Concerti 2016
JAMES CONLON [Margherita Panarelli] Torino, 8 gennaio 2016.
Il futuro direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, James Conlon, è al timone dell’Orchestra nel decimo concerto della stagione 2015/2016, dedicato a Varèse, Schreker e Ludwig van Beethoven.
Interessante l’accostamento di Intégrales di Edgard Varèse, Kammersymphonie in un movimento di Franz Schreker e la Sinfonia n. 5 di Beethoven, con un graduale passaggio dalla gamma sonora spiazzante di Intégrales, alle sonorità più tradizionali, ma assolutamente peculiari, di Kammersymphonie all’esultante Quinta Sinfonia. Della Kammersymphonie era la prima esecuzione Rai. Composta tra il 1916 ed il 1917, nel piccolo organico strumentale richiesto comprende sette fiati, undici archi, timpani, percussioni, arpa, celeste, harmonium a due tastiere e pianoforte.
Conlon durante l’intero concerto ha gesto deciso e eloquente, e durante la prima parte l’orchestra lo segue in modo eccellente, eseguendo splendidamente i due brani di Varèse e Schreker ma al momento del primo movimento della Quinta sinfonia, subito dopo il breve intervallo di rito, l’attacco è scombinato, le sezioni dell’orchestra mancano di coesione. Il risultato è che il celeberrimo incipit della sinfonia non ha l’impatto che il compositore desiderava. Quella dell’orchestra è una defaillance assolutamente momentanea, tanto che subito dopo è tornata alla solita ottima qualità esecutiva. Il pubblico esultante infatti applaude con calore alla fine della Sinfonia, dopo un’interpretazione splendida di terzo e quarto movimento, e la collaborazione tra l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai ed il pluripremiato direttore americano non poteva cominciare in modo migliore.
JURAJ VALCUHA, TRULS MØRK [Margherita Panarelli] Torino, 15 gennaio 2016.
Robert Schumann e Richard Strauss sono protagonisti dell’undicesimo concerto della stagione 2015/2016 dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.
Il violoncellista norvegese Truls Mørk apre con il Concerto in la minore op.129 per violoncello e orchestra di Robert Schumann, una composizione del 1850, che testimonia della riscoperta da parte di Schumann dello stile concertante negli ultimi anni della sua vita. Mørk sceglie tempi moderati e riflessivi, quasi languidi; la sua è un’interpretazione molto intimista che racconta di una malinconia e di una nostalgia prettamente Schumanniane grazie anche al suono morbido e rotondo del suo violoncello Domenico Montagnana del 1723. Juraj Valčuha, alla guida dell’orchestra, asseconda perfettamente la lettura intima che Mørk fa del Concerto, evitando suoni fragorosi o violenti. Accolto con grande calore dal pubblico, Mørk concede un sentito bis.
Di tutt’altra compagine orchestrale si tratta nella seconda parte del concerto, dove l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai è chiamata a misurarsi con la Alpensinfonie di Richard Strauss. Una Sinfonia che non può non portare alla mente i celebri poemi sinfonici dello stesso Strauss, sia nella drammaturgia interna alla composizione, sia per il suo raccontare eventi ben specifici.
La Alpensinfonie narra infatti di una giornata lungo l’arco Alpino e lo fa con un organico orchestrale davvero imponente: 4 flauti (di cui due anche ottavini), 3 oboi (di cui uno anche corno inglese),di cui uno anche controfagotto), 20 corni (di cui quattro anche tube wagneriane), 6 trombe, 6 tromboni, 2 tube, timpani, tamburo, grancassa, piatti, triangolo, glockenspiel, tam-tam, campanacci, macchina del vento, macchina del tuono, celesta, organo, 2 arpe, 18 violini primi, 16 violini secondi, 12 viole, 10 violoncelli e infine 8 contrabbassi.
La complessità dell’intricata partitura Straussiana presenta una sfida non indifferente agli esecutori, ma la precisione, la lucidità quasi clinica con cui Valčuha si approccia alla Sinfonia della Alpi permette di districare la complicata matassa e di presentare all’ascoltatore una lettura vibrante e evocativa della splendida composizione. Lungi dal ridurla ad una pomposa celebrazione, Valčuha riesce a trasmettere anche l’affetto infuso da Strauss nella Sinfonia per le montagne della sua Baviera, nonché la volontà di rendere omaggio all’ottocento compositivo tedesco, ormai avviato al declino, a cui Strauss sentiva di appartenere e di cui percepiva di essere probabilmente l’ultimo grande rappresentante. Meritatissimi gli applausi calorosi, tributati dal numeroso pubblico accorso, a Valčuha e ai maestri d’orchestra.
MARCO ANGIUS, RAY CHEN [Margherita Panarelli] Torino,22 Gennaio 2016.
Il dodicesimo concerto della Stagione 2015-2016 dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai è un viaggio nella Russia della prima metà del ‘900 con due interpreti d’eccezione: Ray Chen e Marco Angius.
Primo brano in programma è il poema sinfonico Le chant du rossignol di Igor Stravinskij, ispirato alla celeberrima fiaba di Hans Christian Andersen che racconta di un oriente fiabesco e lontano. Il gesto di Marco Angius si rivela da subito deciso e vigoroso e l’esecuzione dell’orchestra è apprezzabile sotto ogni punto di vista. Particolare risalto in questo brano ha la sezione dei legni, con il flauto di Giampaolo Pretto che presta voce ai due usignoli della fiaba.
Era molto attesa la performance di Ray Chen, giovane violinista Taiwanese, la cui carriera è in continua crescita, e le aspettative non sono rimaste deluse. Cimentandosi nel Concerto n:2 in sol minore op. 63 per violino e orchestra di Sergej Prokof’ev ha dato prova di una solidissima preparazione e di carisma. Il timbro morbido e rotondo del suo Stradivari Joachim del 1715 ha risuonato all’Auditorium “Arturo Toscanini” lasciando sicuramente una viva impressione sul pubblico presente.
Il virtuosismo di Chen avrebbe potuto lasciare spazio a accenti più dolenti e ad un lirismo più propriamente russo, in particolare nel secondo movimento, di cui Chen ha dato una lettura leggermente leziosa, ma le qualità dell’interprete sono indubbie, e promettono una crescita e ad una maturazione che completeranno senza dubbio il bagaglio di questo bravo artista.
Calorosamente applaudito, Chen ha concesso due bis, il Capriccio n.29 di Niccolò Paganini e la Gavotta en rondeau dalla Partita n.3 di Johann Sebastian Bach per violino solo. Il concerto si chiude con l’orchestrazione di Ottorino Respighi dei Cinque Études-tableaux dall’op. 33 e 39 per pianoforte di Sergej Rachmaninov eseguita con grande slancio dall’orchestra intera, nuovamente salutata da lunghi applausi.
JURAJ VALČUHA [Margherita Panarelli] Torino, 29 Gennaio 2016.
Juraj Valčuha torna alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai per la Sinfonia n.9 in re maggiore di Gustav Mahler nel tredicesimo concerto della Stagione 2015/2016.
Eseguita per la prima volta a Vienna nel 1912,con la direzione dell’amico di Mahler, Bruno Walter, la Sinfonia n.9 è eseguita nuovamente all’ Auditorium “Arturo Toscanini” della Rai di Torino con Juraj Valčuha saldamente insediato sul podio. Il suono dell’Orchestra è compatto e denso, l’esecuzione ha a tratti accenti quasi marziali, ma mai pomposi. L’ineffabilità del destino, la sua inesorabilità, temi predominanti nell’intera Sinfonia ma particolarmente sottolineati nel primo movimento, sono egregiamente espressi. Ottimamente eseguiti anche i momenti solistici di questo movimento. Nel secondo movimento i tre principali elementi tematici sono stati magistralmente bilanciati in un insieme ironico e caustico, che sfocia in un crudelmente sarcastico terzo movimento per poi sfogarsi nell’apocalittico attacco del quarto movimento, il quale si conclude con un tema ad un tempo solenne e nostalgico, tutto in pianissimo, eseguito sublimamente dall’Orchestra.
Eccellente la direzione di Valčuha, sempre attenta, densa di pathos. Il direttore slovacco, che termina quest’anno il suo incarico come direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai per lasciarlo a James Conlon dalla prossima Stagione, tiene con fermezza in mano ogni filo tematico della partitura Mahleriana e ne dà una lettura tagliente ed appassionata. Bellissima prova da parte dell’Orchestra tutta, e calorosi gli applausi da parte del pubblico che ha salutato festosamente l’intera compagine ed il maestro Valčuha.
VICTOR HUGO TORO, GIOVANNI ANDREA ZANON, SELENE ZANETTI [Lukas Franceschini] Verona, 14 febbraio 2016.
Interessantissimo concerto quello proposto dalla Fondazione Arena che ha visto la partecipazione del giovane violinista Giovanni Andrea Zanon, del soprano Selene Zanetti e del direttore Victor Hugo Toro.
Il programma era costituito da due autori Felix Mendelssohn Bartholdy e John Rutter. Del compositore di Amburgo si è ascoltato, in apertura, l’ouverture “La bella Melusina” Op. 32 ispirata a una popolare poesia di Goethe, brano tipicamente pastorale focalizzato nell’interiorità dell’animo, non mancando anche di accenti drammatici, quando il testo narra dei dolori di Melusina, la quale nata dalle acque ritorna nel suo habitat e il dolce mormorio è una vita eterna serena dopo una parentesi di dolore. Il secondo brano è un caposaldo del romanticismo per violino. Spartito della maturità del compositore, lascia spazio allo strumento solista per un’appassionante dolcezza melodica che più espressivamente non potrebbe essere. Nel finale la musica sprizza energia e idee di grande umorismo, ma è il gioco tra violino e orchestra, nel terzo movimento, un continuo di temi e melodie che creano un dialogo disinvolto che culmina nel finale con un clamoroso virtuosismo solistico.
Nella seconda parte abbiamo avuto il piacere di ascoltare Magnificat per soprano solo coro misto e orchestra di John Rutter (Londra, 1945), contemporaneo, di forte emotività e largo tema musicale.
Lo spartito è un’impostazione musicale del canto biblico “Magnificat” composto nel 1990, suddiviso in sette movimenti, la cui musica include elementi di latino americani. Per lo stesso compositore, Magnificat è un’effusione poetica di lode, di gioia e di fiducia in Dio, attribuita da Luca alla Vergine Maria madre di Gesù. Sono state le feste in onore di Maria, colorate e gioiose (balli, canti) tipiche dei paesi latini a ispirare il percorso compositivo: forte e concepito come un interludio di balsamo di pace.
In questo concerto domina la presenza solistica del violinista Giovanni Andrea Zanon che offre una bellissima prova tecnica dominando con l’arco tutta la sequenza dello spartito. E’ lui che traina l’orchestra, il direttore qui è marginale (si poteva avere impressione di poco “colloquio” tra loro), fondendo la parte solistica in eccelso e preciso fraseggio accomunato da una vivacità interpretativa ora accarezzevole, ora velocissima, ma fondendo la propria interpretazione in un dialogo con l’orchestra di assoluto rilievo. Ancora una prova che conferma la peculiare arte del violinista che prosegue nella maturazione artistica meritevole del più attento ascolto.
Il direttore Victor Hugo Toro trova maggior dimestichezza con il brano contemporaneo, fondendo il bravissimo Coro dell’Arena (istruito da Vito Lombardi) e la preziosa orchestra, partecipe quanto precisa, in una lettura di espressione elevata, cogliendo appieno il senso narrativo e vibrante del compositore. Una menzione particolare merita il giovane soprano Selene Zanetti per una prova attenta e musicalmente molto precisa, cui speriamo seguano successive occasioni veronesi.
Successo caloroso al termine per tutti gli esecutori, ovazioni e ripetute chiamate per Zanon, il quale, purtroppo, non ha concesso nessun bis.
OLEG CAETANI, ANDREA CORSI [Margherita Panarelli] Torino, 26 Febbraio 2016.
Prosegue con uno splendido concerto con musiche di Karl Maria Von Weber e Dmitrij Šostakovic la stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Ne sono interpreti magnifici Oleg Caetani sul podio e Andrea Corsi al Fagotto.
Delizioso l’Andante e Rondò all’ongarese op.35 per fagotto e orchestra di Karl Maria Von Weber: Andrea Corsi e l’orchestra si cimentano con garbo e ironia in questo brano spumeggiante.
Meno giocoso ma altrettanto godibile il secondo brano: il Concerto in Fa maggiore op.75 per fagotto e orchestra ancora di Von Weber: eccellente ancora una volta l’esecuzione del primo fagotto dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai che ha modo di evidenziare, se ce ne fosse bisogno, quanto ogni professore dell’orchestra sia un ottimo musicista. Il brano ha una struttura regolare e forse prevedibile ma ha anche dei momenti in cui lo strumento solista può mettersi in mostra e Corsi non si lascia sfuggire la possibilità di sottolineare quante siano le potenzialità di questo strumento forse un po’ snobbato come strumento solista.
La seconda parte del concerto è interamente occupata dalla Sinfonia n.7 in Do maggiore di Dmitrij Šostakovic, mastodontico racconto dell’assedio di Leningrado (San Pietroburgo) da parte delle truppe tedesche. Un assedio durato dal settembre del 1941 al febbraio del 1943 che mise in ginocchio la città e le cui conseguenze sono note a tutti. Oleg Caetani, con l’orchestra in grande spolvero, dà una lettura vivida e tesa della partitura, sempre attenta al carattere narrativo di questa sinfonia. Eccellente il primo movimento con il suo caratteristico crescendo, ottimamente calibrato da Caetani. Crescendo che travolge il tema iniziale, proprio a rappresentare l’arrivo della guerra a San Pietroburgo.
Sarcastico e graffiante il secondo movimento, così emblematico della resistenza della città, che si fa sempre più disperata fino al climax del terzo movimento la cui tensione si risolve nel quarto movimento, negli ultimi minuti di trionfo: una vittoria amara e sconcertante, tragica e liberatoria allo stesso tempo. Il pubblico riserva applausi molto calorosi all’intera orchestra e a Oleg Caetani, per un’esecuzione veramente emozionante.
JURAJ VALCUHA, NIKOLAJ DEMIDENKO [Margherita Panarelli] Torino, 4 Marzo 2016.
Ligeti, Beethoven e Bartók sono protagonisti del quindicesimo concerto della stagione 2015/2016 dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Ospite dell’Orchestra è il pianista russo Nikolaj Demidenko.
Demidenko dà il via al tutto con il Concerto n.4 in sol maggiore op.58 per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven e la sua esecuzione è ricca di poesia e pathos. Non solo, la ritmica, così fondamentale nella produzione beethoveniana, è curatissima, ma anche l’interpretazione.
Forse anche grazie ai tempi distesi scelti, ogni nota è chiara e ben in evidenza. Molto dolce l’Allegro moderato e l’Andante con moto è un affascinante momento di impalpabile immaterialità, seguito dall’energico Rondò, vero banco di prova per ogni virtuoso del pianoforte. Demidenko supera la prova in maniera eccellente e l’orchestra stessa è impeccabile, nonostante in qualche momento la coesione timbrica sia venuta a mancare, e il pubblico tributa calorosi applausi all’orchestra e al pianista, che concede un gradevole bis chopiniano.
Emozionante ed intenso anche se breve il Concert Românesc di György Ligeti che mette in luce a turno ogni sezione della compagine. Valčuha tiene saldamente in mano le redini e lancia l’orchestra in danze sfrenata, in particolar modo nell’ Allegro vivace del secondo tempo, e ridde vorticose, come nel quarto movimento, e ha polso di ferro per attacchi e volume orchestrale, il suo gesto è quasi clinico ma porta con sé sempre una grande carica emotiva.
È diviso invece in 5 movimenti il Concerto per Orchestra di Béla Bartók composto durante il periodo di permanenza del compositore in America. Anche in questo caso l’esecuzione dell’Orchestra è eccellente ed il complesso Concerto di Bartók, accompagnato dalla composizione del conterraneo Ligeti e di Beethoven, assicurano all’orchestra applausi scroscianti e sentiti da parte di tutto il pubblico dell’auditorium “Arturo Toscanini” di Torino.
MONICA ZANETTIN, ELENA GABOURI, MARIO MALAGNINI, CLAUDIO SGURA [Lukas Franceschini] Verona, 6 marzo 2016.
Il consueto appuntamento canoro con l’Associazione Musicale “Verona Lirica” ha visto l’esibizione al Teatro Filarmonico di Verona dei cantanti: Monica Zanettin, Elena Gabouri, Mario Malagnini e Claudio Sgura.
Il programma della serata è stato aperto dal baritono Sgura che ha cantato l’aria di Ezio “Tregua con gl’Unni” da Attila di Giuseppe Verdi con stile e accento di spiccata eloquenza, proseguendo in seguito con un’appassionata e incisiva interpretazione di Jago da Otello di Giuseppe Verdi, il monologo del II atto “Credo in un Dio crudel”, con particolare trasporto e istrionica tensione drammatica. Il mezzosoprano Elena Gabouri si è esibita in una fiammeggiante Azucena interpretando “Condotta ell’era in ceppi” da Il Trovatore con mirabilissima enfasi e forte temperamento cui è seguita una bellissima interpretazione di “Ch’ella mi creda”, da La Fanciulla del West di Giacomo Puccini, cantata con sentita ispirazione dal tenore Mario Malagnini.
Il soprano Monica Zanettin ha impressionato il numeroso pubblico con la sua voce possente e bellissima in una pregevole e appassionata interpretazione di Wally nell’aria “Ebben ne andrò lontana”. La prima parte si è terminata con il duetto del primo atto di Tosca con protagonisti Monica Zanettin e Mario Malagnini. Il soprano ha messo in luce una particolare sensualità abbinata a una voce di particolare spessore cui è stato abbinato un fraseggio rimarchevole, da parte sua il tenore ha esibito la consueta professionalità in un ruolo suo cavallo di battaglia, disegnando un innamorato sfaccettato ma altrettanto spavaldo.
La seconda parte è iniziata con il baritono Sgura e il soprano Zanettin, i quali si sono esibiti nel duetto “Mira d’acerbe lacrime” dal IV atto de Il Trovatore con bellissimo e vibrante trasporto in aggiunta ad una vocalità precisissima.
Il mezzosoprano Elena Gabouri ha elettrizzato il pubblico con una magnifica interpretazione di Marguerite cantando con enfasi e trasporto “D’amour l’ardente flamme” da La Damnation de Faust di Hector Berlioz. È stata poi la volta del baritono nell’aria finale, “Questa dunque è l’iniqua mercede” da I Due Foscari di Verdi nella quale ha esibito la sua elegante professionalità.
Mario Malagnini ha svettato brillantemente nella grande e celeberrima ma ormai desueta aria di Vasco de Gama “O paradiso” da L’Africaine di Giacomo Meyerbeer, reggendo la difficile scrittura e il passo acuto con estrema sicurezza. Monica Zanettin ha riconfermato le sue peculiarità vocali in un repertorio a lei congeniale interpretando con grande enfasi e pathos emotivo “L’altra notte in fondo al mare” da Mefistofele di Arrigo Boito.
Ha concluso la serata l’esecuzione del duetto “Già i sacerdoti adunansi” da Aida di Verdi, interpretato da Elena Gabouri e Mario Malagnini, i quali hanno fornito prova di grande professionalità, il mezzosoprano emotivamente vibrante con accenti incisivi, il tenore in forma vocale precisa e molto sicuro e omogeneo in tutti i settori.
Ottima la partecipazione della pianista Patrizia Quarta, che ha accompagnato i solisti nel concerto offrendo la sua accertata professionalità.
Il teatro Filarmonico era traboccante di pubblico, il quale ha tributato al termine a tutti i cantanti prolungati applausi di consenso.
JOYCE DI DONATO [Mirko Gragnato] Versailles, 9 marzo 2016
Joyce di Donato in un concerto solista a L’Opéra Royal nella reggia di Versailles compie un viaggio attraverso gli splendori barocchi nelle arie di Haendel, Purcell e Monteverdi, accompagnata dall’orchestra Il Pomo d’Oro e diretta da Maxim Emelyanychev.
L’Opéra Royal di Versailles già pensata ai tempi del Re Sole ma messa in opera da Luigi XV, fu progettata da Ange-Jacques Gabriel ispirandosi alle costruzione dei teatri Italiani ideati da Palladio, Bibbiena e Alfieri.
Inaugurato il 16 maggio 1770 per le nozze reali tra il delfino di Francia Luigi XVI e l’arciduchessa Maria Antonietta d’Asburgo con il Persèe di Lully e divenuto anche sede dell’Assemblée Nationale verso le fine del XIX secolo.
Il teatro, oltre ad essere uno dei più belli al mondo, è completamente costruito da un struttura lignea che gli concede di essere lo scrigno di un’acustica perfetta, che ben si incontra e sostiene le esecuzioni dei cantanti e degli strumentisti.
Qui lo stile barocco è un tutt’uno, le architetture si sposano con la stagione musicale del Château de Versailles, concentrata sullo stile che ha fatto grande la corte di Francia, e che ancora oggi vede sul palcoscenico rappresentate opere e composizioni conosciute ma anche scoperte o ritrovate nelle esecuzioni di grandi maestri del repertorio, chiamando appassionati da tutto il mondo.
Il noto mezzo soprano che come Dorothy viene dal Kansas, Joyce di Donato, con “Splendeurs Baroques” debutta in questa occasione con alcune arie mai eseguite in pubblico.
Il concerto iniziato con “Svegliatevi nel core” dal Giulio Cesare viene seguito subito dopo da un breve discorso con il quale viene preannunciato un progetto nato in corso d’opera, “la guerre e la paix”, una registrazione con il tema della guerra e della pace, che in questi tempi difficili sono temi caldi e come non mai attuali, il pensiero va subito alla situazione dei profughi con l’augurio che la situazione internazionale possa trovare una soluzione al più presto, e che la parola di pace possa uscire dal teatro e andare dove ce ne è più bisogno.
Proseguendo poi con arie del repertorio Haendelliano con assaggi da Purcell e Monteverdi, Joyce di Donato, pluripremiata e acclamata, sin dalla vittoria del grammy come best classical vocal solo, non delude e nemmeno disattende le aspettative.
Certo all’inizio forse per l’emozione un po’ contenuta, ma poi le agilità, le fioriture, di una voce piena e matura ma allo stesso tempo chiara e brillante hanno riempito la sala dell’Opéra Royal.
Un’artista dai modi semplici ma che approfondisce il testo e la parte in tute le sue sfumature.
Le varie arie, disattendendo il programma, vengono però inframezzate da degli interventi solo strumentali dell’orchestra Il Pomo d’Oro, una scelta assai curiosa, senza dare nessuna informazione e lasciando con perplessità il pubblico, senza trovare una giusta relazione esecutore-ascoltatore, la presa del palco scenico si percepisce come un atto di protagonismo dell’orchestra, ma più ancora dal suo direttore Maxim Emelyanichev, che tra le tante ha voluto dare sfoggio delle sue abilità al cornetto.
Interventi un po’ fuori luogo, in un’esecuzione poco matura e un po’ deviante dal solco della serata dove unica omogeneità era data dai riferimenti cronologici dei compositori.
Brusio di sottofondo, un pubblico molesto e disattento, un peccato per i musicisti la cui qualità meriterebbe una migliore esposizione che le scelte del direttore in questa serata non hanno permesso, in un tentativo poco cordiale di inserirsi in un concerto concentrato sulle virtù della voce.
Tiepidi applausi per il Pomo d’Oro che si scaldano al rientro di Joyce di Donato.
Mirabile nell’ aria “Prendi qual Ferro” dalla Andromaca di Leonardo Leo, rarità e pregevolezza unite assieme.
La messa di voce nelle note lunghe che vanno in crescendo e poi a svanire hanno arricchito la drammaticità della composizione leoniana accolta da un silenzio estatico.
Il mezzosoprano sul palco resta concentrata nella posizione senza troppi movimenti, ma entrando completamente nel ruolo teatrale grazie alla mimica, allo sguardo, senza dar troppo sfoggio in arabeshci e andirivieni per il palcoscenico Joyce Di Donato si mostra una semplice ragazza del Kansans che con la sua voce ci fa raggiungere un arcobaleno di emozioni.
Il concerto in un turbinio di personaggi che vanno dall’Indian Queen di Purcell, all’Ulisse di Monteverdi e ad altri ruoli haendelliani come Agrippina, termina con l’aria “da Tempeste” dal Giulio Cesare, dove non si sa bene come le mani del clavicembalista direttore scombinino qualche accordo ma con sangue freddo e doti d’improvvisazione il mezzo soprano ci inserisce una battura di spirito e con un coup de theatre riprendere dal punto del “qui pro quo”.
Per finire applausi, applausi e ancora applausi, cinque chiamate e ben due bis.
“Lascia ch’io pianga” che nel concludersi arricchisce di quel prezioso silenzio la fine di un’esecuzione, il pubblico resta accoccolato nell’emozione per qualche secondo prima di riscaldare l’atmosfera con applausi ancor più fragorosi.
Alla cantante arrivano fiori e piccoli doni dalle file della platea, e ancora applausi.
E con la splendida aria “da tempeste” come secondo bis si suggella la riuscita di un concerto fantastico e che ci invita a seguire ancora Joyce Di Donato lungo i suoi impegni nell’attesa che esca il frutto del progetto sulla musica della guerra e della pace.
HARTMUT HAENCHEN [Margherita Panarelli] Torino, 11 Marzo 2016.
È Gustav Mahler il protagonista del sedicesimo concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai con sul podio un direttore mahleriano d’eccezione: Hartmut Haenchen.
L’adagio dalla Sinfonia n.10 in fa diesis maggiore è accostato senza soluzione di continuità ai Drei Orchesterstücke di Alban Berg in una prassi ormai consolidata per Haenchen che esegue i due brani come fossero una sinfonia unica per le affinità di cui il direttore tedesco ha raccontato nei suoi numerosi scritti su Mahler. Le affinità timbriche e la densità del suono orchestrale così simile tra i due compositori sembrano confermare la tesi del Maestro Haenchen, anche se le differenze non si possono non notare, e l’esecuzione di entrambi i brani è sicuramente di altissimo livello. Emozionante e trascinante la lettura di Haenchen.
La precisione nell’esecuzione è costantemente asservita al racconto della storia di questo essere vivente, della sua nascita, della sua crescita, della sua morte (celeberrimo il corteo funebre che riprende grottescamente Fra Martino trasportandola in tonalità minore) e della sua rinascita che ne sparge l’alito vitale nell’atmosfera. Trionfante, fragoroso, travolgente il finale ma l’intera sinfonia è così ben eseguita che esso risalta in quanto momento culminante di quello che si percepisce come un vero e proprio viaggio la cui guida per il pubblico dell’Auditorium “Arturo Toscanini” di Torino è appunto Haenchen. Pubblico che accoglie con una lunga ovazione il direttore e i professori dell’orchestra.
GAETANO D’ESPINOSA, JAN LISIECKI [Margherita Panarelli] Torino, 18 Marzo 2016.
Sibelius e Chopin sono i compositori scelti dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai per celebrare il 17 Marzo, Giorno dell’Unità Nazionale.Ospiti d’eccezione Gaetano d’Espinosa e Jan Lisiecki.
Dieci minuti di applausi salutano Jan Lisiecki, al suo debutto con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai al termine della sua esecuzione del Concerto n.1 in mi minore op.11 per pianoforte e orchestra di Fryderyk Chopin all’Auditorium “Arturo Toscanini” della Rai di Torino. Applausi meritatissimi per la sua interpretazione ricca di pathos e mai sopra le righe, delicata ed eloquente, misurata ed evocativa. Il tocco di Lisiecki è elegante, intenso e come disse notoriamente di lui il New York Times “fa contare ogni nota”.
Eccellente anche il bis ovvero Träumerei dalle Kinderszenen op. 15 di Robert Schumann dolcissimo e assolutamente affascinante. Gaetano d’Espinosa alla testa dell’orchestra instaura un ottimo dialogo tra il pianoforte solista e l’orchestra stessa, dialogo che non viene mai a mancare e che è risultato un elemento importantissimo della buona riuscita dell’esecuzione.
D’Espinosa, ormai ospite dell’Orchestra Rai dal 2012, ha anche dato il via al concerto con la celeberrima Valse Triste di Jean Sibelius, tratta dalle musiche di scena per la pièce teatrale Kuolema, un dolente valzer a tu per tu con la morte che nel momento in cui la protagonista della danza si accorge dell’identità del suo cavaliere assume anche tinte drammatiche. Per concludere il concerto, dedicato a due musicisti fortemente legati alla propria Patria come Chopin e Sibelius, l’orchestra esegue la Sinfonia n. 5 in mi bemolle maggiore op. 82 proprio di Sibelius.
La Sinfonia ha carattere fortemente bucolico e sereno, nonostante alcuni guizzi di nervosismo, specialmente nella sezione degli archi all’inizio del terzo movimento, e la lettura di d’Espinosa è tutta improntata ad un clima di calma e pacata riflessività.
Calorosi gli applausi finali che celebrano una serata di ottima musica eseguita in maniera eccellente come è ormai consuetudine dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.
DIE SIEBEN LETZTEN WORTE UNSERES ERLOESERS AM KREUZE HOB. XX.4 [Mirko Gragnato] Milano, 22 marzo 2016.
Proiettati nella passione del triduo con le musiche di Haydn, Philippe Herreweghe con l’Orchestre des Champs Elysées e il Collegium Vocale Gent, esegue “Le ultime sette parole del nostro redentore sulla croce” per la stagione della Società del Quartetto.
Dopo lunghi applausi che accolgono orchestra e coro sul palco della sala Verdi, alla presenza del Console Onorario del Belgio si sono espressi il cordoglio e la vicinanza al regno belga dal quale provengono anche molti dei musicisti giunti a Milano per questa esecuzione.
Con un minuto di raccoglimento la sala Verdi ha voluto mostrare la sensibile vicinanza a Bruxelles e al dramma degli attentati all’aeroporto e alla metropolitana.
In questa dimensione emotiva si è calati nell’esecuzione che va a rappresentare l’apice della passione dal racconto dei vangeli, i momenti che precedono la morte di Gesù, quando al dolore fisico dell’uomo si resta spettatori impotenti ai piedi della croce, come avvolti nell’oscurità.
La stessa oscurità che il venerdì santo del 1787 nella città di Cadice avvolgeva la cripta della chiesa del Rosario, la Santa Cueva, a luci spente e con lunghi drappi neri che coprivano le finestre impedendo ai raggi del caldo sole d’aprile di entrarvi. In questo contesto liturgico il celebrante nel testo latino della vulgata iniziava a pronunciare la prima delle sette frasi, che gli evangelisti mettono in bocca al cristo morente, per poi prostrarsi nel mezzo della cripta.
Haydn fu così colpito dalla liturgia e dal binomio della sua musica che l’esecuzione per orchestra verrà ripresa più volte e trasformata in quartetto e poi in un oratorio, risultato finale che oggi ascoltiamo.
L’orchestra degli Champs Elysées nella sua identità di orchestra, guidata da Herreweghe, cerca la prassi filologica nell’impiego di strumenti originali per le esecuzioni che vanno da Haydn a Mahler.
Grazie alle corde in budello bastano pochi elementi per riempire di suono la sala verdi, per dare un termine di riferimento soltanto 6 primi violini, la pancia più ampia che le corde formano allo sfregare degli archetti, che a differenza del repertorio barocco qui hanno già la convessità invertita dall’idea di Viotti, grazie alla maggiore elasticità permette alle vibrazioni sonore di essere più ricche di armonici e viaggiare di più attraverso l’aria letteralmente riempiendo di suono l’intero auditorium.
Nell’introduzione “Maestoso ed Adagio” l’orchestra già dalle note incisive mostra la sua forza e intensità ma allo stesso tempo una cura del suono che non è mai strappato o urlato ma pieno e sostenuto, risultato sia della bravura dell’orchestra che del lavoro di bulino del maestro Herreweghe.
“Pater, dimmite illis; non enim sciunt, quid faciunt”
Questa la prima delle sette frasi a cui segue l’elaborazione scritta in lingua teutonica da Gottfried van Swieten, protettore e allo stesso tempo librettista di Haydn che darà sviluppo al testo della mirabile die Schoepfung che ha ancora da venire.
La dolcezza di questo largo aperto dai soli e poi seguito dal coro è un inno di pietà e allo stesso tempo di amore dove i bassi sostengono con i ribattuti l’arabesco melodico dei violini e dei legni, a cui si appoggiano soprano e contralto in duetto affiancati dal duetto del tenore e del basso. L’impasto vocale dei soli è frutto di un ottimo incontro tra timbro e colore delle voci, dove il sopranno Sarah Wegener e il tenore Robin Tritschler hanno forse maggior presenza di intensità e volume.
Chiarissimi, e colorati di una sfumatura tenue, gli acuti del soprano Wegener esattamente lo stesso per il tenore Tritschler in un perfetto matrimonio vocale.
Ai soli non è da meno il Collegium Vocale di Gent che con questo repertorio si muove in piena consapevolezza e padronanza della parte, dove tutte le voci sono contraddistinte da un equilibrio e un’omogeneità rara da trovare nei cori, senza voci più spinte o sostenute, ma senza livellare le voci, il coro di Gent è un prodotto di pesi e contrappesi di raffinata bravura vocale.
Nella terza frase dove avviene l’affido dell’apostolo Giovanni a Maria e Maria all’apostolo Giovanni, Sarah Wegener nelle fioriture dell’acuto è impeccabile nella chiarezza del timbro.
Qui emerge anche il timbro più scuro ma dalla voce tonda del contralto Marie Henriette Reinhold.
Nell’ultima delle sette frasi “Pater in manus tuas commendo spiritum meum” dove Gesù affida la sua anima nella mani del padre, qui Haydn costruisce un estratto di una dolcezza sublime, dove i soli tenore e soprano duettano accompagnati dai corni alternandosi col coro, al quale è difficile restare indifferenti, concludendosi con le note gravissime del basso David Soar sulle parole “meinem Geist” (il mio spirito).
Una dolcezza, una tiepida tenerezza che si scontra col dramma della sofferenza, questo è quello che traspare da tutta la parte musicale che contiene e sostiene la parola tratta dal vangelo della passione.
Però nella parte conclusiva del terremoto segnato ” Presto e con tutta la forza” esce quel dramma del dolore di un’umanità che si sente abbandonata alla sofferenza e reagisce con un grido al cielo e alla terra.
Una forza con la quale l’orchestra degli Champs Elysées ha ben scosse le pareti della sala Verdi; il pubblico alla chiusura del gesto di Herreweghe è scoppiato in un fragoroso applauso, perdendo il prezioso silenzio che echeggiava ancora del forte accordo finale.
La Società del Quartetto di Milano spesso si distingue per l’alto livello della sua stagione e con il rinnovato invito ad Herreweghe con l’orchestra des Champs Elysèes e Collegium Vocale Gent ancora una volta ha riscosso un successo formidabile.
SUYOEN KIM [Mirko Gragnato] Verona 30 Marzo.
Suyoen Kim per gli Amici della Musica di Verona inizia il viaggio tra le sonate e le partite di Bach per violino solo.
La giovane violinista di origini coreane ma nata in Germania, dopo essere arrivata tra i finalisti del prestigiosissimo premio Queen Elizabeth viene invitata dagli amici della musica per il progetto “integrale Sonate e Partite per violino solo di Johann Sebastian Bach”.
Suyoen Kim è per la prima volta a Verona, talento giovane, ancora under30, è sbocciata agli occhi della critica internazionale quando il “Jyllandposten” l’ha definita come “la nuova stella del mondo musicale”.
Ha frequentato la Hochschule di Detmold concludendola sotto la guida di Helge Slaato per poi proseguire il suo percorso alla scuola di Monaco guidata da Ana Chumachenco.
Come solista inoltre è stata accompagnata da bacchette di pregio tra cui Kurt Masur, Eliahu Inbal, Myung-Whun Chung solo per citarne alcuni.
Ancora una volta gli Amici della musica di Verona confermano con questo concerto un calendario ricco di spessore e qualità, investendo su giovani di alto livello e raffinatezza tecnica.
Per questa prima parte del progetto “integrale” Suyoem Kim ci ha deliziato con la Sonata n.1 in sol maggiore BWV 1001, la Partita n.3 in Mi Maggiore BWV 1006 e la partita n.2 in Re minore BWV 1004.
Il suono di Kim è pieno, tondo, i passaggi veloci dell’arco sulle corde e il salire e lo scendere delle posizioni rapidissimi e sicuri.
Un Bach controllato ma approfondito, un fraseggio chiaro e pulito ma allo stesso tempo arricchito di semplici abbellimenti.
Il vibrato di questa giovane non è sfrontato e nemmeno debole, anche quello sembra dosato con la prudenza di chi conosce profondamente il repertorio di Bach, un abbellimento che tanto più è usato con parsimonia tanto più arricchisce.
I tempi lenti della sonata, come lo splendido e famosissimo Adagio, che ne è l’apertura, è un proporsi di lunghe note che, nonostante il cambio d’arcata, sembrano legate, intrecciate dal respiro di un fraseggio ricamato dalle linee melodiche.
Così come la fuga nel suo tema iniziale di semplici note ribattute e staccate, eseguite con semplicità e piena adesione al testo bachiano, sviluppandosi con l’armonia delle note doppie che vengono eseguite senza strappate ma sempre con suono pieno e rotondo, che permette ad entrambe le corde di vibrare senza soffocare il suono.
Per non parlare del preludio della partita n. 3 in Mi Maggiore: un arco agile e con la piena consapevolezza del peso e dello stile, le arcate in veloci passaggi a detaché sono ben controllati nella parte basso mediana dell’archetto.
Una capacità di consapevolezza e controllo del baricentro, del punto di equilibrio dell’archetto che porta alla produzione di un suono uniforme e chiaro.
La terza partita racchiude anche il fossile, il rimasuglio, di una tradizionale danza del XVII secolo, anche perché delle partite e delle suite, la maggior parte dei movimenti ricalca i tempi delle danze come gavotta, passacaglia, sarabanda, tutte danze coeve a Bach, ognuna con le sue caratteristiche di tempo e agogica pensate per accompagnare i passi dei ballerini.
La danza refuso di una tradizione perduta è la Loure, nota anche come Gigue Lente, una danza dall’incipit anacrustico, con lo slancio al tempo forte della seconda battuta, usata per lo più in Normandia, e che Johann Sebastian Bach ha inserito come inusuale traccia storica di questa composizione.
Magici i due minuetti, eseguiti con slancio e purezza dei passaggi a doppia corda.
Della seconda partita in Re minore, ultima parte di questo concerto, un’esecuzione magistrale della courante e della celebre ciaccona.
Suoyem Kim si è imposta come una pregevole esecutrice che avremo la fortuna di risentire l’anno prossimo per il progetto dell’integrale, bellissimo il suono dello stradivarius “exCroall” del 1684 tra le sue dita.
Un’esecuzione di Bach molto curata, un’esecuzione rispettosa ma allo stesso tempo personale, facendo di Kim una virtuosa attenta alla cura del suono, dove non viene lasciato nulla al caso.
La parte sul leggio, spesso oggi così osteggiata a favore dell’esecuzione a memoria, si mostra invece una chiara volontà di seguire Bach sulla carta stampata, una sorta di vangelo musicale sempre presente e sempre pronto ad essere letto e riletto per comprendere il significato profondo di una polisemia musicale che non è mai limitata ma che trova nella semplicità il ricettacolo del suo mistero.
Ben 7 le chiamate a suon di applausi per Suyoem Kim che nonostante la stanchezza dopo un programma impegnativo come quello delle partire e sonate, ha deciso di suonare ancora “one more, one more the gavotta” accontentando così un pubblico entusiasta che nonostante un concerto di tanto Bach, dimostra che la musica del compositore di Lipsia non basti mai.
NEL RICORDO DI UNA ROSA [Lukas Franceschini] Verona, 3 aprile 2016.
Verona Lirica ha organizzato un concerto straordinario intitolato “…nel ricordo di una rosa” per rendere omaggio la signora Rosangela Tuppini, moglie del Presidente Giuseppe, nell’anniversario della scomparsa.
La signora Rosangela è stata per molti anni anima e collaboratrice in prima fila dell’associazione e l’omaggio è stato tanto doveroso quanto commuovente.
Originariamente era previsto altro programma con il tenore Paolo Fanale, purtroppo impegni di famiglia l’hanno trattenuto in Sicilia. Il direttivo di Verona Lirica si è subito attivato trovando due degni sostituti in Madina Karbeli, soprano, e Jesus Leon, tenore, in questo periodo impegnati nella produzione de La Sonnambula al Teatro Filarmonico di Verona, la quale debutterà il prossimo 17 aprile. Assieme ai solisti si sono esibiti il primo violino della Fondazione Arena Günter Sanin, e il clarinettista Giampiero Sobrino membro dell’Orchestra della Fondazione Arena e Vice Direttore Artistico. Al pianoforte la prof.ssa Patrizia Quarta.
Il tenore Jesus Leon, vincitore del Concorso “Toti dal Monte” nel 204, si è esibito nella celebre aria “Je crois d’entendre encore” da Les Pecheurs de Perles di Georges Bizet, sfoggiando una voce molto delicata dal colore etereo e rifinita nel fraseggio. Molto espressivo è stato anche il brano successivo, l’impervia cavatina “Ah! Leve-toi soleil” da Romeo et Juliette di Charles Gounod dove ha trovato modo di sfoggiare mezzevoci molto pertinenti e un accento rilevante. Meno riuscita l’aria “O mio spirto angelico… Bagnato il sen di lagrime” da Roberto Devereux di Gaetano Donizetti non tanto per tecnica ma per stile e spessore vocale.
Madina Karbeli è un soprano lirico, rotondo e molto musicale, caratteristiche che le permettono di spaziare nel repertorio con buona facoltà. Infatti, nella prima aria “Come scoglio” da Cosi fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart pur non vantando un virtuosismo peculiare esce a testa alta per uno spontaneo senso del fraseggio e un buon stile interpretativo. Migliore è para l’aria di Micaela da “Carmen” di Georges Bizet ove la sua natura lirica non ha avuto intoppi nell’esprimere sentimento e poesia. Sicuramente intensa l’aria “O mio babbino caro da Gianni Schicchi di Giacomo Puccini. Dallo stesso autore era tratto anche il duetto finale “O soave fanciulla” da La Bohème, bravo molto appassionato e ben eseguito dai giovani cantanti.
Gli interventi canori sono stati accompagnati al pianoforte dalla mano espertissima di Patrizia Quarta, eccellente pianista che si è esibita in quest’occasione anche con due solisti, il primo è stato il clarinettista Giampiero Sobrino che ha eseguito la Fantasia Concertante su brani da Rigoletto di Giuseppe Verdi composta da Luigi Bassi ed Ernesto Cavallini, in maniera egregia e molto appassionata. E’ seguito il preludio per clarinetto dell’aria di Alvaro al terzo atto da La forza del destino di Verdi, ove il musicista ha espresso una tecnica ammirevole.
Il violino Günter Sanin si è esibito in “Chinquilin de bachin” di Astor Pizzolla, Horacio Ferer e Roberto Goyeneche facendoci ammirare la strepitosa tecnica allo strumento solista, poi ha eseguito magistralmente un brano di Louis Bachalov che fu colonna sonora del film “Il postino”, congedandosi dal pubblico e chiudendo il concerto con un’appassionata esecuzione di Pene d’amore di Fritz Kreisler, sommo violinista e compositore, al quale Sanin ha reso grande onore con la sua lettura.
BEN GERNON [Mirko Gragnato] Verona, 9 aprile 2016.
Per la stagione degli Amici della Musica, un concerto con l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Ben Gernon, il quale ci conduce in un viaggio musicale che dalla Finlandia e, attraverso il Baltico, ci porta in Russia, alla scoperta di sonorità nuove e scenografie musicali.
Penultimo concerto della stagione degli amici della musica e per la seconda volta, sul palco del Teatro Ristori, si esibisce un’orchestra.
Un risultato che testimonia l’impiego di forze e risorse che un’associazione come gli “Amici della Musica” riversa in una stagione musicale, arricchendo il panorama culturale di Verona, una città che soffre di ferite profonde: dopo il furto al principale museo cittadino, ora, anche la principale realtà musicale, l’orchestra della fondazione Arena, è messa alla porta. Un ricco e pregevole programma quello che ha visto esibirsi l’OPV ( Orchestra di Padova e del Veneto) al Teatro Ristori. La suite orchestrale di Jean Sibelius, Pelléas e Mélisande è una di quelle partiture così poco esplorate e raramente rintracciabile nei programmi delle stagioni concertistiche, così come sono rare le registrazioni e scarni i testi che lo riguardano, se non di sfuggita, concentrandosi sull’opera omonima di Claude Debussy, anche il programma di sala contiene poche ermetiche parole su questa mirabile composizione orchestrale. Il testo di Maeterlinck, che traccia la vicenda amorosa e tragica di Pelléas e Mélisande, a cui s’ispira la suite, è un intreccio di non detti, di accenni, di cose lasciate sospese, dove l’amore che germoglia tra i due cognati, i quali danno il nome al racconto, ricorda i danteschi Paolo e Francesca.
Tutto l’erotismo però è appena accennato, lasciando solo nei pensieri di Goulad, il Malatesta della situazione, il torbido foriero dei crimini di sangue.
Se Pelléas muore colpito dal fratello riportando alla mente il verso di Dante “Caina attende chi in vita ci spense”, la sorte di Mélisande, in questo fumoso intreccio narrativo, viene consumata da un male che non si può dire se dell’animo o del corpo, lei si spegne a poco a poco, come la fiammella di una candela ormai consunta.
L’OPV guidata da Ben Gernon ha fatto fiorire la fila dei legni in questa esecuzione, nel pezzo di apertura con lo splendido tema del corno inglese: placide note legate accompagnate dagli archi con note lasciate sospese.
Seguite subito dopo dall’adagio “in riva al mare”, dove il frangersi delle onde viene evocato acusticamente dai profondi tremolii dei contrabbassi, un effetto speciale che coinvolge l’ascoltatore materializzando il mare in teatro, un mare solitario e senza vita, composto di masse d’acque che si scontrano sula riva.
Sibelius, con i suoni, riesce a disegnare vere e proprie scenografie musicali, come nel movimento – “con moto” Mélisande all’arcolaio – dove le viole diventano, con un implacabile ostinato, la vorticosa ruota dell’arcolaio e l’accento sul tempo forte diventa la spinta al pedale che dà forza alla ruota.
Gli altri movimenti come “le tre suore cieche” (De trenne blinda sistrar) danno sempre un ruolo preponderante alla fila dei fiati che conducono e si fanno guida di tutta la composizione, così anche con l’impasto timbrico dell’oboe intrecciato al fagotto e ai clarinetti, nel giocoso entr’acte dalla conclusione maestosa, diventando preludio e stacco da un tema di allegrezza al più patetico finale “la morte di Mélisande”
Qui l’affanno di una vita che sfugge si rende con il legatissimo degli archi, che singhiozza debolmente con acute note ribattute, saltando al grave in un tenuto e separato dei violini, evolvendosi in un lamento, che dal clarinetto passa all’oboe, e, con un’esplosione orchestrale dal sapore wagneriano, si spegne nel diminuendo di una lunga nota d’insieme. In questo punto Gernon crea la magia: alla fine della suite, su questo morire di Mélisande, tiene stretta l’orchestra in una tensione silente, i musicisti con il braccio teso, la punta dell’archetto immobile sulle corde.
Un silenzio vibrante in questi eterni secondi, difficili da quantificare, lasciano il pubblico in un respiro mozzato dal suono indefinito in una dimensione sospesa.
Quando ecco le mani del direttore scivolano verso il basso, gli archetti s’involano dalle corde e dalla platea, dopo un profondo respiro, scoppia un applauso fragoroso.
Un Sibelius proposto con un’esecuzione magistrale che conclude la prima parte della serata.
Nella seconda parte invece si compie un salto in Germania, in questo viaggio musicale che porta dalla Finlandia alla Russia, con l’Idillio di Sigfrido, composto da Richard Wagner come sorpresa per il compleanno della moglie Cosima: un pezzo che nella semplicità di una vita domestica e familiare racchiude il germe di alcuni temi del ciclo del nibelungo. Un’esecuzione però che non è al pari di ciò che la preceduto, mostrandosi un po’ spedita e superficiale senza una vera cura del suono e della sua tenuta. Concentrando il lavoro più sulla suite di Sibelius e la prima sinfonia di Tchaikovsky, forse per tirannide di tempo, non si è potuto scavare in profondità per far riemergere l’identità della pagina wagneriana.
A chiusura del Concerto la sinfonia n. 1 in Sol Minore op.13, iniziata a scrivere dal compositore russo nel marzo di 150 anni fa, subito dopo aver ottenuto la cattedra al conservatorio di Mosca. Questa partitura segna forse una delle prime incursioni di un compositore russo nel repertorio sinfonico e che nella ricchezza dei temi di Tchaikosky ha portato ancora alla luce le qualità delle file dei violoncelli e delle viole che in accoppiata con i legni e i contrabbassi sono i produttori della magica sonorità di questa orchestra. Nel primo movimento – Visioni di un viaggio, Allegro tranquillo – così come nel terzo – Scherzo – Tchaikovsky sperimenta le sonorità degli archi a tutto tondo, spingendosi anche nel registro grave dei violini, passando dagli agili legati ai pizzicati utilizzando molto i passaggi cromatici che con staccati ribattuti spingono ritmicamente l’apertura di questa sinfonia.
Alle viole è affidato il tema del secondo movimento – Terra desolata, Adagio Cantabile – che si snoda anche tra la tessitura alta dello strumento, nel suono acuto, ma comunque dal timbro caldo, eseguito da una fila di quattro strumentisti dal suono pieno ed omogeneo, uniti anche nel respiro.
Nell’ultimo movimento – Finale, Andante lugubre – c’è un profondo interesse verso i suoni gravi, con il tema che passa dai fagotti ai celli che poi, soli, in un accelerando trasportano l’orchestra verso l’esplosione dell’ Allegro Maestoso. Dove ancora una volta il tema principale, dal sapore di canto popolare russo, è affidato alle viole per poi svilupparsi tra le entrate dei legni, per poi concludersi con il suono forte e possente degli ottoni.
La guida di Ben Gernon, così attenta alle sfumature e ai colori, è riuscita tra Sibelius e Tchaikovsky a produrre un’esecuzione valida e pregevole; per il giovane maestro applausi sia dal pubblico, che nonostante il Vinitaly resta sempre fedele agli amici della musica, e sia dagli orchestrali.
La sua direzione è riuscita nel condurre l’orchestra di Padova e del Veneto e portarla ad un risultato di livello e qualità, superando ogni aspettativa. Purtroppo si tende a non considerare il valore delle orchestre delle nostre città, cercando la qualità in un orizzonte d’oltralpe, cliché sfatato da questa esecuzione, con un repertorio poco battuto, affasciando un pubblico che non ha risparmiato fragorosi applausi.
EKATERINA BAKANOVA, AYA WAKIZONO, STEFANO LA COLLA, MODESTAS SEDLEVICIUS, RICCARDO ZANELLATO [Lukas Franceschini] Verona, 10 aprile 2016.
L’ultimo concerto della stagione di Verona Lirica si è svolto in una primaverile domenica soleggiata in un Teatro Filarmonico stipato in ogni ordine di posto.
Come di consueto la prof.ssa Patrizia Quarta, in uno splendido abito da sera rosso fiammante, ha accompagnato al pianoforte i solisti, ed è doveroso rilevare la qualità artistica della musicista che offre sempre non solo un accompagnamento ma anche una concertazione cameristica delle esibizioni. E’ raro trovare tanta partecipazione e professionalità.
L’Associazione ha potuto schierare un poker molto interessante: il soprano Ekaterina Bakanova, il mezzosoprano Aya Wakizono, il tenore Stefano La Colla, il baritono Modestas Sedlevicius e il basso Riccardo Zanellato.
Ha iniziato il programma della serata Riccardo Zanellato che si è esibito nell’aria “Di sposo di padre ” da Salvator Rosa di Antonio Carlo Gomes nella quale ha messo in luce la sua rigogliosa e profonda voce, particolarmente adatta al cantabile tipico b-vrldella romanza, cui è seguita un’esecuzione molto intimista e partecipata, sotto il profilo del fraseggio, di “Ella giammai m’amò” da Don Carlos di Verdi. Nella seconda parte si è esibito nell’aria di Attila “Mentre gonfiarsi l’anima… Oltre quel limite”, ove ha saputo esprimere una musicalità rilevante è un energico temperamento.
Aya Wakizono, reduce dal recente successo ne La Cenerentola proprio al Filarmonico, ha cantato la cavatina di Tancredi “ O patria… Di tanti palpiti” con voce molto bella ma leggera, tuttavia non è mancata una grande musicalità è uno stile anche appropriato. Successivamente la giovane cantante si è assicurata un applauso speciale eseguendo il rondò di Cenerentola “Nacqui all’affanno e al pianto” con grande temperamento e tecnica appropriata.
Anche il baritono Modestas Sedlevicius era nel cast della Cenerentola citata, e ha riproposto l’aria di Dandini “Come un’ape ne’ giorni d’aprile”, risolvendo il brano con gustosa comicità, precisione tecnica e soprattutto un sillabato molto sciolto. Nell’aria di c vrlValentin “O Sainte médaille… Avant de quitter ces lieux” da Faust di Gounod ha esibito un timbro rotondo e melodico con l’aggiunta di una musicalità rilevante. Modestas Sedlevicius ha in seguito cantato “Vedrò mentr’io sospiro” da Le nozze di Figaro esprimendo una brillante e incisiva interpretazione. L’unico duetto in programma è stato quello cantato dal baritono da Ekaterina Balanova: “Lippen schweigen” da Die Lustige Witwe con molto sentimentalismo e delicata vocalità.
Il tenore Stefano La Colla si è cimentato con un brano di rara esecuzione come “Sotto il sol di Siria ardente” cavatina di Aroldo, di Giuseppe Verdi, eseguita con impeto e giovanile baldanza, cui è seguita una passionale e drammatica interpretazione di “Ah pazzo non son” da Manon Lescaut di Giacomo Puccini. Il tenore ha concluso i suoi interventi con un celebre pezzo napoletano “Core ‘ngrato” nel quale ha avuto modo di esprimere un temperamento vibrante.
E’ stata poi la volta Ekaterina Bakanova, la quale ha ammaliato con una mirabile esecuzione di “Regnava nel silenzio” da Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti con stile e ottime proprietà vocali. Il soprano ha proseguito con la canzone della luna da Rusalka di Antonin Dvorak eseguita con soave trasporto e una proprietà di fraseggio, e a dimostrazione della versatilità vocale ha concluso la sua esibizione cantando la deliziosa “Les filles de Cadix” di Leo Delibes con squisita brillantezza. Al termine è stata premiata con una targa quale miglior cantante debuttante nella scorsa stagione areniana.
Il pubblico molto caloroso di applausi è stato omaggiato da tutti i cantanti con il brindisi da La Traviata, una maniera festosa per dare appuntamento alla prossima stagione.
GÀBOR TAKÀCS-NAGY, MARTHA ARGERICH [Mirko Gragnato] Padova,10 aprile 2016.
La missione di AIRC chiama Martha Argerich al teatro Verdi e con lei la Manchester Camerata guidata dalla bacchetta di Gàbor Takàcs-Nagy.
Il Teatro Verdi gremito per questo straordinario concerto che chiama un’artista della levatura e della fama di Martha Argerich nella città di Padova.
Il concerto di Beethoven, che l’ha vista protagonista alla tastiera, nel programma propone una cornice mozartiana: la prima sinfonia Mi Be Molle Maggiore k 16 e la sinfonia n.41 in Do Maggiore “Jupiter” k 551.
Prima dell’inizio della serata il presidente di AIRC Antonio Maria Cartolari prende la parola per ringraziare chi ha reso possibile questo concerto come gli sponsor Fondazione ANTONVENETA e Banca LEONARDO, oltre che l’orchestra di Padova e del Veneto per la preziosa collaborazione ( i timpani e i contrabbassi sono infatti un cordiale prestito dell’orchestra patavina).
L’orchestra entra e si sistema su un palco privo di sedie, fatta eccezione per i violoncelli, Mozart si suona in piedi, viene da pensare quasi come forma di rispetto al sublime genio salisburghese ma probabilmente anche per una maggior libertà e dinamismo, solidamente poggiati coi piedi per terra.
Il maestro Takàcs entra e prima di porsi a guida dell’orchestra prende brevemente la parola precisando che Mozart scrisse questa sinfonia giovanissimo, all’età di soli 8 anni.
Una mente formidabile sin dalla pubertà infatti ha prodotto questa sinfonia in tre movimenti, un sinfonia giocosa che un aneddoto narra venne scritta in carrozza durante il suo soggiorno a Londra.
Vero o falso che sia fa sorridere pensare alla successione melodica della triade di mi be molle maggiore, che vede nelle minime della tonica e mediante il cocchiere, che slancia le briglie, e nella dominate i cavalli con un galoppo di crome ribattute, così si apre il primo movimento.
Della sinfonia K 16 Mila diceva “Pur nella modestia delle dimensione è una delle più belle tra le sinfonia infantili di Mozart” come dargli torto. Alla chiarezza e alla giocosità dell’allegro molto e del presto la partitura racchiude nel secondo movimento, nella tonalità di Do Minore, un sapore scuro, quasi cupo; dove una ricerca delle armonie porta i violini ad incontrarsi negli instabili gradi congiunti del terzinato ribattuto, creando un effetto sfumato che si impasta con i due corni.
L’ascoltatore è sospeso in questa linea di note lunghe spinte dai violoncelli, con passetti di crome staccate, una linea che ritrova la sua stabilità sullo slancio delle fioriture degli oboi.
La Manchester Camerata è un’orchestra di cui si inizia a sentire molto parlare, un’orchestra per lo più composta da giovani e che nell’esecuzione mette una forza d’entusiasmo, coinvolgendoci con la passione, arricchendo con i sorrisi le file tra i leggii.
Ecco ora immaginate di essere uno di questi giovani musicisti ai quali si pone la grande opportunità di suonare con una delle più grandi pianiste viventi, Martha Argerich.
Avvertite l’elettricità nell’aria.
Della pianista argentina Marta Argerich che quest’anno festeggia la settantaquattresima primavera si è detto tantissimo e la fama, che oramai la precede, fa sì che i teatri siano sempre gremiti ai suoi concerti.
Per questo concerto la solista vanta una numerosa discografia: registrazioni con orchestre di alto lignaggio e sotto la guida di direttori del calibro di Abbado e Sinopoli.
Il concerto, eseguito per la prima volta a Praga nel 1798, aveva visto lo stesso Beethoven alla tastiera e anche se porta la numerazione di primo in realtà è il terzo delle composizioni per piano e orchestra, gli altri lavori che aveva scritto restarono infatti impubblicati o incompleti.
Martha Argerich nonostante l’età non ha perso l’agilità della mano a la cura nel tocco, le dita un po’ vissute.
Purtroppo, per quanto Orchestra e solista dialogassero benissimo attraverso un’ottima intesa ed equilibrio di pesi e misure, mancava la piena connessione tra piano e orchestra.
Il maestro Takasc forse per un’eccessiva premura sembrava non essere pienamente fiducioso nell’orchestra e gli attacchi del “tutti” a seguito delle cadenze della pianista tardavano a lanciarsi perdendo la soluzione di continuità della partitura.
I momenti di emotiva partecipazione con il climax che la musica di Beethoven preparava andavano a dissolversi per queste attese di prudenza per dare l’attacco all’orchestra. Questo soprattutto nel primo e terzo movimento.
Il Largo di questo concerto è uno dei pezzi più patetici e le prime note sono proprio affidate allo strumento solo che apre il movimento appena accompagnato dall’impercettibile pianissimo degli archi, mentre invece il terzo movimento fa l’occhiolino alla modernità, che ai passaggi giocosi unisce alcuni assaggi dal sapore jazzistico rendendolo un classico senza tempo che è vicinissimo al sentire odierno.
Un’esecuzione magistrale e la pianista, acclamata dal pubblico con fragorosi applausi, ha salutato il teatro verdi con due bis un’esecuzione della sonata di scarlatti in re minore k 141 e il brano di apertura dei Kindersezen op.15 di Schumann.
Dopo l’intervallo la Manchester Camerata ha eseguito la sinfonia n.41 “Jupiter” di Mozart, sinfonia che racchiude uno dei “temi” mozartiani nella sequenza di quattro note ( mi Be molle – Fa – La bem – sol) inaugurato con la prima sinfonia e che qui riappare nel fugato finale.
Un’esecuzione di ottima fattura quella di questa giovine orchestra, che dà molto da sperare.
Tanti sono stati gli applausi tributati all’ensemble britanni che il concerto si è concluso con l’esecuzione di un bis, una citazione mozartiana dell’ave verum corpus nella composizione “la preghiera” di Tchaikovsky.
JURAJ VALČUHA [Lukas Franceschini] Ferrara, 11 aprile 2016.
Uno dei più interessanti concerti della Stagione di Ferrara Musica è stato quello dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Juraj Valčuha, nel quale sono stata eseguiti l’opera Oedipus Rex di Igor Stravinskij e la Sinfonia n. 1 di Sergej Prokof’ev.
Edipo re è un’opera-oratorio in due atti eseguita per la prima volta in concerto a Parigi il 30 maggio 1927 al Théâtre Sarah Bernhardt con la direzione dell’autore stesso. Le prime rappresentazioni in forma di concerto furono a Vienna il 23 e a Berlino il 25 febbraio del 1928. Per precisione un’anteprima fu eseguita al pianoforte sempre a Parigi la sera del 29 maggio nel salone della Principessa Winnaretta Singer Edomnd de Polignac, amica e mecenate di giovani compositori. Il testo fu scritto da Jean Cocteau, amico personale del compositore, poi tradotto in latino da Jean Daniélou, ed è ispirato dall’omonima tragedia di Sofocle. La scelta del latino fu determinata dal fatto che Stravinskij considerava la sua lingua madre, il russo, ormai impraticabile, mentre altre lingue europee tipicamente operistiche, il francese, il tedesco e l’italiano, gli erano estranee. Lo spartito è da considerarsi di fondamentale rilevanza nel periodo cosiddetto “neoclassico” di produzione musicale di Stravinskij, dal quale deriva il soggetto antico, la lingua latina e la forma oratoriale. Dopo la revisione del 1948 vi è la consuetudine di rappresentare l’oratorio in forma scenica; alcuni sostengono che in tale versione si perde il senso della sacralità dell’idea originale. Personalmente penso che ciò dipenda sempre dalla concezione drammaturgica che il regista adotta, e considerando le attuali produzioni operistiche ritengo che forse la forma concertistica sia da preferire anche in considerazione che c’è la presenza di un narratore, solitamente un attore, che sarebbe difficile inserire in uno spazio scenico. Nei pezzi chiusi che compongono Oedipus Rex, sedici sezioni musicali, il compositore coniuga l’ispirazione di modelli musicali molto diversi, attingendo a stili inglesi, italiani e russi, i quali hanno come comune denominatore un ritmo ispirato dal classicismo metrico.
Juraj Valčuha, direttore stabile dell’Orchestra Rai fino al prossimo ottobre, ha instaurato da tempo un rapporto speciale con l’orchestra, entrambi hanno prodotto in questi anni vertici artistici di assoluta rilevanza, il complesso Rai si conferma uno dei migliori complessi sinfonici italiani. La sua direzione nel lavoro di Stravinskij è stata solida, di grande spessore drammatico, tersa e particolarmente incisiva nel racconto. Una lettura che voleva seguire un racconto unitario, pur nella suddivisione, un affresco neoclassico di forte emozione e vitale dinamismo, contrassegnato da colori e respiro musicale di eccezionale valore. Al pari la grande performance del coro Filarmonico Ceco di Brno istruito da Petr Fiala.
Molto buono il cast radunato. Brendel Gunnell, il protagonista, tenore chiaro ma molto musicale ha saputo rendere un protagonista molto efficace valorizzando espressivamente il dramma interiore dell’uomo. Rundel trova in questo repertorio un terreno molto appropriato per le sue caratteristiche vocali, voce molto precisa, anche se non in possesso di armonici particolari, che lo vede molto superiore rispetto alla sua recente prova mozartiana a Venezia.
Stupefacente la Giocasta di Sonia Ganassi, che si confronta in un repertorio quasi mai frequentato. L’intuito artistico e musicale della cantante le ha permesso si valorizzare con vigore un personaggio credibile, molto drammatico e teatrale. Marco Mimica si ritaglia un personale successo nel ruolo di Creonte potendo valorizzare lo spartito con una voce ferma, rotonda e imponente. Alfred Muff era un professionale Tiresia e Matteo Mezzaro un bravissimo pastore. Presenza eccezionale quella di Toni Servillo quale narratore, che ha recitato i suoi interventi con una classe superlativa, istrionica e statuaria.
Nella prima parte è stata eseguita la Sinfonia n. 1 in Re Magg. Op. 25 denominata “Classica” di Sergej Prokof’ev. Composta nel 1917 quando il musicista ebbe l’idea di scrivere uno spartito nello stile di Haydn (il “padre” della sinfonia) pertanto classico nella struttura. Anche in questo caso le lodi si sprecano, il direttore ha saputo forgiare l’ottima orchestra in una lettura sciolta e brillante, rifinita nel ritmo e nei dettagli delle sonorità cui va aggiunto un arguto fraseggio.
Successo trionfale al termine dell’esecuzione, senza intervalli, da parte di un folto pubblico che gremiva il Teatro Comunale “Claudio Abbado” di Ferrara.
FRANCESCO ANGELICO, DOMENICO NORDIO [Margherita Panarelli] Torino, 15 Aprile 2016.
Per l’appuntamento del Festival Casella all’Auditorium “Arturo Toscanini” l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai propone un programma interamente dedicato al compositore torinese con Francesco Angelico alla testa dell’orchestra e Domenico Nordio al violino.
Francesco Angelico guida l’orchestra nel primo brano del programma: Introduzione, Aria e Toccata op. 55, una composizione di ampio respiro, saldamente ancorata nella tradizione musicale italiana ma di concezione innovativa. Casella la definì “discorsività logica” – “superamento definitivo della forma-sonata beethoveniana” verso un approccio più libero al materiale musicale. La compattezza e la densità del suono orchestrale combinate ad una cantabilità veramente tutta italiana sono la cifra stilistica di questo brano e delle composizioni di Casella in generale. Qui la marzialità della prima parte si distende con un tema dolce e nostalgico, rimbalzato tra varie sezioni e strumenti dell’orchestra, seguito da una sezione tesa e nervosa che si conclude con un unanime celebrazione trionfale.
Protagonista del brano successivo è Domenico Nordio nel Concerto in la minore op. 48 per violino e Orchestra. Composto nel 1928 questo Concerto è dedicato al celebre violinista Szigeti. Casella fu severissimo nei confronti di questa sua composizione, giudicandola debole e troppo propensa a “concessioni verso elementi romantici” ma la ricchezza di contrasti e di idee melodiche lo rende invece molto interessante e Nordio affronta con sicurezza e le insidie anche virtuosistiche del brano. Due cadenze veramente ardue chiudono i primi due movimenti, cangianti e mutevoli in andatura e carattere, interpretate in maniera eccellente da Nordio, anche se forse un poco meccanicamente, ma il violinista veneziano riesce ad infondere al brano qualche effusione più appassionata, in particolare durante il secondo tempo, prima del vivacissimo Rondò finale.
Calorosi applausi salutano l’interpretazione di Domenico Nordio, che concede un bis bachiano al pubblico dell’Auditorium “Arturo Toscanini”.
Si conclude con la Sinfonia n. 1 in si minore op. 5 il programma del concerto proposto dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai nell’ambito del Festival Alfredo Casella per celebrare il compositore Torinese. Energica e vitale questa prima sinfonia rispecchia il carattere cangiante delle composizioni di Casella che a Parigi aveva conosciuto i lavori di Mahler e dei russi Borodin, Musorgsij, Rimskij-Korsakov la cui influenza è percepibile in questo lavoro (venne accusato di “eclettismo”, di non avere uno stile proprio, nonostante la sua non possa dirsi imitazione ma assimilazione).
Splendida l’interpretazione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta con verve e grande attenzione ai contrasti e alle dinamiche da Francesco Angelico, giovane direttore dalla carriera ormai già più che solo promettente e dalla sensibilità raffinata.
FABIO LUISI [Margherita Panarelli] Torino, 23 Aprile 2016.
Fabio Luisi debutta alla direzione dell’orchestra del Teatro Regio con un programma che spazia tra Anton Bruckner, Luca Lombardi e Alfredo Casella.
È proprio “Pupazzetti” op.27bis di Alfredo Casella ad aprire il concerto. Cinque brevi brani, definiti musiche per marionette, del 1915, originariamente per pianoforte a quattro mani, poi rielaborati per orchestra da camera nel 1920. Sarcastici, stilizzati e teatralissimi i cinque brani nelle mani di Luisi prendono vita come brevi storie intense e vivide.
Saluta il pubblico soddisfatto Luca Lombardi al termine della prima esecuzione in Italia del suo “E”, concerto per flauto e orchestra, eseguito da Andrea Manco, primo flauto del Teatro alla Scala di Milano. Composto nel 2010 per il celebre flautista svizzero Emmanuel Pahud, “E” si basa su un tema ricavato dal nome del primo flauto dei Berliner Philharmoniker (EAEAHD in notazione letterale, ovvero mi-la-mi-la-si-re). Manco affronta con grande spavalderia il brano: dinamico, vivace, in particolar modo nel primo e nel terzo movimento e a tratti anche lirico e sognante, con un accompagnamento orchestrale arioso e mai soffocante, guidato magistralmente dal direttore genovese.
L’orchestra affronta poi magnificamente la “Sinfonia n. 7 in mi maggiore” di Anton Bruckner e il materiale tematico così ricco e variegato prende forma vividamente e con grande afflato dalla bacchetta di Luisi. Sontuosa, dolente, eroica e struggente: tutto questo è l’esecuzione di questa celeberrima sinfonia da parte dell’Orchestra del Teatro Regio. Un’esecuzione di grande pregio e di forte impatto emotivo.
DANIEL HARDING, VERONIKA EBERLE [Mirko Gragnato] Torino, 26 aprile 2016.
Per la stagione di Lingotto Musica, nell’auditorium di Renzo Piano, una serata nel nome di Brahms, che ha visto sul palco la Swedish Radio Symphony Orchestra guidata da Daniel Harding con il violino solista di Veronika Eberle.
Un serata interamente dedicata a Brahms e alla tonalità di Re maggiore, quella che ha visto l’orchestra sinfonica della radio svedese diretta da Daniel Harding sul palco dell’auditorium al Lingotto di Torino.
Nella prima parte l’orchestra ha accompagnato Veronika Eberle nel celebre concerto per violino a cui è seguita l’esecuzione della seconda sinfonia in del compositore tedesco, entrambe le partiture si basano sulla tonalità di Re maggiore.
Su questa tonalità sono scritti quasi tutti i concerti per violino da Beethoven a Korngold e Prokofev, questo perché la tonalità di Re si intreccia alla perfezione con l’accordatura del violino ( Sol- Re- La- Mi) avendo una delle corde centrali che ruota proprio su questa specifica nota.
L’allegro molto apre con un’introduzione dell’orchestra dal sapore sinfonico e dai colori del forte, sino all’ingresso del violino, che fin da subito, con spiccate crome dichiara la sua forza solistica, il violino stradivari di Veronika Eberle si presenta in tutta la sua forza acustica.
La mano sinistra della solista, purtroppo, si mostra troppo nervosa con il vibrato un po’ troppo spinto impastando la linea melodica dello strumento solista alla quale invece si contrappone un’orchestra sotto la guida Harding dal suono più pulito e uniforme.
Il nervosismo spinto della mano sinistra si spinge per tutto il primo e il secondo movimento, tranne che per le parentesi delle cadenze, dove il tempo più sospeso, permette alla violinista di lavorare di più sul suono in maniera più piena e chiara, quasi come fosse un istante bachiano.
Forse un allegro un po’ troppo spinto anche dal maestro Harding, aprire un concerto direttamente con il concerto di Brahms: una gara sportiva senza un minimo di riscaldamento.
Nel terzo movimento invece la ventottenne violinista dà il meglio di sé, dimenticati i nervosi vibrati sull’agile e dinamico presto è lei che spinge l’orchestra e la trascina, una vera prova di virtuoso che ha accolto gli applausi del folto pubblico nella sala del lingotto al quale la giovane violinista ha concesso il bis.
Nella seconda parte sempre sulla scia della tonalità di Re Maggiore la sinfonia numero 2 op.73 prodotta sempre dall’estro e dalla penna di Johannes Brahms.lingotto3L’orchestra della Swedish Radio Symphony ha dato prova di un’affinità completa, un’orchestra dall’organico corposo, 8 i contrabbassi di cui ben 5 sono donne, tanto per sfatare certi cliché.
Di quest’orchestra la fila delle viole e dei celli hanno mostrato un suono veramente pieno con un’ottima esposizione del tema, le file dei primi è capeggiate da un spalla che sa ben guidare la fila in modo compatto e unito.
Veramente di pregio il primo corno che nel arduo momento del solo non ha mancato di mostrare doti di virtuoso.
Peccato per l’acustica della sala poco tarata per la serata, i soli dei fagotti in piano, purtroppo hanno dovuto fare i conti con un acustica secca.
La bacchetta di Harding invece si è mostrata degna figlia del suo maestro Claudio Abbado, cura nel gesto e negli attacchi, un dimensione di sicurezza che era in piena sintonia con l’orchestra.
THIERRY FISHER, PATRICIA KOPATCHINSKAJA [Mirko Gragnato] Bergamo, 7 maggio 2016.
Per il 53° Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo, il delicato suono della Chamber Orchestra of Europe ci trasporta nella musicalita del XXI secolo, con la bacchetta di Thierry Fisher e il virtuosismo di Patricia Kopatchinskaja.
Quest’anno il festival pianistico internazionale ci riserva delle pregevoli perle sinfoniche.
Un concerto dal programma audace e curioso, quello proposto con COE, una sinfonia di un compositore del XXI secolo, Mieczyslaw Weinberg, scomparso 20 anni fa.
Una sinfonia per un’orchestra da camera scritta nel 1968 che nello stile di Weinberg ricorda lavori per colonne sonore, sonorità epiche intrecciate con l’esplorazione di sonorità nuove.
Dagli ostinati degli archi, a canoni tra i leggi della stessa fila, un pezzo che racchiude forse le tensioni di un secolo sconvolto e travolto dai cataclismi dell’umanità.
Una scelta coraggiosa quella della COE che ha raccolto comunque il plauso di un pubblico in un misto tra il sorpreso e l’entusiasta.
Il concerto per violino n. 2 in sol minore di Prokofev che segue poco dopo continua nel sapore novecentesco, lasciando allo strumento solista l’apertura in un tacet dell’orchestra, dopo una ricchissima letteratura violinistica che vede pagine e pagine scritte nella brillante tonalità maggiore di Re, Prokofev assapora il colore scuro della tonalità di sol minore, una tinta adatta ai tempi coevi del compositore. La tonalità si manifesta fin da subito nel sussurro del tema, che non nasconde ma anzi si palesa sin dalle prime note con la triade minore dell’accordo di sol.
Patricia Kopatchinskaja lascia quel tocco di perplessità usando la parte su un leggio, quando ormai l’abitudine ci mostra solisti che suonano l’intero pezzo a memoria, “by heart” direbbero gli inglesi. Tuttavia la violinista che nonostante i suoi 39 anni sembra ancora una ragazzina non manca di doti virtuosistiche, mostrando di conoscere a fondo la partitura sostenendo nei passaggi anche gli ingressi degli altri strumenti.
Dopo il primo concerto in Re Maggiore, qui Prokofev esplora la tonalità minore di Sol dando un sapore completamente diverso al dialogo tra strumento solista e orchestra, sonorità che vagamente ricordano le ambientazioni di un film di Tim Burton.
Patricia Kopathinskaja, suonando a piedi nudi, riesce a svincolarsi dai cliché della seriosità della musica classica, suonando con forza e coinvolgimento trascina il pubblico in un viaggio musicale fatto in prima persona.
Tanti gli applausi tributati alla solista alla fine del concerto tant’è che ben due sono stati i bis concessi al pubblico.
Duettando con il primo violoncello Kopathinskaja ha proposto il “très vif” estratto dalla sonata per violoncello di Maurice Ravel, un altro pezzo agile e permeato di sonorità nuove dal sapore etnico mescolate a tinte un po’ blues, un groviglio di pizzicati e note lunghe tra ostinati e passaggi dal tocco jazzato e flautati armonici.
Per finire con uno dei suoi cavalli di battaglia la violinista ha suonato “Crin” del compositore venezuelano Sanchez Chiong, un pezzo quasi identitario di Patricia Kopatchinskaja, che unisce la sua passione per la musica e tutte le sue possibilità, sperimentando ed unendo teatro, canto e passaggi virtuosistici.
Dopo i fragorosi applausi e raccolte le piccole ballerine appoggiate accanto al podio del direttore, Patricia Kopatchinskaja esce nelle quinte lasciando sul pubblico un sorpreso sorriso, le chiamate di applausi continuano sino a far uscire la solista senza strumento che con un inchino saluta il suo pubblico.
Dopo una prima parte tutta novecentesca, per dimenticare le tensioni di un secolo dibattuto si passa a tonalità più allegre con un ritorno al classico con la sinfonia n. 38 “Praga” in Re Maggiore di Mozart.
Qui l’orchestra continua sul solco di un’esecuzione dal suono delicato, cosa ardua da pensare per il repertorio del XXI secolo, e che si sposa benissimo con la musicalità mozartiana.
Per l’ultimo movimento invece una sorprendente evoluzione dai colori forti e fortissimi.
La bacchetta di Thierry Fisher arriva in sostituzione del M° Jurowsky con il quale Patricia Kopatchinskaja ha registrato i concerti di Stravinsky e Prokofev, Jurowsky ha dovuto annullare i suoi impegni a causa di un problema di salute.
Nelle partiture novecentesche la bacchetta di Thierry Fisher si mostra sicura e congeniale alla guida della COE avendo però una spinta eccessiva in Mozart, una direzione poco pulita e più tendente all’onanismo più che ad un vero approfondimento della partitura, un Mozart un po’ tralasciato al quale però la COE non ha mancato di dare volume e unità sinfonica.
ALEXANDER MELNIKOV [Mirko Gragnato] Brescia, 10 maggio 2016.
Attraverso la sonorità del fortepiano, alla scoperta di Mozart, Haydn e Clementi, condotti dal pianista Alexander Melnikov.
Il festival pianistico internazionale, fu festival Arturo Benedetti Michelangeli, è arrivato alla 53° edizione, e chiama tra le città di Brescia e Bergamo illustri musicisti, guru della tastiera, e grandi orchestre. Obiettivo del festival quest’anno è anche la promozione e riscoperta delle pagine del classicismo tra cu un illustre italiano: Muzio Clementi. Un compositore coevo di Mozart che diventa anello di congiunzione tra il classicismo di Haydn e il preromanticismo di Beethoven, il fortepiano strumento dell’epoca, diventa il luogo della sperimentazione che passo passo inizia a diventare stretto per certe sonorità e certi colori, e quando lo strumento non riuscirà più a contenere l’estro dei compositori si apriranno le strade per l’avvento del pianoforte, il quale con una meccanica nuova, figlia della rivoluzione industriale, porrà all’interno dello strumento in legno una colata di in ghisa, cosa impensabile nel ‘700 per il suo predecessore.
Alexander Melnikov astro del firmamento nel panorama classico è arrivato ad aggiudicarsi un posto nel pantheon del pianismo dopo le vittorie di prestigiosi concorsi tra cui primeggia il concorso Schumann , vinto nel 1989, e il celeberrimo Queen Elisabeth di Bruxelles nel 1991.
La musica di Clementi, compositore purtroppo ghettizzato nei programmi d’esame dei conservatori, è una cenerentola e il festival pianistico internazionale con i grandi nomi come Melnikov, illustre musicista, allievo di Sviatoslav Richter non può che rendere lustro a questo viaggio di riscoperta di un autore un po’ dimenticato e vilipeso. Clementi mostra di essere un vero classico con una musica attualissima, che fa l’occhiolino, con la sonata in sol minore, alla celebre appassionata di Beethoven, per sonorità e richieste allo strumento.
L’adagio della sonata di Mozart in Fa Maggiore eseguita da Melnikov con una pregevolezza infinita, ci consente di apprezzare una sonorità riscoperta, quasi nuova, rara da poter sentire, che fa apprezzare lo strumento fortepiano non come un fossile musicologico, ma come uno strumento con una piena dignità, che per quanto il pianoforte possa aver superato con forza, effetti e volumi, mancherà di quel sapore di suono originario. Il forte piano inizia a diventare stretto per le agilità, i ribattutti, gli accordi o gli arpeggi in fortissimo che richiedono molta più risonanza, eppure negli adagio, nei movimenti lenti, laddove il tempo si distende, esso riporta alla luce una sonorità delicata e sospesa che ci fa apprezzare la magia di queste pagine musicali, una magia un po’ dimenticata e che il pianoforte non riesce a volte a rendere con la stessa finezza. Melnikov con un programma costruito con i testi della trinità del classicismo : Mozart, Haydn e Clementi, ci trasporta alla scoperta di un’acustica diversa dai soliti concerti, sebbene non siano poche le registrazioni fatte con programma classico la resa al fortepiano è nettamente più pregevole, auspichiamo l’uscita di un disco inciso con questo strumento.
Antico e contemporaneo si sono poi incontrati tra la struttura lignea copia di uno strumento della metà del ‘700 e l’ipad poggiato sul leggio che il solista usava per leggere lo spartito. Ben otto le chiamate e gli applausi per questa pregevole esecuzione che nel pubblico trovava appassionati pianisti e affezionati della musica antica.
MIHKAIL PLETNEV [Mirko Gragnato] Bergamo, 12 Maggio 2016.
Per il 53° festival pianistico internazionale nel teatro Donizetti, Mikhail Pletnev esalta con il suo pianismo una serata dedicata alla musica di Mozart, Grieg e Liszt.
Mikhail Pletnev pianista di fama internazionale è noto perché a soli 21 anni vinse il prestigioso premio Tchajkovskij. Da li in poi la sua carriera è cresciuta senza mai arrestarsi sino a legarsi con l’etichetta discografica Deustche Grammophon per importanti registrazioni, molte delle quali hanno potuto fregiarsi della vittoria del grammy. Oltre all’attività di pianista Pletnev affianca quella di direttore, ha fondato la prestigiosa RNO ( Russian National Orchestra ), e quella di compositore: celebre il concerto per viola e orchestra da lui scritto che ha visto per la prima esecuzione nella parte solista Yurj Bashmet.
Nel concerto di questa sera apre la spettacolare trascrizione per pianoforte che Liszt fa della Toccata e Fuga in La minore BWV di Bach, una versione per piano che riduce le capacità timbriche dell’organo lasciando alle sole due mani passaggi di virtuoso, proprio dell’intento spettacolarizzante voluto da Liszt. La sonata in Mi Minore op. 7 di Grieg è un pezzo un po’ adombrato nei programmi pianistici da Chopin e Liszt, Pletnev ci permette di godere pienamente del Grieg pianistico. Grandissima l’esecuzione dell’andante molto, un pezzo di raro patetismo e molto trionfale quasi marziale il finale allegro.
A seguire sulla scia della scoperta di Grieg anche la Ballata su tema norvegese, un pezzo dal sapore un po’ decadente e nostalgico che va a chiudere la prima parte del programma.
Pletnev dopo averci incantati con Grieg, con le sonate di Mozart estrae tutta la magia del compositore di Salisburgo. Imperturbabile al pianoforte, un tocco delicato e mai sfrontato, il pianista affonda nella parte la sua concentrazione, in alcuni passi canta flebilmente la linea del tema. Le tre sonate vengono eseguite senza soluzione di continuità, a parte qualche interruzione di applausi Pletnev prosegue nel programma quasi senza sosta.
Il pianoforte è uno strumento enorme e ingombrante eppure lo si tocca solo con la punta delle dita, in questo Pletnev è un maestro, non si scompone resta quasi impassibile mentre le mani volano sulla tastiera, senza far venire meno un tocco pesato e delicato. Nulla è lasciato al caso e anche laddove Mozart ha scritto degli accenti, il suono si amplia, ma mai diventa sforzato, Pletnev dosa ogni tocco con perizia, esposizione di un dotto pianismo. All’apparenza un po ‘distaccato il solista è riuscito a ridare la voce del forte piano al pianoforte.
Un concerto mirabile anche grazie alla splendida acustica del teatro Donizetti di Bergamo che ha incantato un pubblico prodigo di applausi e alla quinta chiamata Mikhail Pletnev ha salutato il pubblico del festival con il famoso liebestraum di Franz Listz.
ALEXANDER LONQUICH [Mirko Gragnato] Bergamo, 15 Maggio 2016.
Alexander Lonquich in veste di direttore e solista con l’Orchestra i Pomeriggi Musicali di Milano ci fa rivivere il viaggio in Italia visto con gli occhi di Mendelssohn e rievocato nella quarta sinfonia a cui segue il concerto per pianoforte, ricco di sperimentazioni timbriche, k482 di Mozart.
Un teatro Donizetti gremito dà il benvenuto ad un’orchestra che in Lombardia abita i vari teatri durante la stagione di Opera Lombardia: I Pomeriggi Musicali di Milano. Un’orchestra nata dai postumi della seconda guerra mondiale e che da subito ha voluto proporsi come orchestra da camera che sapeva guardare al passato ma con occhio attento al presente come quel 27 Novembre 1945 quando debuttò affiancando a Beethoven, gli innovativi Stravinsky e Prokof’ev.
Alla guida dell’orchestra vi è il pluridecorato pianista Alexander Lonquich, un pianista-direttore, principale trascinatore del progetto della OTO a Vicenza, trasportando giovani musicisti verso il mondo della professione. A duecento anni dal viaggio in Italia di Goethe rivivere le impressioni che colpirono anche Mendelssohn nella scoperta del bel paese è compito della quarta sinfonia, che già con l’allegro vivace dipinge i paesaggi di un Italia ottocentesca sino a trasportarci con il tema salmodico del secondo movimento alle sale e alle liturgia della Roma papale. Con il saltarello finale sono poi i legni ad arricchire di un concitato staccato, sostenuto dalla sezione degli archi con schiere di ribattuti, la conclusione della sinfonia. Una direzione chiara e pulita quella di Lonquich in un’esecuzione magistrale dei Pomeriggi Musicali che richiama fragorosi applausi. Ottima la fila dei legni, tra cui primeggiano i flauti.
Concerto n. 22 in Mi Bemolle Maggiore, tonalità che sin dalla prima sinfonia viene apprezzata da Mozart, questo concerto è un laboratorio di esperimenti, manchevoli gli oboi, è ai clarinetti che è affidata la vellutata linea melodica dei fiati, cui spetta l’incontro e il dialogo con lo strumento solista. Lonquich nella doppia veste di direttore – solista non manca di trovare una piena sintonia con l’orchestra e lo strumento, l’ottima acustica del teatro Donizetti gli permette di uscire col piano dall’orchestra, creando un ottimo impasto acustico. Il secondo movimento andante, in una pregevole esecuzione, mostra quanto sia ancora fortemente attuale la musica di Mozart.È qui che i clarinetti e i fiati si intrecciano in giochi prospettici di linee melodiche, preparando la strada all’ingresso del pianoforte che dal tocco di Lonquich fa uscire il sapore scuro della ricca mano sinistra costellata da brevi interventi della destra. Segue un ulteriore momento di cornice dei pregevoli fiati di quest’orchestra nel mirabile lavoro d’insieme dei clarinetti ma soprattutto del flauto e del fagotto. Nel giocoso terzo movimento dove il tema vivace dal pianoforte passa all’orchestra e così via, la mano di Lonquich si muove sulla tastiera con intensità e sicurezza senza abbandonare la guida dell’orchestra che si lascia trasportare in piena collaborazione dal suo direttore.
Un concerto di rara bellezza, conclusosi con calorosi applausi e l’esecuzione di un bis del maestro al piano con un minuetto di Mozart.
ROBERTO ZARPELLON, WOLFGANG GLUXAM [Mirko Gragnato] Brescia, 16 Maggio 2016.
Oltre alla scoperta della tastiera del pianoforte e del fortepiano al festival pianistico si disvela il clavicembalo, grazie alle mani del M° Wolfgang Gluxam accompagnato nel concerto dall’Orchestra da Camera ” Lorenzo Da Ponte” diretta dal M° Roberto Zarpellon all’auditorium di San Barnaba.
Un programma fitto di classicismo in una versione più all’antica, quello che vede l’orchestra da Camera Da Ponte a destreggiarsi tra le pagine di Haydn, Cimarosa, Beethoven e Rossini.
L’orchestra, che ha sede ad Asolo, raggruppa musicisti dell’area veneta e da altre zone mitteleuropee, e qui si propone con un organico di strumenti all’antica, con gli archi che mettono corde in budello, anche se non tutti nella sezione hanno archetti alla barocca, un sorta di commistione di varie fogge e tipologie. Con l’ouverture del Matrimonio Segreto l’orchestra ha avuto qualche inciampo, i corni naturali: considerando la difficoltà degli strumenti naturali a ritorte, non erano perfettamente in tonalità, problema forse dovuto allo strumento non ancora caldo. Nel concerto di Haydn in Fa Maggiore per Clavicembalo fa la sua comparsa il M° Wolfgang Gluxam, allievo del celebre Ton Kopman, e ad oggi docente di clavicembalo all’università della musica di Vienna. Un’esecuzione dotta, approfondita, tanto da proporre una lunga cadenza probabilmente di sua composizione, nella quale ha dato sfoggio di virtuosismo e piene abilità clavicembalistiche. Purtroppo però, forse per l’acustica dell’auditorium, il pizzicato delle penne dello strumento restava soffocato dall’orchestra che anziché accompagnarlo se l’è praticamente mangiato. Un peccato, ma quando l’orchestra accompagnava si doveva proprio tendere l’orecchio per poter sentire i passaggi di Gluxam alla tastiera. Fortuna ha voluto che le parti di solo non accompagnate ci han dato la possibilità di apprezzare il maestro al clavicembalo. Come Bis al pubblico Gluxam ha tributato un brano tratto dalle sonate per tastiera di Scarlatti. Curiosità è che il maestro leggesse la parte su di un Ipad, affiancato da una volta pagine che al momento opportuno sfiorando lo schermo voltava la pagina digitale passando alla successiva.
L’ottava sinfonia di Beethoven è l’unica delle nove a non avere dedica, un lato quasi romantico vorrebbe che la mancanza sia dovuta in realtà ad un muto omaggio fatto alla donna amata Josephine Brunswik.
L’orchestra guidata dal Maestro Zarpellon ha dato prova di una sonorità piena e matura, cosa un po’ rada nei pezzi di Cimarosa e Haydn, dove si percepiva la mancanza di una visione più profonda. L’impiego delle corde in budello sostiene e permette al suono di viaggiare meglio nell’aria, le onde acustiche sono più ricche di armonici e questo produce un suono pieno, tondo e molto più solido, a differenza delle corde in acciaio, comode perché tengono l’accordatura ma dal suono più povero.
Un’ottima esecuzione quella proposta, anche se non si capisce il perché del solo del violoncello nel terzinato del minuetto, che a strumento in parte reale nel passaggio balzato soffre le stesse problematiche del clavicembalo, sparendo sotto le note dei fiati. Il concerto aveva raggiunto un livello di emotività tale dopo Beethoven che poteva considerarsi concluso ma in scaletta mancava ancora un pezzo, l’ouverture de l’Ape Musicale di Rossini opera su libretto di Da Ponte.
Altro nome di questa partitura è “il Pasticcio” non poteva esservi dato nome migliore essendo uno strano collage tra gli ouverture de La Cenerentola, del Barbiere, del Tancredi e di Semiramide dello stesso Rossini.
Un pezzo simpatico e sorprendente che stupisce l’ascoltatore per il suo variare proprio appena chi ascolta riconosce la citazione.
Ottimo pezzo per concludere un concerto come bis, ruolo che in realtà è stato affidato ad un adagio di Mozart per violino e orchestra con allo strumento il concertino dell’ensemble, Eleonora De Poi, purtroppo un pezzo poco approfondito che non ha estratto le qualità di questa orchestra giovane e affabile come nel caso della sinfonia di Beethoven.
FESTIVAL DI PRIMAVERA 2016 [Margherita Panarelli] Torino, Maggio 2016.
Cinque serate a tema mettono a confronto composizioni per voce e lavori strumentali in questo secondo Festival di Primavera dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Grandi talenti vocali e sul podio, tra cui spicca la presenza di Juan Diego Flòrez in un trionfale ultimo concerto.
Si parte con un’immersione nella musica di Modest Mussorgskij insieme a Dmitry Beloselsky e Juraj Valčhua. Il primo brano in programma è La Notte di San Giovanni sul Monte Calvo, intenso e assolutamente travolgente nell’esecuzione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai guidata da Juraj Valčhua che da Ottobre lascerà il ruolo di direttore principale della compagine a James Conlon. Dmitry Beloselsky si cimenta poi nei Canti e Danze della Morte. La sua tonante voce di basso si diffonde in sala senza sforzo alcuno e i sarcastici e suadenti versi della Ninna Nanna incantano l’uditorio. Ariosa e riflessiva la Serenata che Beloselsky intona come una carezza, prima dei ritmi sfrenati del Trepak. “Mio caro ti scalderà la neve” canta la morte, e brividi di paura fanno tremare anche il più coraggioso. È marziale e maestosa la quarta canzone: “Il Generale”. Beloselsky tuona con roboante sicurezza le minacce contenute nel testo di Goloniščev-Kutuzov. La voce corre sicura e forte e avvolge completamente nell’atmosfera del ciclo Mussorgskijano. Valčhua e l’orchestra accompagnano con perfetta comunione d’intenti ed il risultato è un’esecuzione imponente e austera, di grande impatto. Il primo concerto si conclude con un’eccellente interpretazione di Quadri di un’esposizione nella versione orchestrata da Maurice Ravel. Valčhua si conferma ancora una volta direttore preciso e attento a tempi e dinamiche ma che non tralascia per l’attenzione a questi aspetti di occuparsi della carica emotiva dei brani. Insomma è un direttore completo e rigoroso e gli si augura un’eccellente prosecuzione di carriera.
Per il secondo concerto Pietro Rizzo e Fiorenza Cedolins hanno sostituito i colleghi originariamente previsti. Il programma è tutto dedicato a Giacomo Puccini: Pietro Rizzo dà il via con l’intermezzo sinfonico da Le Villi ed è subito chiaro il taglio delicato e sognante del giovane direttore che restituisce un’interpretazione sobria ma efficace, scevra di facili sentimentalismi, ottimo sostegno nei brani successivi al soprano friulano, conosciuta e amata anche in questo repertorio. Due arie chiave di Madama Butterfly “Un bel dì vedremo” e “Tu,tu piccolo iddio” costituiscono il primo banco di prova e il soprano si disimpegna egregiamente. Il ruolo di Cio-Cio-San non è però adattissimo al suo timbro maturo nonostante la grande partecipazione emotiva. Ne risente meno “In quelle trine morbide” da Manon Lescaut, preceduta da una pregevole esecuzione del “Capriccio Sinfonico”. La seconda parte del concerto prosegue ancora con Manon Lescaut, L’Intermezzo dall’Atto III, teso e drammatico, e “Sola, perduta, abbandonata” apprezzabilissimo nuovamente per esecuzione e fraseggio. Fiorenza Cedolins è un’ottima interprete, nonostante forse lo smalto della voce si sia un po’ opacizzato questo non ne offusca il talento e la bravura ed è palese durante l’intero il recital. “Tu che di gel sei cinta” manda il pubblico in visibilio, e “Vissi d’arte” da uno dei suoi ruoli più iconici, conquista nuovamente la platea. Sentitamente grata degli applausi il soprano regala ancora una delicata interpretazione di “Io sono l’umile ancella” dall’Adriana Lecouvreur di Cilea. La classe e la musicalità innata di una grande interprete in un recital di rara intensità.
Un recital completamente Mozartiano con il soprano Rachel Harnisch e Hansjőrg Albrecht è il terzo appuntamento del Festival. La direzione di Albrecht delizia per leggerezza e briosità nel primo brano del programma, la Sinfonia n. 34 in do Maggiore KV 338. Albrecht offre anche eccellente sostegno a Rachel Harnisch durante le 4 impegnative arie eseguite. “Se il padre perdei” da Idomeneo, “Fra i pensieri più funesti di morte” da Lucio Silla, “L’amerò, sarò costante” da Il Re pastore e “Non mi dir, bell’idol mio” da Don Giovanni. Il soprano svizzero si distingue per perizia tecnica e pulizia d’emissione, convincono in particolar modo l’aria da Lucio Silla e “Non mi dir, bell’idol mio” per l’eccellente sostegno del fiato e le splendide colorature. A grande richiesta Harnisch ha eseguito nuovamente la sezione finale dell’aria dal Don Giovanni con numerosi applausi a testimoniare il gradimento del pubblico. Inserita nella seconda parte del concerto anche la Sinfonia n.39 KV 543 che l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, sempre guidata da Albrecht, ha eseguito in maniera egregia.
Dedicata a Richard Wagner e Richard Strauss invece l’ultima data del Festival prima del concerto speciale con Juan Diego Flórez. Orla Boylan e Brenden Gunnel si cimentano con “Ein Schwert verhiess mir der Vater” dal primo atto di Die Walküre ed il finale di Ariadne auf Naxos. Jeffrey Tate alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai da inizio al programma con il Preludio da Parsifal, di grande fascino per colore orchestrale e dinamiche scelte, prima di guidare l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e i solisti nel duetto seguente. Efficace nel fraseggio e maestosa nonostante il volume non imponente l’interpretazione di Brenden Gunnel nei panni di Siegmund. Decisamente imponente è invece lo strumento di Orla Boylan, qui alle prese con il ruolo di Sieglinde. La scarsa agilità della voce e alcune difficoltà nel registro grave impediscono di apprezzare nella sua interezza l’interpretazione del soprano irlandese nonostante le carte in regola sembrerebbe averle tutte. Più a suo agio in Strauss, nel ruolo di Ariadne del duetto successivo infatti convince appieno. Gunnel si disimpegna efficacemente nel ruolo di Bacco, ma svetta su tutti il sempre magnifico accompagnamento orchestrale. Tate conduce poi l’orchestra in un splendida esecuzione dei Quattro interludi sinfonici da Intermezzo, diretti con deliziosa verve ma polso saldo. Encomiabile la subito identificabile caratterizzazione dei quattro diversi brani del programma.
Dalle atmosfere mitteleuropee del quarto appuntamento del Festival alla spumeggiante simpatia e alle mirabolanti evoluzioni vocali del tenore peruviano Juan Diego Flórez. Nonostante una fastidiosa tracheite per cui l’interprete si è anche scusato prima dei richiestissimi bis, la voce di Flórez si mantiene duttile, la tecnica che lo ha sostenuto in questi primi vent’anni di carriera non vacilla ed il carisma naturale è la ciliegina sulla torta per un artista completo musicalmente e umanamente. Il programma di questo concerto speciale sembra creato apposta per tirare le somme sul percorso artistico di Flórez, Da Mozart si arriva a Tosti e Verdi, passando per Gounod, Massenet e le zarzuelas in un recital variegato e variopinto. Christopher Franklin, alla testa dell’orchestra inizia con l’Ouverture da Die Zauberflöte e si nota da subito l’assenza di un chiaro intento interpretativo e di personalità. L’eccessiva posatezza e la mancanza di mordente rendono l’esecuzione piuttosto scialba nonostante l’ottimo lavoro degli orchestrali. Segue una deliziosa interpretazione dell’aria di Tamino “Dies Bildnis ist bezaubernd schön” dalla stessa opera: il legato, la padronanza di messe di voce e pianissimi, oculatamente utilizzati, sono solo alcuni degli strumenti di Flórez. Lo stesso arsenale che convince e affascina nell’aria successiva: “Un’aura amorosa” da Così Fan Tutte. Franklin in questo caso accompagna diligentemente e delicatamente Flórez, per poi cimentarsi insieme all’orchestra, con buoni risultati, nell’Ouverture da La Betulia Liberata da cui poi è tratto anche il brano successivo, “D’ogni colpa” una splendida aria di sdegno le cui ardue richieste sono superate con successo e grazia da Flórez, ormai consolidato specialista di colorature e virtuosismi. Due balletti da Faust di Gounod preannunciano il cambiamento di repertorio seguono infatti “Salut! Demeure chaste et pure” e “Pourquoi me reveiller” da Werther di Jules Massenet, che consentono un assaggio della nuova direzione verso la quale Flórez sta recentemente portando la propria carriera. Il risultato è sicuramente ottimo nonostante alcune trascurabili incertezze ed il repertorio francese potrebbe diventare il nuovo terreno di conquista del tenore leggero più richiesto del momento in particolar modo per la toccante espressività delle interpretazioni che nelle arie Flórez ha saputo racchiudere, dando vita ad entrambi i personaggi caratterizzandoli diversamente nel solo spazio delle arie . I due brani successivi “Bella Enamorada” da El ultimo romantico di Soutullo e Vert e “El mismo rey del moro”da La alègria del batallon di Serrano sono terreno molto familiare per Flórez ed un piacevole interludio dalla drammaticità delle arie precedenti. Grazioso anche l’Intermezzo da La boda de Luis Alonso di Giménez, ma ancora una volta la direzione di Franklin manca di verve, attributo fondamentale in un brano come questo. Flórez brilla invece ancora nelle tre arie da camera, in cui la solidità e l’omogeneità dell’emissione e la solarità del suo strumento rendono piena giustizia a “L’alba separa” e “Marechiare” di Francesco Paolo Tosti e “Mattinata” di Leoncavallo senza renderle macchiettistiche e eccessivamente melense. L’approccio con Verdi e Rossini di Christopher Franklin nei brani successivi è francamente disastroso. Bandistico e fracassone nella Sinfonia da “Un giorno di regno” e addirittura completamente fuori sincrono con il tenore durante l’accompagnamento al rondò di Almaviva “ Ah il più lieto e il più felice” da Il Barbiere di Siviglia scelto come primo bis, tanto che Flórez stesso ha chiesto di rifare la sezione finale dell’aria. Gli ultimi brani della scaletta, prima dei numerosi bis concessi da Flórez è “Pietoso al lungo pianto” da Un giorno di regno e “Je veux encore entendre” da Jerusalem di Giuseppe Verdi, ancora una volta splendidamente eseguiti, nonostante la corposità del programma e la tracheite. Senza carisma e savoir faire con il pubblico sicuramente a certi livelli non si può arrivare e Flórez conferma di possedere questo carisma, oltre che per la vividezza delle sue interpretazioni, anche rivolgendosi al pubblico e coinvolgendolo, invitandolo a cantare con lui durante un festoso medley di canzoni sudamericane con il quale rende omaggio anche alla numerosa delegazione peruviana presente tra gli spettatori, per poi concedere a popolare richiesta anche una svagata esecuzione di “La donna è mobile” e concludere con l’amatissima “Granada”. Serata di festa e di grande partecipazione per uno dei divi dell’opera contemporanea. L’auspicio è che possa ripetersi presto.
MESSA DA REQUIEM [Lukas Franceschini] Trento, 8 giugno 2016.
Brillante conclusione della Stagione Sinfonica 2015-2016 dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento con l’esecuzione della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi diretta dal direttore principale Arvo Volmer.
Verdi compose oltre al repertorio operistico pochissima musica, tra questa una posizione peculiare la occupa la Messa da Requiem. Per essere precisi il catalogo verdiano comprende anche altra musica sacra, e precisamente: I Quattro pezzi sacri, Pater Noster, Ave Maria e Pietà Signor, composizioni molto ridotte nella durata che solitamente sono eseguite nei programmi sacri o concertistici. La prima idea di comporre un Requiem fu nel 1868 quando Verdi propose al suo editore Ricordi di allestire un pezzo sacro a più mani per commemorare Gioachino Rossini nell’anniversario della morte (1869). Questo progetto, che coinvolgeva i maggiori musicisti del tempo (ognuno dei quali avrebbe composto una sezione), non fu mai eseguito per la mancanza di fondi economici. Quando nel 1873 morì Alessandro Manzoni, che Verdi conosceva e ammirava, il compositore decise di estrarre dal cassetto la partitura che aveva composto in precedenza (solo la parte finale “Libera me domine”) e scrivere interamente di suo pugno tutta la partitura. La prima esecuzione, diretta dall’autore, fu a Milano nella Chiesa di San Marco il 22 maggio 1874 e il successo fu trionfale e da allora iniziò una continua esecuzione tale da considerare la Messa uno degli spartiti più eseguiti nel suo genere.
Molti critici musicali si sono sempre trovati discordanti se considerare la composizione una pagina sacra o profana. In effetti, pur basandosi su un testo tratto dalla liturgia Cattolica Romana, la volontà di Verdi era di esprimere il significato delle parole, trasformando dall’apparente celebrazione per i morti alle situazioni devi vivi, trasferendo nel Requiem la sua arte drammatica non ravvisata nella gioiosa vita ultraterrena.
L’esecuzione che si è tenuta all’Auditorium Santa Chiara di Trento ha rivelato molte piacevoli sorprese. Innanzitutto la splendida forma raggiunta dall’Orchestra Haydn in questi ultimi anni, la qual può attestarsi tra le più interessanti realtà del nord-Italia. Suono molto nitido, preciso, cui va aggiunto l’ottimo amalgama tra le sezioni. Tutte queste prerogative hanno contribuito a una resa eccellente della Messa da Requiem ma parallela alla bacchetta di Arvo Volmer. Il direttore ha concertato brillantemente il difficile spartito, seguendo alla lettera le indicazioni dell’autore. Una lettura che potremo definire teatrale per i grandi effetti che ha colpito l’ascoltatore, sintetizzando un affresco di sezioni di fronte la morte, una descrizione narrativa di forte impatto. Si rileva un eccellente Dies Irae, impetuoso e drammatico, la precisione polifonica del Sanctus con l’ausilio di una sezione di ottoni da manuale, e l’elettrizzante finale del Libera me domine in un pianissimo estatico ma anche d’interrogativo sull’aldilà, che ha dimostrato la perfetta conoscenza e prassi esecutiva del brano. Volmer non dimentica anzi sorregge a dovere i quattro solisti in una lettura intimistica di grande effetto, dimostrando la somma capacità di accompagnatore-concertatore. Una presenza molto efficace che speriamo prosegua il suo lavoro con l’Orchestra Haydn per i prossimi anni.
Molto valido anche il quartetto di solisti: Marina Shaguch, Marianna Pizzolato, Aquiles Machado e Nicola Ulivieri. Il soprano è dotato di voce molto bella, pastosa e armoniosa, ha svolto il suo compito con grande professionalità, pur dimostrando un non perfetto equilibrio tra la zona centrale e quella grave. Tuttavia, perfetta nel celestiale attacco del suo assolo “Libera me Domine”. Bravissimo il mezzosoprano, il quale ha dimostrato come la buona formazione rossiniana sia applicabile anche a Verdi, di cui credo sia l’unico spartito finora eseguito. Particolarmente affascinante l’attacco del quartetto Lacrymosa, disperato e poetico. Il tenore ha dimostrato una buona pratica musicale, eseguendo il suo compito con buona professionalità, anche se mi sarei aspettato più intimismo e partecipazione. Ammirevole il basso, che forse è bass-baritone, e in tale veste non ha voluto snaturare la sua vocalità, ma ha reso una prestazione interessante e musicalissima sviluppando accenti, colori e fraseggio davvero ammirevoli.
Il Coro Sinfonico di Milano “G. Verdi”, diretto da Erina Gambarini, ha offerto una prova superlativa e di grande bravura, preciso e ben assortito nelle sezioni, si è messo in particolare luce durante l’esecuzione della fuga a due cori.
Successo trionfale al termine con numerose chiamate ben meritate.
ARTE SELLA – FUCINA VERDE 2016 [Mirko Gragnato] Borgo Valsugana, 26 giugno 2016.
Alla “Fucina Verde” contesto speciale che unisce la musica all’Art Nature, nel percorso di Arte Sella, si esegue ” Rosamunde ” di Franz Schubert. L’opera “reverse of volume” di Onishi Yasuaki abbraccia l’esecuzione magistrale della formazione quartettistica di Laura Bortolotto, Danilo Rossi, Marco Rizzi e Mario Brunello.
ARTE SELLA è un’idea che compie trent’anni, un percorso tra arte e natura, un luogo speciale dove umano e naturale si intrecciano e dialogano in una sinestesica esperienza sensoriale. Un luogo dove l’intervento umano è in equilibrio tra l’uso della natura come strumento e la sua preservazione e tutela: un abbraccio tra l’artificio e il naturale. L’idea di questa radura artistica nasce dalla spinta degli eventi di Chernobil che nel 1986 scossero l’opinione pubblica senza confini, i cataclismi verificatisi dall’errore e l’incauto intervento umano nel plasmare il mondo sconvolgono senza però fare uscire l’umano sentire realmente cambiato, o meglio evoluto. La natura ci insegna infatti che tutto non si crea e si distrugge in un giorno, ma lentamente, come la goccia che scava la roccia, come la mano dell’artigiano che lavora il legno e che pian piano ne plasma la forma con la forza delle braccia e la pressione dello scalpello.
Arte Sella è un contenitore di opere ed è essa stessa un’opera, il bellissimo paesaggio naturale lavorato di continuo dalla natura viene arricchito ad ogni primavera da artisti chiamati a lasciare un segno, una traccia artistica del loro incontro con questo luogo, una galleria cangiante al variare delle stagioni. A differenza di un qualsiasi museo però, dove il cicaleccio delle scolaresche, la voce grossa del guide nelle sale affollate si alterna allo scalpiccio e ai colpi di tosse di quelle poco frequentate, il percorso di Arte Sella, snodandosi tra le fronde di alberi e circondato dalle vette delle montagne, è un viaggio multi sensoriale. Oltre ai profumi dei fiori di campo, ai suoni della natura: del vento che si muove tra i rami, del cinguettio degli uccellini; si gode del sole, dell’ombra degli alberi, e ovviamente arte. Opere fatte con materiali che la natura sembra aver dato in prestito agli artisti: tronchi, pezzi di legno, piante sempreverdi, rocce, rivoli d’acqua e scoscesi pendii.
In questo contesto sorprendente, che fa dimenticare al visitatore il suo semplice ruolo di utente, al percorso espositivo si affianca quello concertistico-musicale.
Lo spirito artistico che però permea Arte Sella è il manifestarsi di una dimensione diversa da quella dei musei e delle sale da concerto e a Malga Costa, che da stalla è diventata auditorium, è custodito al suo interno un’opera dell’artista giapponese Onishi Yasuaki “reverse of Volume” uno stillicidio di una materia plastica su un enorme velo di nylon trasparente, una sorta di fiume di pensieri che viene increspato da gocce nere, una pioggia di note, così come il flusso delle idee musicali sfocia sul pentagramma dalla mano del compositore. Qui la platea fatta di semplici sedie è popolata da zaini, marsupi e scarponi, un uditorio di persone così diverse tra loro ma unite da un unico sentimento: la curiosità. Ai concerti della Fucina Verde mancano i fronzoli e il superfluo delle grandi soirée dei festival e delle prestigiose sale da concerto. Il pubblico ha camminato tutto il giorno, si è avventurato per boschi e prati e la musica qui diventa ristoro per l’animo. Un legame quello speciale quello tra pubblico e musicisti, quasi alla pari, si scherza prima di suonare, musicisti in nero, ma in t-shirt. Prima del concerto si dialoga da un leggio all’altro passando da tagliatelle al premio Tchaikosky sino ad arrivare all’essenziale: la musica. Le risate scherzose si quietano e si manifesta “il silenzio, l’ottava nota di Schubert” per un ascolto vivo e partecipato. Mario Brunello, violoncellista di fama, Danilo Rossi, prima viola dell”orchestra alla Scala di Milano, Marco Rizzi e Laura Bortolotto sono i protagonisti di questa ideale Schubertiade in quest’angolo di grazia che è Arte Sella.
Il programma di questo concerto è “Rosamunde”: il frutto della penna di Franz Schubert quando aveva soli 28 anni, pochi anni prima che una malattia subdola come la sifilide gli spezzasse la vita. La pagina composta porta la dedica al violinista Ignaz Schuppanzigh che con il suo quartetto lo eseguì per la prima volta alla Musikverein di Vienna il 14 marzo 1824.
Questo quartetto nasce nel periodo in cui Franz Schubert componeva musica per il teatro, per il testo di Helmina von Chézy “Rosamunde” e le sperimentazioni di questa colonna sonora teatrale vennero poi riversate in questo quartetto famosissimo e secondo per fama solo a ” La morte e la fanciulla” che chiuderà il 30 dicembre quest’anno musicale, idealmente collegato con questa apertura Schubertiana, i concerti della Fucina Verde. Il quartetto è la dimensione ottimale per le sperimentazioni, basti pensare ai giochi compositivi e alle sorprendenti invenzioni che Beethoven, negli stessi anni in cui Schubert scriveva questo capolavoro, metteva nei suoi ultimi quartetti anticipando di secoli la musica contemporanea, cosa curiosa è che sia Schubert sia Beethoven venivano eseguiti in prima assoluta proprio dallo stesso quartetto di Ignaz Schuppanzigh. In questa formazione cameristi i quattro archi si trovano in pieno “vis a vis”, in un completo dialogo dove tutte le possibilità di ogni strumento vengono evocate in un intreccio di parti, suonare in quartetto vuole dire entrare in completa sintonia per un lavoro musicale che è impossibile non definire sinergico.
Tutte le realtà armoniche saltano fuori e ogni nota non è quello che è a sé stante, piegata alle semplici regole acustiche della fisica e alla frequenza di Hertz, ma esattamente per come si relaziona con tutte le altre note, calando e crescendo secondo una dimensione armonica particolarmente raffinata. In quartetto è impossibile non respirare assieme, non suonare assieme, perché si è come un unico strumento e lo si capisce dai giochi di sguardi, dagli attacchi in sincrono o dalle attese per gli ingressi a canone o i fugati. L’esecuzione di “Rosamunde” nei suoi Allegro, Andante, Minuetto e Allegretto non è una semplice esecuzione capo a fine, ma il maestro Brunello tra il giocoso e il didattico la introduce, la platea è un pubblico misto e l’obiettivo è di fornire un’esperienza consapevole.
Il primo movimento da un accenno di un accompagnamento di viola e violoncello apre la strada all’intervento del primo violino nel famoso tema di Rosamunde. Un primo movimento lungo e vorticoso trascina l’ascoltatore nel tema che maestralmente Schubert trasforma da minore a maggiore con giochi di colori tonali. Segue l’altrettanto famoso secondo movimento, andante, forse il più noto di questo formidabile quartetto. Dove il ribattuto diventa come nota sospesa e trattenuta l’equivalente di un sospiro mozzato. L’atmosfera dell’Allegro ma non troppo ricompare nel Minuetto, le cui prime battute sono prese letteralmente dalla introduzione ad alcune liriche su Die Götter Griechenlands di Schiller, un minuetto che si sviluppa tra variazioni coloristiche sulla scia del primo movimento passando dal maggiore al minore.
Il minuetto però più che una danza sembra un rigoroso intermezzo al quale segue la spensierata gaiezza dell’ultimo movimento, finale- allegretto. Dalle lettere che Schubert scriveva in quel periodo si capisce come il languore del suo animo abbia trovato pieno specchio emotivo in questa produzione quartettistica.
E le emozioni suscitate da questa esecuzione non sono mancate, merito anche della cornice suggestiva di Malga Costa e dell’alto livello espressivo esecutivo dei musicisti guidati da Brunello, un gruppo di vecchi amici che imbracciati gli strumenti riesce a donare un’esecuzione d’incanto arricchita dalla perizia e affabilità di Laura Bortolotto, che imbracciato il violino tagliava la scritta fucina sulla sua t-shirt in FUNA, e le fune in dialetto trentino sono le fate. Quindi non un caso che a quest’esecuzione non fosse mancato quel tocco d’incanto che l’ha resa un momento speciale in un altrettanto posto magico: ARTE SELLA.
Magico come l’esecuzione del bis: una frazione dell’andante a ritornello in una riproposta che dal forte si è fatta via via flebile, diminuendo al pianissimo sino al vibrato di corde silenti, lasciandone nei pensieri l’eco. Il calendario di eventi prosegue con il 16 luglio nell’abbraccio delle verdi fronde al teatro di Arte Sella con l’orchestra Spira Mirabilis che eseguirà con un puntuale programma di metà luglio “Sogno di una notte di mezz’estate” di Felix Mendelsohn.
RICCARDO CHAILLY [Mirko Gragnato]
Fatto trenta, facciamo trentuno, per aprire la trentunesima edizione delle Meraner Musik Wochen è chiamata la Filarmonica della Scala. Un debutto di altissimo livello quello dell’apertura del festival, che ha visto la Kursall gremita con anche molti spettatori in piedi. Sul podio l’attuale direttore musicale del teatro milanese: Riccardo Chailly.
Con un tocco di eleganza e buongusto si comincia con il fair play, in una terra di frontiera, dove il mondo austriaco è ben radicato, il programma è tutto all’insegna di musiche italiane così come l’ospite impone. Con Verdi, Rossini e il nome di un compositore poco esplorato nei programmi al di qua delle Alpi, Luigi Cherubini. Un concerto sinfonico ricco di quell’italianità e quel brio tipico del bel paese che con le stagioni per il balletto dei Vespri Siciliani e la celebre ouverture del Guglielmo Tell ha dato avvio alle splendide iniziative delle settimane musicali di Merano. In questo paesino, bagnato dalle acque del Passirio e accoccolato ai piedi delle Alpi, va in scena un festival musicale che chiama orchestre di fama e spessore, oltre che virtuosi del violino e del pianoforte. La Filarmonica della Scala è come un reparto di forze speciali, l’accorpamento di grandi e valevoli musicisti: tra i leggii le prime parti dell’orchestra Rai di Torino, dell’Accademia di Santa Cecilia e non solo, oltre che ovviamente ai musicisti di casa al Piermarini.
In questo concerto inaugurale sul palco della Kursal, una splendida sala in stile liberty, vi erano la crema delle orchestre italiane nelle cui schiere non mancavano giovani, probabilmente freschi di accademia, in un intreccio tra esperienza ed entusiasmo dando un suono speciale all’esecuzione di questa formazione artistica. Il programma che nella prima parte racchiudeva l’ouverture da concerto e la sinfonia in Re maggiore di Luigi Cherubini è stata una scoperta, pagine dal sapore mozartiano rilette con una visione in più, l’impressione di cogliere il passaggio della tal sinfonia o tal altra veniva infatti disatteso in un gioco di riconosciuto e nuovo che ha lasciato sorpreso il pubblico, uno stimolo a riscoprire un compositore che riposa in terra straniera: a Parigi, tra le tombe di Pere Lachaise e che il maestro Muti vorrebbe tanto riportare in Italia per dargli i giusti onori in Patria. Luigi Cherubini, nato Firenze, coevo di Mozart, e vissuto abbastanza per vedere l’alba del XIX secolo e con esso le sue novità e le nuove sperimentazione che con Beethoven, al quale sopravviverà, vedranno l’alba di un nuovo universo musicale, quello del romanticismo. Così come Lully anche Cherubini lascerà la città medicea per la ville Parisienne, dove diverrà quasi fino alla morte direttore del conservatorio. La sfortuna della sinfonia in Re Maggiore sta nell’anno della sua composizione, il 1824, lo stesso che ha visto il compimento di quella partitura che è stata dichiarata bene dell’UNESCO, la IX sinfonia di Beethoven. Cherubini infatti è un compositore dall’estro immaginario ricco e interessante, ma, nel suo vivere sulla stessa linea del tempo che per contiguità vede Mozart e Beethoven, per timore esplorerà solo con questo lavoro la struttura sinfonica.
Con l’Ouverture da concerto e la Sinfonia in Re Maggiore l’orchestra della Scala ha aperto la serata con un’atmosfera speciale, che se nel lontano 1824 accolse la sinfonia di Cherubini con un mite successo, nella Kursal non ha fatto mancare calorosi applausi, il maestro Chailly si è mostrato profondo conoscitore della partitura Cherubiniana guidando un’esecuzione pregevole. Nella seconda parte il tocco parigino continua in questo programma italiano ma dal gusto francese, le Stagioni dei Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi. Un’opera che ha visto la luce nel 1855 per il Théâthre de L’Académie Imperial de Musique, oggi Opéra di Parigi, e in omaggio alla tradizione francese inframezzata ai cinque lunghi atti un balletto, la famosa danza delle quattro stagioni. Le stagioni si alternano in modalità curiosa, partendo dal periodo più freddo per concludersi con l’autunno, seguendo più che il solco del ciclo vivaldiano, che dalla fiorita primavera porta al gelido inverno, quello dell’uva che culmina nell’autunno: con la vendemmia. Una composizione di circa trenta minuti dove gli interventi dei fiati la fan da padroni, soprattutto nel frizzante autunno dove il flauto e le percussioni tintinnano dando un tocco di magia all’intero pezzo. Un’esecuzione spumeggiante che dopo il respiro sinfonico della prima parte ha mostrato il tocco più operistico del gesto di Chailly.
Nell’ouverture del Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini, altra opera scritta da un italiano per il teatro francese, il bellissimo dialogo cameristico dei violoncelli apre l’esecuzione, che per la speciale sintonia nella file della filarmonica della scala ha emozionato il pubblico della Kursaal. Anziché farci pensare alle Alpi svizzere dove si svolge l’intreccio dell’opera ha proprio ricordato le montagne che coronano il Sudtirol con il tema svizzero affidato al corno inglese trapuntato dalle fioriture del flauto sino al trascinante galop finale. La Filarmonica della Scala non delude per la qualità del suono e della capacità di produzione sinfonica ma in questa ultima parte del programma si è visto uno Chailly stanco, un po’ impoverito dell’energia che aveva contraddistinto la parte cherubiniana, viene da pensare che il faticoso lavoro di direttore musicale del teatro scaligero sia un fardello non da poco, speriamo che l’incarico preso dal maestro continui con uno sguardo proiettato verso un orizzonte lontano, senza affanni.
Una serata di apertura veramente d’eccezione, in sala molte le maestranze di spessore di Merano e Bolzano, come ospiti illustri e militari in alta uniforme, unica nota dolente la scarsa presenza di giovani, soprattutto nella platea della sala e un po’ relegati nelle balconate, auspichiamo che vi sia una maggiore attenzione alle politiche giovanili e all’apertura verso le giovani generazioni.
ROSANNE VAN SANDWIJK [Mirko Gragnato] Merano, 25 agosto 2016.
Nella chiesa cattedrale il Concert Köln Ensemble inaugura la sezione Barocco delle Meraner Musik Wochen accompagnando la voce del mezzosoprano Rosanne van Sandwijk. Alternando parti strumentali di Dall’abaco, Sammartini e Vivaldi a cantate di Haendel.
Per la prima volta alle Meraner Musik Wochen, giunte alla 31a edizione nella pregevole stagione nella valle del Passirio, si inaugura, su volontà del direttore artistico del festival Andreas Capello, la sezione della musica barocca. Un genere musicale affermatissimo in Francia e in Inghilterra: laddove sono fiorite orchestre come l’English Baroque Orchestra, il Concert Spirituel o Les arts Florissants, mossi da ricerche musicologiche e dalla volontà di riportare un repertorio dimenticato all’antico splendore grazie anche all’impiego di strumenti originali, come i famigerati cornetti, stretti compagni di timbro della voce umana. Così anche la Germania non è da meno e il Concert Köln, che è tra i più pregevoli ensemble barocchi d’Oltralpe con un medagliere di importanti incisioni discografiche che vanno dal repertorio operistico di Händel a Vinci, e con la registrazione dell’Artaserse di quest’ultimo sono stati premiati con l’”Echo Classic Award. Ottima la scelta invitarli ad inaugurare questo nuovo ciclo barocco, che risponde con un’offerta di livello ad una domanda sempre crescente nei confronti del genere musicale seicentesco. Il vero e proprio battesimo della sezione barocca del festival avviene nel Duomo di Merano, una chiesa gotica che conserva il suo bel coro: non si poteva scegliere location migliore, per acustica e atmosfera, dove inaugurare questa speciale rassegna nella rassegna.
L’apertura del programma è sempre fatta con i dovuti riguardi nell’unire storia e geografia di queste terre di confine: Evaristo Felice Dall’Abaco è il compositore del Concerto n. 3 op. 5 in Mi minore per più istrumenti in apertura del programma. Un compositore veronese, a cui è dedicato il conservatorio della città scaligera, che lascia la città natale per divenire compositore di corte dell’Elettore di Baviera, trasferendosi a Monaco e passando il resto della sua vita in terra straniera, ricoperto di onori. Il suono degli strumenti antichi, soprattutto gli archi con le loro corde di budello, riempiono la navata della chiesa: un suono curato, limpido, ma la grande magia di questo ensemble è data dai due traversieristi Cordula Breuer e Wolfgang Dey. Il flauto traversiere, per la difficoltà dei fori aperti e la mancanza delle chiavi, che invece affollano la lunghezza del flauto traverso, suo erede moderno, non sempre permette di ottenere dei suoni chiari, perché l’aria può sfuggire letteralmente tra le dita degli esecutori con dei soffi poco apprezzabili. Ma Breuer e Dey hanno veramente dimostrato di avere una perizia tecnica e una musicalità sorprendenti, facendoci riscoprire il suono delicato di questo strumento ormai un po’ dimenticato. La chiesa ha sostenuto acusticamente questi strumenti arricchendone la voce con un sorprendente effetto eco durante l’esecuzione del concerto per flauto in Re maggiore di Vivaldi “Il gardellino”, che ha visto nella parte del solo Cordula Breuer. Un’esecuzione spiccata, agile, con i trilli dello strumento, che ricordavano il verso del simpatico volatile, che risuonavano nella chiesa dando l’impressione di essere all’aria aperta, in mezzo ai dolci pendii delle montagne sudtirolesi.
Inframezzandosi alla parte strumentale del concerto barocco non poteva mancare l’esecuzione di passi scelti delle opere di Georg Friedrich Händel, a cui l’ensemble nel tempo ha dedicato una nutrita discografia. Stavolta è la voce del mezzo soprano Rosanne van Sandwijk a risuonare nel duomo di Merano. Una voce matura che sia nel timbro acuto sia in quello grave non manca di colore e timbro pastoso, al quale il mezzosoprano olandese aggiunge una dizione ed una recitazione veramente formidabili. In onore al luogo sacro che ospita questa apertura barocca, ecco “Donna che un ciel che di tanta luce splendi” e “Il pianto di Maria: giunta l’ora fatal”, le cantate sacre italiane che Händel scrisse durante il suo soggiorno romano. In entrambe il mezzosoprano ha mostrato una notevole agilità nei passaggi delle scalette di semicrome e nell’acuto del “vacillò”. Oltre ad esse, le famose arie tratte dal Giulio Cesare, “Cara speme” e “Svegliatevi nel core”. In entrambe Rosanne van Sandwijk è stata capace di una teatralità spinta, confermando la profonda capacità di rispondere a ruoli scenici e traspostando il pubblico nel pieno delle tensioni e delle emozioni delle arie händeliane. Gli applausi non sono mancati, e la chiesa ha risuonato fragorosamente al successo di questo concerto, tributando onore sia al concert Köln che a Rosanne van Sandwijk.
A ringraziamento del tributo del pubblico è stato concesso un bis: la famosa aria di Almirena del Rinaldo “Lascia ch’io pianga” ha coronato questa serata inaugurale, aprendo ufficialmente l’avvento del Barocco per questa edizione, a cui seguiranno altri due concerti con l’ensemble il Furibondo e il duetto Pramsohler e Grisvard.
SHAKESPEARE E DA PORTO, LIRICA D’AMORE [Lukas Franceschini] Vicenza, 28 agosto 2016.
Poesia, danza e canto. Questo il trinomio alla base dello spettacolo Shakespeare e Da Porto, Lirica d’amore organizzato da Vicenza in Lirica, edizione 2016, nella splendida cornice del Teatro Olimpico.
Il concerto-spettacolo è dedicato al Bardo inglese nel 400° anniversario della morte, accomunato al vicentino Luigi Da Porto, scrittore e storiografo, il quale fu l’autore della Historia nuovamente ritrovata di due nobili amanti, novella che egli scrisse convalescente nella pace della sua villa di Montorso Vicentino. La storia racconta del tormentato amore di Romeus e Giulietta, da cui William Shakespeare trasse in seguito ispirazione per la sua più famosa tragedia, Romeo e Giulietta. Le tre arti teatrali menzionate sono state riunite in uno spettacolo articolato e di bellissima resa visiva in omaggio ai due poeti.
Ecco dunque la brava attrice Stefania Carlesso recitare con grande passione i versi shakespeariani da: Sonetto 116 e 55, Enrico V, Otello, Romeo e Giulietta, Macbeth e La Fenice e la tortora, e di Da Porto, Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti. L’attrice ha egregiamente sostituito all’ultimo una collega, pertanto la scusiamo se ha recitato con il copione.
I testi teatrali sono stati intervallati da segmenti di balletto tratti dal celebre “Romeo e Giulietta” di Sergej Prokof’ev nella coreografia di Kenneth McMillan. Danzatori erano gli splendidi Fernando Montano e Roberta Marquez. Entrambi solisti del Royal Ballett di Londra hanno regalato al pubblico un’emozione pura, esibendosi in una ricercata, brillante e tecnicamente rilevante performance, cui non mancava anche una recitazione personale di altro livello. Il ballerino colombiano all’inizio ha danzato un frammento di “Giulio Cesare” di R. Addinsel con altrettanta bravura.
La parte canora era affidata da due voci femminili: il soprano Marta Mari e il contralto Victoria Lyamina. Marta Mari è una giovane cantante allieva di Daniela Dessì (alla quale è stato fatto un omaggio a inizio della serata) che ha molte ottime qualità di soprano lirico e un futuro che possiamo auspicare roseo in considerazione all’ascolto. Dolcissima ed espressiva nella preghiera di Desdemona da Otello di Giuseppe Verdi, eterea nell’aria di Nannetta da Falstaff, molto espressiva nella romanza “Ai giochi addio” di Nino Rota, brano che fu colonna sonora del film “Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli. Victoria Lyamina si è esibita con impeto nelle due difficili arie di Romeo da “I Capuleti e Montecchi” di Vincenzo Bellini, ed è stata capace di piegare una voce corposa nella Canzone del Salice dall’Otello rossiniano.
La parte musicale è stata affidata a un trio di estrema bravura e duttilità interpretativa: la pianista Natalia Kukleva, il violinista Enrico Balboni e il violoncellista Gianluca Saccari, a loro va un plauso incondizionato e meritatissimo.
Presentava la serata il noto critico musicale e direttore del mensile “L’Opera”, Sabino Lenoci.
In una pausa dello spettacolo è stato consegnato il premio alla carriera al contralto sardo Bernadette Manca di Nissa, il cui nome ha segnato pagine indimenticabili nelle esecuzioni del melodramma per oltre trent’anni. La cantante ha tenuto nei giorni scorsi una masterclass di canto lirico per giovani allievi in fase di perfezionamento.
Un bello spettacolo, articolato in sezioni teatrali perfettamente alternate, cui il numeroso pubblico accorso ha decretato un convinto successo.
LEO NUCCI [Lukas Franceschini] Rio Saliceto, 4 settembre 2016.
Il Circolo Lirico Associazione “G. Verdi” di Carpi ha inaugurato la stagione al Teatro Comunale con il tradizionale Concerto, il quale ha avuto come ospite d’onore il baritono Leo Nucci.
Circolo tra i più prestigiosi dell’Emilia Romagna ha da sempre sviluppato un’intensa attività artistica ospitando cantanti lirici nazionali e internazionali. Spesso, come nel caso odierno, si è avuta la presenza di una star come Leo Nucci, invitato a ridosso della prossima partenza per Mosca, ove interpreterà per l’ennesima volta il doge genovese.
Per questo motivo il baritono ha dettato la scaletta della serata esibendosi soprattutto nella prima parte, per poi correre in aeroporto durante la notte. La voce di Nucci oggi, per ovvie ragioni, ha perduto freschezza e armonici che un tempo erano di prim’ordine, ma per questo il cantante resta sempre un grande per molte ragioni. La prima è una seria professionalità, segue poi un canto ancora capace di farsi apprezzare per fraseggio e scansione di accenti, infine, l’aspetto interpretativo, sempre predominante, puntuale e di rilievo.
Ne abbiamo avuta prova già nell’aria di sortita, la morte di Rodrigo da “Don Carlo” di Giuseppe Verdi; i due segmenti erano giustamente differenti per colore, in “Per me giunto” prevaleva un canto rassegnato ma vivido, nell’addio “Io morrò” la modulazione elegiaca faceva da contorno a un personaggio nobile. In seguito il baritono ha eseguito l’aria di Renato “Eri tu” nella quale ha fornito prova di estrema drammaticità e malinconica nostalgia. L’unico duetto è stato quello cantato assieme a Maria Tomasi, “Mira d’acerbe lagrime” da Il Trovatore, ove Nucci ha sfoderato impeto e classe interpretativa, mentre il soprano ha avuto modo di rendere evidente un’importante vocalità, ben sostenuta tecnicamente e di ragguardevole accento. Non poteva mancare un estratto del personaggio più famoso interpretato da Nucci, Rigoletto, dal quale abbiamo ascoltato l’invettiva “Cortigiani” eseguita con grande partecipazione, stile e accento. L’ultimo brano, prima di lasciare il teatro, è stato “Nemico della patria” da Andrea Chénier, un ruolo quello di Gerard poco frequentato da Nucci, anche se inciso, ma che gli calza perfettamente per vocalità e temperamento, anche in quest’occasione abbiamo avuto una lezione di canto.
Come sopra citata, c’è stata la partecipazione del soprano Maria Tomassi, voce importante e di ottime caratteristiche interpretative cha ha potuto spaziare da “Casta Diva”, a un più che ammirevole duetto Amneris-Aida (con Cristina Melis, altrettanto puntuale), poi ancora un ispirato “Vissi d’arte” e ha concluso con un drammatico “Santo di Patria” da Attila eseguito con ardore ma che dovrebbe essere un limite ponderato da non oltrepassare.
Il mezzosoprano Cristina Melis ha contribuito con la consueta professionalità, iniziando con la canzone napoletana “A’ vucchella” di Tosti, in seguito ha emozionato per intimismo nella rara “Ma lyre immortelle” da Sapho di Charles Gounod, sensuale in Carmen, “Habanera”, e letteralmente entusiasmante per linea di canto e viva aderenza al personaggio in “Acerba voluttà” da Adriana Lecouvreur.
Altra presenza è stata quella del giovane tenore Alessandro Moccia, il quale è dotato di voce rigogliosa e bella anche se da raffinare tecnicamente. Tuttavia ha cantato con innato trasporto la Siciliana da Cavalleria Rusticana, un corretto “Quando le sere al placido” da Luisa Miller, un esuberante Improvviso da Andrea Chénier e un partecipato “Vesti la giubba” da Pagliacci.
Nel finale i cantanti hanno allietato il pubblico con l’intramontabile “O sole mio” eseguita in trio.
Il concerto è stato eseguito al pianoforte dal bravissimo Roberto Rossetto, eccellente pianista accompagnatore, e in alcuni brani anche dal meritevole arpista Davide Burani, il quale si è esibito in un assolo di Flamenco di prodigiosa perizia tecnica.
GIANANDREA NOSEDA [Mirko Gragnato] Verona 7 settembre 2016.
La London Symphony Orchestra guidata dal maestro Gianandrea Noseda apre la XXV edizione del Settembre dell’Accademia.
L’Accademia Filarmonica di Verona, restando la più antica accademia filarmonica del mondo, ormai da mezzo millennio persevera nella sua missione di promuovere e fare della buona musica. Nel Teatro Filarmonico, che è a tutti gli effetti la dimora di questo longevo ente culturale, si tiene ormai da venticinque anni un festival sinfonico che ha portato a Verona orchestre tra le più formidabili e pregevoli, guidate da bacchette portentose, e che hanno permesso ad una piccola città come quella scaligera di beneficiare a tutti gli effetti di un festival di alto lignaggio. Sul palco del Filarmonico infatti si sono alternati Giulini, Rostropovich, i Wiener Philarmoniker, i Berliner o l’orchestra del Concert Gebouw.
Quest’anno l’apertura del concerto inaugurale è affidata alle schiere della London Symphony Orchestra condotte dalla mano del Maestro Gianandrea Noseda. Con un’orchestra inglese e un direttore italiano ci si aspetterebbe un programma dal sapore insieme anglosassone e d’italianità, invece tutt’altro. Debussy, Rachmaninov e Wagner, questi gli autori eseguiti in questa serata di apertura.
Le note del preludio dei Maestri Cantori di Norimberga aprono ufficialmente il festival: il suono dell’orchestra è bello pieno, frutto di una ricerca d’insieme, e la parte degli ottoni squilla senza soffocare le altre sezioni strumentali. Bellissimo il colore dato dal tema che dal flauto passa all’oboe e poi al clarinetto e infine all’immancabile corno. La scaletta dei violini praticamente in solo ha rapito con l’ansia il pubblico, trascinandolo in questa corsa di note staccate, sfociando nei marcati del corno che avevano segnato l’apertura. Il suono della London Symphony è ricercato, non per nulla semplice o casuale: aver registrato molte colonne sonore ha posto l’orchestra all’attenzione dell’orecchio sensibile dei microfoni e delle sale di registrazione, facendole conquistare un livello di qualità sonora raffinatissima.
Tutto il programma sinfonico viene eseguito con una cura e un’attenzione capaci di vedere nota per nota, nell’andamento melodico e armonico; ogni passaggio è pesato e ripesato, e questa qualità dell’orchestra si sposa perfettamente con le intenzioni del maestro Noseda, che cerca sempre di cogliere approfonditamente la partitura in tutte le sue sfumature. Un gesto poco elegante e un po’ urlato quello del maestro che non si cura di arabeschi o ghirigori delle dita, ma che si concentra molto nel realizzare la partitura, soprattutto nell’arduo lavoro delle prove dove non lascia nulla al caso, costruendo realmente quello che è il concerto.
Al preludio segue La Mèr di Debussy, una partitura che in questa serata ha saputo esprimere appieno trasudando tutto il suo sinfonismo. “Mi ribatterete che l’oceano non bagna le colline della Borgogna”, scriveva Debussy riguardo questa composizione: infatti non si descrive il mare ma l’idea, l’immagine interiore che si ha di esso, quello che resta nella percezione umana, quello che si metabolizza attraverso i sensi legandosi ai ricordi. Idee che si possono ben comprendere nella città che ha dato i natali a Salgari, che con la sua immaginazione e senza mai viaggiare ci ha permesso di vivere nelle giungle lussureggianti e lungo il mare delle Indie. La mèr e gli echi musicali che la compongo risultano essere come le onde e la spuma del mare di Hokkusai, una frastagliata figura liquida che sa conservare una sua struttura geometrica pensata e organizzata. Un’esecuzione di gran pregio se non fosse per il passaggio della fila dei violoncelli soli nella prima parte “De l’aube à midi sur la mèr”, che si sono ritrovati sfasati entro qualche misura.
Bellissimi invece i trilli degli archi nel “Jeux de Vagues”, che hanno letteralmente evocato in teatro la corsa della spuma del mare, su e giù per le onde. Una colonna sonora, quella eseguita dalla London, che ha accompagnato il film dei nostri ricordi, della nostra immaginazione, tra giochi d’acqua, cullati dalle onde e dai guizzi di luce nel mare.
A chiusura del programma la sinfonia n.2 in Mi minore di Rachmaninov: non poteva mancare questo pregevole lavoro del compositore russo, ricordato per lo più per i difficili concerti per pianoforte e poco per il suo contributo sinfonico. Mahler scriveva “quest’opera è spontanea e naturale nel suo lirismo”, e infatti l’intero programma di questo concerto va a ricercare questa meraviglia del sinfonismo, che nell’opera, quella italiana per lo più, viene soffocata dai vezzi vocali dei cantanti. Una chiara dichiarazione per portare avanti il fascino del sinfonico a cui questo festival è dedicato. La fila dei corni, che aveva avuto l’onore di aprire con le sue squilla il preludio, ritornano nel tema del secondo movimento di questa sinfonia, un tema che potrebbe tranquillamente fare da colonna sonora ad un film di Sergio Leone, accompagnato dagli scoppiettanti ribattuti dei violini. Tema che ritorna ostinatamente, a più riprese, per arricchirsi dai passaggi di pizzicati degli archi, la cui corsa di note volanti in un saliscendi di colori si ferma per una parentesi in un lungo tema tenuto e legatissimo, lasciato ai soli archi, che in questa esecuzione hanno tolto il fiato. Una sinfonia che con il suo adagio poi si dichiara apertamente capace di evocare le forte sensazioni di un film, in un andamento dal ricco patetismo e dal forte sapore romantico. Il finale allegro vivace con i fragorosi colpi di piatti e timpani chiama l’applauso conclusivo. Cinque interminabili minuti di battimani e ovazioni per questa orchestra e il suo direttore: ben quattro le chiamate per Noseda, che ha poi concesso un breve bis all’entusiasta sala del Filarmonico.
Sulla scia della dedica della sinfonia in Mi minore a Sergei Tanayev, allievo di Tchaikovsky e maestro di Rachmaninov, ecco la danza russa dallo Schiaccianoci. In questo breve pezzo la gestualità di Noseda si è apertamente palesata come figlia di Gergiev. Gli applausi sarebbero continuati ancora lungo se l’orchestra non avesse rotto i ranghi e avesse salutato il Filarmonico in questo concerto strepitoso che ha riscosso un grande e meritato successo.
Il festival sinfonico del settembre prosegue il 12 settembre p.v. alle 20:30 con l’orchetsra del Maggio Musicale Fiorentino e la bacchetta di Zubin Mehta.
VESPRO DELLA BEATA VERGINE [Lukas Franceschini] Vicenza, 7 settembre 2016.
La serata più attesa del Quarto Festival Vicenza in Lirica 2016 è stata l’esecuzione al Teatro Olimpico del Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi.
Il Vespro, prima composizione sacra monteverdiana, è tratto dalla liturgia delle ore della chiesa cattolica, rimasto invariato vespro 2tuttora. Esso comprende stili antichi e moderni anche se non possono essere classificati come “prima e seconda pratica”. Lo spartito fu pubblicato nel luglio del 1610 contemporaneamente ad una Messa a sei voci. Ancor oggi non sono chiare le intenzioni precise che mossero Monteverdi alla composizione di un lavoro così monumentale. Il Vespro è stato oggetto di ampio di dibattito tra i musicologi, tra i quali alcuni ritengono che sarebbe stato scritto per la ricorrenza dell’annunciazione, altri propendono per altre solennità mariane, oppure per ogni festività dedicata a Maria, poiché era di comune esecuzione. Nel 1610 Monteverdi era impegnato alla corte dei Gonzaga a Mantova ma le fonti storiche non possono confermare ove avvenne la prima esecuzione, a Mantova o Venezia.
Il Vespro è un lavoro monumentale composto per un grande coro, il quale copre dieci parti vocali in alcuni movimenti e si scompone in cori separati, i quali accompagnano sette differenti solisti. Le parti strumentali sono scritte per violino e cornetto, vespro 3non sono specificate dall’autore: la composizione del ripieno, le parti di canto piano e antifona, che si inseriscono nei salmi e nel Magnificat finale. Quest’ultimo aspetto prevede che gli esecutori modifichino l’opera secondo l’organico disponibile. L’opera non ha soltanto un valore intimistico, per i suoi momenti di preghiera, ma incorpora nel suo tessuto musica profana in un lavoro chiaramente dedicato ad una funzione religiosa, infatti, comprende diverse forme compositive che vanno dalla sonata, al mottetto, all’inno, al salmo, senza peraltro perdere di vista il tema religioso. Esso è perno fondamentale della musica barocca italiana, e forse anche cultura, ed esprime anche una sperimentale composizione monteverdiana, la quale era già iniziata con i madrigali e le opere liriche. Possiamo considerare il Vespro una composizione “unitaria” in cui sono confluite e riunite sapientemente la musicalità liturgica (che s’ispira al gregoriano) e la recitazione dei salmi, producendo una composizione non del tutto religiosa, piuttosto una meditazione musicale.
L’esecuzione vicentina non può non essere valutata che con grande merito e lodevole programmazione. Innanzitutto è da rilevare che un’Associazione Culturale è artefice di una rappresentazione concertistica di grande difficoltà e impegno, poco eseguita anche da istituzioni blasonate. Pertanto, un plauso che va oltre la stima e la consapevolezza che Vicenza in Lirica è in continua crescita, ma soprattutto al coraggio di una programmazione ricercata. Oltre al presidente dell’Associazione, l’artefice principale è stato il concertatore e direttore d’orchestra Francesco Erle, grande esperto del barocco, il quale ha operato un grande lavoro di orchestrazione assieme alla Schola S. Rocco (soli, coro, strumenti antichi) e La Pifarescha (cornetti e tromboni) per un’esecuzione di alto valore filologico e improntata su una ricerca di effetti musicali idonei, oggi, alla proposta monteverdiana. L’ottima acustica del teatro ha contribuito a un resa sonora e calibrata simmetria tonale che ha non solo affascinato, ma è stata elemento d’indiscussa professionalità rapportata alla lettura del direttore.
Assieme all’ottima compagine strumentale, si associa il Coro, il quale ha fornito una grande prova stilistica e interpretativa d’indelebile memoria. Nelle parti solistiche, in evidenza Giulia Bolcato, soprano sempre in ascesa, per luminosità espressiva, il giovane controtenore Andrea Gavagnin perfettamente impegnato nella parte eseguita con stile e proprietà d’accenti, e Giovanna Damian altrettanto precisa e puntale. A loro si uniscono, con prova positiva, i tenori Massimo Altieri, Alberto Allegrezza, Enrico Imbazano, e i bassi Fulvio Fonzi e Luigi Marasca.
Pubblico numerosissimo, il teatro era quasi sold-out, che per tutta la durata dell’esecuzione è restato assorto e ammaliato da questo capolavoro, e al termine ha decretato un meritatissimo e prolungato applauso agli esecutori.
ZUBIN MEHTA [Lukas Franceschini] Verona, 12 settembre 2016.
Felice ritorno al Settembre dell’Accademia del direttore indiano Zubin Mehta, che quest’anno festeggia i suoi ottant’anni, con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino.
In programma la Sinfonia n. 7 in si min. D.759 (o 8 secondo la classificazione) di Franz Schubert e la Sinfonia n. 9 in re min. di Anton Bruckner. La partitura della sinfonia schubertiana fu trovata ben trentasette anni dopo la morte dell’autore, divenendo da subito la più popolare ed eseguita. Causa il tardo ritrovamento, il numero attribuitogli è opinabile, sarebbe 8 nella successione delle sinfonie, ma non è errato neppure 7 poiché fu composta, seppur non ultimata, sei anni prima (1822) della “Grande”, e volendo essere pignoli potrebbe essere anche la 10 considerando le altre tre sinfonie rimaste allo stato di frammento. La partitura differenzia dalle altre composizioni per intenso colore drammatico e per la linea melodica autorevolmente personale e non ispirata a lavori di colleghi precedenti. I temi principali sono felicissime realizzazioni di reciproco contrasto che produce una trepidante dolorosa atmosfera. Si passa poi a tonalità episodiche instabili, che altalenano una corposa emotività e un lirico racconto.
Anche nel caso di Bruckner siamo di fronte ad “un’incompiuta”. Essa avrebbe dovuto concludersi con un Te Deum, come da precise indicazioni del compositore, il quale fu impedito dalla malattia negli ultimi anni di lavoro. Pur presentando temi eroici, si denota una stanca maturità, annuncio di fine imminente. Tuttavia non mancano slanci di forza riacquisita supportata in un canto religioso di ringraziamento. Trasognato e fiabesco è il secondo movimento, abbandonati i funesti pensieri di morte, il compositore si scioglie in una danza umoristica ricca di accenti. Nel finale ascoltiamo un tema caratterizzato da ampi intervalli appassionati, per concludersi in un adagio placido e luminoso, espressione di una visione musicale di totale devozione all’arte.
Zubin Mehta concerta Schubert in una lettura lenta e molto lirica, quasi estatica, che parrebbe sfociare in una poetica contemplazione. Nitidissimo il fraseggio, dolce, oltre il concesso il suono, ma in stile di primario romanticismo seppur troppo rilassato.
Di livello notevolmente superiore la lettura di Bruckner, nella quale Mehta non dimentico dei suoi anni giovanili viennesi, pone l’accento sul sentimentale romanticismo del compositore, espressa talvolta a dismisura in un suono possente e molto variegato nel colore. Ha predominato la poetica e la mirabile precisione degli ottoni e degli irruenti sonori, compatti e di grande effetto. L’ha seguito un’orchestra in forma smagliante, che trova nel repertorio romantico un fertile giardino fiorito con tanti germogli in un continuo susseguirsi.
Teatro esaurito in ogni ordine di posto e prolungati applausi al termine, con ovazioni affettuose per Mehta.
CRISTOPH ESCHENBACH, SALEEM ABOUUD ASHKAR [Mirko Gragnato] Verona 17 settembre 2016.
L’Orchestra Sinfonica di Bamberga ospite a Verona del Settembre dell’accademia esegue un programma tutto tedesco con Brahms e Beethoven, accompagnando il pianista Saleem Abboud Ashkar nel concerto l’imperatore di Beethoven guidata dalle mani del maestro Eschenbach.
Terzo concerto di questo Settembre, che si è aperto con tutti gli onori grazie alla London Symphony, questa volta ospita l’orchestra sinfonica di Bamberga, che quest’anno compie 70 candeline dalla sua fondazione quasi coetanea del Maestro Cristoph Eschenbach. Un programma molto denso quello di questo concerto, molto denso e molto tedesco.
B di Bamberga ma anche B di Beethoven e di Brahms: il famoso Ouverture di Egmont e il concerto n. 5 in mi be molle maggiore “imperatore” per pianoforte oltre che alle danze ungheresi e alla terza sinfonia in fa maggiore. Il maestro Eschenbach ha mostrato una fitta conoscenza delle partiture anche se non ha tralasciato di riguardarle e rivederle anche nel corso della giornata, dirigendo poi a memoria. Spetta ad Egmont aprire la serata e il suono della Bamberga Orchestra è bello pieno e forte. Il gesto del Maestro Eschenbach è ampio e arioso, dosando il fraseggio anche se alle volte si mostra troppo secco e l’attacco alla tedesca, con quell’istante di ritardo, lascia poco percepire l’intesa tra direttore e orchestra.
Nel concerto per pianoforte in Mi Bemolle op. 73 “l’imperatore” l’orchestra mostra ancora la sua imponente muscolatura nella forza dei suoni, e dei forti accordi di apertura della partitura che affida invece al pianista una parte più intima e contenuta nella lettura di Saleem Abboud Ashkar, pianista quarantenne che a soli 22 anni si esibiva alla Carnegie Hall, quando a soli 17 anni Zubin Mehta l’aveva chiamato a suonare con la Israel Philarmonic. Ashkar mostra di avere ottima intesa con lo strumento, di conoscere approfonditamente la partitura, ma il risultato è una perfezione asettica che nonostante la cura dei pianissimi e dei giochi di rapide scalette o trilli sembra comunque un po’ privo di emozione. Nell’adagio poco mosso il tema di apertura dell’orchestra, la mezza voce degli archi soffocata dalla sordina in un sussurro di lunghe frasi tenute, ha incantato il teatro. Questa introduzione che va via via in un crescendo con l’ingresso dei fiati prepara un terreno di suoni vellutati al pianista che in questo secondo movimento è sembrato molto più coinvolto, facendo sorridere anche i più seriosi nel passaggio dell’accompagnamento di pizzicati. Beethoven qui trasforma il pianoforte in un grazioso carillon, ricordando quei piccoli strumentini a manovella che in alcuni quadri coevi mostrano personaggi musicanti ai bordi delle strade, un suono ad libitum ripetuto che si intreccia con la voce dell’oboe e del flauto. Un movimento che senza soluzione di continuità ci trasporta nel concitato Rondò dove i virtuosismi tecnici di Ashkar non mancano di dare vivacità al pezzo, curioso pensare all’eufemistico “ascaro” che nel dialetto locale intende proprio un birbante ragazzo vivace. Una pregevole esecuzione di questo concerto nonostante alcuni momenti di distacco e freddezza del solista che ha voluto regalare al pubblico un bis tratto dai Kindersezen di Schumann: Traumerei.
Di questo programma molto ampio la seconda parte vede alcune danze ungheresi di Brahms che sembrano più un riempitivo senza un valore di vero approfondimento con solo qualche spizzico e boccone della raccolta, anche se con un’ouverture e un concerto di Beethoven e una sinfonia di Brahms il programma era vasto e diciamo poco usuale per un pubblico italiano che in una sola sera ha fatto una scorpacciata di musica teutonica, alla quale non è molto avvezzo. Nella sinfonia di Brahms n. 3 in Fa maggiore, l’orchestra ha tirato fuori tutta la sua identità di ensemble d’oltralpe, dove gli slanci degli archi cadenzati dagli ingressi dei corni non mancavano di proporre quel sentimento panico che alle volte manca ai pezzi di sapore più italiano. Sino al patetismo del poco allegretto che al levare del tema del violoncello alterna un intreccio di attese e di scambi di voce col violino, portando con un’agile scaletta il bellissimo tema ad un impasto timbrico di flauto, oboe e corno porgendosi poi il tema l’un l’altro. Una pagina sinfonica di un romanticismo profondo che ha portato alla commozione più di uno spettatore.
A fine concerto l’orchestra ha tributato il primo movimento della sinfonia Jupiter di Mozart in un’esecuzione rapidissima e senza ritornelli che in pochi minuti ha esaurito una tra le più famose sinfonie del compositore salisburghese.
RICCARDO CHAILLY, DANIL TRIFONOV [Lukas Franceschini] Verona, 22 settembre 2016.
Il ritorno dell’Orchestra Filarmonica della Scala nella città scaligera segna il concerto d’inizio di un’importante tournée che la porterà in Germania, Lussemburgo, Austria, Francia e si concluderà a Vienna nel mitico Musikverein.
Artefice di questa peculiare trasferta è l’attuale direttore musicale Riccardo Chailly, non nuovo a Verona, ma per la prima volta all’Accademia in tale veste. Il direttore ha scelto un programma interamente dedicato a Robert Schumann: Manfred Overture, Concerto per pianoforte e Sinfonia n. 2. Manfred overture Op. 115 (1849) è l’unica delle sette ouverture composte da Schumann a essere in repertorio nei concerti sinfonici. Brano a sé stante, dal Manfredo di Lord Byron, è una delle partiture più drammatiche dell’autore, ispirandosi alla personalità dibattuta di Manfredo, egli trova un’innovativa ricchezza di colori che si esprimono in modo spontaneo e incisivo.
Il concerto per pianoforte e orchestra in la min. Op. 54 (1841-1845) è un brano peculiare nel panorama musicale poiché lo strumento è pari protagonista con l’orchestra, i quali creano un dialogo intenso e armonico, che si fonde in un accorato dialogo poetico, sviluppando un’espressione melodica, la quale nel finale, senza pause, sfocia in un vigoroso “allegro vivace”. La composizione segna il passo creativo della maturità di Schumann.
La Sinfonia n. 2 in Do Magg. Op. 61 (1846) identifica lo Schumann contrappuntistico intento a rendere più solida l’elaborazione polifonica. Convalescente da un grave attacco della sua malattia nervosa, nel primo movimento si possono riscontrare il carattere ostinato, pertanto ci troviamo di fronte ad un lavoro diverso dai precedenti, più intimo e mesto, una parafrasi di un autunno nostalgico. La stessa quieta melodia che ritroviamo nello scherzo, apice probabilmente della partitura, la quale termina con allegro vivace, uno slancio gioioso e ottimistico che neutralizza le ombre precedenti.
L’esecuzione è stata una delle migliori ascoltate a Verona. Innanzitutto, il giovane pianista Danil Trifonov sfodera la talentuosa mano romantica in una ricca e cromatica scala interpretativa, capace di un virtuosismo sfrenato ma precisissimo e d’impeccabile fattura e fraseggio. In lui prevale un romanticismo molto personale ma capace di rapire e conquistare per l’elevata capacità interpretativa. Alle trionfali acclamazioni ha risposto con un bis molto partecipato di Nicolaj Medtner Fairy Tale Op. 26.
Il successo di Trifonov non sarebbe stato eguale senza La Filarmonica della Scala e soprattutto Riccardo Chailly. Il direttore milanese infonde al concerto per pianoforte un ritmo romantico ma sostenuto nella compostezza di una linea melodica di forte espressione, tali indicazioni sono raccolte dal pianista che solo a quel punto può esprimere le sue capacità. Nell’iniziale overture Chailly dosa con sferzante robustezza la drammaticità insita nel brano, come fosse un romanzo d’appendice. È tuttavia nella sinfonia che egli sprona l’orchestra, una meravigliosa Filarmonica, la quale ha un suono pulitissimo, preciso, armonioso, di grande rilevanza esecutiva, peculiare nei dettagli, e in una misurata ma vibrante lettura sequenziale di racconto intimistico. Chailly e l’orchestra ci hanno deliziato con un bis contemporaneo molto accattivante: Fast Motion di Carlo Boccadoro.
Successo trionfale al termine con acclamazioni per pianista, direttore e orchestra, giustamente meritate.
PEKKA KUUSISTO [Mirko Gragnato] Merano, 22 settembre 2016.
Dopo una strepitosa apertura con la Filarmonica della Scala, le Meraner Music Wochen chiudono col botto grazie alla Mahler Chamber Orchestra e al violino di Pekka Kuuisto in un programma che intreccia Arvo Pärt e Beethoven.
Andreas Capello direttore artistico sale sul palco della Kursaal prendendo la parola, salutando i fedeli spettatori della rassegna meranese, avvisando di un problema di salute che impedirà al maestro Theodor Currentzis di dirigere il concerto, avvisando che però questo incarico sarà svolto dal violinista solista nel concerto di Beethoven e dal Konzertmeister nella seconda parte del programma che prevede un pezzo di Pärt e la settimana sinfonia di Beethoven. Un po’ di s-concerto serpeggia per l’auditorium e i mormorii tra la platea anticipano l’ingresso della Mahler Chamber orchestra che viene accolta con un caloroso applauso.
Dulcis in fundo o in cauda venenum? Il podio è vuoto per il concerto della Mahler Chamber Orchestra, il maestro Theodor Currentizis costretto a letto dalla febbre alta ha dovuto rinunciare a condurre l’orchestra figlia della bacchetta di Abbado.
l’Orchestra è preparata e pronta ad accompagnare il violinista Pekka Kuusisto, che in questo momento di emergenza ricopre il ruolo oltre che di strumento solista anche di direttore d’orchestra, conducendo l’orchestra nella partitura del concerto per violino di Ludwig van Beethoven.
Una sorpresa vedere il celebre virtuoso in mezzo ai musicisti con il leggio, dare le spalle al pubblico e dialogare con gli archi e i fiati della MCO. Niente bacchetta ma violino in spalla e archetto al mano; Kuusisto dà gli attacchi suonando la parte degli strumenti, un colpo di braccio e il battere viene dato dall’archetto che si lancia sulle corde, dal sincrono dello sfregare dei crini sulla tensione dell’acciaio.
La Mahler Chamber Orchestra è magica sin dalle prime note introduttive del concerto: un suono pieno, vigoroso; un’orchestra completamente unita e affiatata. Gli archetti si muovono in totale sincronia, e l’armonia va oltre la parte cadenzando pure il respiro di ogni singolo musicista. È difficile descrivere la bellezza del suono di questa formazione orchestrale senza tralasciarne alcune qualità. Pekka Kuusisto e l’orchestra hanno un feeling speciale, frutto di un’affinità e un’intesa reciproci. Intenzioni e stile musicale collimano, creando un completo intreccio tra la parte del solo e quella dell’orchestra. Il virtuoso tiene la barra dell’orchestra e la guida con naturalezza nel pieno del concerto. Se i veri marinai si vedono quando il mare è in tempesta, l’assenza di Currentzis ha messo l’orchestra nella situazione di provare ancora una volta il proprio valore “in mare aperto”.
Il solista finlandese, primo scandinavo a vincere il premio Sibelius, guida con sicurezza nella partitura beethoveniana, anche se le premure date all’orchestra causano qualche distrazione e riducono la precisione tecnica di alcuni passaggi. Tuttavia il suono, il fraseggio e i colori del piano e del forte sono resi con grande cura probabile frutto di una lettura approfondita e consapevole della partitura. La cadenza del concerto non fa parte di quelle da repertorio, ma sembra più che altro una personale variazione del virtuoso, arricchendo con suoni flautati, pizzicati e molti armonici la parte. Proponendo molte delle potenzialità acustiche di uno strumento inventato quasi cinque secoli fa ma che non finisce di sorprendere. Nel terzo movimento anche la scelta di usare molto di più i colori e di sussurrare il pizzicato, quasi come accennandolo. Molti applausi concludono questa esecuzione sorprendente e al calore del pubblico Pekka Kuusisto concede un bis, un pezzo ispirato alla storia scandinava, ad un’epoca di emigrazione e di difficoltà per riuscire a sopravvivere.
Il pezzo sulla scia della cadenza propone ancora le potenzialità dello strumento, il virtuoso infatti chiede all’orchestra di aiutarlo con un tappetto armonico di glissandi che salgono e scendono rievocando quasi il verso delle balene. Su queste pennellate acustiche l’archetto di Kuusisto vola trasformando il violino in qualcosa d’altro, rievocando il suono del mare e del vento, sino ad imbracciare il violino a guisa di chitarrino e con un pizzicato accompagnare un motivetto fischiettato che via via va con un diminuendo va a spegnersi con un ultima nota sospesa vibrata sino alla corda silente. La Kursaal è scoppiata poi in un applauso che ha richiamato più e più volte Pekka Kuusisto sul palco concludendo così la prima parte.
Nella seconda parte che ha visto affidare al konzertmeister della MCO la responsabilità di condurre l’orchestra nel pezzo di Pärt e nella settima sinfonia di Beethoven. Nella partitura per soli archi di Pärt, la ripetizione delle varie parti intrecciate era seguita con una ricerca condivisa del suono, ogni parte si ascoltava in relazione con le altre, senza mai troppo apparire. Nel corso di tutta l’esecuzione dal mezzoforte al mezzo piano, al forte e al pianissimo sembravano come un ‘asta che portava il volume di ogni sezione al medesimo livello. Così tutte e cinque le sezioni dell’orchestra d’archi si muoveva con una linearità che ha pari solo nella retta continua del pentagramma. Al momento della settima l’orchestra ha dato prova di una qualità assoluta. Nessun protagonismo da podio, nessun arabesco di braccia nell’aria, solo l’orchestra.
Il legame che unisce i musicisti è uno speciale valore aggiunto che le orchestre messe in piedi nella modalità del “marchettone” per un concerto e via non possono avere. Il risultato di un lavoro che i musicisti fanno insieme e che dopo tante prove e concerti condivisi arricchisce di un suono completo, fatto di equilibri e intrecci che solo grazie alle relazioni umane si può spiegare. I fortissimi accordi dell’orchestra nell’poco sostenuto che apre la settima sinfonia di Beethoven erano lo slancio di un unico respiro, guidato abilmente dal Konzert Meister, Matthew Truscott, a cui seguivano le frasi intrecciate dei fiati porgendo il tema dall’oboe, al flauto, al corno… Grandissima cura nei colori, ogni fila si basava sull’all’altra in un sorprendente gioco di sguardi e ascolto. Nell’allegretto l’orchestra ha raggiunto un livello di pathos incredibile con il gioco di ribattuti staccati e tenuti delle viole e dei violoncelli che dai piani ai pianissimi passano ad un unisono legatissimo cadenzato dai ribattuti ora affidati ai violini. Un gioco di sfumature che ha lasciato la Kursaal in un silenzio estatico sino all’esplosione del fortissimo scuotendo le emozioni di tutto il pubblico, che a fine sinfonia è scoppiato in un fragoroso applauso arricchito da anche alcuni spettatori così commossi da piombare in piedi in una standing ovation.
Una chiusura quelle di queste Meraner Musik Wochen di una magia unica e rara, l’esecuzione dal vivo si mostra ancora una volta pregna di una forza che nessuna registrazione è in grado di dare, la vera magia del concerto.
FUCINA ROSSA – ARTE SELLA [Mirko Gragnato] Borgo Valsugana 24 e 25 settembre 2016.
Continua il percorso delle fucine di ARTE SELLA, i colori dell’autunno producono la FUCINA ROSSA, e portano a Malga Costa i Sonatori de La Gioiosa Marca, con il violino di Giuliano Carmignola e il sempre presente violoncello di Mario Brunello in programma tutto vivaldiano. Pensando a Vivaldi si pensa subito alla laguna Veneta, e a Venezia con le sue calli e suoi rii, ma stavolta Vivaldi finisce tra le vallate del trentino, in un paesaggio che diventa una tavolozza variopinta di latifoglie, tra clivi e declivi con un fondale di creste montane. Insomma un pezzo di Venezia che naviga e si trova tra i monti, non è cosa così astrusa se si pensa che con la Magnifica Intrapresa, voluta dal Doge Francesco Foscari, le navi veneziane risalirono l’Adige, lo stesso fiume che scorre dal sud Tirolo sino all’Adriatico, per poi muoversi trai a passi e le montagne trentine sino al lago di Garda per prendere di sorpresa la flotta viscontea che mai e poi mai avrebbe pensato di trovarsi l’offensiva di Venezia nel lago, in acqua dolce, tra le montagne.
Ecco che con i Sonatori della Gioiosa Marca e con Giuliano Carmignola anche Vivaldi intraprende una magnifica intrapresa, quella di risuonare ad Arte Sella, in una malga trasformata ad auditorium sotto l’ala di un flusso quasi fluviale dell’ opera “reverse of volume” di Onishi Yasuaki. Per due pomeriggi in Malga Costa ha risuonato Vivaldi, un Vivaldi scherzoso, reinventato, un Vivaldi semplice e genuino. In tutti i concerti un continuo cambiare di solisti, di accompagnamento in un gioco di scambio di ruoli, dove nulla è stabile, proprio come le foglie dell’autunno che volteggiano nel vento.
Giuliano Carmignola, Mario brunello o altri Sonatori de la Gioiosa Marca si passano il testimone facendo con le loro esperienze, i loro racconti di musica e vita il prologo ad ogni pezzo. Iniziano a suonare, i musicisti sono già immersi nella parte, siamo già alla decima, dodicesima battuta, Carmignola nel pieno del solo si sbraccia e fermi tutti ” eh! non vi abbiamo detto che suoniamo” risata generale, la tensione nell’aria che si spezza il clima diventa molto più rilassato, a Malga Costa il rapporto pubblico-esecutore è un rapporto alla pari, diretto, semplice come chi si incontra nei sentieri di montagna, quelli sconosciuti che si salutano augurandosi buongiorno con il sorriso. Chi partecipa ai concerti delle fucine di ARTESELLA vive un’esperienza non solo musicale, ma anche umana, quello che arricchisce le esecuzioni di un punto di vista personale e che di solito resta solo dietro le quinte o tra amici stretti e conoscenti, ad ArteSella avvengono infatti molti tipi di incontri: l’arte convive con la natura e con i boschi, qui si fanno dialogare mondi distanti ma allo stesso tempo così affini.
Esecuzioni di prim’ordine, i Sonatori de la Gioiosa Marca conoscono Vivaldi fino al midollo, lo hanno fatto proprio e non c’è pezzo che non manchi di quella verve e di quel modo di fare italiano, anzi veneziano, di fare ” gli adagi sempre più adagio e gli allegri sempre più allegri” in una distensione dei movimenti che sconvolge e prende il pubblico nella corsa dei tempi lenti e nel dilatarsi dei tempi lenti. In tutto questo, l’arco di Giuliano Carmignola vola sulle corde nel concerto per violino in MI minore rv 277 “il favorito”. Alcuni punti e passaggi con qualche suono poco pulito ma nell’insieme un’esecuzione magistrale. Mario Brunello gioca e si trasforma in violino solista estraendo il violoncello piccolo, duettando così con il violino di Carmignola alla pari, uno strumento grosso il violoncello piccolo ma dalla voce più brillante e dall’agilità che corre dietro al violino senza affanno.
Bellissimo e stupefacente il concerto in Re minore per due violini e violoncello. Un gruppo di musicisti ridotto, tre violini, una tiorba, due violoncelli, una viola e un contrabbasso in una malga, basta poco per fare bella musica, in un posto splendido. Un Fucina Rossa che si è mostrata atipica, diversa dal solito come molti dei concerti ad ARTE SELLA che restano un’esperienza unica e rara.
“Due strade trovai nel bosco ed io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono diverso” scriveva Robert Frost, è qui la ricchezza di ARTE SELLA, la sua diversità, il suo essere unica, ma non perché voglia essere innovativa, ma anzi semplicemente perché vuole ritornare ad un legame passato quello con la natura e ragionare sull’essere diversi, prendere la strada meno battuta. Dopotutto se Cappuccetto Rosso non avesse preso un altro sentiero non ci sarebbe nessuna storia da raccontare, rosso come la Fucina Rossa che ci porta a scoprire la favola della stagione autunnale ad Arte Sella.
ANTONIO PAPPANO, GIL SHAHAM [Lukas Franceschini] Verona, 25 settembre 2016.
Uno dei concerti più attesi della rassegna il Settembre dell’Accademia, tanto da registrare un tutto esaurito memorabile, è stato quello dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretta da Sir Antonio Pappano e Gil Shaham quale violino solista.
Il programma, raffinato, abbinava brani celeberrimi come la Sinfonia dall’opera Semiramide di Gioachino Rossini e il Concerto per violino di Piotr Ilic Cajkovskij, alla molto rara Sinfonia n. 3 “avec orgue” di Camille Saint-Saëns.
Semiramide è l’ultima opera italiana di Rossini, data a Venezia nel 1822, prima della partenza per Parigi dove nel breve arco di sette anni terminerà la carriera. Opera monumentale e tra le più rappresentative del genio pesarese, la sola sinfonia, tra le più lunghe composte da Rossini, si sviluppa in un linguaggio tripartito mettendo in evidenza i fiati, ottoni e percussioni, nel classico crescendo finale, ma di struttura innovativa. Il concerto per violino e orchestra in Re Magg. Op. 35 ebbe la particolarità di essere eseguito per la prima volta fuori dalla Russia, a Vienna nel 1881, e ben tre anni dopo che la partitura fu completata. Per lo straordinario virtuosismo è da sempre uno dei favoriti dai concertisti per violino. Infatti, nel primo e nel terzo movimento al solista sono affidati compiti davvero trascendentali. Molti musicologi non ritengono che questa sia una delle migliori musiche composte da Cajkovskij, tuttavia è esemplare lo stile del compositore russo sia negli episodi solenni sia in quelli più intimi, lirici e misurati. La Sinfonia n. 3 in do min. per organo e orchestra Op. 78 di Saint-Saëns, rientra nel novero degli spartiti peculiari oltre ad essere tra le più notevoli pagine del musicista francese che la dedicò a Franz Liszt. Saint-Saëns non usò la forma tradizionale, compose la sinfonia in due tempi sviluppando il ripetersi di un unico tema nei diversi episodi. L’organo non ha carattere di strumento solista ma solamente di rafforzamento, il quale rende più nobile il tema che s’ispira al tema liturgico del Dies Irae. Oltre all’organo è presente anche un pianoforte, strumento insolito nell’organico di una sinfonia.
L’Orchestra di Santa Cecilia è un complesso tra i migliori in campo sinfonico italiano, ora guidata da Sir Antonio, ha raggiunto una fama mondiale, che giustamente merita. Il concerto all’Accademia ne è ulteriore conferma. Già nella non facile sinfonia dalla Semiramide si capito la perfezione tecnica dell’orchestra guidata dallo slancio interpretativo di Pappano, non un rossiniano doc ma espertissimo nel scavare ritmo e melodia da manuale.
Il meglio arriva con il Concerto di Ciajkovskij nel quale il talento del direttore da anima e corpo al sentimentalismo romantico del difficilissimo pezzo. E’ egualmente straordinario interprete anche il solista Gil Shahan, un perfetto violinista con tecnica mirabile. La sua interpretazione è stata improntata sulla perfezione tecnica e il suono è risultato asciutto, quasi glaciale nella talentuosa espressione virtuosistica. Egli avesse avuto anche una lettura più umanistica e con un respiro più romantico, che nel direttore non difettava, avremo avuto la perfezione, tuttavia siamo di fronte ad un grandissimo artista.
Nella seconda parte abbiamo ascoltato la Sinfonia n. 3, stranamente in prima esecuzione a Verona. Pappano e la “sua” orchestra offrono una lettura eclatante per varietà di colori, coesione timbrica e dinamismo perfetto nelle diverse parti dell’orchestra. Impressionante la precisone e la nitidezza di suono degli archi, ma da lodare anche fiati, ottini e percussioni.
I trionfali e prolungati applausi hanno invitato Shaham a due bis, due segmenti di Bach, e Pappano a chiudere il concerto con lo stesso autore d’apertura: Sinfonia da Il barbiere di Siviglia di Rossini, eseguita con freschezza di virtuosismo e azzeccata brillantezza. Serata che non è un eufemismo definire memorabile.
FRANCESCO OMMASSINI, JAN LISIECKI [Lukas Franceschini] Verona, 28 settembre 2016.
Ospite dell’Accademia Filarmonica è stata anche l’Orchestra della Fondazione Arena diretta da Francesco Ommassini e con la partecipazione del pianista canadese Jan Lisiecki.
Questo invito è stato molto importante per l’Orchestra, poiché la grave crisi (non musicale) in corso ha sicuramente abbattuto il morale dei professori. Il programma comprendeva la sinfonia dall’opera Il turco in Italia di Gioachino Rossini, il Concerto per pianoforte n.1 di Fryderyk Chopin, e la Sinfonia n. 4 di Piotr Ilic Cajkovskij.
Il turco in Italia fu rappresentato alla Scala nel 1814 ma fu sonoramente contestato poiché si credeva una scopiazzatura al contrario de L’italiana in Algeri invece, l’opera vive di una drammaturgia molto più raffinata e sottile che non fu capita dai milanesi. Dopo qualche anno l’opera cadde nell’oblio fino al 1950 quando fu ripresa al Teatro Eliseo di Roma con Maria Callas e Sesto Bruscantini, iniziando un cammino che dopo l’edizione critica, lo vede oggi molto rappresentato. Chopin è il compositore per pianoforte per antonomasia, con Liszt fu l’iniziatore della scuola pianistica romantica. Avvicinandosi all’orchestra, di rado, la trattò solo come uno strumento di accompagnamento al pianoforte, il quale resta sempre il protagonista. Il concerto n. 1 in mi min. Op. 11, dedicato al concertista Friedrich Kalkbrenner, è identificato nel segno del virtuosismo brillante però accomunato a uno slancio melodico. Considerato uno spartito di altra poesia e satura espressione, lascia allo strumento solita un espressivo virtuosismo ispirato alla viva melodia. La Sinfonia n. 4 in fa min. Op. 36 (1877) di Cajkovskij fu dedicata a Nadiezda von Meck, la ricca mecenate che permise al compositore di lavorare e sopravvivere. Tra le più popolari sinfonie del maestro russo è anche spontaneamente ispirata al mondo della musica russa romantica di tardo ottocento. Potremo anche definirla autobiografica poiché nell’introduzione contiene il germe di tutta la sinfonia rappresentato dal destino che ostacola la felicità, una sorta di spada di Damocle che pesa e avvelena l’anima, alla quale bisogna assoggettarsi. Melanconico al crepuscolo il secondo movimento, mentre il terzo è un arabesco capriccioso. Il quarto tempo è un affresco di una festa popolare, nella quale ci si dimentica del destino, che instancabilmente riappare uscito dal caos, segnando però un finale ottimistico, aspetto raro nel pessimismo esistenziale di Cajkovskij.
L’orchestra dell’Arena era in ottima forma e l’ha dimostrato già nella non popolare Sinfonia del Turco, cui il direttore da un tocco di brillante vivace ma non troppo, appropriato. Nel Concerto di Chopin abbiamo avuto la piacevole presenza di Jan Lisiecki, giovanissimo pianista canadese, che sfodera tutta la sua eleganza e la capacità virtuosistica necessaria. Un’interpretazione luminosa che oltre alla tecnica precisa imprime un fraseggio brillante e romantico che colpiscono per la giovane età di Lisiecki, cui non manca nulla della base, col tempo verranno, anche se l’impostazione generale mancava di qualcosa di più personale, ma che sicuramente verrà, anche in considerazione dell’ottimo supporto che Ommassini e l’orchestra dell’Arena gli rendono, ma pare che lui segua solamente la sua strada, una strada fiorita, in parte abbagliante ma percorsa in solitaria.
Il meglio lo abbiamo ascoltato nella seconda parte quando è possibile parlare di un’esecuzione stupefacente da parte dell’orchestra e una concertazione di assoluto rilievo da parte del direttore. Nella Sinfonia n. 4 di Cajkovskij, Francesco Ommassini segna un tempo spedito, energico ma rotondo e rifinito calibrando benissimo il romanticismo tenuto sempre in considerazione come filo conduttore. Magistrale lo scherzo (pizzicato) tenuto su un lieve e ammaliante equilibrio emozionante. Compatto, preciso tutto fuoco il finale, perfettamente equilibrato in tutte le sezioni orchestrali, le quali sono state messe in luce dal direttore in un quadro che parafrasa un dipinto di Goya, tanti elementi, nessuno a caso tutto perfettamente pensato e realizzato con grande musicalità. Doveroso aggiungere che la sezione archi ha fornito un apporto di straordinaria enfasi, e gli ottoni erano in forma splendida in tutti i loro numerosi interventi, i quali stranamente non erano cosi belli e precisi nella Sinfonia iniziale.
Numerosi, convinti e meritati applausi hanno ottenuto due bis: Traumerei di Schumann da parte del pianista, la scontata Sinfonia da Nabucco per orchestra e direttore, realizzata con battagliera sonorità di grande enfasi.
Mi permetto una nota conclusiva. Parecchi commenti dozzinali sono stati espressi da molte persone frequentatori della rassegna nei confronti dell’Orchestra dell’Arena paragonandola alle altre realtà presenti o passate negli scorsi anni. Ho trovato tale atteggiamento molto fastidioso, soprattutto per un giudizio preventivo che poi nei fatti si è verificato del tutto errato. Sostengo da qualche tempo che buona parte del pubblico non è più abituata ad ascoltare, sarebbe curioso far assistere un concerto con un paravento, senza vedere ma solo ascoltare, e poi sentire sei i commenti sarebbero uguali di altre occasioni, ma penso sia personale pura fantasia.
GIOVANNI ANDREA ZANON [Lukas Franceschini] Verona, 16 ottobre 2016.
La serata d’inaugurazione della stagione concertistica dell’Associazione “Verona Lirica” si svolta in un soleggiato tardo pomeriggio al Teatro Filarmonico, gremito in ogni ordine. Protagonisti della serata sono stati il soprano Mihaela Marcu, il mezzosoprano Carmen Topciu, il tenore Mikheil Sheshaberidze, il baritono Amartuvshin Enkhbat e con la partecipazione straordinaria del giovane violinista, ormai realtà tra i solisti italiani, Giovanni Andrea Zanon. Al pianoforte Patrizia Quarta.
Il concerto è iniziato con una mirabile esecuzione dell’Adagio e Fuga dalla Sonata n. 1 in solò min. BWV 1001 di Johann Sebastian Bach da parte del violinista Zanon, il quale ha fornito prova non solo della sua prodigiosa tecnica ma anche della continua maturità artistica, la quale attraverso gli studi ora intrapresi negli Stati Uniti, sta portando esiti d’altissimo livello.
Mihaela Marcu si è esibita in una delicata e nostalgica Vilja (in italiano) da Die Lustige Witwe di Franz Lehar. Ha poi proseguito con l’aria di Norina “Quel guardo al cavalier” eseguita con brillante uso di mezzi e spiccato brio.
Amartuvshin Enkhbat, originario della Mongolia, credo debuttante in Italia, si è esibito in un’appassionata interpretazione di “Nemico della patria” da Andrea Chénier di Umberto Giordano, sfoggiando una voce molto bella, rotonda, con timbro pregevole e ottima uguaglianza nei registri.
Carmen Topciu ha fornito prova di grande carisma in “Adieu foret” da La Pulzella d’Orleans di Piotr Ilic Caijkovskij, cantando con impeto drammatico e sentita partecipazione.
Mikheil Sheshaberize si è cimentato nell’aria “L’anima ho stanca” da Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea con onesta professionalità.
La prima parte si è terminata con il duetto “Invano Alvaro” da La forza del destino di Giuseppe Verdi, interpretato da Sheshaberidze ed Enkhabat, i quali hanno fornito una prova molto convincente, in particolar modo il baritono per una linea di canto molto emozionante.
La seconda parte è stata aperta dal tenore Sheschaberidze che ha cantato la celebre aria “No puede ser” da La teberna del puerto di Pablo Sorozabar con buon uso di colori e trasporto. Particolarmente emozionante Carmen Topciu nell’aria “Va! Laisse couler mes larmes” da Werther di Jules Massenet, in seguito Mihaela Marcu e Amartuvshin Enkhbat si sono esibiti nella sezione finale del II atto dal Rigoletto di Verdi “Tutte le feste al tempio… Si, vendetta” dimostrando entrambi un’ottima impostazione musicale. Il soprano per carisma e limpidezza di suono, la sua era una Gilda per nulla bamboleggiante, il baritono per uniformità vocale, ottimo fraseggio e interpretazione, il che farebbe supporre che davanti a sé dovrebbe avere una brillante carriera.
Il violinista Zanon ha interpretato magistralmente l’assolo per violino “Meditation” dal II atto da Thaïs di Massenet, rilevando ancora una volta le eccezionali qualità tecniche interpretative. È seguito il duetto “Parigi o cara” da La traviata interpretata da Marcu e Sheschaberidze, con delicata sensibilità di accenti.
Ha concluso il concerto, l’esecuzione del duetto “C’est toi! C’est moi!” da Carmen di Georges Bizet nel quale il tenore Sheschaberidze ha offerto la sua migliore prova della serata per impeto, una certa morbidezza di suono e variegati accenti, mentre la signora Tipciu è stata una gitana molto stilizzata con linea vocale raffinata e precisa.
Tutti assieme al termine, prima della consegna delle targhe, hanno intonato come bis il Brindisi dalla Traviata.
PINCHAS STEINBERG, GIULIA SEMENZATO [Margherita Panarelli] Torino, 25 Novembre 2016.
Per il secondo concerto della stagione 2016/2017 il Teatro Regio di Torino invita il rinomato direttore Pinchas Steinberg e il giovane soprano Giulia Semenzato per un concerto completamente incentrato su compositori francesi.
Si comincia con l’affascinante ouverture da “Le roi d’Ys” del raffinato musicista e compositore Edouard Lalo. Ammirevole il lavoro dell’orchestra tutta e del direttore sulle diverse sfumature di questo breve brano, tutte mirabilmente messe in risalto ed esplorate in un’esecuzione ricca e variegata. Splendido l’alone di enigmatico mistero che sfocia, non senza qualche wagnerismo qui è là, in un suadente episodio affidato ai violoncelli e in una chiusa eroica ed enfatica che Steinberg ha l’accortezza di trattenere dal rendere eccessivamente sensazionalistica.
Eccellente è anche Giulia Semenzato, il cui debutto è relativamente recente ma le cui qualità non hanno tardato a venire riconosciute internazionalmente, nell’elegante e avvincente “Gloria” Di Francis Poulenc. La voce cristallina e sicura nei vari registri soddisfa appieno i requisiti richiesti dalla partitura offrendo una interpretazione toccante e genuina. Splendida performance da parte del sempre preparatissimo Coro del Teatro Regio in ottima amalgama con il soprano e l’Orchestra, specialmente riuscita la sezione del “Domine Deus”.
Densa e melodicamente variegata, la Sinfonia in Re minore FWV 48 di César Franck conclude degnamente il ricco programma del concerto diretto da Steinberg. Mirabile l’equilibrio timbrico e di dinamiche scelte dal direttore che ben mette in risalto la cantabilità dei temi di Franck pur non essendo la partitura scevra di momenti di puro impeto, accuratamente dosati in veemenza e impulso da Steinberg.
Calorosa l’accoglienza da parte del pubblico presente che applaude a lungo.
FRANCESCO OMMASSINI [Lukas Franceschini] Verona, 4 dicembre 2016.
Il concerto Lirico-Vocale dell’Associazione Verona Lirica in occasione dell’ultimo appuntamento di dicembre si è svolto con la partecipazione dell’Orchestra della Fondazione Arena di Verona diretta da Francesco Ommassini. Il concerto, oltre ad essere benefico a favore del C.A.R.S. Centro Accoglienza Recupero Sociale, era dedicato al soprano Daniela Dessì, recentemente scomparsa.
Importante per la città la presenza dell’Orchestra dell’Arena, la quale faceva la usa prima apparizione dopo la sospensione forzata di due mesi voluta dal commissario Fuortes, soluzione tragica ma necessaria per tentare di salvare i bilanci dell’Arena gravemente compromessi.
Il programma è stato aperto dalla rarissima esecuzione, per Verona, del Preludio atto I e Morta di Isotta (solo orchestrale) da “Tristan und Isolde” di Richard Wagner nel quale il complesso areniano ha espresso un’ottima professionalità soprattutto nel settore archi e fiati guidati con mano intimistica e calibrata dal direttore Ommassini. In seguito il giovane maestro ha concertato con piglio deciso e una linea giustamente in bilico tra lirismo e pennellate di scapigliatura l’Intermezzo da “L’amico Fritz” di Pietro Mascagni e una mirabile esecuzione della Sinfonia da “I vespri siciliani” di Giuseppe Verdi in una lettura molto sostenuta con ritmo “risorgimentale” eseguita con grande slancio e professionalità dall’orchestra.
Di grande classe e levatura il quartetto di cantanti protagonista della serata.
Il baritono Giovanni Meoni è stato un autorevole interprete di Jago nel monologo “Credo in due crudel” dal II atto di Otello di Verdi, cui è seguita una bellissima esecuzione del verdiano duetto Conte-Leonora da “Il Trovatore” nel quale il baritono e il soprano Hui He hanno trovato accenti e fraseggio molto rilevanti in un canto stilizzato e duttile. Peculiarità che sono state confermate in “Eri tu” da Un ballo in maschera, nel quale Meoni ha sfoggiato classe, interpretazione, e accenti morbidi da autentico baritono verdiano.
Il mezzosoprano Rossana Rinaldi ha eseguito un’aria e a lei particolarmente cara “Mon coeur s’ouvre a ta voix” da Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns offrendo un’interpretazione molto stilizzata e partecipe. Dopo, ha espresso veemenza e grande teatralità nell’aria “O mio Fernando… Scritto in ciel”, da La Favorita di Gaetano Donizetti, con buon dominio del settore acuto, concludendo il concerto con il duetto Amneris-Radames “Già i sacerdoti adunansi” da Aida, assieme a Fabio Armiliato, nel quale i due artisti hanno interpretato i rispettivi ruoli con grande partecipazione e giusta espressione d’accenti.
Gradito ospite della serata è stato il tenore Fabio Armiliato, compagno della signora Dessì, che ha cantato un’ispiratissima “E lucevan le stesse” da Tosca di Giacomo Puccini, sfoggiando bellissime mezzevoci e un sensuale colore d’accento, ricevendo una meritata ovazione. Ha dimostrato inoltre grande temperamento e sentita partecipazione in “Vesti la giubba” da Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.
Il soprano Hui He ha giocato la fortunata carta di Tosca in un “Vissi d’arte” di alto livello, sfumato e di forte impatto emotivo, fornendo poi particolare intensità e abbandoni lirici all’aria “Ebben ne andrò lontana” da La Wally di Alfredo Catalani.
Al termine un bis travolgente: la Sinfonia da “La forza del destino” di Verdi diretta superbamente da Francesco Ommassini con una ancora una volta strepitosa orchestra dell’Arena di Verona, che fornito prova di assoluta preparazione e professionalità.
Teatro gremito in ogni ordine, trionfali e prolungati applausi alla conclusione del bellissimo concerto.