poco c’è da aggiungere sul magnetismo della sua indiscutibile presenza scenica, ipnotica e irraggiungibile. La voce è ancora sicura, saldissima sui centri e sui bellissimi acuti, anche se la sonorità non è più così rotonda e pastosa. Solo il registro grave è un poco più debole, ma è un appunto quasi trascurabile. Degni di particolare nota sono i piani di “No, non dire! Tua figlia è sacra!”, toccanti e sapientemente eseguiti, che arrivano dopo la lunga aria e la lunga scena “In questa Reggia… Straniero, ascolta!” cantata quasi interamente in forte o mezzo forte.
Stefano Lacolla, che veste i panni di Calaf, è naturalmente dotato di un bellissimo timbro, tipico da tenore all’italiana, del quale molti colleghi ben più blasonati potrebbero essere invidiosi, ma gli basterebbe registrarsi e riascoltarsi per rendersi conto dei numerosi errori che commette e che rischiano di compromettere il suo futuro. Si notano problemi nei fiati e nell’intonazione del registro medio grave; inoltre il suono non è sempre pulito, talvolta è secco e qualche acuto non è perfettamente avanti e lo squillo si smorza in gola. I numerosi applausi che riceve sono molto dannosi, poiché gli fanno credere ciò che non è. Stefano Lacolla può diventare un valore aggiunto al canto italiano, ma necessita di studio ed esercizio continuo.
Silvia Dalla Benetta, debuttante nel ruolo di Liù, forse non ha la sicurezza dell’espertista, ma sa arricchire la parte di pregevoli e finissimi filati naturali fin da una delle primissime frasi “Perché un dì… nella reggia mi hai sorriso”. L’eleganza, la precisione nel canto, l’abilità nel legato, la proiezione dei pianissimi, già si notano in “Signore, ascolta!” ma culminano in “Tu, che di gel sei cinta” con un’esecuzione davvero notevole.
Choi Seung Pil è un Timur più che soddisfacente, corretto e adeguato, ben intonato ed efficace nel canto, nell’interpretazione e nella resa del personaggio.
Apprezzabile Massimiliano Valleggi nel ruolo di Ping; un po’ dozzinali vocalmente il Pang e il Pong di Mauro Buffoli e Cristiano Olivieri. Poco incisivi il Mandarino di Roberto Nencini e l’Imperatore di Massimo La Guardia. Stonata la “Turandot!” di Stefano Fini.
TOSCA [William Fratti] Cremona, 17 ottobre 2012.
Il Teatro Amilcare Ponchielli di Cremona inaugura la Stagione Lirica 2012 con Tosca nell’accattivante allestimento firmato da Elena Barbalich proveniente dal Teatro Petruzzelli di Bari.
La regista aveva già portato lo scorso anno una buona dose di innovazione, modernità e vivacità con Il cappello di paglia di Firenze ed ora lo fa con un titolo del grande repertorio. Non si allontana dalla tradizione, resta ancorata alle parole del libretto, prende solo alcune piccolissime distanze dalle indicazioni di Puccini e così crea, con le scene e i costumi di Tommaso Lagattola, uno spettacolo giovane, attuale, tecnologico, ma classico al tempo stesso. Le luci suggestive di Giuseppe Ruggiero contribuiscono a rendere un risultato efficacissimo. Meno incisive le proiezioni di Nicola Di Meo.
Giampaolo Bisanti dirige egregiamente l’Orchestra I Pomeriggi Musicali, riuscendo nel difficile compito di alzare il livello qualitativo del gruppo, tenendo tutti in punta. Forse il volume è talvolta eccessivo, ma al di là di questo riesce a trasmettere emozioni intense e un suono particolarmente pulito, soprattutto nel maestoso, cadendo mai nel chiassoso.
Mirjam Tola è una Tosca molto insignificante. Pur avendo diversi anni di carriera alle spalle, dà l’impressione di essere giovane e cruda. La sua vocalità non sembra pertinente con questo tipo di repertorio, poiché la prima ottava è spesso inudibile. Pur avendo una salita agli acuti abbastanza sicura, non riesce a reggere tutta la parte e arriva al terzo atto quasi completamente svuotata. L’interpretazione potrebbe essere migliore della resa vocale, se non fosse che lo scarso fraseggio e la mancanza di tinte drammatiche rendono l’esecuzione abbastanza piatta e noiosa. La domanda che ci si pone in questo caso è sempre la stessa: dove era la direzione artistica durante le prove?
Rubens Pelizzari, tenore navigato soprattutto nel ruolo di Cavaradossi, non è in serata. Le prime frasi sono buone, ma poco dopo sembra rompersi qualcosa, le mezze voci si spezzano e gli acuti tendono ad essere indietro. Col procedere dello spettacolo la voce si compromette sempre di più. La resa di “Vittoria!” e di “E lucevan le stelle” sono abbastanza elementari e tutto peggiora ulteriormente con l’ultimo duetto.
Sebastian Catana, eccellente baritono lirico, dotato di squillo e rotondità, buon uso dei chiaroscuri e del fraseggio, sa cantare molto bene, ma manca di quello spessore e quella pienezza, quell’intensità e capacità drammatica necessari a dare valore al ruolo di Scarpia. Pertanto “Tosca è un buon falco!… Ella verrà” riesce egregiamente, mentre “Tre sbirri, una carrozza” risulta essere più debole e meno incisiva.
Ziyan Atfeh, Paolo Maria Orecchia e Paolo Antognetti sono molto efficaci e assolutamente piacevoli nelle rispettive parti di Angelotti, del Sagrestano e di Spoletta. Concludono il cast i bravi Sciarrone di Daniele Cusari e pastorello di Luisa Bertoli.
Accettabile la prova del Coro del Circuito Lirico Lombardo diretto da Antonio Greco.
Pubblico ben poco entusiasta, ma educato.
DON CARLO [William Fratti] Piacenza, 28 ottobre 2012.
Alla vigilia dell’inaugurazione della Stagione Lirica 2012-2013 del Teatro Municipale di Piacenza, si comunica una novità molto importante: il ritorno di Cristina Ferrari in qualità di direttore artistico. Si tratta di un “rinforzo necessario”, poiché gli ultimi anni hanno visto cadere sempre più in basso la qualità delle proposte offerte. Purtroppo i giochi dell’attesissimo Don Carlo sono già fatti e la tanto temuta prima è un susseguirsi continuo di disapprovazioni del pubblico.
Per il primo appuntamento del Bicentenario Verdiano si propone l’interessantissima “Versione Modena, 1886” in cinque atti, con il ripristino dello storico spettacolo di Luchino Visconti. In realtà si tratta principalmente di un nuovo allestimento che prende spunto da quello originale, ma da un punto di vista registico e scenografico ne escono una scarpa e una ciabatta. Joseph Franconi Lee mette mano a questo spettacolo per l’ennesima volta, ma non riesce a riprodurre lo stesso filo conduttore che lo ha seguito nelle precedenti edizioni. Innanzitutto si nota in maniera troppo evidente la mancanza di amalgama tra ciò che è nuovo e ciò che è vecchio o riprodotto. I costumi curati da Alessandro Ciammarughi sono splendidi, come pure le scene dipinte da Rinaldo Rinaldi, Maria Grazia Cervetti e Keiko Shiraishi, che hanno quell’aura verdiana di “torniamo all’antico e sarà un progresso”, ma si discostano troppo dalle costruzioni e dal PVC usato come fondale, eccessivamente colorato da un improbabile disegno luci a cura di Nevio Cavina. In poche parole, inizialmente ci si aspetta di assistere ad un allestimento realistico, ma poi ci si trova di fronte ad una cattedrale dipinta di rosa e ad una camera da letto prima verde, quindi blu e marrone. Tali colori, come molti altri, anche in ulteriori scene, potrebbero effettivamente rappresentare un cambiamento emotivo nei personaggi, ma allora si tratta di una messinscena realista, astrattista, o cosa altro? Infine, per quanto riguarda movimenti e gestualità, si nota una certa cura nei protagonisti, ma coro e figuranti sembrano lasciati allo stato brado e non si capisce neppure dove e quali siano i movimenti coreografici di Marta Ferri. A questo punto, considerati i precedenti successi di questa validissima squadra di artisti, ci si domanda se tale caduta di stile sia dovuta al dolo, o alla colpa: c’è stato tempo a sufficienza per le prove?
Dal punto di vista musicale, lo spettacolo è uno scempio ancora più grande. Fabrizio Ventura, alla guida dell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna, è fischiato ad ogni ingresso in buca. La sua direzione appare molto approssimativa, pressappoco una lettura superficiale dello spartito, essendo prevalenti un suono forte e chiassoso, quasi fossero assenti le legature, i pianissimi, i crescendo, i diminuendo e tutte le altre indicazioni nella partitura. Anche il legame col palcoscenico sembra assente, tanto che attacchi e chiusure sono quasi mai precise.
Mario Malagnini è certamente dotato di bella voce e ottimo volume, ma difetta di eleganza e raffinatezza, qualità indispensabili al canto verdiano, in quanto immediatamente riconducibili all’accento e al fraseggio. La dolcissima aria di sortita di Don Carlo è eseguita quasi interamente in forte e mezzo forte, senza alcun colore e questa modalità di canto diventa il segno distintivo del protagonista per tutta la durata della lunga esecuzione. Nei duetti con Elisabetta, in cui talvolta la sua voce arriva all’urlo, si perde tutta la caratteristica interpretativa e l’intensità drammatica viene meno.
Cellia Costea è dotata di una voce particolarmente importante, certamente adatta al repertorio lirico drammatico e al ruolo di Elisabetta, ma con una tecnica che sembra presentare problemi nel passaggio e nei fiati. Alcune note della prima ottava sono afone, o comunque affette da raucedini; gli acuti non sono sempre puliti e i pianissimi sono praticamente inesistenti. Il quinto atto rappresenta una sorta di riassunto dei suoi pregi e difetti, in quanto spicca maggiormente nel recitativo “Tu che le vanità”, con buon accento e bei gravi, ma suoni sporchi in acuto; monotona e priva di finezze nel cantabile “O Francia, nobil suol”; infine con fiati corti e qualche afonia nel duetto con Don Carlo.
Tra i protagonisti, Giacomo Prestia, nelle vesta di Filippo II, è il solo a passare indenne alla resa dei conti del pubblico piacentino inferocito. Effettivamente, appena entra in scena, si nota la differenza di livello con gli altri interpreti. Purtroppo la voce è talvolta malferma e ciò lo si nota soprattutto nel lungo concertato di terzo atto, ma l’espressività del suo fraseggio, la capacità d’uso dei chiaroscuri, l’eleganza dei colori, la capacità d’accento nell’interpretazione della parola, fanno la differenza nel suo personaggio, intenso e struggente.
Alla Pozniak è una Principessa Eboli che non può essere spesa sul suolo italiano. Avrà pure un bel colore brunito e metterà pure un certo impegno nell’uso degli accenti, ma ha una pessima dizione, non si capisce nulla, utilizza troppo la glottide tanto da sentirsi il suono della lettera g e non esegue accuratamente i legati. Inoltre nel duetto e terzetto “Sei tu, bella adorata… Al mio furor sfuggite invano” e nella temibile aria “O don fatale, o don crudele” gli acuti sono molto stiracchiati.
Dopo il grande successo ottenuto nel ruolo di Germont, il ritorno di Simone Piazzola a Piacenza nei panni di Rodrigo disattende tutte le aspettative. La sua performance è corretta, ma non va oltre la norma, nemmeno nella resa del personaggio. Ci sono poco colore e poco fraseggio, la voce sembra quasi non timbrata e si nota una certa fatica sulle note basse, soprattutto nel duetto con Filippo II.
Luciano Montanaro, nei panni del Grande Inquisitore, manca del peso e dello spessore necessari al personaggio. Giuseppe Verdi è sempre stato molto preciso nella definizione dei suoi ruoli affidati alle voci gravi e quest’opera deve contenere tre livelli ben distinti di bassi, che non a caso raggiungono tre profondità diverse. Purtroppo l’artista non appare sufficientemente profondo e l’inesorabile mi grave su “Sire” è mal poggiato. Inoltre, nel finale quarto, la sua voce è completamente coperta e non si ode nulla.
Paolo Buttol, nel ruolo del frate, presenta una voce troppo ingolata ed è stonacchiato nell’esecuzione della preghiera che apre il secondo atto.
Irène Candelier è un Tebaldo apprezzabile, anche se si poteva fare di meglio, soprattutto nel pertichino della canzone del velo. Perlomeno ha una buona intonazione e un volume sostenibile. È soddisfacente nel canto di una voce dal cielo.
Improponibili il Conte di Lerma e l’araldo reale di Giulio Pelligra e Marco Gaspari.
Insoddisfacente, sia vocalmente, ma soprattutto scenicamente, la prova del Coro Lirico Amadeus del Teatro Comunale di Modena diretto da Stefano Colò.
Al termine dello spettacolo, gran parte del pubblico esce dalla sala subito dopo la chiusura del sipario. Fischi e disapprovazioni per tutti gli interpreti, chi più e chi meno, compresi direttore e comprimari. Accoglienza calorosa soltanto per Giacomo Prestia e Irène Candelier.
SIEGFRIED [Lukas Franceschini] Milano, 31 ottobre 2012.
La monumentale Tetralogia Wagneriana allestita alla Scala è giunta al terzo appuntamento: Siegfried. Finalmente dopo cinquant’anni anche nel teatro milanese è proposto l’intero Ring con la stessa direzione musicale e regia teatrale, la conclusione avverrà nella prossima stagione con le recite del Crepuscolo e due cicli completi dell’intero Anello nell’arco di due settimane.
Lo spettacolo della precedente Walküre, pur contendendo momenti molto apprezzabili, non mi aveva particolarmente entusiasmato, l’odierno Siegfried mi ha convinto se non appieno ma quanto per considerarlo un ottimo allestimento. Gli artefici sono gli stessi Guy Cassiers (regia e scene) Enrico Bagnoli (scene e luci) Tim van Steeenbergen (costumi) Sidi Larbi Cherkaoui (corografia), Arjen Klerkx e Kurt D’Haesseeler (video). Le tre scene fondamentali che costituiscono l’ossatura dell’opera sono diversificate attraverso un ingegno moderno e tecnologico d’altro lignaggio. Nel primo atto la caverna di Mine è un labirinto d’acciaio di fantascientifica memoria (anche cinematografica), la foresta del secondo, scenograficamente la più emozionante, è un tripudio di alberi argentati creati con lampadine minuscole che cadono a terra trasformandosi e per non parlare dei fili rossi di sangue (che rimandano alla prima giornata). Ho trovato molto innovativa la scena della tempra della spada con l’accensione di lampade al neon e forse la scena meno d’impatto era la terza con l’ineluttabile montagnola di Brünnhilde, ma dove calava la maestria dello scenografo prevaleva quello del regista, bastava osservare i due innamorati sciogliersi musicalmente, salire, scendere, girare per quel piccolo ammasso per capire il senso del mirabile duetto conclusivo dell’opera. Il regista Cassiers mette a fuoco in maniera strepitosa tutti i personaggi: Mine, viscido e profittatore, Wanderer nobile ma guardingo, Alberich tormentato e custode, l’apparizione di Erda, elegantissima ed affascinante, dea che sorge dal sottosuolo, Siegfried giovanile ed irruente eroe in cerca di verità. Uno spettacolo vivo e certamente recitato cui contribuiscono dei bellissimi video sul fondale, cornice delicata non disturbante. Le fascinose luci aumentano e valorizzano il tutto, i costumi d’ispirazione subcultura punk erano anche apprezzabili, mozzafiato il vestito di Erda avvolto da un mistico tulle di celestiale allusione. L’aspetto forse meno riuscito erano le coreografie danzanti, le quali a mio modesto giudizio avevano un linguaggio a parte rispetto la vicenda, ma l’eleganza e alla bravura dei ballerini e il fatto di essere circoscritte a due episodi non disturbava.
L’aspetto musicale non ha riservato sorprese ma conferme che in parte si conoscevano. Si può confermare Daniel Barenboim come uno dei migliori direttori wagneriani del momento, in lui si apprezza, oltre allo stile, la maestria nel plasmare l’organico orchestrale dal suono variegato, ora lento, ora più incisivo, ma sempre vivo e con molteplici colori d’indiscusso fascino, cui va aggiunta l’espressione tersa nel corso del lungo percorso narrativo. Difficile scegliere un momento migliore rispetto ad un altro, in lui s’identifica anche un grande cesellatore della partitura in particolar modo negli interventi solistici degli strumenti e trova in questo terreno, Wagner, un’eccelsa sinergia con la bravissima orchestra della Scala raggiungendo vertici non comuni.
Lance Ryan non è tipico heldentenor ma gli si deve riconoscere una buona prestazione. La voce è molto bella, anche vibrante, manca in taluni punti di eroicità ma sostiene tutto il lungo e difficile ruolo con autorevolezza e ottime capacità sceniche, adotta in varie occasioni una sorta di falsetto espressivo nel canto di conversazione, che seppur non elegiaco è accettabile. Ryan, con la sua sicurezza, è oggigiorno uno dei migliori, se non il meglio, che il panorama possa offrire in tale ruolo.
Sono rimasto molto soddisfatto nell’udire Nina Stemme in buona forma rispetto a sue recenti esibizioni. La cantante è pienamente appropriata al personaggio che risolve con indubbio carisma e autorità, manca forse qualche nota acuta ma è perfetta in un fraseggio raffinato e sempre puntuale, oltre ad un timbro ora luminoso ora dolcissimo nel lungo finale con il protagonista.
Magistrale il Mine di Peter Bronder, del quale non si sa se apprezzare più l’attore o il cantante. La perfetta aderenza al ruolo, viscido ed intrigante, combacia perfettamente con un canto sicuro dal fraseggio accuratissimo, cristallino e trafelato nelle intenzioni, ottimamente rese.
Terje Stensvold è un buon Wanderer con voce scura caratterizzata da una bella morbidezza, dipanando un canto maestoso e forbito. Più ruvido l’Alberich di Johannes Martin Kranzle ma molto efficace teatralmente. Di rilievo il Fafner di Alexander Tsymbalyuk, tonante vocalmente e preciso, mentre Anna Larsson, pur non possedendo una voce potente e con poco da spartire con il registro richiesto, si esibisce con onore musicalmente, affascinante e regale drammaturgicamente. Rinnat Moriah era un uccellino del bosco corretto, ma leggermente affaticata nel settore acuto.
Successo trionfale al termine, il teatro era quasi esaurito in ogni settore, il pubblico ha decretato applausi convinti per tutti gli interpreti, accentuando i consensi per Barenboim, la Stemme, Ryan e Bronder.
AIDA [Lukas Franceschini] Verona, 9 novembre 2012.
La conclusione della stagione lirica al Teatro Filarmonico di Verona ha lasciato molto amaro nel pubblico, soprattutto per un evento che si annunciava rilevante ma poi disatteso.
Alcune considerazioni a priori. Le recite di Aida erano inserite nella stagione lirica invernale 20011/2012 e riservate ai vincitori del IX Concorso Internazionale di Canto promosso dall’Istituto Internazionale per l’Opera e la Poesia. Per l’occasione era stato progettato l’utilizzo di un allestimento curato da Hugo de Ana qualche anno fa per il Teatro “Verdi” di Padova, e per quanto di mia memoria non ricordo un’esecuzione di Aida al chiuso a Verona.
Tutto questo è improvvisamente saltato, senza alcuna giustificazione, conferenza stampa e nessun comunicato. La Fondazione Arena di Verona è a tutti gli effetti l’ente che convoca la stampa con maggior frequenza per conferenze talvolta banali cui non seguono neppure domande, quando invece sarebbe stato opportuno istruirla per dare risposte concrete al pubblico e alla città, abbiamo avuto un silenzio tombale. E’ ipotizzabile che ciò non è stato fatto giacché non erano gradite domande scomode, alle quali nessuno voleva rispondere. Altrettanto scontato che il repentino cambiamento di programma è, o meglio dovrebbe essere, dovuto al fattore economico, il denaro è sempre meno nelle casse dei teatri. Soluzione non ottimale è stata anche quella di eseguire l’opera in forma di concerto. Altra questione dolente, o non esauriente, è stata l’assoluta non comunicazione delle selezioni del concorso, quante persone vi hanno partecipato, chi erano i membri della giuria, la qualità degli iscritti e ultima ma non irrilevante per quale motivo alla prima del 9 novembre il ruolo di Radames era sostenuto da un cantante professionista, forse conseguenza che nessun concorrente è stato ritenuto idoneo. La scarsa attenzione della Fondazione ad un evento teatrale è molto singolare, inoltre il silenzio sovente alimenta anche pensieri più foschi di quanto in realtà non siano. Agli abbonati della stagione non è dato sapere se hanno ricevuto un rimborso per lo spettacolo annullato. Un’altra vicenda che non manda “luce” sulla direzione del teatro è che dopo aver promosso la campagna abbonamenti per l’opera e il balletto 2012/2013 si viene a conoscenza solo ora, e per vie non ufficiali, che anche l’opera inaugurale, Macbeth, sarà rappresentata in forma semiscenica e non nel previsto allestimento di Liliana Cavani. Sicuramente il momento di recessione in cui viviamo rende molto problematico uno sviluppo artistico “doppio” come quello della fondazione Arena (anfiteatro in estate, teatro in inverno), tuttavia questi repentini cambiamenti senza tono di ufficialità, chiara e coerente comunicazione al pubblico, producono effetti di disaffezione nei confronti del teatro, come in occasione di quest’Aida alla cui prima in platea si contavano circa duecento presenze.
Direttore e concertatore dell’opera-concerto è stato il M° Fabio Mastrangelo, una presenza abitudinaria a Verona negli ultimi tempi. Egli è bacchetta esperta e sicura, che non si sottrae alle sfide anzi, pare ne trovi slancio. È il caso odierno, dove si è prodigato a buon merito con cast molteplici, e sicuramente il compito non è stato facile perché i partecipanti al concorso dovrebbero avere scarsa frequentazione con il palcoscenico. Inoltre la grande difficoltà dell’esecuzione in forma di concerto sta nel fatto che si è totalmente concentrati sullo spartito senza supporto drammaturgico della scena. Mastrangelo sceglie una lettura romantica senza sconfinare nel patetico, raffinato il buon equilibrio delle scene intimiste con quelle corali, ha dimostrato una grande sensibilità artistica nell’accompagnare i cantanti, in parte emozionati per la prova. Il direttore cerca, con successo, nelle varie sezioni dell’orchestra di cesellare miniature che solitamente all’aperto non si percepiscono, attuando uno sviluppo orchestrale di grande pregio e con sonorità molto ben tracciate. Bizzarra la scelta di non eseguire la danza dei giovani schiavi etiopi nella scena prima del secondo atto.
Grande prova anche del coro, diretto da Armando Tasso, che s’impone come elemento di prima importanza, è pur vero che l’opera è nelle sue “corde” ma proprio la differenza del teatro al chiuso ne ha aumentato, spessore, precisione e morbidezza.
Del cast il solo Zvetan Michailov non aveva partecipato al concorso, questo farebbe presumere la scarsa presenza di tenori, tuttavia non è possibile sorvolare sull’imbarazzante prova del tenore bulgaro, il quale con voce stentorea, grezza e limitata realizzava un personaggio sempre sopra le righe con gravi difetti nel settore acuto. Una scrittura in una Fondazione che desta più d’una perplessità.
La protagonista, France Dariz, avrebbe anche un materiale vocale di primordine ma ancora tutto da raffinare in accenti, colori e fraseggio, tuttavia la sua performance è stata onorevole e le si devono riconoscerle una sicurezza generale.
Elena Serra, Amneris, avrebbe all’opposto della predetta tutte le qualità per essere una valida interprete, misurata e stilizzata, ma la voce è ancora troppo acerba, disomogenea e spesso ingolata.
Buona la prova del baritono Davit Babayants, Amonasro di forte impatto ma altrettanto capace di morbida emissione.
I due bassi, Seung Pil Choi e Desaret Lika, s’impegnavano con valida professionalità, a mio parere il secondo, che interpretava il Re, è stato più corretto e molto musicale, mentre l’altro pur con un materiale vocale interessante e una certa emozione mi è parso ancora troppo accademico.
Completavano onorevolmente il cast Enzo Peroni, un messaggero, e Chiara Fracasso, sacerdotessa, cantanti esterni al concorso, che si adoperavano con buona professionalità.
L’opera è stata eseguita in due parti, con intervallo dopo il secondo atto, e per la cronaca nella seconda parte il cast in generale è parso meno teso e più omogeneo. Il pubblico molto scarso presente in sala decretava a tutti un cordiale applauso di stima.
RIGOLETTO [Lukas Franceschini] Milano, 13 novembre 2012.
La chiusura della stagione del Teatro alla Scala 2011/2012 è stata all’insegna di Giuseppe Verdi con la ripresa di Rigoletto, nello storico spettacolo del 1994 con la regia di Gilbert Delfo. Per la cronaca, in origine era previsto un nuovo spettacolo, una coproduzione internazionale, poi misteriosamente annullata senza conoscerne i motivi.
Se Verdi chiude la stagione odierna, Wagner aprirà la successiva, e a tal proposito sono sorte delle polemiche perché in molti sostengono che spettava ad un’opera di Verdi l’onore dell’inaugurazione. Personalmente trovo queste diatribe superflue e sterili. Verdi è un compositore onnipresente nelle stagioni del rigoletto 2teatro alla Scala, da sempre, il 2013 sarà l’anniversario del bicentenario della nascita di entrambi e la Scala ha deciso di programmare una stagione interamente a loro dedicata, e se Wagner aprirà con Lohengrin il prossimo 7 dicembre, Verdi chiuderà le celebrazioni con l’apertura della stagione successiva con la nuova produzione de La Traviata. Chi prima e chi dopo, dunque, mi pare scelta banale, salvo che non si voglia fare del nazionalismo musicale e allora scendiamo a livelli così bassi che non vale la pena di proseguire oltre.
Tornando al Rigoletto odierno non posso che riconfermare il giudizio espresso anche in precedenti occasioni sull’ottimo spettacolo ben curato di Gilbert Delfo, e una regia tradizionale molto efficace teatralmente ogni tanto non guasta piuttosto di cervellotiche trasposizioni. Doveroso aggiunger la sontuosità e la magnificenza delle scene di Ezio Frigerio e i bellissimi costumi di Franca Squarciapino, che nell’insieme rendono un quadro generale veramente ammirevole.
Il versante musicale ha riservato invece parecchie ombre. S’incomincia dal direttore Gustavo Dudamel, giovane bacchetta emergente e molto sponsorizzata dalla “sua” casa discografica. Dirigere il repertorio sinfonico e il melodramma non è cosa identica o simile, e ne abbiamo avuta prova con questa produzione. Dudamel sceglie tempi molto personali e tendenzialmente lenti, non trova o meglio non riesce in un prolifico rapporto sia con l’orchestra sia con il palcoscenico. Purtroppo sono molti i punti dolenti: gli ottoni nel preludio, le chiusure assordanti degli atti, i tempi enfatici dei duetti e parecchie sfasature nei concertati e nel celebre quartetto del III atto. Una prova non riuscita, per la quale vale la pena di riprendere l’antico concetto, ma tuttora valido, che la gavetta si fa nei teatri di provincia.
Altro aspetto imbarazzante era la presenza di George Gagnidze nel ruolo del protagonista. Poco mi aveva convinto nella Tosca primaverile, ma in Rigoletto la sua prestazione è stata ancor più in diminuendo. Di là dell’aspetto teatrale cui non riesce in un’onesta caratterizzazione del ruolo, gravi sono i problemi tecnici della voce, la quale è ingolata e non proiettata. Non si possono negare alcuni tentativi di fraseggio, solo tentativi non realizzati, perché il legato e il canto di conversazione sono sciatti e la prova evidente si è avuta nel duetto padre-figlia del I atto. La voce corta non gli permette neppure quelle invettive di vendetta che contraddistinguono Rigoletto, una “vendetta” cosi statica e sterile non la ricordavo.
Elena Mosuc ritornava in suo cavallo di battaglia: Gilda. Sarà per i molti anni di carriera, il cambio in parte del repertorio, l’ho trovata molto limitata nel registro acuto e in parte consumata vocalmente. Non è certo aiutata dalla direzione orchestrale, ma tutti i passaggi in zona acuta sono risolti con flebili suoni di mezza voce. Resta tuttavia la volontà della cantante a dare anche una certa espressione al canto, non è manierata, anzi rende il personaggio rigoletto 4efficacemente, ma la resa globale è al di sotto le aspettative.
Il duca era interpretato da Vittorio Grigolo, che in due mesi si esibisce in due produzioni consecutive al Teatro alla Scala. Partito nel primo atto sottotono si è ripreso nel corso dell’opera. Il duetto con Gilda era tuttavia poco sfumato ma nella grande aria del II atto è stato molto eloquente e variegato con un fraseggio ricercatissimo e nessun problema nel passaggio acuto. Non esegue il da capo della cabaletta, peraltro molto ben eseguita, ma ciò non mi è dato a sapere se per scelta sua o del direttore.
Note più infelici per lo Sparafucile di Alkexander Tsymbalyuk, basso poco incisivo nel personaggio e vocalmente disomogeneo nel canto, pur possedendo materiale di rilievo. La Maddalena di Ketevan Kemoklidze, che del mezzosoprano non possiede alcuna peculiarità, canta sempre forzando i suoni gravi ed è molto limitata nel registro acuto, oltre ad un’emissione molto discutibile. Di rilievo il Marullo di Mario Cassi, un po’ sopra le righe il Monterone di Ernesto Pannariello, buoni gli altri cantanti nei ruoli minori, ma del tutto censurabile la Giovanna di Anna Victorova.
Teatro rasente tutto esaurito, ma poco convinto negli applausi che sono stati solo di cortesia.
ERNANI [William Fratti] Cremona, 23 novembre 2012.
Il Teatro Ponchielli di Cremona, come capofila nella coproduzione dei Teatri del Circuito Lirico Lombardo, apre i suoi festeggiamenti per il Bicentenario Verdiano con un nuovo allestimento di Ernani. E fa centro! Ciò che più contraddistingue questo spettacolo ben riuscito, sono l’amalgama, la coesione e l’intesa che si respirano in sala, come se musicisti, cantanti, tecnici e pubblico fossero un tutt’uno. Un altro grande merito va al fatto che il capolavoro del giovane Verdi è rappresentato per intero, con tutti i da capo e l’integrazione della cabaletta di Silva e della seconda aria di Ernani, quasi mai eseguita.
Andrea Cigni, che in molti lavori precedenti ha cercato di portare in scena visioni troppo personali, spesso dubbie o poco chiare, talvolta di gusto discutibile, questa volta è chiaramente ben focalizzato sull’opera e, pur restando lontano da un concetto puramente realistico, riesce a ideare un ambiente che sa unire la tradizione alla contemporaneità, il dramma umano a quello politico, ed è capace di tradurre in immagine i sentimenti del cuore. Il suo compito è coadiuvato dalle belle scenografie di Dario Gessati, semplicemente evocative, efficacissime nel dispiego della terribile vicenda, nel racconto di una storia che parla prima di onore, poi di amore per una donna, per la famiglia, per la patria. Incantevoli i costumi di Valeria Donata Bettella, che sarebbero troppo moderni ed eccessivamente di taglio sciancrato per un allestimento più empirico – mancano i farsetti e le calzamaglie, sostituiti da giacche, cappotti e pantaloni – ma che diventano perfetti in uno spettacolo che ricerca il nuovo attraverso la tradizione e che necessita di rimandi astratti piuttosto che di accenti veristi. Semplicemente commoventi, affascinanti e suggestive le luci di Fiammetta Baldiserri.
Il grande pregio di Antonio Pirolli, sul podio dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, è quello di mantenere saldo l’intero gruppo artistico, dalla buca al palcoscenico. Purtroppo la sua direzione, da un punto di vista interpretativo, non va oltre la norma, sia per mancanza di particolari finezze, sia per qualche segno di discontinuità, troppo lento in alcuni passaggi, eccessivamente stretto in altri.
Il ruolo del protagonista è affidato a Rudy Park, che sortisce mostrando fin da subito la quantità e la voluminosità della sua voce, dotata di squillo limpido e potente. Purtroppo il tenore sembra conoscere solo il canto forte e mezzo forte, pertanto ha bisogno di ingentilire il suo canto, imparare a sfumare i colori e ad ammorbidire l’emissione. Anche l’appoggio, durante l’aria di apertura, non sembra perfetto e qualche nota risulta leggermente stonacchiata, ma ciò pare dovuto solo all’emozione, poiché col procedere della parte la sua performance tende al miglioramento, soprattutto nella difficile “Odi il voto” e nella successiva cabaletta.
Maria Billeri torna sul palcoscenico cremonese dopo il grande successo di Medea e lo fa in perfetta forma. La sua voce notevolmente importante è certamente una delle più adatte ad interpretare il repertorio drammatico verdiano, ma deve compiere ancora molta strada per arrivare là dove può arrivare con la sua vocalità e le sue potenzialità. Le note centrali sono eccellenti, mentre quelle basse, pur essendo piacevoli, sono talvolta prive di corposità, ma la colpa è anche del compositore, che spinge la protagonista fino al si sotto il rigo. Invece gli acuti sono un poco striduli e molti suoni sono imprecisi e poco puliti.
Alessandro Luongo è una vera scoperta nel ruolo di Don Carlo. Già in primo atto presenta un buon uso dei colori e degli accenti e un’ottima resa del personaggio, mentre in secondo atto esegue egregiamente la temibile aria di stampo belcantista. Successivamente sfoggia un fraseggio elegantissimo in “Oh, de’ verd’anni miei” ed è sinceramente emozionante nel concertato “O sommo Carlo”. Per i più tradizionalisti, che vorrebbero un Don Carlo dotato di maggior spessore, è doveroso citare un commento dello stesso Giuseppe Verdi a proposito di un baritono dell’epoca: “come vuol fare con quel vocione a cantare il delicato vieni meco sol di rose”?
Enrico Iori conclude in maniera eccellente la rosa dei protagonisti. Nella sua aria di sortita presenta una perfetta coesione tra colori e sfumature, tra accenti e fraseggio e una totale intesa tra interpretazione vocale e resa del personaggio. Particolarmente intenso e toccante è “Io l’amo… al vecchio misero” in secondo atto, come pure l’intero terzetto conclusivo dell’opera. Un’altra nota di encomio che va all’artista è la sua competenza nella proiezione: spesso, nei concertati, le voci gravi vengono nascoste dal peso corale e orchestrale, mentre la sua voce è sempre udibile in primo piano.
Ottima la resa dei comprimari, Gianluca Margheri nei panni di Jago e Saverio Pugliese in quelli di Don Riccardo. Soddisfacente la Giovanna di Nadiya Petrenko.
Riguardo la prova del Coro del Circuito Lirico Lombardo diretto da Antonio Greco, come spesso è già accaduto in altre occasioni, ci sono elementi che non funzionano appieno. Purtroppo nel bel coro di apertura “Evviva! Beviamo!” alcuni tenori sforano, mentre in “Esultiamo! Letizia ne innondi!” tal altri restano indietro.
Al termine dello serata il pubblico cremonese accoglie giustamente con calore tutti gli artisti impegnati. Lo spettacolo è riuscitissimo ed il merito è di tutti.
OTELLO [Lukas Franceschini] Venezia, 27 novembre 2012.
La Stagione d’Opera 2012/2013 al Teatro La Fenice inizia con una doppia inaugurazione programmando Otello di Giuseppe Verdi e Tristan und Isolde di Richard Wagner. Con un grande sforzo economico, senza le polemiche sorte in altre sedi, il teatro veneziano ha implicitamente e coerentemente reso omaggio al bicentenario della nascita dei due compositori, i quali sono legati in maniera differente ma egualmente importante con la città lagunare.
Otello è la penultima opera di Verdi, e anche se non ottenne da subito il trionfo della critica ma non mancò quello del pubblico, è oggi a tutti gli effetti un capolavoro assoluto non solo dell’intera produzione verdiana ma pure del secolo XIX. E’ altrettanto vero che una prassi esecutiva ha sempre più identificato l’opera con il cantante protagonista a scapito della grande scrittura verdiana, che cosciente o meno, si sposta verso un indirizzo wagneriano che stava diffondendosi in Italia. Altro aspetto che sovente si sottovaluta, è l’ingegnosa macchina del male interpretata da Jago, l’effettiva causa motrice dalla vicenda, tratta dall’ultima parte del dramma shakespeariano, alla quale Verdi e Boito si attengono fedelmente.
Lo spettacolo è creato da Francesco Micheli, affermato regista di rango, che firma una dei suoi migliori momenti, pur con qualche personalizzazione di cui dirò. Con lui collaborano i consueti Edoardo Sanchi e Silvia Aymonino, scene e costumi, i quali si confermano ottimi nei rispettivi compiti. Le scene erano essenziali ma ben disegnate con un cubo rotante al centro che fungeva alle diverse ambientazioni, l’aspetto che prevaleva era in parte claustrofobico ma in piena linea con gli sviluppi psicologici della vicenda. Costumi di grande fattura e cromaticità, anche se non effettivamente d’epoca, ma la visione era ottima. La regia di Micheli è vincente sotto l’azione teatrale perché focalizza alla perfezione il meschino gioco di Jago che manipola e stravolte personaggi e situazioni. La sua presenza fissa in scena rende ancor più credibile tale lettura, cui va aggiunta la caratterizzazione viscida e demoniaca del personaggio. Otello è giustamente visto come l’eroe perdente di fronte al dramma del tradimento, gli altri personaggi sono ben delineati, qualche dubbio desta la trovata di far apparire il coro che tiene in mano delle miniature di vascelli (probabilmente si evoca ?) una situazione ibrida e non efficace teatralmente. Altri dubbi destano nel finale ad esempio la statua della Madonna sulla quale è appeso un rosario con il quale Otello ucciderà la moglie, e l’uscita di scena di entrambi protagonisti defunti che s’incamminano in un ipotetico eden, consci del reciproco sentimento. Il regista sorveglia con garbo tutta la vicenda, scovando ogni minuzioso particolare d’effetto e questo è un gran pregio e cerca nei limiti della fonte di rendere il personaggio di Desdemona più vitale come donna. Bellissimi i velari con impressi simboli veneziani di una storica Repubblica imperante, che rendono ancor più emozionanti molte scene d’assieme.
Non ho mai espresso grandi lodi all’orchestra del Teatro La Fenice, devo però in quest’occasione esprimermi in termini molto lodevoli per la crescita musicale dell’ensemble, il quale forse sotto il carisma di un illustre concertatore, ha fornito prova di magnifica resa e ottima sincronia tra le sezioni. Altrettanto si deve affermare per il Coro, diretto da Claudio Marino Moretti, giunto ad una maturità artistica di alto livello.
Sul podio ritroviamo Myung-Whun Chung, una delle bacchette più apprezzate del panorama internazionale. Chung concerta un Otello vibrante, terso e nervoso, molto curato nei dettagli, assecondato in tale lettura un’orchestra in gran forma, e se proprio si dovesse fare un appunto sarebbe che talvolta le sonorità erano eccessive e coprivano le voci, piccolo neo in un teatro ridotto come la Fenice, che tuttavia non cancella la dirompente energia del temporale iniziale. Una prova riuscita e molto convincente.
Il cast della quinta recita, alla quale ho assistito, ha dimostrato un’onesta professionalità. Walter Fraccaro è un Otello molto impersonale ma regge il temibile ruolo fino in fondo. Non crea un personaggio rifinito, ha la tendenza a misurarsi con la tipica muscolatura vocale retaggio di celebri interpreti del passato, accenna anche a qualche fraseggio e colore ma nel limite delle proprie possibilità, le quali gli permettono di collocarsi nella generica esibizione senza lasciare traccia, ma oggigiorno in tale ruolo non vedo cantanti di molto superiori.
Carmela Remigio ci regala una Desdemona molto vissuta e combattiva, non avara di dolcezze ma riesce rendere il personaggio con un certo mordente senza adagiarsi su comode passività. La sua voce è maturata molto e in questo ruolo ci regala luci particolarmente affascinanti di donna vera.
Più anonimo lo Jago di Dimitri Platanias, il quale sarebbe dotato vocalmente, ma non rende l’infida perfidia che caratterizza il ruolo, è acerbo nel colore e il fraseggio si colloca nella ruotine. Francesco Marsiglia, bravo cantante dotato di bella voce e molto preciso, realizza un Cassio di valore, Antonello Ceron e Matteo Ferrara sono puntali nei loro compiti. Sfasata la prestazione di Mattia Denti, ruvida quella di Elisabetta Martorana. Successo al termine con ovazioni per il direttore alle uscite per i ringraziamenti.
TRISTAN UND ISOLDE [Lukas Franceschini] Venezia, 28 novembre 2012
La seconda inaugurazione consecutiva alla Fenice è stata rappresentata l’opera Tristan und Isolde di Richard Wagner, la quale è considerata da buona parte della critica musicale il capolavoro del romanticismo tedesco e anche la base della musica moderna per come si allontana dall’uso tradizionale dell’armonia tonale.
La vicenda è basata sul poema Tristan di Gottfried von Strassburg, che si desume dalla saga francese di Tristano narrata nel 1300 da Tommaso di Bretagna. Wagner, autore dei libretti di tutte le sue opere, condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale e infarcendola di allusioni filosofiche. Non si può non considerare che la composizione avvenne durante il soggiorno dell’autore presso i coniugi Wesendonck in Svizzera, e fatale fu l’amore, rimasto inappagato, tra il compositore e Mathilde Wesendonck. L’opera stranamente fu rifiutata dalla Hopfoper di Vienna e fu rappresentata solo anni dopo, nel 1865, a München con il sostegno del finanziatore di Wagner, Lugdwig II di Baviera. La critica accolse il lavoro di Wagner con giudizi diametralmente opposti: un capolavoro o una composizione incomprensibile. Tra questi ultimi figura il critico Eduard Hanslick, un conservatore convinto, il cui atteggiamento ispirò il compositore, in seguito, il ruolo di Beckmesser nei Die Meistersinger. Oggi l’opera è considerata senza eccezioni quale apice musicale incontestabile, ponendo al tempo la base di un’anticipazione della musica del futuro ove il leitmotiv è base predominante di una composizione musicalmente variabilissima ma teatralmente statica. Altro elemento non trascurabile è il mare, che rappresenta la forza inesorabile dei sentimenti e dell’anima, e soprattutto indomabili. I protagonisti non vivono un sentimento ordinario, anche ostacolato da avversità umane, bensì inappagabile per sua stessa natura e condannato a vivere e sublimarsi solo con la morte, attingendo alla filosofia di Schopenhauer.
Il regista scozzese Paul Curran ha realizzato un Tristan und Isolde molto statico ma d’indubbio effetto. Le tre scene bellissime che compongono l’opera erano di Robert Innes Hopkins, la cui mano è stata molto meno felice nei banali costumi. Nel primo atto l’ambientazione è nella prua interna di un veliero, nel secondo un giardino povero, al terzo ammiriamo una desolata parziale veduta del castello bretone in cui si ravvisano elementi della nave distrutta. Se si volesse essere pignoli in quest’allestimento mancava il mare, quel mare che è forza naturale, indomabile ed inquieto, elemento fondamentale della triste vicenda amorosa. Non è stata una grave lacuna, si poteva immaginare, ma avrebbe dato uno spessore ancor più affascinante alla visione. Curran disegna i personaggi in maniera molto credibile, ovvio che in Wagner c’è una staticità insita ed immodificabile, ma egli sviluppa la personalità di Isolde in maniera molto affascinante passando dall’irrequieta e vendicativa dell’inizio, all’innamorata e sensuale del secondo atto per arrivare alla delirante ed estasiata dello splendido finale. Memorabile la chiusura primo quando i due amanti dopo aver bevuto il filtro crollano a terra in trance e cercano carponi la mano dell’altro mentre la nave arriva a destinazione, la prua si apre e da una scala maestosa appare imponente Re Marke!
Myung-Whun Chung trova in Wagner un terreno più istintivo rispetto al Verdi del giorno precedente, con un’orchestra al meglio egli scava la partitura in ogni dettaglio, sfumatura e sviluppa un’intensità straordinaria, segue il lungo percorso amoroso dei protagonisti con amorevole fierezza e abbandoni esemplari.
La scrittura di Tristan è probabilmente la più difficile per la voce di tenore, Ian Storey, come tutti i suoi odierni colleghi, non ha le caratteristiche per affrontare lo spartito, ci dobbiamo accontentare ma è giusto almeno lodare l’incisività del fraseggio e le intenzioni, non sempre realizzate soprattutto nella grande scena del III atto. Brigitte Pinter, che debuttava nel ruolo, ha reso una buona prova, la voce non è particolarmente seducente, ma i colori, le emozioni, gli abbandoni e il settore acuto erano finemente realizzati. Efficientissima a livello teatrale, sfaccetta il personaggio nella sua complicata ed alterna personalità.
Brava Tuija Knihtila nel ruolo dell’ancella, in possesso di una voce importante e puntualissima nei sui interventi. Di rilievo il solido, aristocratico e musicale Marke di Attila Jun, un basso che vorrei trovare più spesso nelle locandine dei nostri teatri. Richard Paul Fink era un modesto Kurwenal sia nell’interpretazione sia nel canto. Ottime gli interventi nei ruoli minori di Marcello Nardis, Armando Gabba, e Gian Luca Pasolini, ma è soprattutto Mirko Guadagnini ad emergere nel ruolo del pastore. Trionfale accoglienza al termine.
L’ITALIANA IN ALGERI [Lukas Franceschini] Cremona, 30 novembre 2012.
Dopo il grande successo nella produzione di Ernani, il Teatro Ponchielli di Cremona prosegue la Stagione Lirica 2012 con la ripresa de L’Italiana in Algeri nello storico allestimento di Pier Luigi Pizzi.
La stagione Aslico 2012 ha riproposto l’opera di Gioachino Rossini L’italiana in Algeri, autentico gioiello, mai tramontato, dell’opera buffa. Creata per il teatro la Fenice nel 1813 è il primo vero grande successo del pesare in uno spartito esuberante, pieno d’inventiva, eccelsa vitalità musicale su un libretto efficace e coinvolgente, portando il pubblico allo spontaneo sorriso, se non grassa risata, ma anche al gusto della malinconica armonia sempre contraddistinta dalla nuova scrittura che caratterizzerà il primo ottocento. Alla prima Rossini disponeva di due autentici mattatori sia vocali sia quali interpreti: Marietta Marcolini e Filippo Galli, gli stessi che si specializzarono in molte altre opere dell’autore e portarono al successo veneziano L’italiana. Tema dell’opera è l’astuzia femminile che rende fesso il maschio esuberante e vanitoso, qui un istrionico turco intento a rimpolpare il proprio harem. La felice scrittura e il ruolo così sfaccettato ha attratto da sempre le grandi primedonne rossiniane per cui l’opera non è mai uscita di repertorio anche se solo negli ultimi cinquant’anni è titolo onnipresente nei cartelloni teatrali.
L’allestimento proposto nel circuito lombardo è quello creato da Pier Luigi Pizzi alla fine degli anni ’80 per una grande ed in dimenticata interprete di Isabella, Lucia Valentini Terrani, che cantò in questo spettacolo in prima all’opera di Montecarlo e successivamente in molti altri teatri. Il gusto del regista milanese crea un ambiente classico ma sviluppato sulla dirompente comicità che è insita in tutta la partitura, mentendo in evidenza il contrasto tra cultura italiana e islamica ( e non scendiamo in inutili conflitti oggi purtroppo di tema politico, qui prevale l’ironia e la comicità). La ripresa dello spettacolo è in questa occasione (per tutte le recite Aslico) affidata a Paolo Panizza, per molto tempo assistente di Pizzi, del quel quale conosce intenzioni e modi teatrali alla perfezione. Tale conoscenza gli ha permesso di realizzare uno spettacolo dirompente in comicità non trascurando i risvolti patetici e sentimentali. Panizza ha mano felice soprattutto nelle scene d’insieme ove unisce scuola ed inventiva personale rilevante, rispetto l’originale sono sicuramente più frenetici il finale primo, la scena del caffè e il terzetto del “Pappataci”. Credo avesse a disposizione anche una compagnia attoriale molto predisposta ad una recitazione serrata e coinvolgente, cui è arriso un insieme di altissimo livello. Pizzi ha mano felice nei costumi in particolar modo quelli di Isabella, creato a suo tempo per la dirompente Valentini, ma ancor oggi d’ottima fattura; la scena quasi fissa evidenzia l’esperto architetto nel ricreare ambienti d’indubbio fascino arabesco.
L’orchestra dei Pomeriggi Musicali è un ottimo ensemble ben preparato e funzionale, il quale ben si adopera sotto la bacchetta di Francesco Pasqualetti, giovane direttore che in Rossini trova un autore molto congeniale senza mai perdere le fila dell’intricata partitura, avesse dalla sua anche un estro più brillante sarebbe quasi perfetto, ma avrà tempo per ricercarlo. La compagnia di canto nel suo insieme è molto funzionale, e ben amalgamata nello spettacolo, pur con i doverosi distinguo. Carmen Topciu è abbastanza discutibile come mezzosoprano in quanto la zona grave è molto artefatta e forzata, mentre il settore acuto ben svettante. Ella tuttavia è una buona professionista e ben si adopera in un canto fiorito quanto a volte sensuale, non trovando sempre il giusto fraseggio anche a causa del volume limitato. Il Mustafà di Abramo Rosalem è molto inferiore ad una sua prestazione bolognese dello scorso giugno, probabilmente non era in serata, resta tuttavia molto interessante il timbro ma in questa occasione non ha espresso grandi qualità belcantistiche. Inappropriato il tenore Enea Scala per una voce che regge solo la zona centrale, e non sempre, il registro acuto è fastidiosamente schiacciato e le agilità lo mettono sovente in difficoltà. Bruno Taddia è un Taddeo simpatico ma spesso sopra le righe per una recitazione troppo caricata, inoltre la sua voce tendenzialmente chiara non è sempre omogenea e alterna momenti più o meno convincenti. Brava Sonia Ciani nel non facile ruolo di Elvira e corretta la Zulma di Alessia Nadin. Un particolare apprezzamento per Davide Luciano cantante molto forbito che ci ha fatto apprezzare la “mozartiana” aria delle Femmine d’Italia. Professionale la resa del coro del circuito lombardo e al termine meritato successo per tutta la compagnia.
L’ITALIANA IN ALGERI [William Fratti] Cremona, 30 novembre 2012.
Creato per l’Opéra di Montecarlo a inizio anni Novanta, lo spettacolo che vuole una Isabella molto glamour e grimaldesca, appare ancora efficace da un punto di vista visivo, ma fa sentire i suoi pesanti vent’anni sia nella staticità dell’impianto scenico, sia nello sviluppo del lavoro di regia. La ripresa a cura di Paolo Panizza contribuisce molto positivamente allo svecchiamento dell’opera, ma non potendo stravolgere l’impianto originario di Pizzi riesce a ottenere solo in parte l’effetto desiderato. Molto probabilmente se avesse avuto la facoltà di utilizzare maggiormente coro e figuranti, come di sua consuetudine, avrebbe sortito il risultato desiderato. È comunque una produzione di ottimo livello e da vedere.
Francesco Pasqualetti, alla guida dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, compie il proprio dovere senza però centrare l’intenzione rossiniana, così contribuendo alla monotonia della serata. Non manca di gusto, ma difetta principalmente nell’accento.
Carmen Topciu è ben calata nei panni della protagonista e sfoggia una voce calda e ambrata, sostenuta da una bella intonazione e un’omogenea linea di canto. Purtroppo il volume, la proiezione e la timbratura non sono ancora ben risolte ed è spesso coperta dalla musica. In effetti la pagina migliore è “Per lui che adoro” dove i soli pizzicati dell’Orchestra le lasciano ampio spazio per mostrare le sue capacità.
Enea Scala è un Lindoro dalla vocalità chiara e limpida, dotato di buon fraseggio ed uso della parola, generoso nel canto e prodigo di variazioni nel da capo della cavatina di sortita.
Abramo Rosalen, nel ruolo di Mustafà, appare incerto e molto affaticato, con diversi problemi sui fiati. Si spera che si tratti solo di un’indisposizione temporanea.
Bruno Taddia torna a vestire i panni di Taddeo, nello stesso spettacolo, dopo dieci anni. La sua esperienza è indubbia, tanto nella resa del personaggio, quanto nel buon uso del fraseggio. Riguardo la qualità del canto, l’esecuzione non è completamente omogenea e alcune pagine risultano migliori di altre.
La parte di Elvira non è perfettamente nelle corde di Sonia Ciani, che appare molto acerba e acidula negli acuti.
Corretta la Zulma di Alessia Nadin.
Molto efficace, soprattutto vocalmente, il ruolo di Haly interpretato da Davide Luciano.
Adeguata la prova del Coro del Circuito Lirico Lombardo diretto da Diego Maccagnola.
DON GIOVANNI [William Fratti] Genova, 2 dicembre 2012.
Il Teatro Carlo Felice di Genova apre la Stagione Lirica 2012-2013 con Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, nella produzione firmata da Elisabetta Courir, proveniente dall’Opera Giocosa di Savona e dal Teatro Sociale di Rovigo.
Il fatto che uno spettacolo di provincia inauguri il cartellone di un ex ente lirico non sembra essere di buon auspicio, tanto più se si tratta di un allestimento un poco approssimativo, fatto di qualche asse e qualche cassa di legno, posizionato su un palcoscenico altamente tecnologico e dotato di torre scenica.
La semplicità e l’austerità dell’apparato predisposto da Guido Fiorato, con le luci di Luciano Novelli, potrebbe avere un valore se fosse il luogo di svolgimento della vicenda sviscerata da una regia improntata sulla parola, sul gesto, sulle sfumature caratteriali di ogni singolo personaggio, ma per fare questo occorre una genialità ben poco comune. Pertanto il risultato ottenuto dal gruppo di lavoro guidato dalla Courir diventa noioso e antiquato.
Sul fronte musicale Giovanni Di Stefano non aiuta il pubblico a tenere gli occhi aperti, se non nei concertati, che appaiono più un ammasso confusionario che non pagine scritte dal genio salisburghese. Talvolta l’orchestra è tanta e tende a snaturare il carattere classicheggiante del dramma.
Andrea Concetti riesce a dipingere un personaggio accattivante, ottenendo anche un esito discreto nell’esecuzione vocale, ma non va oltre la media. Nel celebre duetto “Là ci darem la mano” è prodigo di colori e sfumature e la serenata “Deh, vieni alla finestra” è ben riuscita, elegante e di buon gusto – ottimo il mandolino in scena di Amelia Saracco – ma lo stesso non vale per la successiva “Metà di voi qua vadano”.
Il Leporello di Maurizio Muraro è ben efficace, più nella resa degli accenti e nel recitativo che nel cantabile. In effetti non spicca per musicalità in “Madamina, il catalogo è questo”, ma si fa apprezzare per tutto il corso dell’opera per la qualità del fraseggio e la resa del personaggio.
Sonia Ganassi, come sempre, è interprete di altissima levatura e professionista di notevole importanza, ma come già accaduto di recente, negli ultimi tempi ha perso di rotondità e purezza di suono negli acuti e talvolta sembrano essere quasi striduli. Ciononostante la sua linea di canto, nonché la tecnica che la sostiene, restano di innegabile valore e “Mi tradì, quell’alma ingrata” è interpretata col giusto accento. Peccato che la sua Donna Elvira sia resa, presumibilmente per volere della regia, in maniera così remissiva.
Jessica Pratt è una Donna Anna raffinata, piacevole nei pianissimi e nei filati naturali, abile nel fraseggio. Il suo personaggio appare più un’eroina romantica che classica, ma non è certo aiutata nella recitazione da questo tipo di spettacolo.
Paolo Fanale torna al ruolo del suo debutto ed interpreta con eleganza e raffinatezza un Don Ottavio di classe. Il suo gusto musicale è totalmente rispettoso della grazia e dello stile mozartiano e, al di là di una linea di canto sempre omogenea e ben impostata, sfoggia un ottimo controllo dei fiati, prodigandosi in toccanti mezze voci in entrambe le arie e nel finale dell’opera.
Vassiliki Karayanni è una Zerlina appena efficace solo nella resa del personaggio. Purtroppo la voce è spesso tirata e stridula e se non è affetta da indisposizione e ciò accade in un ruolo relativamente semplice come questo, forse ci sono dei problemi che vanno risolti al più presto.
Francesco Verna è un Masetto adeguato ed opportuno nell’esecuzione vocale ed interpretativa.
Merita una menzione a parte l’interpretazione del Commendatore di Luigi Roni, artista che gode di quarant’anni di carriera e ancora di un’ottima presenza scenica, ma la voce inizia a subire i segni della senescenza. Purtroppo in tutto il finale dell’opera, essendo anche posizionato lontano dal proscenio, non si ode pressoché nulla.
Sufficiente la prova del Coro del Teatro Carlo Felice diretto da Patrizia Priarone.
LUCIA DI LAMMERMOOR [William Fratti] Cremona, 6 dicembre 2012.
Dopo solo cinque anni di assenza dal Teatro Ponchielli di Cremona, il massimo capolavoro di Gaetano Donizetti conclude la Stagione Lirica 2012, con un nuovo allestimento firmato dall’estro di Henning Brockhaus.
Lo spettacolo creato dal regista tedesco è altamente suggestivo e, discostandosi da una visione realistica, nonché da un’epoca ben precisa, è fatto di sentimenti e di emozioni ancora attuali e contemporanei. Il lavoro di Brockhaus, con luci e proiezioni davvero accattivanti, coadiuvato dalle affascinanti scene a impianto fisso, altamente efficaci, di Josef Svoboda e dai bei costumi di Patricia Toffolutti, sa richiamare il desiderio di vendetta, il sapore dell’innocenza, il profumo del mare, il gusto del tradimento e l’odore della morte. L’unico neo è rappresentato dalle coreografie di Emma Scialfa, che durante la scena del matrimonio sono parse prima troppo monotone e quasi fastidiose – col continuo sventolare delle gonne di due figuranti – poi incomprensibili – muovendosi come due bambole rotte – mentre all’inizio del terzo atto sono addirittura troppo movimentate – forse a voler contrastare l’immobilità del coro.
Matteo Beltrami, come scritto nel programma di sala, si interroga sull’atteggiamento filologico che occorrerebbe assumere nel mettere in scena Lucia e, molto intelligentemente – misurando anche la vocalità degli interpreti a disposizione – propone una versione che sta a metà strada tra lo spartito originale, la tradizione e la novità. La prima aria di Raimondo e il duetto della torre sono rimessi al suo posto; come pure buona parte delle cadenze. Forse sarebbe stato troppo chiedere il ripristino di ogni frase e tutti i da capo, anche se molti ci sono. Poco interessante – se non per continuità con l’introduzione di “Regnava nel silenzio” – la scelta dell’arpa per accompagnare la cadenza della scena della pazzia. La sua direzione è più attenta alla pulizia del suono che non alle sfumature e in alcuni punti il peso orchestrale è eccessivo, ma nel complesso la prova è piuttosto buona.
Ekaterina Bakanova, vincitrice del Concorso As.Li.Co, veste i panni di una protagonista eterea e sfoggia un bel timbro rotondeggiante nonostante sia un lirico leggero. Considerando la sua giovane età e il fatto che ha debuttato il ruolo solo da pochi mesi, risolve la parte abbastanza bene, ma è lontanissima dal poter essere anche solo affiancata alle grandi interpreti che oggi vestono i panni di Lucia. Nonostante questo personaggio sia diventato terreno esclusivo dei soprani di coloratura – principalmente a causa delle numerosissime variazioni con sovracuti mai scritte da Donizetti – la tessitura dei primi due atti è abbastanza pesante e spinge la Bakanova a sporcare molte note alte e gran parte dei filati, oltre a prendere qualche libertà in più nell’alleggerire la parte, non attraverso la tecnica di canto, ma modificando le note dello spartito.
Edgardo è il giovanissimo Alessandro Scotto di Luzio, anch’egli molto leggero, ma elegante e molto musicale, ben omogeneo nel cantabile. Certamente manca di intensità nell’accento e la difficile aria finale contiene qualche incertezza, ma se continuerà a frequentare il giusto repertorio non potrà che migliorare.
Serban Vasile è un Enrico insicuro e poco intonato nell’aria di sortita, con volume basso e voce spesso coperta dall’orchestra. Gli riesce meglio il duetto con Lucia, ma la sua prova raggiunge appena la sufficienza.
Giovanni Battista Parodi è l’unico solista a portare sul palcoscenico un certo tipo di esperienza e sovrasta di gran lunga tutti i colleghi. Nella prima aria sfoggia solidità nelle note basse, sicurezza negli acuti ed eleganza nel cantabile; mentre con “Dalle stanze ove Lucia” mostra espressività di fraseggio e d’accento.
Matteo Falcier è un Arturo ben intonato e molto sonoro; Cinzia Chiarini è un’Alisa dalla voce corposa ma ancora da amministrare; Alessandro Mundula, oltre a dimenticare la parte e a tirare indietro, è anche un po’ stonato, ma si spera sia dovuto ad un’indisposizione temporanea.
Il Coro del Circuito Lirico Lombardo diretto da Antonio Greco è disastroso nell’apertura “Percorriamo le spiagge vicine”, ma migliora col procedere dell’opera. Ovazione per la protagonista, successo e applausi tiepidini per tutti, tranne che per i figuranti, ingiustamente colpiti dal pubblico che forse voleva contestare alcune scelte di regia.
LA BOHÈME [Simone Ricci] Roma, 15 dicembre 2012.
Il 2012 del Teatro Don Bosco si chiude con un titolo evocativo e commovente, La Bohème: l’opera di Puccini ha mantenuto intatto il suo fascino e romanticismo sin dal giorno della sua prima rappresentazione, il 1° febbraio del 1896.
La Bohème, così come non lascia grande impressione sull’animo degli uditori, non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico, e sarà bene se l’autore, considerandola come l’errore di un momento, proseguirà gagliardamente la strada buona e si persuaderà che questo è stato un breve traviamento dal cammino dell’arte. Per fortuna si sbagliava di grosso La gazzetta piemontese (quella che è oggi La Stampa) all’indomani della première della celebre opera di Giacomo Puccini, nel 1896. Le novità ardite di quella musica, insomma, non furono capite immediatamente, ma la storia ha dato ragione a questa Bohème, oggi tra le composizioni più rappresentate in assoluto al mondo. La scelta del Teatro Don Bosco di Roma e della sua quinta stagione lirica non poteva quindi che essere azzeccata, oltre che ambiziosa.
L’obiettivo dell’associazione Alfa Musicorum Convivium è quella di far avvicinare giovani e meno giovani al repertorio lirico, un compito importante e da non sottovalutare. La serata conclusiva di questa Bohème a cui ho assistito può essere paragonata a un motore diesel: ogni quadro è stato un crescendo, con i cantanti in scena che diventavano consapevoli dei loro mezzi e concludevano degnamente il celebre capolavoro pucciniano, dopo un inizio difficoltoso. Il cinema-teatro Don Bosco può forse sembrare un luogo poco adatto all’opera lirica, ma in realtà può contare su un’ottima acustica e una buona visibilità. La regia di Mary Ferrara, con la supervisione di Antonio Nobili ci ha regalato una Parigi essenziale, ma allo stesso tempo evocativa (il progetto scenografico è di Anna Maria Recchia).
Come già anticipato, il primo quadro è stato forse indebolito da qualche stonatura di troppo, ma il proseguo della serata ha fatto dimenticare tutto. Il Rodolfo di Matteo Sartini non si è fatto intimidire da un’iniziale “stecca” e dal secondo quadro in poi ha convinto maggiormente il pubblico; la recitazione, poi, non è stata da meno, tanto che il suo pianto disperato nel finale d’opera ha commosso e non poco. Lo stesso discorso può essere fatto per Fausta Ciceroni, una Mimì delicata e profonda, magari leggermente intimidita nella sua Mi chiamano Mimì, ma poi protagonista di un vero e proprio crescendo “rossiniano”. Dei quattro amici bohémien meritano un cenno Marcello e Colline. Nel ruolo del pittore si è ben comportato Sang Hyum Jo, baritono coreano che è in possesso di un timbro rassicurante e potente allo stesso tempo.
Per quel che riguarda il filosofo, Alessio Magnaguagno non ha fatto pesare più di tanto i suoi problemi influenzali e si è fatto apprezzare per una toccante Vecchia zimarra, ingiustamente conclusa senza applausi. Molto promettente il debutto di Simone Senneca, uno Schaunard che non ha mai voluto strafare e che può ancora essere migliorato per risultare davvero perfetto. Il cast principale era poi completato da Margarita Marban, molto a suo agio nel ruolo di Musetta, comica e vamp allo stesso tempo come si addice alla stravagante fiamma di Marcello, i suoi acuti hanno raggiunto buoni livelli, con un vibrato che può essere reso ancora più omogeneo, e da Silvio Riccardi, abile nel divincolarsi nel doppio ruolo del padrone di casa Benoît e in quello di Alcindoro, divertente ed espressivo.
Per il resto si segnalano Alessandro Napolitano nel doppio ruolo di Parpignol e del doganiere, Giacomo Balla, l’altro doganiere, e la piccola Michela Napolitano, uno dei bambini alle prese con i giocattoli dello stesso Parpignol. Di ottima fattura la direzione di Luciano Bellini, direttore d’orchestra capace di rendere perfettamente le tipiche “trasgressioni” musicali di Puccini, amalgamando la dolcezza e il romanticismo con la serietà delle varie situazioni. L’orchestra Eptafon è stata più che affiatata e ben contenta di regalare al pubblico anche le note dell’inno di Mameli, una degna conclusione che ha contagiato il teatro. Buona la prova del coro Mirabiles Cantores, diretto da Marco Boido e Mihee Kim, nonostante le angustie del palco che non ha consentito di rappresentare al meglio il Quartiere Latino del secondo quadro, con la tradizionale moltitudine di personaggi e figure.
Insomma, si è trattato di un importante commiato dal 2012, in attesa che il prossimo anno si celebrino degnamente i duecento anni dalla nascita di Giuseppe Verdi: il cartellone promette bene, con il Barbiere di Siviglia a gennaio, il Requiem verdiano a marzo, concludendo il tutto con altri due titoli davvero interessanti, Attila e Traviata. Il tutto in attesa che la sesta stagione sia inaugurata da un ambizioso e allettante Don Carlos.
LE NOZZE DI FIGARO [William Fratti] Piacenza, 16 dicembre 2012.
Dopo il grave insuccesso dell’opera inaugurale, la Stagione Lirica del Teatro Municipale di Piacenza si riprende magnificamente con una nuova produzione davvero riuscita de Le Nozze di Figaro del genio salisburghese.
Rosetta Cucchi torna, molto felicemente, al suo repertorio d’elezione. Già Mozart e Da Ponte, e prima di loro Beaumarchais, avevano scosso gli animi del pubblico portando in scena una commedia attualissima. Ora la regista pesarese, partendo dallo stesso presupposto, abbandona pizzi e merletti a favore di un più moderno e accattivante garage di un’ipotetica villa americana degli anni Cinquanta. E la scelta è vincente, soprattutto nel gioco delle piccole scenografie che escono dai portoni, ideate dall’abilissimo Tiziano Santi, nei bellissimi costumi di Claudia Pernigotti, che ha saputo disegnare una Contessa che farebbe invidia alla First Lady, e nelle luci suggestive di Daniele Naldi, soprattutto nel notturno quarto atto. È evidente che tutto l’impianto rientra nella categoria degli allestimenti a basso costo, ma ciò sta a sottolineare ancor di più che per creare un buono spettacolo occorrono le giuste idee e non necessariamente i milioni di cui i teatri di tradizione non dispongono più.
L’altra carta vincente sta nelle mani di Mirella Freni, che dopo cinquant’anni di palcoscenico ha deciso di dedicarsi interamente all’insegnamento e i giovani che si sono esibiti in questa produzione, oltre alle loro qualità intrinseche, hanno portato in scena la tecnica di canto italiana. Grazie alla celebre artista modenese, il pubblico del Municipale ha potuto ascoltare dei giovani davvero ben preparati e, al termine dello spettacolo, le è stato tributato un sincero e toccante applauso, meritatissimo.
Ruzan Mantashyan è una Susanna dalla voce soave, abilissima nel cantabile, già in possesso di una morbida linea di canto. Il suo timbro è leggermente pungente in acuto, ma molto probabilmente tenderà a rotondeggiare con l’avanzare del tempo, se la giovane cantante continuerà con questo tipo di studio. Notevole è l’esecuzione della seconda aria, dove la soprano, con eleganza e capacità di fraseggio, mostra padronanza anche nelle note più basse e nei pianissimi.
Considerazioni simili valgono per Nozuko Teto nel ruolo della Contessa: la linea di canto è abbastanza omogenea e buona è la preparazione tecnica, pur con note acute piuttosto acidule e una dizione alquanto sommaria, ma evidente è il tracciato appreso dalla formazione che, considerata la sua vocalità davvero importante, certamente fiorirà nei prossimi anni.
Valeriu Caradja è un Conte molto elegante, dalla voce particolarmente vellutata, un poco debole nelle note più gravi. Lo stesso ostacolo infligge qualche problema anche al Bartolo di Fumitoshi Miyamoto, mentre il Basilio/Don Curzio di Matteo Lippi è ben squillante.
Sufficiente la prova di Sara De Matteis e Felipe Correira Oliveira nelle parti di Barbarina e Antonio.
Tra i giovani studenti ben preparati spicca la carriera quasi ventennale di Simone Alberghini, che col suo Figaro porta sul palcoscenico del Municipale di Piacenza l’intenzione mozartiana, espressa tanto nell’interpretazione del personaggio, quanto nel canto sempre omogeneo, di cui il compositore austriaco, per dirlo con le parole di Mirella Freni, “è un’imprescindibile palestra sul piano della tecnica”.
Lo affianca l’intrigante Cherubino della brava Annalisa Stroppa, che col suo bel timbro e abilità nell’uso dei colori e degli accenti, esegue il ruolo con ottimi risultati. Conclude il cast la Marcellina di Barbara Aldegheri, forse più efficace nella resa del personaggio che in quella vocale.
Sul podio della brava Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna è Aldo Sisillo, che dirige senza infamia e senza lode. Nella prima parte dell’opera il suono è un po’ forte, ma fortunatamente negli ultimi due atti se ne rende conto e ridimensionandosi sortisce un miglior effetto, soprattutto nelle voci.
Buona la prova di Giuliana Panza al clavicembalo e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati.