Spettacoli

Il nome delle rosa – Teatro alla Scala, Milano

Il nome della rosa, la nuova commissione, in anteprima mondiale, del Teatro alla Scala. 

“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità” è questo l’incipit del prologo de Il nome della rosa, il capolavoro di Umberto Eco, edito per la prima volta nel 1980. Un capisaldo del postmodernismo italiano, un libro summa del sapere che non può che iniziare citando  l’Inno al Logos del Vangelo secondo Giovanni, per poi continuare toccando decine di generi letterari, citazioni e autori. È facile riconoscere nel volume, ad esempio, il rimando a Conan Doyle o al Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore, passando poi per Thomas Mann, ma soprattutto per Jorge Luis Borges, da cui Eco prende i concetti filosofici di labirinto e biblioteca. Un’opera complessa ed affascinante, che ha avuto grande successo di critica e pubblico tanto da essere trasposta anche in un noto film di Jean-Jacques Annaud e più recentemente in una serie televisiva.

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Kate Lindsey

E proprio lo sperimentalismo di Eco, al tempo stesso coltissimo, ma anche capace di parlare alle masse, ha convinto Francesco Filidei a tentare una operazione in musica similare a quella letteraria. Si è partiti dalla trasposizione del romanzo in un libretto scritto dallo stesso musicista con Stefano Busellato, Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti. Un adattamento che prova a rendere il più lineare possibile la complessità de Il nome della rosa, e che nel complesso centra l’obbiettivo, restituendo una storia fedele e coerente all’originale, ed anche coinvolgente, pur al netto di qualche ridondanza di troppo. La produzione che debutta alla Scala è frutto di una commissione in collaborazione con l’Opera National de Paris, dove arriverà nel 2028 e in coproduzione con la Fondazione Carlo Felice di Genova, un progetto promosso e sostenuto da SIAE.

Musicalmente ci troviamo di fronte, più che ad una opera lirica, nella più classica delle accezioni, ad una complessa ed articolata cantata scenica: una sovrapposizione di stili e stilemi che, ad una prima analisi superficiale, può ingenerare nell’ascoltatore un certo smarrimento. Con una attenta disamina, ed adiuvato dal libretto di sala, il pubblico può capire come l’autore abbia organizzato il componimento secondo uno schema geometrico rigoroso e ben definito come avviene peraltro anche nella fonte letteraria. La struttura è composta da un prologo, due atti di dodici scene (o meglio “stanze”) e una sorta di epilogo (denominato Ultimo folio). Una struttura narrativa “frattale” che, con il suo aprirsi e richiudersi simmetrico, ricorda la forma di una rosa. Filidei ha voluto poi, in una sorta di scrittura postmoderna che guarda ed omaggia Eco, creare un dialogo aperto con l’intera storia della musica. Si riconoscono, ad esempio, facilmente i rimandi al canto gregoriano, al Rosenkavalier di Richard Strauss, al Falstaff di Giuseppe Verdi (memorabile la ripresa dell’incipit della fuga finale durante la “rissa” tra francescani e delegati papali) e ancora le melodie di Olivier Messianen, Giacomo Puccini e Camille Saint-Saëns. Ovviamente il lavoro del compositore non si limita a citazioni ma queste ultime si mescolano al presente con la ricerca di soluzioni sonore nuove, variegate, frastagliate e persino dissonanti. Una sperimentazione che, seppure non del tutto inedita, con il suo approccio anche materico al fraseggio musicale (battere di mani, scivolare di stoviglie, sfregamento di polistirolo con gli archi), crea nell’ascoltatore un certo senso di inquietudine, in linea con l’atmosfera gotica del racconto. In sintesi, ci troviamo di fronte ad un prodotto davvero ben confezionato, forse non sempre immediato, e a tratti forse un po’ ridondante ma che, con il suo peculiare ventaglio di soluzioni ritmiche e timbriche proposte, riesce ad avvincere la curiosità del pubblico e a catturarne l’attenzione durante l’intricato evolversi degli eventi della trama. 

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Il nome della Rosa, Teatro alla Scala, Milano

Al complesso di citazioni e rimandi non sfugge, giustamente, la parte visiva dello spettacolo che è affidata per la regia a Damiano Michieletto e per le scene a Paolo Fantin. Ci troviamo in uno spazio nero e traslucido, dove incombe la massa del labirinto ottogonale che rimanda a Castel del Monte, reso con teli e luci, una struttura che pare quasi dotata di vita propria. In questo spazio compaiono installazioni artistiche che a volte ricordano le teche di Damien Hirst con i corpi degli assassinati che fluttuano, e a volte rimandano al mondo medievale. È proprio qui che lo spettacolo dà il suo meglio a partire dalle primissime scene dove da un bassorilievo che ricorda il grande portale di Moissac, a tema escatologico, escono i corpi dei risorti, bravissimi ballerini e mimi che si muovono sulle coreografie di Erika Rombaldon. Ci si stupisce poi per il grande capolettera miniato che prende vita e per i balli enigmatici di animali tratti da bestiari medievali. Uno dei momenti più riusciti resta quello in cui compare una riproduzione alta cinque metri ispirata alla Madonna di Lucca di Jan van Eyck dove il protagonista Adso si arrampica per prendere il posto del Bambino. Coloratissimi e fantasiosi i costumi di Carla Teti che contrastano fortemente con l’ambiente scuro. Sempre perfette le luci di Fabio Barettin. Uno spettacolo di visioni grandiose e riuscitissime che tiene alta l’attenzione del pubblico con continui colpi di scena. 

La buona riuscita di questa “prima” è assicurata anche dall’eccellente livello del comparto musicale.

Ingo Metzmacher, sul podio, è attentissimo a realizzare le intenzioni del compositore e lo fa con un gesto prezioso e misurato, capace di dialogare stupendamente con la compagine orchestrale. Grazie all’encomiabile apporto del gesto direttoriale riusciamo a percepire perfettamente le diverse soluzioni cromatiche sviluppate da Filidei in ognuna delle ventiquattro scene dell’opera. Una prova maiuscola avvalorata, senza dubbio, dallo splendore della Orchestra scaligera che affronta il cimento di una scrittura a dir poco insidiosa, non solo con precisione e duttilità encomiabili ma anche, e soprattutto, con una naturale predisposizione alla sperimentazione sonora. 

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Lucas Meachem

Altrettanto di livello è la prestazione del Coro scaligero, guidato come sempre dall’eccellente Alberto Malazzi. Una esecuzione che sottolinea, oltre alla ben nota professionalità di questi artisti, anche l’eccellente preparazione e serietà dimostrate nell’affrontare un fraseggio musicale nuovo ed inusuale rispetto a quello proprio di un repertorio più tradizionale. Sempre al Coro scaligero spetta, inoltre, il compito di pronunciare i versi spettanti, secondo libretto, al vecchio Adso, la cui interpretazione, resa con una lieve amplificazione, conferisce un effetto di sinistro mistero.

Di rilievo, poi, anche il contributo del Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala, sotto la direzione di Bruno Casoni.

La scrittura vocale dei personaggi si sviluppa per lo più attraverso un canto declamato, secondo uno schema che si sviluppa attraverso tra ampi recitativi frammezzati da alcune arie. 

I ruoli principali sono sostenuti da Kate Lindsey e Lucas Meachem interpreti, rispettivamente, del giovane Adso da Melk e  dell’arguto Guglielmo da Baskerville. Se della prima lodiamo la freschezza di una vocalità screziata e ben tornita, del secondo  metteremo in evidenza la innata nobiltà di una linea di canto morbida e ben dispiegata. Significativo, inoltre, l’affiatamento vocale e scenico tra i due artisti.

A Gianluca Buratto, dal mezzo scuro e tonante, spetta il compito di portare sulla scena il “cattivo di turno”, ovvero il perfido Jorge da Burgos.

Un plauso particolare merita, poi, Roberto Frontali, per la sua coinvolgente interpretazione dell’enigmatico Salvatore. Una prova avvalorata, in particolare, dalla incisività di un fraseggio espressivo e di sicuro impatto teatrale. 

Katrina Galka, dalla presenza scenica etera e diafana, porta sulla scena il personaggio della Ragazza del Villaggio, prima, e della Statia della Vergone poi. Un’artista che emerge grazie alla freschezza di una vocalità facilmente proiettata nella regione medio-acuta.

Remigio da Varagine ha la voce e le sembianze di Giorgio Berrugi, la cui prova si pone in bella evidenza per la luminosità di un mezzo ampio e di segnata espressività.

In gara di bravura sono poi, Daniela Barcellona e Carlo Vistoli.

La prima dipinge l’inquisitore Bernardo Gui, con una vocalità ambrata e di buon volume, innestata su di un accento quanto mai ieratico e solenne.

Il secondo, poi, nel duplice ruolo di Berengario da Arundel e Adelmo da Otranto, è un portento di dominio tecnico e consapevolezza interpretativa. Proprio l’aria di Berengario, eseguita con una linea vocale duttile e compatta, si ascrive tra i momenti più significativi della serata.

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Il nome della Rosa, Teatro alla Scala, Milano

La ieraticità di Abbonone da Fossanova risuona perfettamente nel canto di Fabrizio Beggi, così come l’arguzia di Severino da Sant’Emmerano viene ben sottolineata dal naturale squillo della linea di Paolo Antognetti.

Mercuriale e di singolare incisività interpretativa il Malachia di Owen Willetts, preciso e naturalmente musicale Leonardo Cortellazzi, doppiamente impegnato come Venanzio e Alborea.

Efficace è, inoltre, Adrien Mathonat che, con voce ampia e voluminosa, caratterizza il personaggio di un cuciniere e di Girolamo vescovo di Caffa.

Completano la locandina, dalle fila del coro, Cecilia Bernini, Ubertino da Casale, Flavio D’Ambra, Michele da Cesena, Ramtin Ghazavi, Cardinal Bertrando e Alessandro Senes, Jean d’Anneaux.

Lo spettacolo, al netto di qualche defezione durante la seconda parte, registra una grande partecipazione di pubblico che riserva, al termine, grandi consensi a tutta la compagnia con un più spiccato entusiasmo, tra gli altri, per Metzmacher, Lindsey e Meachem.

IL NOME DELLA ROSA
Opera in due atti
Libretto di Francesco Filidei e Stefano Busellato
con la collaborazione di Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti
Libero adattamento del romanzo di Umberto Eco
Il nome della rosa edito da La Nave di Teseo
Musica di Francesco Filidei

Adso da Melk Kate Lindsey
Guglielmo da Baskerville Lucas Meachem
La Ragazza del Villaggio/Statua della Vergine Katrina Galka
Jorge da Burgos Gianluca Buratto
Bernardo Gui Daniela Barcellona
Abbone da Fossanova Fabrizio Beggi
Salvatore Roberto Frontali
Remigio da Varagine Giorgio Berrugi
Malachia Owen Willetts
Severino da Sant’Emmerano Paolo Antognetti
Berengario da Arundel/Adelmo da Otranto Carlo Vistoli
Venanzio/Alborea Leonardo Cortellazzi
Un cuciniere/Girolamo vescovo di Caffa Adrien Mathonat
Ubertino da Casale Cecilia Bernini
Michele da Cesena Flavio D’Ambra
Cardinal Bertrando Ramtin Ghazavi
Jean d’Anneaux Alessandro Senes

Voce di Adso vecchio Coro Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Ingo Metzmacher
Maestri del coro Alberto Malazzi e Giorgio Martano
Maestro del Coro di voci bianche dell’Accademia
Teatro alla Scala Bruno Casoni
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Fabio Barettin
Drammaturgia Mattia Palma
Coreografia Erika Rombaldoni

 Foto: Brescia-Amisano Teatro alla Scala