Affascinati dalla luce di Aida e Radames
Tre informazioni, apparentemente slegate fra loro, possono agevolare la visione dell’opera Aida di Giuseppe Verdi nell’allestimento realizzato nel 2023 dal regista Damiano Michieletto per la Bayerische Staatsoper di Monaco. La prima è contenuta nella lettera che il 20 ottobre 1876 il Maestro scrisse alla contessa Clara Maffei: «Copiare il Vero può essere una buona cosa, ma Inventare il Vero è meglio. Copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non Pittura». La seconda è estrapolata da un’intervista a Stefano Casciu, direttore del Polo museale della Toscana, in cui ci ricorda che nella pittura occidentale «la luce è sempre portatrice di significati. Per quanto naturalistica possa essere, la pittura resta una costruzione del tutto mentale, un’astrazione, e quindi la luce interna al dipinto porta sempre in sé un significato». Amara è la chiusura: «questo significato risultava evidente ai contemporanei; per noi lo è meno, perché non abbiamo più i codici di interpretazione necessari, e così tendiamo a dimenticare che quella luce è stata pensata per evidenziare qualcosa». La terza informazione apparitene alla Storia: da sempre l’umanità desidera e celebra la luce. L’antico calendario Giuliano, nel 46 a.C. collocò al 25 dicembre il solstizio d’inverno, il giorno più corto con la notte più lunga. Dal 274 d.C. i romani lo celebrarono come il giorno natale del nuovo sole che porterà luce e calore permettendo il risorgere della natura nel corso dell’anno che è alle porte. Si accendevano falò per riscaldare e illuminare la notte e si svolgevano riti per incoraggiare l’avvento della luce. A questa festa pagana molto sentita dal popolo, Papa Giulio I (320-353) diede un nuovo significato collocandovi la nascita di Gesù, la vera Luce. Il nostro calendario gregoriano, emanato nel 1582, per l’attuale 2025 ha collocato il solstizio d’inverno al 21 dicembre, ma per tutti noi occidentali, atei o credenti, il giorno Natale della Luce che avvia il rinnovamento della vita cadrà sempre il 25 dicembre. E come in passato prospereranno i riti, dalle luci che addobbano le abitazioni alle luminarie nei centri urbani e commerciali.
Aida, come altre opere di Verdi, è una rappresentazione della realtà illuminata dalla musica che sul palcoscenico fa rinascere i personaggi e permette agli ascoltatori di entrare in empatia con loro. E oggi la responsabilità della mediazione fra l’autore e il pubblico è affidata al regista, non più semplice esecutore ma interprete e creatore. È responsabilità del regista dipingere il quadro e, insieme alla musica, condurre gli spettatori nella realtà che raffigura. Fedele all’idea verdiana scorsa nella lettera alla Maffei, dove la tradizionale scenografia fastosa dell’antico Egitto sarebbe la bella fotografia di una realtà passata, Michieletto dipinge il lato nascosto dell’immagine magnificente del potere politico e religioso. Una palestra, luogo in cui manteniamo il nostro benessere fisico, diventa il punto di ritrovo di una comunità debilitata che la guerra dei potenti ha privato delle loro abitazioni e affetti personali. Guerra rappresentata dal colore nero che dall’esterno si affaccia alle finestre e alle porte; e come il nero, che non è la restituzione della somma di tutti i colori ma l’assorbimento di tutte le lunghezze d’onda della luce, quindi la perdita di tutti i colori, la guerra fagocita i beni materiali e spirituali, restituendo il nulla in cambio. È un quadro che richiama alla mente L’impero delle luci (1953-54) del surrealista René Magritte. Titolo ispirato all’evangelico «impero delle tenebre» (Lc 22, 53), dove il cielo illuminato a giorno sovrasta un paesaggio notturno, annullando così la linea temporale: due elementi che si possono vedere solo in successione appaiono simultaneamente. E in questa Aida, le tenebre generate dalla guerra tramite il regista sono rischiarate dall’amore di Aida e Radames tramite la musica di Verdi. Sin dall’inizio Radames definisce Aida «celeste», una ghirlanda «di luce e fior» a cui restituire il suo «bel cielo» e costruire «un trono vicino al sol», vicino alla loro divinità Ra, dio del sole, Re di tutti gli dei e creatore dell’universo. Romanza che Verdi conclude con il celebre Si bemolle acuto che il tenore deve eseguire sfumandolo al pianissimo. Non è un amore che si consuma e scompare, ma un amore che si vuole allontanare dai dolori della vita terrena, affinché raggiunga la beatitudine dell’aldilà dove sarà trasfigurato in luce, come la stessa divinità.

Ma se la musica verdiana emana luce, ai nostri occhi questa si manifesta in colori e nella tela grigia e nera di Michieletto essi si trasformano in significati. Nella marcia trionfale, come un quadro cubista che rappresenta simultaneamente più punti di vista dello stesso soggetto, sul palco appaiono le due facce della stessa medaglia. La musica richiama alla mente la pomposa esibizione di forza dell’esercito vincitore dove domina il colore rosso della passatoia cerimoniale, mentre su di essa, invece, il regista fa passare i veri artefici della vittoria, i reduci mutilati dalle battaglie che si trascinano nel rosso sangue versato. Colorati sono anche i palloncini che un allegro pagliaccio sui trampoli consegna ai bambini danzanti. Forse simbolo di un’entità superiore capace di infondere il perdono, la speranza e il desiderio di ricominciare, sentimenti che conferiscono vari colori ai loro abiti, differenziandoli da quelli grigi degli adulti. Situazioni che richiamano alla mente la bambina con il cappotto rosso che Steven Spielberg inserì nel suo film Schindler’s List, anch’esso in bianco e nero. Tuttavia il significato sembra essere diverso: là rappresentava le generazioni future macchiate dal sangue dell’olocausto, in Aida esibisce la fiducia nelle prossime generazioni, nella serena convivenza delle numerose diversità.
Nel terzo atto, la montagna formata dalle ceneri della società distrutta dalla guerra è illuminata lateralmente da una violenta luce fredda. Sopra il tumulo Aida canta la romanza «O cieli azzurri», ricordi di un’infanzia felice che non ritornerà ma che Verdi riempie d’amore per i «verdi colli» e le «profumate rive». La luce fredda, visibile agli occhi, è qui contrapposta all’aureola di luce calda emanata dalla musica che si ascolta. Scena che suscita il ricordo del manifesto del film L’esorcista (1973) di William Friedkin. In una via buia, dalla finestra di una casa esce una fioca luce calda, mentre dalla finestra vicina una luce violenta e fredda investe un sacerdote fermo al cancello, illuminato dalla luce calda di un lampione. La violenza di Lucifero, che ha sottomesso l’anima di una ragazza, è contrapposta all’energia dei sentimenti dei familiari e dell’esorcista. Doppia contrapposizione è invece prescritta da Verdi per la scena finale. Visivamente essa è divisa in due piani, quello superiore, l’interno del tempio di Vulcano dove si trova Amneris, è luminoso grazie all’oro luccicante, nella sotterranea tomba di Radames e Aida domina il buio. Contemporaneamente Verdi crea un contrasto sonoro: la melodia affidata alla potente Amneris è triste e cupa mentre la musica assegnata ai condannati Aida e Radames è serena e delicata. Prescrizione scenica che il regista osserva, ma rimodula interpretandola non più come espressione della realtà, il potere politico e religioso che annienta l’amore sincero, ma come la visione dell’immediato futuro. Ora nella parte superiore, nella scena luminosa, vi sono Radames e Aida in cielo, rinati, probabilmente insieme ai loro familiari che trattengono dei palloncini colorati che tendono a salire ancora più in alto. Aida è in bianco abito da sposa, tinta che si genera quando un oggetto investito da tutti i colori li riflette fondendoli insieme, come la persona che restituisce al suo amato, rinnovandolo, tutto il bene che ha ricevuto precedentemente. Nella buia scena inferiore, invece, vediamo e ascoltiamo Amneris che supplica la pace in abiti neri, tinta che assorbe i colori senza restituirli alla vista, come una persona anaffettiva incapace di provare e trasmettere affetto ed emozioni.

Tornando alla lettera di Verdi alla Maffei, l’arte può imitare o creare la realtà, oggi possiamo indicare una terza via: l’arte può subire la realtà. Infatti, come i White paintings (1951) del pittore Robert Rauschenberg, tele bianche prive di immagini in cui l’autore non inserisce nulla di personale per lasciare che registrino e rispecchino le fluttuazioni di luci ed ombre che spontaneamente avvengono davanti ad esse, in numerosi allestimenti di vuota avanguardia i registi delegano al pubblico il conferimento dei significati. Così, un’opera priva di contenuto ambisce diventare il tutto, superficialità che si maschera dietro una facciata di profondità. Affinché il melodramma allarghi veramente l’orizzonte superando la bellezza propria della poesia e della musica per divenire Arte totale, si potrebbe integrare nel modo seguente quanto Verdi scrisse ad Antonio Ghislanzoni, librettista di Aida, il 17 agosto 1870: «Purtroppo per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica» e che i registi abbiano il coraggio di essere creatori mantenendo la coerenza con la narrazione e l’azione musicale, come avvenuto in questa Aida.
gentilmente concesso dal Maggio Musicale Fiorentino.
leggi qui la recensione di Andrea Poli