The Turn of the Screw – Teatro dell’Opera, Roma
Dopo il Peter Grimes dello scorso anno, la regista britannica Deborah Warner ci racconta un altro e diverso naufragio, più enigmatico e indefinito, deriva nell’inconscio o forse solo nell’immaginazione o addirittura nel soprannaturale. In The Turn of the Screw, al Teatro dell’Opera di Roma con la direzione di Ben Glassberg, la scena ci si presenta vuota o piuttosto svuotata e fin dal Prologo il pianoforte pare il relitto lasciato dalla tempesta, memoria di un orrore che si è già consumato. E mentre la vicenda prende forma questo spazio viene di volta in volta riempito da un oggetto, come il letto o la lavagna, che evoca simbolicamente la situazione, rispecchiando i sedici quadri in cui l’opera è strutturata. Musica e testo, in perfetta aderenza tra loro, vengono così a riflettersi nelle immagini, capaci di integrarsi all’insieme e a cementarlo organicamente. In questo microcosmo disegnato da Justin Nardella, il giardino rimane sullo sfondo, come un elemento lontano ed esiliato, dal momento che quanto accade, misterioso e indecifrabile, non ha più nulla di naturale e soprattutto di innocente.

“The cerimony of innocence is drowned”, l’innocenza è irrimediabilmente perduta, naufragata e annegata, come cantano Quint e Miss Jessel nella scena centrale ed assiale “Colloquio e soliloquio”, dove i presunti fantasmi, a differenza di quanto succede nel racconto di Henry James, parlano anzi cantano tra loro. E questo pare il punto di svolta, il momento in cui tutto appunto si avvita, dove avviene il giro di vite, mentre visivamente elementi sospesi si stringono a spirale come a stritolare la mente. “Lost in my labirith I see no truth” e qui, benché i costumi di Luca Costigliolo abbiano le fogge dell’età vittoriana, tempo delle assertive certezze, non si è più capaci di distinguer il vero dal falso, i vivi dai morti, l’innocenza dalla colpevolezza. Emblematici dunque i movimenti del pianoforte calato dall’alto e invertito di posizione, a simboleggiare il rovesciamento di ogni prospettiva. L’ambiguità viene così sottolineata dalle luci di Jean Kalman, che ritagliano aloni luminosi in quadri in cui a dominare è la penombra, a sua volta circondata da un’oscurità che delimita i labili confini dell’incubo.
Le aperture luminose e melodiche contraddistinguono anche la direzione di Ben Glassberg, che stende una narrazione saldamente sostenuta da ritmo e tensione, differenziando accuratamente ogni sezione ma al contempo mantenendo una straordinaria unità dell’insieme. Il flusso sonoro è analitico e definito, nell’attenta espressione del timbro di ogni strumento e soprattutto degli effetti delle percussioni, mentre il gioco dinamico produce un lento e continuo incremento dell’inquietudine.

Anna Prohaska, con voce omogenea ed estesa, è un Istitutrice dolce ed energica ma interamente pervasa da ansia e da pulsioni febbrili e allucinate. Lo stile vario e garbato rispecchia l’ambiguità di un personaggio che oscilla indefinitamente tra volontà di salvezza e desiderio di possesso, affetto sincero e attrazione sinistra.
Ian Bostridge dà forma ad un Quint magnetico ed elegante, che si impone come un chiodo conficcato nella scena, un punto interrogativo al centro dell’intera vicenda. Con limpidi acuti e rigorosi vocalizzi, esibisce in ogni passaggio un fraseggio duttile e scavato, a definire una figura angosciante ma allo stesso tempo tormentata, spettro che giunge fino a noi dal passato per raccontarci l’indicibile eppure anima lacerata e prossima alla nostra sensibilità contemporanea.
Angelico ed inquietante il Miles del giovane Zandy Hull, di ottima estensione e dalla linea ondulata, rende con sinistra vivacità le sue canzoni filastrocca, delineando un bambino di ambigua innocenza e grazia innaturale, vittima e complice di quello che accade.
Rotondo e aggraziato anche il canto della piccola Cecily Balmforth, che descrive una Flora delicata ma volitiva, capricciosa e perfino con tratti malevoli.
Emma Bell è una Mrs Grose dalla vocalità morbida e consistente con cui plasma la complessa espressività di una donna che vive tra terrore e rimozione.
Sofferente ed elegante la Miss Jessel di Christine Rice , che con voce chiara e tornita riesce particolarmente incisiva nel Colloquio e nella scena a lei intitolata.
Uno spettacolo seguito con intensa partecipazione che alla fine non ha mancato di suscitare grande entusiasmo, con applausi particolarmente fragorosi per Bostridge e il piccolo Hull.
THE TURN OF THE SCREW
IL GIRO DI VITE
Musica Benjamin Britten
Opera in un prologo, due atti e sedici scene, Op. 54
Libretto di Myfanwy Piper, dall’omonimo romanzo breve di Henry James
Direttore Ben Glassberg
Regia Deborah Warner
Scene Justin Nardella
Costumi Luca Costigliolo
Luci Jean Kalman
Movimenti di scena Joanna O’Keeffe
PERSONAGGI INTERPRETI
The Prologue / Quint Ian Bostridge
Governess Anna Prohaska
Miles Zandy Hull
Flora Cecily Balmforth
Mrs Grose Emma Bell
Miss Jessel Christine Rice
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Foto: Fabrizio Sansoni – Opera di Roma
