Rubriche

Veleda cantata da Carducci e Monti

Vĕlĕda in Carducci

Giosuè Carducci

Il riferimento a Vĕlĕda è presente nei “Levia Gravia” carducciani del 1861-1871. Una raccolta cui il poeta dedicò qualche cura volendo separare le liriche giovanili e suggerite da fatti contingenti, da quelle di maggiore impegno e più corposa ispirazione. La lirica in questione è quella dedicata a Louisa Grace Bartolini (Bristol 1818 – Pistoia 1865), poetessa e pittrice cui il Carducci era legato da profonda amicizia. Della Grace Bartolini Carducci ebbe a dire: “quelli che solo abbiano visto di lei le versioni dei canti di T. B. Macaulay e E. W. Longfellow e le Rime e prose pubblicate dopo la sua morte dal marito Francesco Bartolini, non potrebbero ancora farsi una idea giusta del suo impegno, della dottrina in più lingue e letterature e dell’ancor più grande e gentilezza e generosità dell’animo suo”. La lirica si apre con il poeta che, tornato a “respirare” il fremito dell’aria vitale, dedica alla Louisa, “memore del Bello, pittrice dai tocchi rapidi, figliuola d’altre genti e d’altre età” il suo canto. È motivo di meraviglia per lui che la bella donna abbia deciso di venire “fra i vecchi popoli” ove sono spenti i Bardi e i Vati. Altro secolo aveva accolto “l’attèa Corinna” che cantava con “rosei labbri” e tutto il popolo pendeva “da l’ardente fanciulla affisa al ciel” e allora dal petto della vergine spirava ineffabile diletto mentre le lacrime facevano ai folgoranti occhi “splendido velo”. Cantava l’alta vergine la sua patria, i suoi dei, la libertà e “stupiva mirando i principi e i figli degli Achei”: Corinna rimembrava con accenti pindarici Eleuteria “che tra i popoli salvi inneggia e va”. Ed ecco le selve germaniche, “come da subita procella esercitate suonar, se a l’adunate / plebi i cruenti oracoli / apria Velleda e de le pugne il dì”. E qui, nel prosieguo dei versi, Carducci sembra evocare davvero la notte lunare della Norma belliniana: “tra l’erme ombre de’ larici / da la luna e dal vento / rotte, la vergine pallida / in nero vestimento / alta levossi, agli omeri, / lenta il crin biondo onde null’uom gioì”. La Velleda tacitiana e carducciana è vergine ed intatta, votata alla castità, proprio come Norma! Ma “dicono” ancora qualcosa all’animo tecnologico dell’uomo d’oggi questi versi “antichi” nella loro paludata bellezza? “E cantò guerre, orribili / guerre; e a la cena immonda / convitò i lupi e l’aquile; / e tepefatta l’onda / de’ freddi fiumi scendere / vide tarda fra i corpi al negro mar”. Segue quindi una scena di guerra con quell’accorrere delle madri, ignudi i petti, ad accendere la pugna o “ululando affrontare le marse aste”, un riferimento alla moda germanica di lasciarsi coinvolgere, da parte delle donne, nello scontro bellico. Ma Carducci coglie anche l’occasione per recriminare, con toni già foscoliani, l’assenza, nell’Italia del tempo, di virtù civili: dove è “pompa inutile / al vivere civile / la donna, ivi non ornasi / il costume virile / di forza e verecondia, / e turpe incombe a’ gravi spiriti amor”. Ancora un riferimento sulla decadenza morale della donna divinizzata in età romana imperiale, decisamente guerriera, invece, nella società germanica. Ed ecco, nella parte finale della lirica elogiativa, la richiesta esplicita ad Eloisa di cantare le spose eroiche e le “polone femmine” che tingono di “lor vene i supplicati altari / o chieggono a la Vistola / fra cotanta di spade immunità / gli spenti figli”. L’invocazione-esortazione finale del poeta è rivolta al Candido Stuolo: finché dura il Tempo ferreo “de gli oppressori, lamenterà e morirà, ma pur cadendo potrà mormorare :“no, che la patria mia morta non è”. La rivolta s’affretta “fosca di villa in villa, / turbina il vento ed agita / l’animatrice squilla, / e il nuovo carme a’ liberi / popoli suona su i caduti re”. Inno alla Libertà della patria, dunque, quella del Carducci nella raccolta dei Levia Gravia del 1861-1871: anni di guerra e di tensioni, di eroismi e di sogni, e si comprende la “sovrapposizione” (frequente in Carducci) fra momenti epicoclassici (Veleda e la vergine germanica) e momento storicocoevo (le femmine polone ed Eloisa e il Risorgimento italiano). In questo anche la forza comunque civilizzatrice e confortevole della parola poetica!… Per quanto attiene al nostro discorso, appare interessante questo richiamo carducciano alla Velleda “vergine pallida” che cantaprofetizza sotto la luce lunare e all’ombra dei larici e al “rombo dei tócchi scudi” che seguiva al canto profetico delle vergini: interessante perché proprio come nella Norma belliniana! Eloisa, dunque, come Velleda, come Norma: donne dal cuore virile che cantano la libertà dei popoli. La Veleda carducciana, come appare evidente, è quella stessa di cui parla Tacito nelle Storie, IV, 61: “Ea virgo nationis bructerae late imperitabat; vetere apud germanos more, quo plerasque feminarum fatidica et, augescente superstitione, arbitrantur deas. Tumque Veledae auctoritas adolevit, nam prosperas germanis res et excidium legionum praedixerat”. Di quali legioni parla Tacito? Forse di quelle annientate nella foresta di Teutoburgo? La determinazione temporale e spaziale dell’avvenuta sconfitta delle legioni romane non ha importanza decisiva; ai fini del nostro discorso torna funzionale e interessante l’assunzione della figura di Velleda profetessa e combattente come icona e prefigurazione della Norma “ricostruita” dal Romani e cantata dal sublime Bellini.

Velĕda in Monti: Il Bardo della Selva Nera (1806)

Vincenzo Monti

Il Bardo della Selva Nera, poemetto mitologico rimasto incompiuto, fu da Monti dedicato alle imprese germaniche compiute da Napoleone. Si trattava di un poemetto ispirato al gusto ossianico di cui pare che Napoleone si compiacesse. Monti vi cantava dunque le cruente battaglie fra il “tedesco spergiuro” e le armate francesi. La scena dell’imminente battaglia nella valle dell’Istro è cantata dal poeta, “maestro dell’orecchio non del cuore” con l’impagabile fascino dei suoi endecasillabi: il Bardo Ullino, “germe dei forti ed animoso / cantor de’ forti” osserva dall’alto di una vetta ondeggiare la pianura di armate ed eserciti che si fronteggiano già pronti allo scontro. È erede, Ullino, dello spirito “della indovina vergine Velleda, / cui l’antica paura incensi offrìa / nelle selve Brutere, ove implorata / l’aspra donzella con responsi orrendi / del temuto avvenir aprìa l’arcano”. La Velleda montiana è “l’aspra donzella” che profetizza il rovinoso destino delle armate germaniche, non, dunque, la Velleda carducciana che si fa vessillo di libertà per i popoli oppressi. Per il Bardo montiano le armate francesi combattevano per “miglior causa” “spinte all’armi da dei migliori”: sulle sventurate file germaniche, Ullino vede “passar veloce una mano di fuoco che con negro stile scriveva una fatale sentenza”. Un dio vedeva Ullino fra gli armati di Francia, un terribile dio che li conduceva e che pentiti avrebbe fatto nel suo disdegno i potenti congiurati della coalizione antinapoleonica. Un canto dagli accenti epici, quasi omerici, che il Monti dell’Iliade spiegava ad esaltazione di colui che dominava e soggiogava intanto l’Europa atterrita. La Vĕlĕda montiana è quindi la negazione di quella carducciana: sessant’anni di storia patria dividono i due poeti e nel frattempo i destini liberali dell’Italia Risorgimentale si sono in qualche modo compiuti. Il fascino della sacerdotessa e profetessa germanica ha trovato posto non solo nell’ispirazione dei poeti e nella trasposizione (possibile ipotesi) in quella Norma belliniana del 1830 cui spesso si è fatto riferimento e che d’ora in poi sarà oggetto di accurata disamina, ma ha ispirato anche il personaggio letterario dell’omonima druidessa germanica eroina del romanzo “Les Martyrs” di François René de Chateaubriand e ha prestato il suo nome sinanche all’asteroide 126 della fascia principale del sistema solare! Con Bellini si tornerà a parlare di druidi e di Galli, di sacerdotesse e centurioni romani, di venti di guerra (l’Italia carbonara già dal 1820 registrava “moti” insurrezionali) e di passioni umane e pulsioni irrefrenabili: il tutto in un’atmosfera per così dire “cesariana” da De Bello Gallico. Nel dramma belliniano di “storico” e di “vero” saranno le passioni umane: i luoghi e i personaggi sono concepiti e sentiti come possibili e verosimili; decisamente veri, invece , i moti dell’animo, i più diversi, le passioni vere che muovo l’azione. I druidi campeggiano nel melodramma già dalla prima scena e con loro, con Oroveso, vedremo calare il sipario sul rogo finale.